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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVD1 RELIGIOSI
Anno V :: Fasc. IX. SETTEMBRE 1916
Roma Via Ciescenzio. 2
ROMA - 30 SETTEMBRE - 1916
pAL SOMMARIO: Qui Quondam: E domani? - H. Leo-POLD : Le memorie apostoliche a Roma • e i recenti scavi di san Sebastiano (con una tavola) - CALOGERO VlTANZA: Satana nella dottrina della redenzione - ANTONIO RlZZUTI : Enrico Pes-sina e lo spiritualismo nella vita - GIOVANNI COST?\ : Realismo di coltura e idealismo di civiltà - MARIO ROSSI: La chimica del Cristianesimo - TRA LIBRI E RIVISTE: Rassegna di filosofia religiosa. VI! (m.) - GIOVANNI PIOLI : Interpretazioni religiose di gravi sciagure nazionali ; ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # # ------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Wbittinghill, Th. D.» Redattore peri’Estero ‘------ Via del Babuino, ì 07 - ROMA --AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine.
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CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni In deposito presso [la Libreria Ed. “ Bilychnis „
Via Crescenzio, 2 - ROMA.
[Novità]. E. ROBERTY, Pour l'Ecangile et pour la France.
Pag. 132. ■ . . . . . . . . . . . . . L. 2,65
[Novità]. Avec le Christ à tracers la tourmente. Sermons d’un
pasteur brancardier. Pag. 127 .......... * 2,30 [Novità]. E. ROBERTY, Nos raisons d’espérer. Deux sermons. » 0,60 [Novità]. Paul Staffer, Ce qui est crai toujours. Pag. 38. » 1 -[Novità]. G. BoiSSONNAS, La Foi mise à l’épreuce, pendant
la guerre 1915. Discorsi religiosi. Pag. 223 . . . . . » 3,75 [Novità]. Romolo MURRI, Il sangue e l’altare..»2 —
ALFRED LoiSY, Guerre et religion. Deuxième éd. ...» 3 — JOHN WlÉNOT, Paroles françaises prononcées à l’Oratoire du
Louvre. Pagine 180 ............. » 2,50 PAUL StaPFER, Les leçons de la guerre. Pagine 180 . . . » 3,50 WlLFRED Monod, Vers rÉvangile sous la nuée de guerre.
Courtes méditations pour commencer chaque semaine. Première et deuxième série. 2 volumi di 200 pp. ciascuno. . »5,75 HENRY Barbier, L’Evangile et la Guerre..........» 0,50
E. DOUMERGUE, La Guerre, Dieu, la France. La France peutelle demander à Dieu la victoire ? ........ » 0,30 H. BOIS, La Guerre et la Bonne Conscience ...... » 0,65 JEAN LaFON, Evangile et Patrie, Discours religieux. Il 1° vol.
di pag. 210 L. 3.25, il 2° di pag. 360 ...... » 3,75
[Novità]. 11 3° volume di pag. 230 ....... *» 3,75 H. Monnier, W. Monod, C. Wagner, J.-E. Roberty, etc.,
Pendant la Guerre. Discours prononcés à l’Oratoire et au
Foyer de l’âme à Paris. 13 volumetti di 100 pagine. Ciascuno................................... » 1,25
LOUIS Trial, Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre
1914-1915. (Vol. di pag. 100) ......... > 1,25 G. QUADROTTA, Il Papa, l’Italia e la Guerra...»2 —
R. MüRRI, La Croce e la Spada.......... > 0,95 A. TaGLIALATELA, I Sermoni della Guerra ...... » 3,50
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SOMMARIO:
Qui quondam: E domani?. . . ...........................pag- i$5
H. LeOPÒld: Le memorie apostoliche a Roma e i recenti scavi di
san Sebastiano. . . . . .............. > >73
Illustrazione: Scavi di san Sebastiano a Roma - Antico muro
con graffiti esprimenti invocazioni agli apostoli Paolo e Pietro (Tavole tra le pagine 176-177).
CALOGERO Vitanza : Satana nella dottrina della redenzione . . . . >184
Antonio RlZZUTi: Enrico Pessina e lo spiritualismo nella vita . . » 201
Giovanni Costa: Realismo di coltura e idealismo di civiltà . . . >206
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Mario Rossi: La chimica del Cristianesimo ................ » 212
TRA LIBRI E RIVISTE:
m.: Rassegna di filosofia religiosa (VII): La dottrina dell’immortalità dopo
Kant - Le prove dell’ immortalità - La psicofisiologia e l’immortalità Ragione e fede - I « praeambula fidei »-Guerra, amore e immortalità. □ 219
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Illustrazione: La Kultur è passata di qui (Disegno di L. Raemaekers) Tavola tra le pagine 232-233.
Giovanni Pioli: Interpretazioni religiose di gravi sciagure nazionali . . . » 225
Le basi cristiane dell’ordine sociale .................. » 229
I princìpi cristiani e la ricostruzione dell’ Europa .......... » 232
Perdite dell'umanità ........................ • • 233
A fascio: Induismo e Cristianesimo - Una parola franca - Lettere in
tempo di guerra...... .............. ■ 237
Cambio colle Riviste ..... .............. ....... » 225
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............... » 231
Croce Rossa . .........'............................... ’
Libreria Editrice « Bilychnis.......................... * 239
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole). . . . 1,00
Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa: Impero romano e cristianesimo (con 3 tavole). . ■ • • 1,00
Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi...............0,60
Luigi Salvatorelli : La storia del Cristianesimo ed 1 suoi rapporti con la storia civile.............. 0,30
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologelicum di Commodiano; II. Com-modiano doceta?) . . . o.3°
Furio Lenzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola 04 disegni)............... ■ °»3°
Furio Lenzi: L’autocefalia della Chiesa di Salona (con 11 illustrazioni) . . 0,50
F. Fornari: Inumazione e cremazione (con 6 illustrazioni)................°>3°
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro.............°-3°
C. Rostan: Lo stato delle anime dòpo la morte, secondo il libro XI del-1’«Odissea»...............°’3°
C. Rostan: L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide» ....... ._ • • o.5°
Antonino De Stefano: I Tedeschi e l’eresia medievale in Italia............
Alfredo Tagliatatela: Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ......... o»3°
F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno). . . . 0,30
F. Biondolillo: Per la religiosità di F. Petrarca (con 1 tavola)............0,30
Giosuè Salatiello: Il misticismo di Caterina da
Siena ^con 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante ....... 0,30
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti ......... 1 —
A. W. Muller: Agostino
Favoroni e la teologia di Lutero ....... 0,30
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Tro-yes .......... 0,80
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal;
II. Voltaire giudice dei «Pensieri» del Pascal;
III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred. diVigny) con 2 tavole...... 0,50
T. Neal: Maine de Biran, 0,30
F. Rubbiani : Mazzini e
Gioberti ....... 0,50
Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) ....... 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano : La rinascita dell’anima ....... 0,30
Angelo Gambaro : Crisi contemporanea..........0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo .......... 0,30 R. Murri : La religione nell’insegnamento pubblico in Italia........ 0,40
Ed. Tagliatatela: Morale e
Religione ....... 1 — Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50
A. Tagliatatela: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20
G. Luzzi : L’opera Spence-riana.......... 0,15 I
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni).
R. Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) .........
James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . .
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola . . . . . . . . . .
Felice Momigliano: Il Giudaismo di ieri e di domani .........
A. G. e Giov. Pioli: Intorno ad un’anima e ad un’esperienza religiosa (In memoria di G. Vitali) .
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . .
F. Scaduto: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa .........
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Salandra). . . . . ....
Mario Rossi: Razze, Religioni e Stato in Italia secondo un libro tedesco e secondo l’ultimo censimento .........
D. G.: Verso il conclave .
E. Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli . .........
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi.........
Paolo Orano: Gesù e la guerra.........
Edoardo Giretti: Perchè sono per la guerra. . .
Romolo Murri : L'individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ......
Paolo Tucci: La guerra nelle grandi parole di Gesù..........
Paolo Orano: Il Papa a Congresso .......
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E DOMANI?
utti coloro che cercano fiori su per il grasso e rosso terriccio della guerra, fanno a gara a ripetere su tutti i toni: Venite, vedete, ammirate e benedite. L’Italia marciva nell’ozio e in un quieto vivere guadagnato a prezzo di vigliaccherie d’ogni fatta, ora s’è alzata in piedi; era imbelle, ora ha mostrato come e quanto sappia impugnare anch’essa le armi e destreggiarsi e persistere nei metodi bellici modernissimi, i più lontani, oltre il resto,dalle sue tradizioni classiche,! più contrari al suo tempe
ramento, al suo genio latino, e difendersi e offendere a prova con le maggiori nazioni europee. Essa quindi è salita nella stima e neirammirazione universale, come non si sarebbe potuto nemmeno sognare prima del conflitto. E nell’interno, osservate quale concordia di animi, quale oblio di partiti, quale parificazione di ceti nell’intento solo e comune, che senso pratico fattivo di solidarietà fratellevole, che spirito, che fervore di lavoro, di sacrifizio da parte di tutti! Ammirate l’alta purificazione delle anime c dei corpi, il fiammeggiare della carità, il nuovo risveglio religioso.
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l66 BILYCHNIS
Io potrei fare delle eccezioni riguardo al passato e riguardo al presente.
« Nel passato c’era del sedimento pigro, del marcio, del fango ». — Dio mio, se si dicesse un po’ più tranquillamente: c’era del male, misto al bene, del guasto accanto al sano, non sarebbe meglio? E se si determinassero le asserzioni, invece di avvolgersi negli svolazzi delle generalizzazioni e delle parole grosse? Si vedrebbe che il « marcio » abbondava, se mai, e putiva specie fra la gente a cui le condizioni economiche concedono il privilegio di non far nulla e che per conseguenza non infettava allo stesso grado la maggioranza, anche in tempo di pace occupata utilmente e onestamente in una intensa e serena operosità! Tutti sentono che è così, ma intanto fa comodo, per ragioni apologetiche del presente, non confessarlo, massime scrivendo un bell’articolo, o declamando un discorso destinato agli applausi, e il passato diviene tutto un putridume.
Quanto al presente: io vedo che. se ozio e smania di divertirsi e di abbrutirsi nel divertimento e nell’orgia c’era in passato, ce n'è sempre una buona dose anche adesso. Vedo le nitide pancie e i musi lustri di tutte le età affollare oggi come ieri, e gremire per lunghe ore i soliti pubblici ritrovi degli infrolliti e dei perdigiorni, vestiti in tutte le fogge e adorni di tutte le divise. Vedo che nelle nostre città, cittadine... e villaggi, dovè, prima della guerra, la miseria e la corruzione fermentando generavano gli sciami destinati al piacere degli eletti e al rinvigorimento delle fresche reclute della vita, in una certa misura; adesso, mentre il filtro della guerra sta purificando ogni cosa, la merce umana -- matura e immatura — cresce con un crescendo impressionante, dilaga, allaga; tanto che, specialmente al declinar del giorno, sull’ora che volge il desio, s’ha da per tutto l’impressione d’una invasione di scarafaggi, sbucanti fuori da tutte le chiaviche dell’allegria sifilitica, per prendere d’assalto grassi borghesi (non esclusi i... magri; ce n’è per tutti i gusti) e bene equipaggiati guerrieri, di preferenza i guerrieri, intrepido richiamo del genere. Vedo che, se truffe se ne ordivano e commettevano prima, se ne ordiscono e se ne consumano adesso — i fornitori militari informino — e se prima c’era chi speculando sul rialzo s’impinguava per un verso, c’è adesso chi specula e s’impingua per un altro, con raggravante che adesso i parassiti e le piovre succhiano le membra doloranti della patria e dell’umanità divenute nello strazio più venerande, e sacre. Vedo che i cassieri scappano adesso, come scappavano mesi or sono, vedo che se la guerra ha soppresso parecchie losche industrie (ma e le non losche?), ne ha create o lasciato sorgere altre, in cui c’è solo questo di differente, che vi si fatica meno e vi si guadagna di più, non senza uno zinzin di speranza di passare per insigni pa-triotti e benefattori dell’umanità. Leggo le gesta della mafia e della mala vita nelle ben nutrite cronache riservate alla fungaia velenosa dei piccoli e grossi processi in tutti i giornali di questa epica èra, nè più nè meno di quello che seguisse agl’irrevocati dì della nostra corrotta passata vita di pace. Vedo che non s’è variato il sistema del favoritismo o l’acquiescenza supina in alto, per lasciare il passo al privilegio fortunato, dell’intrigo e della furberia in basso, per uscirsene dal rotto della cuffia pensiamo, per dirne una, agli imboscati. Vedo il falso pauperismo sfruttare la carità pubblica e privata per cento, se già la sfruttava per dieci, e intanto l’altro pauperismo, quello vero e reale, essersi, allargato a dismi-
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E DOMANI?
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sura, e aumentare giorno per giorno a vista d’occhio, implacabile, orribile, minaccioso, senza che nulla vi possa far fronte se non con dei palliativi illusòri e dannosi (il palliativo alla indigenza è morfinismo sociale e non può che peggiorare e rendere irreparabile l’interno sfacelo). Vedo il Parlamentarismo, rimasto una piaga, o non contar nulla, 0 trascinarsi, ingannando il Paese, adesso, come prima, fra gli acquitrini dei suoi metodi fatui e pettegoli, fra piccinerie e puntigli, fra vischiose cupidigie e sfacciate ambizioni, con la solita lalomania nelle discussioni, con l'identico illusionismo nei voti. E non ho voglia di continuare.
Tutto questo io dico, senza nulla detrarre del bene che anche in questo momento allieta il mondo e l'Italia, e delle cose belle spuntate al sole a suon di cannonate; quantunque io confessi d’aver poco fiuto e meno occhi per gustare tutta la presente fiorita di virtù guerriere, nessuna facoltà ammirativa per compiacermi di certe stime e universali ammirazioni provocate da tutt'altro che da ciò onde si può gloriar l’uomo, e sopra tutto un’invincibile ripugnanza per un certo curioso cristianesimo, voluto disciogliere, prezioso miele fragrante, nell’acre gorgoglio del sangue.
Ma anche ammesso tutto, e cioè che il passato di pace rappresentasse il pantano, e il presente guerresco la purificazione, la virtù, la gloria, la luce, una domanda non si può evitare, questa: E domani > Se tutta la virtù rigeneratrice riconoscete dalla guerra, un dilemma vi sorge di fronte: o contentarvi di una labile effimera fioritura, 0 invocare la guerra in permanenza. Quale dei due partiti è più dissennato?
Capisco, il dilemma non è senza uscita: si può sempre soggiungere: ma domani non saremo più gli stessi. E questo è il massimo beneficio della guerra, che essa ci prepara, trasformandoci, a goder della pace senza abusarne; anzi traendone vantaggi che senza guerra sarebbe stato follia sperare: erunt coeli novi et terra nova.
E che ho da dire? Io vorrei allietarmi in una gran fede in questo famoso domani. Non ci riesco e me ne rammarico.
Delle ragioni che mi vietano questa letizia ne esporrò tre, le principali.
Innanzi tutto, si può prevedere che, per legge di naturale compenso, dopo tutte le restrizioni, e costrizioni, e privazioni sofferte, si tenderà, a guerra finita, ad allargare e sprimacciare quanto sarà possibile il sofà della pace, per sdraiar-cisi assai più... indecentemente di prima — supponiamo che fòsse indecentemente.
In secondo luogo si va dicendo: A confortarvi nel lieto prognostico del famoso domani, guardate all’oggi: ve le sareste aspettate, ve le sareste sognate le trasformazioni mirabili già avvenute? — Ora, giacché questa è la pietra di paragone dell’avvenire, un pensiero tentatore mi urta nel cervello: e se invece di trasformazioni si trattasse di atteggiamenti, di pose, di increspamenti superficiali nella gran massa della pasta sociale, di schiuma assommante sulle ondate della guerra?
Supponete l'arte. Gabriele D’Annunzio, epico, verginale Messia della nuova redenzione e delle antiche promesse, l'ha riportata e fissata in mezzo a candori di gigli, col suo competente: beati voi, casti; ma ci credete che essa abbia indossata
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la stola candida di questo nuovo battesimo perchè ricercata e ricreata nelle intime viscere dal fuoco sacro della virtù purificante e del nuovo battezzatore? Adesso — siamo perfettamente d’accordo — d’arte impura non ce n’è più nemmeno l’ombra; quella che spunta di giorno... e di notte è tutta per determinare le più vertiginose ascesi dello spirito — domandatelo a Dina Galli — e Sem Benelli, quello delle porcherie per le persone dabbene, sogna altari e pellegrinaggi, d’accordo; ma pensate che l’arte in questo momento è un mezzo anacronismo; se vuole che qualcuno le faccia largo, ha da adattarsi ai motivi di moda. Ora, vi è cosa più camaleontica della moda? La eroicità e spiritualità dell’arte mi ha tutta l’aria d'una mascheratura, o, se preferite, d'un abito di società, che appena arrivati a casa, nella casa tranquilla e in pace, si smette con un gran respiro di liberazione. E se sarà così? se l’arte di domani torni a farsi mezzana di tutte le bassezze che son fatte apposta per invigliacchire questa disgraziata umanità d'anima e corpo?..,
Supponete il nostro popolo. Gaetano Salvemini, in un articolo inserito nel-V Almanacco della Voce per il 1915. dando ragione del suo voto favorevole alla guerra, senza che egli potesse proclamarsi guerrafondaio, scriveva su per giù: il popolo dei lavoratori nella passata gora della nostra morta pace rimaneva senza misericordia un popolo di schiavi. Questo popolo, di quando in quando per tentare di farsi fare giustizia tumultuava; e allora il ceto degli sfruttatori trovava la mano armata vindice dell’oltracotanza, e il popolo degli schiavi era preso a fucilate nella schiena. Questo vorrebbe dire che ci voleva la guerra perchè il popolo diventasse cosciente e sparissero gli sfruttatori e i loro metodi. Vi pare che la grandezza, la difficoltà complicata e sopra tutto la continuità dell’effetto va-• gheggiato corrispondano alla causa?
Supponete le nostre dame. Il meno che facciano adesso è la calza di lana, e il più che si divaghino è fra i cotoni idrofili e le bocce dei disinfettanti; ma credete proprio che non eserciti più nessun fascino sopra di loro quello chic della vita che formò per secoli la loro occupazione unica e prediletta? Son troppo infermiere per durare.
Supponete il cìeiicalume classico. Ci credete che — parlo fra noi — si sia convertito — ieri si sarebbe detto pervertito — sul serio all'Italia una? E credete che le mille coperte intese e concessioni vicendevoli fra questo ceto e il Governo centrale e periferico, se siano cessate oggi, non si riprenderanno domani? Le forme liberaleggianti sono troppo ostentate per esser sincere.
Supponete il sentimento religioso. Se n’è acceso un focolare in ogni angolo d’Europa. Ma l’Europa cristiana — è cristiana non è vero? — è agitata e sbattuta da una gran burrasca. Chi ha come me certe malinconie per il capo si domanda: non si tratterà di una qualche cosa di simile alla conversione del marinaio? Il sentimento religioso specialmente è di sviluppo lungo e lento; quercia che profonda tenaci le radiche nelle più tenaci viscere della terra, non un fungo; inestinguibile energia di radium misterioso, non un fuoco fatuo. E allora?...
Supponete la servilità per gli stranieri (adesso si dice per i Tedeschi). Tutta quella gente di fuorivia che ogni anno ci pioveva in Italia per gustare i monu-
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E DOMANI?
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menti e i maccheroni, il cielo azzurro e i processi della camorra, ci gironzolava per casa con aria di burbanza insolente e trattava gli Italiani da razza inferiore. Noi ci prestavamo al gioco, all’ignobile gioco, in mille modi e tutti indegni. Era una vigliaccheria, non so se più vergognosa o dannosa. Oggi ha una sosta; ma durerà? Intanto cominciamo a distinguere, e di distinguere non è il caso, nobiltà e signoria non ammettono distinzioni. Ma poi: noi creammo, per abiettarci onestamente, un titolo onesto: industria, l’industria dei forestieri, un’industria lucrosissima non c’è che dire; ci sapremo rinunziare? Questa rinunzia importerebbe non pensar più a facili guadagni, a lauti sfruttamenti; ora, il facile e il lauto in... industria costituiscono una temibile tentazióne. Diffido, diffido. C'è troppa gente fra noi abituata, e quasi obbligata da una quantità di cose, a contarci. C’è troppo diffuso fra noi un sentimento di albergatori, di servitori a spasso, rimasti a custodire e a dimostrare questo fatiscente palagio smesso dei nostri antenati, e di ciceroni di piazza mal dissimulanti con l’erudizione d’accatto la pezzenteria, oscillanti fra la gloria e la mancia. Bisogna crearci il fégato per tale rinunzia. La guerra lo farà questo miracolo? Ma se più d’una nostra città vive... sull’industria dei forestieri, s'è formata una respirazione artificiale con essa! Se si sente deplorar la guerra perchè l’ha sospesa per troppi mesi! L’ho sentita deplorar io con queste mie orecchie, così!... E allora le grandi parole, le sdegnose proteste non saranno alla superficie?
Supponete le industrie nazionali. Noi si procedeva, salvo le solite onorevoli eccezioni, con quattro sistemi: dipendere dall’estero, anche dove non era punto necessario; spedire i prodotti nostri ad abbellirsi di marca straniera; gittare sul mercato una valanga di brutture, di falsificazioni, di sofisticazioni, di surrogati, per vendere a prezzi da non temere concorrenza, rovinando la concorrenza onèsta; produrre il buono e bene, finché fosse formata la clientela, per seguitare poi con tutte le ciurmerie dell’imbroglio. Oggi si va millantando: a guerra finita, boicotteremo questo, boicotteremo quello (ed equivarrebbe a sostituire alla guerra di trincea quella dei porti e delle dogane — il modo più sicuro per assicurare la pace universale ed eterna!) — Senza boicottare nulla e nessuno, servendoci di criteri di gente calma e che ragiona, basterebbe procurare fin d’ora di discernere fra le possibilità nostre e le nostre necessità d’importazione, di regolar questa, e sostituire l’onestà a quella che chiamavo la ciurmeria dell’imbroglio. Ci credete? E i sùbiti incredibili guadagni? E i vantaggi doganali? La guerra dovrebbe rendere insensibili gl’industriali a quelli, il Governo a questi. Cisperate sul serio? E frattanto si parla di boicottaggio'. Spamponate! più son grosse meno significano.
Supponete il rispetto agl'ingegni, ai valori veri e reali. Metterli in disparte significa privare il popolo a cui appartengono di forze propulsive e vivificanti che nulla può surrogare — e purtroppo ne veniva sacrificato e messo e soffocato sotto il moggio un gran numero. — Adesso la guerra, dicono, sta rivelando questo numero e abbattendo il moggio. Ma, in ogni caso, si tratta o di guerrieri al campo o di geni dei provvedimenti in zona di guerra e nelle retrovie. Non è tutto, vi pare? E i valori d’altro genere? Intanto la guerra non li rivela, e bisognerebbe che domani non avessero più da lottare contro le mene dei furbi, le audacie degli
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arrivisti, la voglia di dormicchiare degli arrivati; bisognerebbe che una bomba provvidenziale avesse fatto saltar per sempre ITtangar dei palloni, che volano alto alto meno contengono di dentro, dell'aurea mediocrità che fa i conti con la leggerezza propria e la crassitudine dell’aria. Povera guerra, ne ha da fare di bella roba!...
Supponete l’alta politica. Era un’infezione, è un profumo. Però è memorabile il detto di quell’antico che se ne intendeva: Con la coscienza non si governa. Della politica è la natura che ripugna alla purezza, e Orazio cantava: Naiuram expel-Ics furca, lamen usque recurret. Che la guerra valga più della forca? Può darsi!...
E lascio nella penna — come si suol dire — altri supponete più pericolosi. Non mi rimangio nessun supponete circa la stampa, perchè quella rappresenta oggi le più schiette convinzioni, come è sempre stata pura, educativa e sincera: heri et hodie... et in saccata.
Atteggiamenti, atteggiamenti, atteggiamenti.
La terza ragione di dubitare l’accenno in due parole. Ecco: gl’italiani, impreparati alla guerra, addormentati nel benessere, imputriditi nell’abiezione — questa terminologia è di prammatica — a causa della lunga, ignobile pace, ad un tratto riescono a trovare in sè, nelle energie recondite della stirpe, nelle riserve inesaurite della loro nobiltà di natura, quel che occorreva per armarsi rapidi, per piantarsi e vincere sui monti e al piano, e non solo, ma per offrire nelle retrovie e da per tutto esempi insperati d’energia, di spirito fraterno, di compattezza nazionale, di abnegazione, di sacrificio; tanto da scoprirsi, guardandosi in cuore e fra loro, giovani eroi, uomini eroi, donne eroìne, pronto ognuno a quello a cui non aveva mài pensato, o pareva dovergli ripugnare invincibilmente. Che concluderne, con una di quelle conclusioni che nessuno formula, tanto sono istintive, intuitive, rapide, incoercibili? Che dunque potranno benissimo riaddormentarsi di nuovo tra i fiori e le piume, o magari nel fango, spensierati, sicuri; tanto, non appena suoni un’altra volta, quando che sia, l’ora dell’eroismo, ritroveranno ancora intatti in sè, nelle energie recondite della stirpe, nelle riserve inesauribili della loro nobiltà di natura, tutto quello che occorre per far fronte a qualunque insospettato cimento. Conclusione di cui io non conosco la più naturale, ma insieme la più insidiosa per quel famoso domani.
Tirate le somme, il dilemma rimane inflessibile e senza uscita davanti a quelli che tutto s’aspettano dalla guerra, che tutto anzi già riconoscono da lei.
Per uscirne senza inganni tessuti da noi a noi stessi, bisogna uscir prima dall’ipotesi, o peggio dalla tesi, della guerra rigeneratrice.
E io — mi si intenda ben chiaro — parlo della guerra in genere; non di questa o di quella: questa o quella voi potrete giudicarla fin santa, in grazia delle finalità per cui si combatte e la illuminano. La guerra in sè, ogni guerra cioè in quanto guerra, rimane quello che è, un’orrenda cosa, e non solo, ma tale che ripromettersene gl’inestimabili benefici di cui si va blaterando, è il più ingannevole dei sogni. Altre contese sono civili, con altre l’uomo procede avanti nella conquista della sua umanità. Sopra tutto altri sono i metodi naturali della evoluzione civile. Natura non facit sallus, dice l’antico adagio, ed è applicàbile anche a! progresso umano: questo si può affrettare, a differenza di quel che avviene
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E DOMANI?
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nei campi inferiori dell’essere; affrettare, ma non altro: si può progredire a passo di carica — non è frequente, ma può darsi — a salti, no. Invece la guerra, nella proiezione che ne tentano i vagheggiatori c gli inneggiatori dei suoi benefici, rappresenta una fonte di miracoli. Non credeteci. Da un momento all’altro nulla si purifica, nulla si tramuta, e per quanto una guerra duri, non rappresenta più d’un momento nella vita dei popoli: natura non faci/ saltus.
Falsa dunque, alla stregua dei fatti, la valutazione del nostro ieri e del nostro oggi; ingannevole la nostra aspettazione per il nostro domani, non ci resta proprio nulla da fare? Io credo di sì, per domani e fino da oggi. Chi ha in cuore vero schietto amor di patria e di umanità, pensando al domani, da questo tramonto dell’oggi corrusco di sangue, deve proporsi di affrontarvi tutti i problemi oscuri sociali che ieri pesavano sui popoli. Nessuno se ne è sciolto, nessuno se ne sta sciogliendo nel trambusto che tutti ci avvolge. Domani si troveranno, intatti, e aggravati tutti — niente altro, niente altro, pur troppo, questa è là verità — aggravati dalle enormi spaventevoli rovine, non solo materiali ed economiche, ma umane, sopra tutto umane, morali, sopra tutto morali, accumulate e accumulantisi in questa tragica ora che passa. C’era tutto da fare, voi dite? E domani ci sarà doppio lavoro da compiere; uno negativo» di risarcimento; l’altro positivo, di progresso.
Se mai, come unico beneficio recatoci dalla guerra, potremo riguardare, con amaro sconlorto e trepida diffidenza nel cuore, questo: che essa ci ha svegliato ad accorgerci delle nostre enormi deficienze, delle nostre imperdonabili colpe. Con amaro sconforto, perchè sapremo che s’era non dormienti, ma moribondi, se ci si è dovuto applicar tanto fuoco per ridestarci; con trepida diffidenza, perchè ci sentiremo minacciati, non appena il fuoco abbia finito di iriggerci le carni, di riassopirci di nuovo nel coma mortale di prima.
E, dico la verità, massime per quello che ho accennato come terzo motivo dei miei dubbi, io temo e tremo.
Faranno, il congresso delle nazioni, da cui, dicono, uscirà il diritto nuovo delle genti, senza annessioni, senza compensi, senza calcoli d’equilibrio (Dio, quante belle cose, quante belle cose!). Per me, mi augurerei un altro congresso, il congresso delle virtù miti, modeste, opache: della pazienza, mettiamo, e della perseveranza, della sincerità e della equanimità, dell’operosità e dell’amore, del non parere e dell’essere. Son le virtù dell’educazione; e si tratta d'altro che di educare gli uomini, e i nostri fratelli di casa nostra prima di tutto, in modo che sappiano usare stabilmente, virilmente della tranquillità e della pace, e cioè, se Dio, ci aiuti, del nostro e loro stato normale? E sarei capace di infatuarmi del mio congresso fino al punto di sperare che si radunasse sul serio e desse i suoi frutti, o che, senza nessun congresso, si pensasse al valore pratico delle mie virtù opache e si cercasse nella loro inoculazione negli animi la base solida per quel tal domani che tanti si aspettano dalla guerra.
Come si vede che posso persino fingere d’essere un illuso!
Avrei ora il meglio dei miei pensieri da esporre; ma sarà per un’altra volta.
Qui quondam.
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LE MEMORIE APOSTOLICHE A ROMA
E I RECENTI SCAVI DI S. SEBASTIANO <■>
el museo cristiano Lateranense, dietro una porta abitualmente chiusa in fondo ad una serie di stanze raramente frequentate, v’è la saletta ebraica, da poco tempo aperta al pubblico.
Alle pareti grigie iscrizioni ebraiche, qualcuna in caratteri romani, più numerose quelle in lingua greca. Intorno, raccolti in vetrine, dei mattoni e delle tegole — frammenti di sarcofagi — con bolli di fabbrica e qualche parola scritta in colore rosso.
Ecco tutto quello che resta di una catacomba ebraica scoperta nel 1904-1906 sul Monteverde presso la stazione di Trastevere.
Ai laici sembrano noiosi ed aridi questi nomi di morti sempre « virtuosissimi » ed «onoratissimi» secondo la dicitura delle lapidi dettate dai parenti superstiti. Ed aride parvero anche a me quelle lastre di marmo, allorché le vidi nella catacomba distrutta, subito dopo la scoperta. Quasi quasi davo ragione ed al popolo che in altri tempi soleva adoperare tali pietre come materiale da costruzione ed al clero dei secoli passati che, rivoltandole, vi incideva altri nomi, anch’essi ora dimenticati. Eppure sapevo che già da secoli gli scienziati si affaticavano a farne raccolta in sale e magazzini di musei, ed a pubblicarne il testo in lunghe file di in-folio.
Il loro lavoro non è perduto! Nelle raccolte di iscrizioni si nascondono tesori di umanità, ma purtroppo il gran pubblico ne gode unicamente quando uno specialista si degna di rivelarne i segreti.
Cosa ci raccontano e ci rivelano le poche iscrizioni della saletta ebraica? (2)
(1) I dati cui l’A. si attiene in questo lavoro riassuntivo esigerebbero un nuovo esame critico più rigoroso. Speriamo d’iniziare presto in Bilychnis questo nuovo esame di tutto il materiale riguardante le memorie apostoliche in Roma. Intanto non crediamo mutile dare in breve 1 risultati degli studi fatti sull'argomento da archeologi cattolici.
Pubblicheremo presto una relazione più particolareggiata sugli interessanti scavi di s. Sebastiano. Red.
(2) Il loro testo completo venne pubblicato da G. Schneider Graziosi, nel Nuovo Bullethnodi Archeologìa cristiana, 1915, pag. 13-56 (La nuova sala giudaica nel museo cristiano lateranense). Prima di lui ne parlarono Nikolaus Müller, che promosse e
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Sentiamo uno dei migliori conoscitori dell’epigrafìa romana, Eugenio Bormann. Guidando con quel fare pseudo-indifferente dello scienziato i suoi lettori nel labirinto dei grandi volumi del Corpus Inserì pii onum, presenta loro ricordi tangibili della cerchia d’amici romani di san Paolo: un’epigrafe posata da un amico dello stesso apostolo ed un’altra dedicata ad una signora ancora ebrea, ma già simpatizzante colla nuova fede. Vale la pena di seguire una dimostrazione scientifica per raggiungere tali risultati!
Una ricca lastra di marmo nella saletta ebraica porta inciso in caratteri forti e belli, come li intagliavano nel primo secolo dopo Cristo scalpellini esperti e perciò ben retribuiti, l’epitaffio dedicato da L. Maecius alla pròpria moglie lulia Alexandria.
Essendo il nome Maecius prettamente romano vien fatto di supporre trattarsi d’uno dei numerosissimi proseliti vissuti in un’epoca in cui gli Ebrei eran così potenti che perfino Cicerone ed Orazio ne parlavano con gran rispetto (i). Ma ci son fatti che distruggono tale supposizione. Il Bormann ci rivela come almeno da due generazioni esistessero Maecii di religione ebraica, citando'a tal’uopo un epitaffio dell’epoca repubblicana (2), ove fra i liberti di un certo L. Maecius figura anche il nome evidentemente ebraico di Manchas. Giacché gli Ebrei non condividevano mai il loro sepolcro con gente di altra fede è indubitabile che pure gli altri liberti del Maecius professavano la religione mosaica.
Bormann, grazie ad uno studio retrospettivo della famiglia Maecius, è in grado di indicarci qualche altro liberto del medesimo nome vissuto nell’isola di Deio verso la fine del secondo secolo avanti Cristo (3).
Deio era allora un grande emporio e centro del commercio degli schiavi. I Maecii probabilmente appartenevano alla schiera di commercianti romani che già prima della conquista militare sfruttarono l’oriente ed eran talmente numerosi che il re del Ponto, Mitridate, ne potè uccidere nell’anno 88 avanti Cristo ottantamila! (4)
Dalle poche iscrizioni mentovate si può con grande probabilità ricostruire la storia dei Maecii ebrei. Nel secondo secolo avanti Cristo un commerciante romano a Deio rende la libertà ad alcuni suoi schiavi ebrei (5). Discendenti di questi liberti si stabiliscono a Roma, ove per qualche tempo vivono modestamente avendo in cosorvegliò gli scavi (Die Jüdische Katakombe am Monteverde zu Rom, der älteste bisher bekannt gewordene jüdische Friedhof des Abendlandes, Lipsia, 1912), Eugen Bormann (in Wiener Studien, XXXIV, 1912, pag. 358-369), M. Riba (in Jahresbericht des Staatsobergymnasiums in Wiener Neustadt 1914), Brassloff (in Römische Mitteilungen, 1913).
(x) Cicerone, pro Flacco, 28-66: scis quanta sii manus, quanta concordia, quanlum valeant in contionibus, summissa voce agam, tantum ut iudices audiant: ncque enim desuni £' istos in me atque in optimum quemque incitenl. Orazio, Sai. I, 4, 142: ac veluti te Ju-i cogemus in hanc concedere lutbam, ib. I, 9, 70: hodie tricesima sabbala: vin tu curtis Judaeis oppedere?
(2) C. I. L., VI, n. 33919 a.
(3) V. Bulletin de correspondance hellénique, 1912, pag. 48 seg., n. 2, 5, 7.
(4) Vedasi sull’emigrazione dei romani in quest’epoca: J. Kromayer, Die wirtschaftliche Entwicklung Italiens im II. und I. Jahrhundert v. Chr., in Neue Jahrbücher für das Klassische Altertum, 1914, III, pag. 145-169.
q) Gli ebrei vengono liberati molto spesso, probabilmente perchè la stretta osservanza delle loro usanze religiose salvaguardate dalla legge romana li rendeva servitori ed operai poco rimunerativi.
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mime con altri correligionari perfino la tomba, ma nell’epoca di Augusto occupano un posto onorato nella comunità religiosa — il Maecius del cimitero di Monteverde è archon — e possono spendere per i loro epitaffi più che gli altri.
Il Maecius non ci indica il nome della sua sinagoga. Non sappiamo se fu cam-pensis o suburensis — del Campo Marzio o della Subura — Augustensis o Agrip-pensis — questi nomi ci danno la data precisa della catacomba — ma siamo certi che non può essere stato vernaculus, cioè schiavo appartenente alla Jamilia imperiale, nato nel palazzo, perchè abbiamo trovato già due secoli prima suoi antenati a Deio affrancati dalla schiavitù.
L. Maecius senza dubbio aveva una posizione indipendente, ma è probabile, considerando il nome di dulia Alessandria, che sua moglie prima di sposarlo avesse appartenuto alla servitù dell’imperatore. Se ebrea di origine deve aver partecipato alla comunità dei vernacoli.
Se ci ricordiamo à questo punto che s. Paolo alla fine della sua epistola ai Fi-lippesi scrive: I fratelli che son meco vi salutano; tutti i santi vi salutano e massima-mente quei della casa di Cesare, non è temerario supporre che molti di « quei della casa di Cesare» prima della loro conversione abbiano fatto parte della sinagoga dei vernacoli. Secondo la tradizione, s. Pietro sarebbe venuto a Roma prima di s. Paolo, ed ivi senza dubbio avrebbe fatto molti proseliti fra i suoi antichi correligionari. Le due comunità romane vivevano dunque vicine l’una all'altra, nella grande città piena di forestieri probabilmente in relazioni meno ostili che nella Palestina. Non è azzardato parlare di una parentela fra l’Aquilina, che fece nel medesimo cimitero una tomba per la sua bambina Prociina (i), e l’Aquila, di cui s. Paolo scrive (2): Salutate Priscilla ed Aquila, miei compagni d'opera in Gesù Cristo, i quali hanno per la vita mia esposto il loro proprio collo.
La realtà incontestabile delle iscrizioni funebri di questa catacomba ebraica sembra documentare dunque la tradizione cristiana riguardante gli amici dell’apostolo e probabilmente lo stesso ambiente conserva anche un eco della sua predicazione. Vi si rinvenne infatti l’epitaffio di una certa matrona Regina (3), nel quale si
(1) Il numero 44 dello Schneider Graziosi, 1. c.
(2) Epistola ai Romani, 16, 3.
(3) Hic Regina sita est tali conicela sepolcro,
Ìuod coniunx statuii respondens eius amori, fase posi bis denos secum transsegerat (sic!) annum et quartum mensem restantibus octo diebus, rursum victura reditura ad lumina rursum.
Nani sperare potest ideo quod surgal in aevom promissum quae vera fides dignisque piisque; S\ae meruit sedem venerandi ruris habere, oc libi praestiteril pietas, hoc vita pudica, hoc et amor generis, hoc observanlia legis, coniugii meritum, cuius tibi gloria curae. Horum factorum libi sunl sperando futura, de quibus et coniunx maeslus solatia quaerit.
‘Regina è — come mi avverte un amico ebraista — la traduzione del nome femminile ebraico Malcà (= regina, Melech = re).
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parla di una seconda vita, della resurrezione, della speranza di entrare nel regno eterno promesso dalla vera fede ai fedeli che ne sono degni e di occupare un seggio nella veneranda contrada del paradiso. In questo tono parla della sua fede soltanto chi appartiene ad una nuova setta non ancora ufficialmente riconosciuta e perciò maggiormente amata. Vicn naturale di credere che questa nuova dottrina sia il cristianesimo, la fede predicata ai Romani da s. Paolo (1), la fede per la quale il giusto vivrà (2).
Ma i cristiani allora, almeno a Roma, non si erano ancora allontanati dalla sinagoga. Ne è prova questa stessa epigrafe, ove Regina si vanta di amare la sua gente cioè il suo popolo, di « osservare la legge », e suo marito la seppellisce fra gli ebrei ortodossi, sulle tombe dei quali spiccano i numerosi simboli della fede antica: il candelabro eptalicno, il corno dell’unzione, le spalulae palmarum, il frutto del cedro, l'armadio dei volumi della legge, la colomba col ramo, o col grappolo d’uva, l'albero della palma fra due colombe, il toro, ecc.
San Paolo venne a Roma probabilmente nell’anno 60, due anni dopo la sua lettera ai Romani e vi « dimorò due anni intieri in una casa tolta a fitto, ed accoglieva tutti coloro che venivano a lui; predicando il regno di Dio, ed insegnando le cose di Gesù Cristo, con ogni franchezza senza divieto » (3). Egli si mostrò contento dello spirito nella comunità, mandando ai Filippesi (4) il saluto di lutti i santi e massimamente di quei della casa di Cesare.
A questo periodo di tranquillità indisturbata ne segue uno ai grande angoscia tanto per i cristiani quanto per i giudei, angoscia culminante nella persecuzione di Nerone e nella guerra contro i giudei di Palestina, che finisce nel 70 colla distruzione del Tempio. La vita riprende il suo corso normale soltanto colla dominazione dei Flavi.
Dopo questo decennio di incertezze constatiamo un cambiamento nei rapporti fra cristiani e giudei. E’ avvenuta una separazione dei beni delle comunità. La catacomba di Domitilla, appartenente al ramo cristiano della famiglia imperiale, ha delle tombe pagane e cristiane, ma nessuna ebraica. Le catacombe ebraiche non contengono più cristiani. Ma gli individui che provocano tali mutamenti sopravvivono a questi. Il Bormann c’indica come una lapide della catacomba cristiana di Domitilla riallacci i tempi di s. Paolo al nuovo stato di cose.
L'iscrizione dice: luliae Aug(ustae) Agrippinae Narcissus Aug(usti) Traiani Agrippinian(us), cioè: « Narcissus, schiavo dell’imperatore Traiano, anteriormente di Agrippina, a sua moglie lulia Augusta, liberta di Agrippina ». Questo Narcisso dunque faceva già parte della servitù imperiale durante la vita dell’imperatrice Agrippina, madre di Nerone, morta nell’anno 59. Possiamo credere che sia lui il Narcisso, ai famigliari del quale l’apostolo nell’anno 58 manda un saluto speciale (5).
x) Rom., io, 8-10.
2) ib., 1, 17.
3) Atti degli apostoli, 28, 30-31.
4) FU., 4. 22.
5) Rom., 16, li.
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Che Narcisso stesso in quell’epoca fosse cristiano, questo l’apostolo non lo dice, ma lo studio delle epigrafi cristiane fa credere che probabilmente sua moglie lo fosse. Nel medesimo cimitero di Domitiila, cioè, fu trovata la lapide di una G. Julia Agrippina cristiana — la sua fede è chiaramente indicata dalle parole dulcís in aeternuin — che data del tempo di Traiano o Adriano e copre probabilmente la tomba della figlia della sunnominata lulia Agrippina. Anche allora le figlie professavano la religione delle madri.
Tali epigrafi ci rivelano approssimativamente l’epoca della separazione della setta cristiana dall'antica religione ebraica.
II.
Nell’animo dei superstiti il ricordo della persona estinta è circonfuso d’una atmosfera che ne idealizza la vita terrena. Così il dissidio esistente fra cristiani di origine giudaica e quelli di origine greca, che appare già negli Atti degli Apostoli (1) ed è personificato nelle figure di san Pietro e san Paolo, nella memoria dei fedeli è rimasto come ricordo di due principi diversi, ma concorrenti alla formazione della nuova fede. Anche dopo il trionfo del cristianesimo le figure simboliche della ecclesia ex circoncisione e della ecclesia ex genlibus vengono collocate rispettivamente sopra o sotto quelle degli apostoli Pietro e Paolo (2), ed anche i loro sepolcri nella tradizione romana rimasero sempre distinti quasi a simboleggiare la duplicità d’origine dell’« unica Roma » (3).
Che questo simbolismo fosse ancora sentito nel medievo lo prova il fatto che tutti i pellegrinaggi visitavano le basiliche di s. Pietro e s. Paolo. Eppure — secondo la tradizione — durante un certo tempo i corpi dei due apostoli rimasero riuniti nel medesimo luogo, e l’ingarbugliata tradizione è stata di recente confermata dalla testimonianza di iscrizioni dell’epoca.
Ricapitoliamo brevemente quel che si sapeva finora sulla « traslazione » dei corpi degli apostoli (4).
Dopo il loro martirio, san Pietro e san Paolo vennero composti il più vicino possibile al luogo ove li aveva colpiti la morte, non essendo dato di farlo nella località stessa del supplizio. San Pietro morì nel Circo di Nerone, che i cristiani naturalmente non potevano comprare o adoperare come cimitero. San Paolo fu sentenziato ad Aguas Salvias — cioè alle Tre Fontane — evidentemente anche lui in luogo
(1) Alti, 6, 1.
(2) A Roma p. e. nei musaici di santa Pudenziana, s. Sabina e s. Prassede.
(3) Le reliquie di san Paolo non furon mai trasportate dentro le mura aureliane come avvenne delle ossa di altri martiri, benché, all’epoca delle incursioni saracinesche, la lontananza della basilica paolina costringesse i papi a costituirvi tutto all’intorno una speciale linea di fortificazioni.
B) Per più ampie informazioni il lettore si rivolga ad un articolo di A. de Waal, postelgruft ad. Catacumbas an der Via Appia, Rom, 1S94 (3- Sappi. alla Römische Quartalschrift) e alle pagine 28 e segg. di un secondo articolò dello Stycer nella Röw. Ö- (xpi.5» fasc- 3)- pubblicato quando questo mio articolo era già presso la redazione.
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Scavi di San Sebastiano a Roma
Antico muro con graffiti esprimenti invocazioni agli apostoli Paolo e Pietro
(Rómiicht Quartahchiift 1915)
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pubblico. Oltre ai terreni di proprietà dello stato i cristiani dovevano rispettare anche i possedimenti privati ed accontentarsi di quelli già destinati a cimetero ed in possesso di correligionari o simpatizzanti. Per san Pietro si trovò una tomba prossima al Circo Neroniano «sotto un pino in vicinanza della Naumachia in luogo chiamato Vaticano », — come descrivono coll’accuratezza di una guida per forestieri gli Aiti di san Pietro e san Paolo (i) in un’epoca in cui la basilica costantiniana non era ancor là ad indicarne ad ogni passante il punto preciso.
Sulla medesima via Cornelia, che costeggiava il Circo di Nerone ed aveva accolto in una delle sue tombe il corpo di san Pietro, il papa Anencletus, secondo successore del primo vescovo di Roma «costruì una memoria per san Pietro ed altre tombe ove si potessero seppellire i vescovi » (2).
Non furono però numerosi i papi che scelsero per ultima dimora un posto accanto al modesto sepolcro di san Pietro, giacché prima della costruzione della basilica costantiniana, i più preferirono essere inumati nella cripta papale costruita intorno all’anno 200 da Zefirino nella catacomba di san Callisto.
Appena conchiusa la pace della chiesa la nuova basilica, allargandosi intorno al corpo santo, occupò non solo un tratto della stessa via Cornelia, ma pure molti sepolcri pagani, che fiancheggiavano questa come le altre strade suburbane. Ma essa non includeva ancora la località precisa del martirio che venne compresa solamente nell’attuale basilica e si trova precisamente sotto all’altare insignito da un quadro di Guido Reni, rappresentante la crocifissione di san Pietro.
Anche san Paolo venne sepolto in mezzo a pagani, a fianco di una strada: la via Ostiensis. La circostanza che questa via era frequentatissima e perciò assai ricercata come luogo di sepoltura spiega forse il perchè della grande distanza fra il luogo del martirio, le Tre Fontane, e quello dell’inumazione, la basilica di san Paolo fuori le mura.
Fino ad un certo tempo queste primitive tombe degli apostoli furono i soli luoghi ove si commemorava il giorno del loro martirio (3), ma venne un periodo nel quale le vie Cornelia ed Ostiense dovettero condividere questo privilegio con una terza, la via Appia.
Il così detto Martirologio di Gerolamo, le fonti del quale sono del principio del quarto secolo, scrive: « Si celebra al 29 giugno la festa degli apostoli Pietro e Paolo: di Pietro in Vaticano sulla via Aurelia, di Paolo sulla via Ostiense, di ambedue in Catacumbas; furono martirizzati sotto Nerone, l’anno 258 dopo Cristo » (4). Il testo mutilato del Filocalo — il così detto cronografo dell'anno 354 — dà il
(1) Ed. Lipsius, Lipsia, 1891, pag. 172 e 216.
(2) Construxit memoriam beati Petri... et alia loca ubi episcopi reconderentur sepultura. Liber Pontificali*, cd. Duchesne, I, pag. 55.
(3) Il presbitero Gaio, coetaneo del papa Zefirino (208-218) polemizzando contro il montañista Proclo, scrive (ap. Eusebio, H. E. II, 25): « Se volete andare al Vaticano o alla via Ostiense troverete i trofei di quelli che hanno fondato la chiesa ».
(4) III. Kal. lui. Romae natale sanctorum apostolorum Petri et Pauli: Petri in Vaticano, via A urelia; Pauli vero in via Ostiensi, ulnusque in Catacumbas; passi sub Nerone; Basso et Tusco consulibus. Marlyrolog. Hieron. ed. De Rossi-Duchesne, pag. (84].
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medesimo anniversario (i). Un inno in onore di san Pietro e san Paolo, che si suppone essere di sant’Ambrogio, fa celebrare la festa degli apostoli in tre vie (2).
È noto che le parole ad catacumbas indicavano in origine una contrada vicina alla Via Appia e precisamente il punto ove trovasi la chiesa che porta ora il nome di san Sebastiano, ma che nei primi secoli fu chiamata « ad vestiría apostolo-rum » — « dove sono le tracce degli apostoli ». Un’iscrizione del papa Damaso (366-384) trovata nella chiesa stessa ci rende noto che in quel tempo si credeva che là le spoglie degli apostoli « avessero abitato » (3), dimostrando così che già al tempo di Damaso i corpi santi erano stati riportati nelle rispettive basiliche. Ñé persistette molto a lungo l'usanza di celebrare la loro festa sulla Via Appia. L’inno prudenziano scritto intorno al 400 in onore degli apostoli non parla che di due vie, di due luoghi di festa (4).
Il fatto che per qualche tempo i corpi santi si trovarono nella vicinanza della Via Appia è spiegato in più modi dalle leggende dei primi secoli. Gli Atti di san Pietro e di san Paolo (5) raccontano: « Cristiani di origine orientale trafugarono i corpi degli apostoli per trasportarli in Oriente. Un terremoto ne avvertì i Romani a furto compiuto. Questi inseguirono i ladri e li raggiunsero al terzo miglio dalla porta Appia: ad catacumbas. Gli Orientali fuggirono ed i Romani custodirono durante un anno e sette mesi (6) i corpi in detto luogo mentre si stavan costruendo i loro sepolcri ».
San Gregorio Magno comunica in una lettera all’imperatrice Costanza (7) una storia quasi identica. Una versione siriaca (8) racconta il fatto un po’ diversamente e ne fissa la data all’epoca del pontificato di Fabiano (236-250). Il « Líber pontificáis » (9) colloca nella vita di papa Cornelio (251-252) un racconto che potrebbe essere il seguito della prima leggenda surriferita: dietro preghiera di una matrona
(1) III. Kal. Jul. Petri in Calacumbas et Pauli Ostense, Tusco et Basso, consulibus.
(2) (Ambrosius] (ap., Migne, P. L., XVII, 1215):
Trinis cclebratur viis
Festus sanctorum marly rum.
(3) Hic ¡¡abitasse prius sanctos cognoscere debes,
Nomina quisque Petri par iter Paulique requiris, Discipulos Oriens misti quod sponte fatemur Sanguinis ob merilum Christumque per astra secali Aether ios peticre sinus regnaque piorum Roma suos potius meruit defendere cives.
Haec Damasus veslras re feral nova sidera laudes.
14) Prudenzio, Peristeph. XII, p. e. vs. 57, segg.:
A spice per bifidas plebs romula funditur plaleas, Lux in duobus fervei una festis.
(5) Ed. Lipsius, pag. 174, 175, 220.
(6) C’è una piccola differenza fra le tre fonti: il testo latino ed il racconto del martirio in lingua greca danno come durata della permanenza un anno e sette mesi; gli Atti invece un anno e sei mesi.
(7) Lib. VI, ep. 30.
(8) Cureton, Ancient Syriac documents, pag. 61.
(9) Liber Pontificalis, ed. Duchesne, I, pag. 67.
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Lucina il papa avrebbe tolti gli apostoli dalla contrada ad catacumbas per trasportarli nelle vicinanze dei luoghi di loro passione, seppellendo i santi rispettivamente in una tenuta di proprietà della signora sulla Via Ostiense e nell’Agro Vaticano « in mezzo ai corpi dei santi episcopi ». La medesima fonte menziona, nella vita di Damaso, i versi dettati da questo papa per la chiesa di San Sebastiano come dimora temporanea degli apostoli. Fonti posteriori — quali F« Itinerario Salisbur-gense » ed il « De locis sanctorum martyrum »— parlano di una dimora di quaranta anni ad catacumbas.
Il Duchesne nella sua edizione del Liber pontificalis (i) ci ricorda — per spiegare la data dell’anno 258 conservata nei calendari — che già nell’anno precedente un editto imperiale proibì in Africa (2) ed in Egitto (3) le riunioni di cristiani e le visite ai cimiteri. Egli suppone che la translalio degli apostoli ad catacumbas sia stata fatta in seguito a questo editto. Il De Waal credeva, quando scrisse l’articolo nella Römische Quartalschrift (4) che i corpi fossero rimasti nelle catacombe fino alla costruzione delle basiliche e non vedeva nella data del 258 alcuna allusione ad una translalio. A me pare che si possan ricostruire gli avvenimenti nel modo seguente. Se nelle provincie l’editto imperiale vigeva già nel 257 senza dubbio fu promulgato anteriormente a Roma. Non è verosimile che il papa, naturalmente desideroso di evitare conflitti fra i fedeli e la polizia imperiale, abbia aspettato un anno intero prima di trasportare gli apostoli dai loro sepolcri, fiancheggianti strade suburbane frequentatissime, ad un luogo meno esposto e non facente parte di un cimitero di vescovi come la tomba di san Pietro. Supposto che già nel 257 le reliquie siano state trasportate ad catacumbas ed accettando il periodo di permanenza di un anno e sette mesi, indicato dalla fonte più antica (5), l’altra data, quella del 258, potrebbe indicare il ritorno nelle antiche tombe descritto nel Liber pontificalis. Questo ritorno può aver dato origine ad una festa, giacché esso indicava un trionfo della fede, non una sconfitta, quale era stato il dover nascondere i principi della chiesa in luogo segreto (6).
Fin qui i dati scritti; ora, che cosa ci hanno aggiunto gli scavi incominciati pochi mesi fa nella basilica di san Sebastiano sulla via Appia, sotto gli auspici di monsignore De Waal? Riferiamone in breve i risultati — per quanto si riferiscono
(1 Prolegomena, pag. civ segg.
(2 Acta Cypriani, ed. Hartel, pag. ex.
(3 Dionigi di Alessandria, lettera a Germano, in Eusebio, H. E., XII, IH.
(4 /. c.
(5 Si tenga presente che l’imperatore Valeriano già nel 257 partì per una campagna contro la Persia e non ritornò più a Roma.
(6) Nessuno fra i numerosi storici delle persecuzioni cristiane — neanche il Patrick. J. Healy, che dedica un libro intero alla persecuzione di Valeriano (77/e Vaterían Íersecution, Boston, New York) — parla della storia sintomatica della translalio, proba-ilmente perchè la tradizione loro ispira troppo poca fiducia. Eppure il trasporto dei corpi in luogo non sospetto fu una misura ben spiegabile in un’epoca che vide suppliziati un papa {Sisto II) e quattro diaconi perchè trovati in un cimitero, probabilmente intenti a presiedere ad una cerimonia proibita (Cipriano ep. 80, 1; De Rossi, Roma sotterranea II, pag. 87 e segg.).
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al nostro soggetto — quali furono pubblicati provvisoriamente dal dottore Styger nel numero più recente della Rbmische Quarlalschrijl (i).
Ad una profondità di appena trenta centimetri sotto il pavimento attuale della chiesa, quasi nel centro della medesima fu scoperta «una parete rivestita d'intonaco con pitture e disseminata di graffiti con invocazioni agli Apostoli Pietro e Paolo... detto muro doveva sporgere assai al disopra del livello attuale della basilica, giacché del suo ornato è rimasta soltanto la parte inferiore raffigurante una siepe di giardino a larghe maglie in forma di rombi, con intreccio di foglie e fiori; dinanzi al recinto sono visibili le gambe posteriori d’una pecorella».
A'questo muro è fissato, per una lunghezza di sei metri, un sedile. All’estremità di un murello facente angolo colla parete dipinta « è inserito un minuscolo fontanile formato da un’urna cineraria fuori d’uso ».
Rimosse alcune tombe, costruite davanti alla parete dipinta, apparvero su essa parecchi graffiti, invocanti gli apostoli come se fossero presenti (2): « Pietro e Paolo, ricordatevi di Sozomeno », « Pelre et Paulc, orate prò Erate », ecc.
Fanno un effetto strano tali invocazioni in quest’ambiente che non era sotterraneo e non aveva nulla in comune con altre tombe di martiri, le pareti delle quali sono riservate all’espressione di fede dei visitatori, nè colla cripta papale del cimitero di san Callisto. La scelta di tal luogo come « abitazione » degli apostoli — è la parola che adopera il papa Damaso — si spiega però facilmente se si ripensa ai divieti dell'editto di Valeriano: divieto di riunione e di visita ai cimeteri. Poste in una sala da pranzo —- la decorazione indica una stanza adibita a quest’uso (3) — le reliquie potevano essere frequentate senza svegliare alcun sospetto. Non vi rimasero tuttavia a lungo e lo dimostra il numero assai limitato dei graffiti non ricoprenti il muro che in parte. Inoltre sono essi tutti della medesima epoca a giudicarne dalla grafia.
Quanta semplicità in quelle parole sgrammaticate, spesso perfino incomprensibili! Ci ricordiamo un’osservazione del Delehaye (4): « ...rien n’est beau comme le culte des martyrs tei que nous l’entrevoyons dans la poésie des origines. C’est l’hommage respectueux et reconnaissant de la communauté à celui qui s’est sacrifié pour elle; c’est la confiance en celui qui a tout donne au Christ, dont il peut de-sormais tout attendre; c’est la prióre qui monte vers lui, simple et discrète, comme celle que nous relevons sur cette épitaphe rustique: in orationis tuis roges prò nobis quia scimus le in Christo».
(1) Römische Quartalschrift, XXIX, 1915, II, pag. 73-110.
¡21 Sono pubblicati dallo Styger in fotografia, facsimile e trascrizione.
(3) Lo Styger nel suo secondo articolo (Röm. Q., 1915, fase. 3, pag. 12-17), dimostra con evidenza che la decorazione del muro e gli avanzi corrispondono perfettamente con tutto quello che c’insegnano le iscrizioni pagane e cristiane sulla forma delle memoriae costruite sopra le tombe o nelle loro vicinanze per celebrarvi i pasti funebri. Furono le memoriae pergole naturali od imitazioni delle medesime in muratura, provviste di sedili intorno ad un tavolo.
(4) H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles, 19x2, pag. 478.
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LE MEMORIE APOSTOLICHE A ROMA E I RECENTI SCAVI DI S. SEBASTIANO l8l
Ma quanta fede, quanta venerazione per i grandi defunti se la loro dimora temporanea, di carattere così comune, è diventata luogo di culto! Le espressioni •qui graffite « refrigeravi », « volum prontisti refrigerium » indicano che i visitatori di questi luoghi, accedevano alla comunione degli apostoli dopo aver partecipato ad una speciale cerimonia religiosa o col fermo proposito di parteciparvi in seguito.
Al piccolo fontanile avranno lavate le mani ed il viso come solevano fare allora i fedeli prima di entrare in un luogo sacro (i).
L’« urna cineraria fuori d’uso » all’angolo del muricciolo, fu il prototipo della splendida fontana posta dal papa Damaso nell’atrio della basilica vaticana ubi cantharum ministra manibus et oribus nostris fiuenla ructanlem fastigialus solido aere tholus ornai et inumbral, non sine mystica specie quatuor columnis salientes aquas am-biens (2).
Quale fosse il carattere primitivo deH’edifizio, ove furono ricoverati i corpi degli apostoli durante il loro breve esilio non possiamo ancor dire, ma mi sembra verosimile una supposizione che il monsignore De Waal fece in un nostro colloquio recente. L’insigne conoscitore del l’archeologia cristiana notò che s’ignora ove si trovassero gli uffizi amministrativi della chiesa prima del loro trasferimento al palazzo Lateranense, regalato al pontefice da Costantino Magno, e mi disse di esser d’opinione che essi fossero precisamente nella contrada ad catacumbas, centro importante della vita cristiana.
Io credo che non sarebbe nemmeno da escludere la possibilità d’un’abitazione privata del papa in detto luogo. Il Liber ponlificalis racconta per esempio del papa Bonifazio I (anno 418) che abitava nel cimitero di Santa Felicità sulla Via Salaria.
III.
Dopo la vittoria la Chiesa incominciò a precisare ed a fissare la storia del martirio degli apostoli, specialmente quella di s. Pietro, costruendo chiese in luoghi deghi di memoria. Santa Pudenziana e santa Prassede ricordano la dimora dell’apostolo nella casa di Pudens, il Domine quo vadis la sua fuga, san Pietro in Vincoli la prigionia, una chiesetta — sparita durante la costruzione dell’attuale basilica vaticana — il posto del supplizio, il san Pietro stesso la tomba dell’apo(x) «Il fontanile F è costituito da una piccola urna cineraria che mai ha avuto altro uso, tanto che è priva d’iscrizione sulla targhetta... Il canale di scolo era tuttora in ottimo stato di chiusura ed in parte ripieno di sabbia che malgrado i tanti e tanti secoli corsi fu trovata assolutamente priva di elementi terrosi e ancora polita e lavata, ciò che dimostra che la fontana era ad acqua corrente e limpida ». Styger, Röm. Q., 1915, 3, pag. 8.
(2) S. Paulinus Nolanus, ad Pamachium, ep. XIII. Ancora più bella è la descrizione che ne fa Prudenzio1 (Peristeph, XII. vs. 39-42):
Omni color vitreas pittura superne tingil undas;
Musei relucent, et virescit aurum,
Cyaneusque latex umbram trahit imminentis ostri:
Credas moveri ßuelibus lacunari
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182
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stolo. Nè venne dimenticato il breve esilio dei corpi santi ad catacumbas. È ammissibile che l’ampia basilica ivi costruita dal papa Damaso continuò ad essere durante l’alto medio evo meta di pellegrinaggio, unicamente in virtù della sua denominazione: « ad vestigia apostolorum ».
Ma la superstizione sempre più grossolana di quei tempi incominciò a chiedere dappertutto reliquie visibili e tangibili; il vago ricordo di un muro coperto di graffiti incomprensibili non parlava più alla pietà dei fedeli. Per assecondare la tendenza dei suoi tempi un papa, probabilmente Paschalis I (1), che rimosse molti corpi santi dalle catacombe, trasferì nella basilica damasiana i resti del pontefice san Fabiano, morto nella persecuzione di Decio (anno 250), ed anche quelli, come ci prova il nome della chiesa, di san Sebastiano, suppliziato secondo la tradizione molto sospetta sotto Diocleziano e deposto in catacumbas (2).
Nelle loro affannose ricerche sotto il pavimento della chiesa di s. Sebastiano ove speravano trovare ancora altre « vestigia apostolorum » i recenti esploratori scopersero inaspettatamente tre sarcofagi quasi intatti. In uno di questi « il cadavere è imbalsamato; si osservano le bende attortigliate; fra le bende traccie di aroma e dà presso alcune spugne impregnate d’essenze, che ancora odorano. D’interessante osservammo sul petto, attraverso, un ramoscello che al tatto si polverizzava» (3). Il secondo sarcofago non contiene che ossa sparse (quelle di san Sebastiano?), il terzo invece un corpo ben conservato che sembra essere, giudicando dalla statura e dalla piccolezza dei piedi, una fanciulla. Anche da questa tomba appena scoperta si spri-, gionò un odore soave. Il cadavere di san Fabiano, identificato da una lastra marmorea che gli giace accanto nel sarcofago e porta in caratteri medievali il nome del martire, pareva intatto. Le leggende invece parlano di una traslazione del corpo intero alla chiesa di San Martino ai Monti (4), e — cosa più curiosa — un reliquiario conservato nella cappella Albani della stessa chiesa di san Sebastiano, secondo l’iscrizione scrittavi sopra, contiene: cenere del corpo, un dente ed una «reliquia capitis» di San Fabiano. Il contenuto del sarcofago venne esaminato accuratamente (5) e si constatò che difatti al corpo mancavano un dente ed un frammento della base del cranio. Queste parti del cadavere vennero ritrovati insieme ad un po’ di polvere — che sarà la cenere ricordata nella detta iscrizione — in tre tazze di vetro conservate nel reliquiario.
(1) «Il martirologio del Beda, scritto nell’vni secolo ci denota il corpo diS. Fabiano ancora nella cripta papale del cimitero di S. Callisto, mentre il Parvum Romanum secondo il codice di San Gallo così si esprime: XIII kl. Rome fabiani pape et martyris ad vestigia apostolorum sepolti ». Styger, Rum. Quarl., 1. 1., pag. 104.
(2) A. Manaresi, L’impero romano ed il cristianesimo, Torino, 1914, pag. 450.
(3) Styger, 1. I., pag. 103.
(4) Cf. A. Silvagni, La basilica di San Martino ai Monti, Roma, 1912, pag. 109, e adesso, rivedendo le bozze di questo articolo, aggiungo l’indicazione di due articoli di F. Grossi Gondi, S. Fabiano papa e martire, la sua tomba e le sue spoglie attraverso i secoli in Civiltà Cattolica, 1916, voi. 2, quaderno 1579, p. 73-81 e quaderno 1580, p. 209-218.
(5) Cosi mi raccontò il monsignore De Waal.
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LE MEMORIE APOSTOLICHE A ROMA E I RECENTI SCAVI DI S. SEBASTIANO 183
Quanto cambiamento nella sensibilità religiosa, se essa potè tollerare che un dente e la base del cranio fossero asportate dalla tomba, solo per poterli adorare più davvicino, da quella fede che — pochi anni dopo la morte del Fabiano stesso — aveva dettati i graffiti sul muro. Siamo lontani dal in oraiionis tuis roges prò nobis quia scimus te in Christo, e dal tempo, in cui un fazzoletto venuto a contatto col sarcofago di un martire od un po’ d’olio preso dalle lampade ardenti sulla tomba di un santo bastavano a consacrare nuove chiese in paesi lontani.
Nella storia delle memorie degli apostoli c’è tutta l’evoluzione della chiesa. La pietà di Aquila e Priscilla — che per la vita di san Paolo espongono il Ioni collo —, di Regina — persuasa di trovare senza intermediario la via del paradiso in virtù della sola vera fede —, di quelli che visitando la dimora provvisoria ad catacumbas invocavano fiduciosamente l’intervento di Pietro e Paolo, e degli umili pellegrini del medio evo, è collegata mediante il ricordo apostolico alla grandiosità della scritta che svolgendosi pomposamente sur un fondo d’oro intorno alla base della cupola michelangiolesca glorifica la potenza quasi divina di san Pietro: Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et libi dabo claves regni caelorum.
Luglio 1915H. Leopold.
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Satana nella dottrina della redenzione
Al Ch.mo Prof. V. De Bartholomeis
sua religione.
Hakusaki, di un Dio, il
musaici, scrittore giapponese della prima metà del secolo xvni, parlando di un missionario italiano ch’egli avea conosciuto, dice di lui ch’era saggio ed onesto, ma che diveniva pazzo, allorché lo si udiva a predicare della Che pensare, scrive presso a poco
quale, per redimere l’umanità, ch’è opera sua e che si è perduta per una colpa di cui del resto non si sa vedere la gravità, non trova altro mezzo se non quello di farsi uomo e di sottoporsi alla morte ignominiosa della croce? Quale fiaba puerile!
Non è forse in facoltà di un giudice sovrano non che alleviare le pene da lui sancite, fare anche grazia al condannato senza, per questo, sottoporsi egli stesso ai più gravi tormenti? (i).
Questo ragionamento dello scrittore giapponese, che appare così conforme alla logica umana e di fronte al quale, per gli spiriti che non abbiano la disposizione della mente alla fede, il dogma della redenzione si converte in un vero paradosso, questo ragionamento, dico, aveva presentito il genio di Paolo, il quale infatti mosse ad annunziare il Cristo crocifisso, scandalo pei Giudici e stoltezza pei gentili, soltanto dopo di avere preventivamente lanciato il suo anatema alla scienza e alla sapienza del secolo (2).
L’umanità, assetata di giustizia e di redenzione, anelante ad un rinnovamento universale, amò meglio seguire la follia della croce predicata dall’apostolo di Tarso che le parole allcttatrici della sapienza e della scienza dell’Ellade; epperò allorché Celso, attaccando con la sua critica demolitrice il cristianesimo, per dimostrare l’irrazionalità del dogma della redenzione, si serve di un ragionamento analogo a quello di Hakusaki, non riesce a scuotere in alcun modo la fede, la quale anzi
(1) Vedi G. Negri, L'imperatore Giuliano V Apostata, Hoepli, Milano, 1002, p. 224.
(2) I Cor. I, 18-30; Rom. I, 18-32.
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SATANA NELLA DOTTRINA DELLA REDENZIONE
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trova nell’irrazionalità medesima un motivo maggiore di credere, e, pervasa da una divina ebbrezza di assurdi, vi corre incontro serena e, lieta, si addormenta su di essi.
All’obbiezione di Celso, che trova indegno del Figlio di Dio il morire sulla croce, Origene, nella sua acuta dialettica, dopo di aver posto la distinzione tra la natura umana e divina del Cristo, crede di aver trionfalmente risposto osservando che nulla vi ha di strano che un uomo muoia per la salvezza di tutti e ingegnandosi di giustificare quella morte con un ragionamento che solo il torbido filosofismo mistico del secolo terzo, inspirato alla fede in un mondo demoniaco sottratto alla ragione del l’uomo, poteva suggerirgli.
« Se il nostro Salvatore, dice Origene, ha dato la sua anima per la liberazione di molti, a chi egli invero l’ha dato? Al Padre? no certamente.
« Non resta quindi a pensare ad altri che al demonio. Il demonio, infatti, regnava sopra di noi sino a quando l’anima di Gesù Cristo non gli fu pagata come nostro riscatto. Il demonio la tolse, credendo di poterla dominare e nulla sospettando del supplizio cui andava incontro nello impadronirsene. Così la morte, che sembrava dominare sul Cristo, perde sopra di esso il suo dominio, poiché egli era libero in mezzo ai morti e più forte della potenza stessa della morte. Anzi egli è tanto al di sopra di questa, che tutti coloro che n’erano stati vinti sono, volendolo, in facoltà di seguirlo senza che la morte possa nulla contro di essi» (1).
Come ben si vede, l’apologeta cristiano, per rispondere al suo avversario, ha dovuto, per così dire, virare di bordo: ha fatto appello al dogma del peccato di origine e vi ha intessuto attorno quella che poi fu detta dottrina del riscatto dai dritti del demonio, dottrina, che, svolta più ampiamente da altri sforniti dell’ingegno e • della forza dialettica del grande Alessandrino, doveva finire coi tramutare l’opera della redenzione in una farsa indegna e irriverente (2).
Non è il caso di ricercare nelle Scritture, dalle quali è assente, questa teoria del riscatto, specialmente nei modi e nei termini che assunse nel suo complesso sviluppo. Essa, secondo io penso, ripete sopratutto le sue origini dalla trasformazione, che, in seno al cristianesimo primitivo, troviamo aver subito l’idea di Satana.
Nel Vecchio Testamento, ispirato ad un monoteismo in flessibile, nulla ostante certi riflessi del mazdeismo persiano. Satana, anche nel Libro di Giobbe, non ci appare che un ministro di Dio, un emissario ed esecutore della volontà suprema di lui.
Più tardi, quando nuove dottrine dei popoli orientali si son fatte strada in seno all’ebraismo. Satana assume la forma del tentatore del giusto, diviene l’autore dei mali, del peccato, della morte, il capo degli spiriti perversi e si arriva al punto, negli Evangeli, da stabilire una vera antinomia tra lui coi suoi demoni e Dio con i suoi angeli, tra il regno di Cristo e il regno di Belzebub (3).
Queste allucinazioni del sentimento, la di cui origine ci confonde con le manifestazioni più basse e primitive del fenomeno sacro, pigliarono consistenza sotto l’influsso del neoplatonismo alessandrino, e non solo fuori dell’ortodossia col De(1) Origene, In Mallh., XVI, 8; Conira Cels., VII, 17.
(2) I. Riviere, Le dogme de la rédemption, Paris, Lecoffre, 1903, chap. IX, X.
(3) A. Loisy, La religione d'Israele, traci, ital. Piacenza, 1910, pag. 286 e scgg.
AgaagaaiiKuw-.«-
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miurgo degli gnostici, creatore del mondo e avversario del Dio vero, ma anche presso gli stessi Padri più autorevoli della Chiesa. Basterà leggere quanto scrivono Ippolito, Taziano, Ireneo sul demonio e sulla potenza di lui, per convincersi che, eccettuata la fede nella sopravvenuta redenzione pel Cristo, in sostanza si riconoscono al Maligno quasi tutti gli attributi propri del Demiurgo, non esclusa la piena potestà sul genere umano.
Satana è il principe di questo mondo, il sovrano della natura, l’arbitro degli istinti sessuali, l’ispiratore degli oracoli, l’inventore dei misteri, nei quali è la parodia dei sacramenti, l’autore dell’idolatria; egli, insomma, incarna la potenza del male e riveste gli aspetti dell’A ura-Mainyu persiano. Il dualismo, escluso a parole, rimane nella sostanza; e tra Satana e Dio è una vera guerra, guerra implacabile c diuturna, la quale avrà il suo epilogo alla fine del mondo.
Date queste dottrine e riconosciuta al Maligno potestà piena sulla natura e sul genere umano, era ben naturale che l’opera soteriologica di Gesù dovesse sopratutto apparire come una liberazione dal potere del demonio, onde non è a meravigliarsi se ingegni poderosi, quali Ireneo ed Origene, si studiassero di confortare con testimonianze bibliche la teoria del riscatto dai dritti di Satana, tanto conforme alla psicopatia demoniaca da cui erano allora travagliati gli spiriti, e attorno a cui la corpulenta fantasia degli scrittori cristiani si compiacque d’intessere una trama di situazioni buffe e d’incidenti bizzarri.
Accennata, come abbiamo visto, da Origene, e svolta ampiamente da S. Girolamo, da S. Agostino, da S. Leone, ecc. (i), la dottrina del riscatto può riassumersi in brevi termini, seguendo V Or alio catechetica di S. Gregorio di Nissa, nella quale forse è la più completa e logica esposizione.
Ed ecco come il Nisseno ragiona: « Nessuno dubita della bontà, della saggezza e della giustizia di Dio. Or, poiché il demonio, dal giorno in cui Adamo si lasciò indurre al peccato, acquistò sul genere umano ogni dritto, giustizia richiede che siffatti diritti non possono annullarsi con la violenza, ma bensì con un riscatto, il quale, come è ben naturale, deve superare in valore la cosa riscattata. Prezzo di questo riscatto pertanto non può essere altro che il Figlio di Dio, il quale per l’appunto si costituisce volontariamente XórpwaK Guva)àayp.aTiy.^ (2) ».
Ed è qui, nel modo in cui questo riscatto si compie, negli espedienti, di cui Dio si serve per raggiungere il suo scopo, che scaturisce una larga vena di comicità, che, mentre ci sforza al riso per la besaggine, di cui dà prova il demonio, non ridonda di certo a gloria della maestà, del decoro e della sapienza divina.
Iddio, per pagare il prezzo del riscatto, manda bensì in terra il Figliuol suo, ma ne nasconde la divinità in un corpo umano. Il demonio, che nulla sa di questo agguato, testimonio dei miracoli di Gesù, comprende bene che questo taumaturgo ha una missione straordinaria da compiere, ma non può supporre giammai che
(1) I. Riviere, op. cil.; A. Harnack, Storia del dogma, trad. ¡tal. Mcndrisio, 1913, voi. Ili, pag. 365 e segg.; I. Tixeront, Histoire des dogrnes, Paris, Lecoffre, 1909, voi. lì, pag. 295 e segg.
(2) Oralio catechetica, 22, 24, 26.
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SATANA NELLA DOTTRINA DELLA REDENZIONE
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egli sia proprio il Figliuolo di Dio, venuto per redimere l’umanità. Gesù agli occhi di Satana è un profeta pari a Mosè o ad Elia, epperò, per liberarsi da siffatto avversario, aizza i Giudei a metterlo a morte; morto, corre per impossessarsi dell’anima di lui, ma a guisa di un pesce vorace che ignora l’amo a cui resterà preso, rimane prigioniero della sua stessa preda.
A questo punto la speculazione teologica del riscatto si fonde con la leggenda del Descensus Christi ad infcros, ultima trasformazione di un primitivo mito solare babilonese penetrato nel Vecchio Testamento e fiorito, attraverso una lunga elaborazione fantastica, nel Vangelo di Nicodemo (1).
Come Marduk, come Istar, nella loro discesa all’Arai hi, così anche Gesù, discendendo, dopo morte, all’inferno, compie prodigi che dimostrano la sua divina natura. L’opera soteriologica di lui assume i caratteri di una vera azione drammatica, la quale si colora vividamente non solo nella fantasia del grossolano romanzatore ignoto che ci lasciò il Vangelo di Nicodemo, ma ancora nell’eloquenza dei Padri più autorevoli. La morte, il demonio, le schiere infernali, le anime dannate, gli spiriti eletti, le ombre dei SS. Padri, l’anima di Gesù, le coorti angeliche, dotati ognuno di vita e di sentimenti propri della loro natura e della loro missione, muovendosi nel tetro sfondo di A verno, illuminato, aH’apparire di Gesù, di una luce celestiale, intrecciano episodi ridevoli a diatribe volgari, che richiamano alla nostra mente taluna delle commedie di Aristofane, in cui la pietà sdrucciola nella burla più grossolana.
Raccogliamo dalla bocca dei SS. Padri qualche squarcio di quel dramma curioso.
« All’arrivo di questo personaggio (Gesù), su cui i legami dell’inferno non avevano presa alcuna, la Morte, dice S. Cirillo di Gerusalemme, rimase atterrita. Perchè, o custodi del tenebroso regno, vi siete lasciati vincere dallo spavento? La Morte sen fugge, e corre dietro a lei turba innumerevole ».
Accorrono, intanto, d’altra parte, i santi patriarchi: Mosè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Davidde, Samuele, Isaia e Giovanni Battista, che, rivolto a Gesù, l'interpella: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare alcun altro?... (2).
In un sermone, falsamente ascritto a S. Agostino, l'autore si compiace di mostrarci le legioni del Tartaro sconcertate e in iscompiglio all’arrivo inaspettato di Gesù. « Chi è, dicono esse, questo guerriero che si avanza avvolto in un nembo di luce? Giammai spettacolo simile si presentò agli occhi nostri... Evidentemente egli viene per distruggerci, non mai per rimanere presso di noi... Ha egli fatto alleanza col nostro capo o è dopo una lotta fortunata contro di esso, che ora arriva qui? Ma egli ha subito la morte: è stato vinto. Il nostro duce, adunque, è stato ingannato. Non ha previsto il disastro che preparava all’inferno la croce ingannatrice? Il legno fu causa della nostra fortuna, ma il legno oggi manda in rovina la nostra potenza» (3).
(1) C. Vitanza, La leggenda del « Descensus Christi ad inferos •, Nicosia, Tip. del lavoro, 1911.
(2) Catech., XIV, 19.
(3) Append. Aug. Sermon., 160, 2, 3.
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Lo stesso autore fa, altrove, di Gesù all’inferno un nuovo Alcide, che strangola orsi ed abbatte leoni (i).
NeirEvflngtfZo di Nicodemo il dramma acquista proporzioni grandiose; l’inganno di Satana dà luogo a scene alquanto ridevoli che si chiudono con la cattura del poco accorto demone, il quale, stretto il collo da ferrea catena, è trascinato pel Tartaro e finisce quasi col rimanere strozzato dal piede di Gesù che gli calca la gola (2).
Dai brani riportati, la pia fraus, come S. Agostino l’appella, ordita da Dio ai danni di Satana, è manifesta. L’antico ingannatore, che esulta nel vedere il profeta di Nazareth discendere nei bui regni della morte, cade vittima di un inganno, che la sua astuzia non sospetta neppure. Facendo morire l’uomo Gesù, non si accorge della divinità nascosta dentro l’involucro della carne e inconsapevolmente commette un abuso di potere, che Dio punisce col togliergli i diritti acquisiti sul genere umano. La croce, quindi, come S. Agostino la chiama, è stata la trappola (muscipula) in cui Satana è caduto; l’umanità di Cristo, come dice S. Gregorio, è stata l’esca, e la divinità di lui l'amo, a cui il pesce-demonio ha abboccato (3).
Or bene questo Dio che giuoca così astutamente Satana quasi con le stesse armi subdole di lui, non scende forse sotto il livello della comune degli uomini?
E se si considera che se egli architetta una simile trappola, ciò fa appunto per non ledere la sua giustizia nei riguardi coi diritti di Satana, chi non vede quanto non diventa grottesca la figura di lui, che, per conservarsi rigidamente giusto, si tramuta in un gaglioffo burlone?
La maestà dell’Eterno, che noi siamo abituati a contemplare troneggiante nell’Olimpo sereno e luminoso di Omeio o nell’Empireo sfolgorante dell’Alighieri, si è trasfigurata in una di quelle comiche deità del teatro greco-romano che pensano, parlano, agiscono come i peggiori palmipedi dell’imbroglio aggirantisi per l’Àgora tumultuosa o pel Foro fallace.
E si badi che qui non è l’entusiamo orgiastico di un volgo scherzevole debaccante attorno al carro di Tespi o l’umorismo giocondo e licenzioso di una plebe rustica gaudente al rezzo di un’annosa quercia sotto il cielo felice della Campania, che trasformano il mito sacro nel ditirambo fallico portante i germi del teatro di Eschilo e di Aristofane o ncH’amebco scurrile e mordace del rozzo fescennino o nelle
(1) Tunc cnim leonem et ursuni strangolavi^ quando ad inferno descendens onines de coroni fauGibus liberavit. Serm. 37, 4.
(2) C. Tischendorf, Evangelia apocrypha, Lipsiae, 1876, pag. 429.
(3) Della redenzione concepita come una pia fraus macchinata da Dio ai danni di Satana, credo si riscontri la più antica traccia ne\V Epistole di S. Ignazio. In questo senso interpreta un brano AeìV Epistola agli Efesii, S. Girolamo, il quale per altro accettò la dottrina del riscatto: Ut pàrtus cius (Mariae) cclarclur diabolo, dum euni (Christum) pulat non de virginc sed de uxore gencratum (Comm., in Mallh., Cap. I). Il testo d* Ignazio però ò assai più esplicito e completo di quanto S. Girolamo ci lascia comprendere. In esso la pia frode è seguita in tutti i momenti più culminanti: virginità di Maria, nascita di Gesù e morte di lui, come Figliuolo di Dio, tre misteri occulti al Principe di questo mondo, che avrebbero susci tato grande clamore, se palesi, ma che si compirono nel silenzio. K«ì ikaStv tìv fyxcvva "«5 atfrn; tsvvsv t. ffapSivia Massa; zat i tszsts; aù?£;, óasiw; zat ó Sàbati; to5 Kuptov, Tpta auatzpa z^av^z;, fava iv ÌGj/.ia i^oay.Sz. Ep. ad Ephes., Cap. XIX. Vedi pure Proto-evangelo di Giacomo, in Thilo, Cod. Apoc., 256 e Clem. Aless., Fragni., 74, ediz. Potter, 986.
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buffonerie drammatizzate dèlia Satira e dell’Atellana. La commedia indegna che rappresenta Dio nel riscatto dai dritti di Satana, è immaginata dai più ferventi zelatori della cristiana pietà, il che conferma quanto acutamente osservò P. De Saint-Victor, a proposito della commedia di Aristofane, che le religioni tollerano anche la sceda più volgare, e solo una cosa detestano: il dubbio scientifico (1).
Se lo spirito arguto di Luciano, a mezzo il secolo 11, avesse avuto sentore di questa dottrina del riscatto, allora poco divulgata e in via di formazione, io credo che ne avrebbe di certo tratto buon partito per qualcuno di quei suoi Dialoghi così riboccanti di arguzia e di mottegio.
Quello però che non fece Luciano con la sua satira demolitrice, lo fece inconsapevolmente e scevra d’intenti sacrileghi, a pascolo di una stolta divozione, la corpulenta fantasia popolare del primo medio evo.
In un’epoca di credulità infantile, quando la teologia impera sovrana di mezzo a tante stirpi uscite appena dallo stato selvaggio e invase da sacro terrore per l’unica autorità che allora dominava incontrastata, la Chiesa, non è a pensare che le fantasie ammalate di quelle anime primitive, facendo operare brutalmente o stoltamente Dio, volessero metterlo in dileggio, come aveva fatto lo scrittore di Samosata.
La figura dolcissima del Padre celeste, rivelatasi negli Evangeli, aveva perduto, vista attraverso le lenti di una fede paurosa, la sua sagoma d’ineffabile bellezza ed aveva assunto gli orridi contorni di Odino, di Votano, di Loki, di Thòr e di tutte le altre divinità mostruose degli Olimpi barbarici. Il Dio crudele ghignante e sub-sannante dall’alto sullo spasimo atroce del vivo carnaio della Gehenna, il Dio inumano che predestina a suo capriccio alla felicità deH’Elisio o alle pene dell’inferno, il Dio mariuolo che giuoca Satana e si fa beffe di lui, corrispondeva perfettamente alla naturai ferocia e al senso morale inferiore di quelle razze mongole, finniche, germaniche, che si erano rovesciate sul mondo romano e che, nella loro miseria psichica, non riuscivano a concepirne altro migliore. Ogni degradazione etica del-l’Assoluto, la quale oggi ripugna così fortemente al nostro libero esame, non era allora l’effetto di sacrilega empietà, ma il naturai portato di quella funzione psicologica, che il Wund appella appercezione personificante, dalla quale derivano le rappresentazioni antropomorfe degli dei (2).
Eguale processo di trasformazione inconsapevole però non subisce in quelle stesse coscienze avvilite e ottenebrate la figura turpe ed atroce di Satana.
Tutto che gli spiriti fossero invasi da una vera psicopatia demoniaca che investe ogni manifestazione della vita dei tempi di mezzo, onde l’orrore che agghiacciava le anime per la presenza del Maligno e pei suoi commerci col mondo si rinnova anche oggi dentro di noi quando ci affacciamo a quell’arsenale di torture e di supplizi spaventevoli fabbricato dal fanatismo superstizioso a cagion d’incubi e di succubi, di sabati infernali e di streghe, di sortilegi e d’incantesimi, pure, in
(1) Paul De Saint-Victor, Les deux Masques, Tragédie, Comédie, Paris, Caïman, Levy, 1883, vol. Il.pag. 473.
'(2) G. Wundt, Compendio di psicologia, trad. ital. di L. Agliardi, Torino, Clausen, 1900, pag. 246; C. Vitanza, Linguaggio, mito e religione, Catania, C. Battiate, 1907, p. 21 e segg.
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mezzo a siffatti tormenti spirituali e corporali, l’incoercibile ingegno umano, esinanito e pervertito dall’ascetismo trionfante, si desta tavolta dal suo letargo e sa trovare in sè la forza di volgere in argomento di beffa e di dileggio quello stesso soggetto che gli è cagione di terrore e di strazio. La figura orrenda di Satana, innanzi a cui primamente gli uomini impietrarono di spavento, perde a mano a mano i caratteri della sua mostruosa ferocia. A poco a poco, scrive Viollet le Due, sui monumenti, sulle carte alluminate egli viene assumendo contorni meno terrificanti; il suo tipo è spesso ridicolo, più depravato che spaventoso; la sua fisonomía più ironica che selvaggia e crudele; spesso egli inganna, ma spesso è a sua volta truffato (r). Anche dalle denominazioni che va acquistando col volger del tempo, si argomenta ch’egli non è più quello di prima. Fanfaricchio, Ticchi-Tacchi, Berlicche, Fistolo, ecc., son nomi fatti per chi è da burla anzi che da spavento.
Quali trasformazioni abbia subito la figura mostruosa di Satana, quale ricca trama di leggende abbia saputo intesservi attorno l’attività immaginifica dei tempi di mezzo, dimostrarono assai diffusamente il Graf col suo: Il diavolo e il Roscoff colla sua Geschichle des Teufels, soffermandosi a studiare in tutti i reparti della miseranda clinica psicopatica medievale.
E uno dei tratti più curiosi della storia satanica, il quale merita la nostra attenzione, ci vien fornito dalla dottrina teologica del riscatto drammatizzata primamente nella leggenda del Descensos Christi ad inferos, quale la troviamo nel Vangelo di Nicodemo, e rimaneggiata poi più o meno comicamente presso tutta quella letteratura medievale, che subì l’influenza dell’Apocrifo (2).
E già, sin dal secolo vii, quando l’omiletica della Chiesa greca, trasformatasi in una ricostruzione più o meno drammatica della vita di Cristo e dei santi, finisce col dar origine al teatro sacro bizantino, a cui gli apocrifi e le agiografie apprestarono in gran parte il materiale drammatico, la sougithd siriaca la forma dialogica e forse anche il ritmo poetico (3) e il mimo popolare gli spunti e i sali realistici (4), la dottrina del riscatto dai diritti di Satana fu feconda assai di scene e di situazioni comicissime, in cui rivivono, talvolta, sotto mutato nome, i tipi tradizionali dell’arte classica e popolare.
Tra le poche reliquie di quel teatro che, per ragioni le quali non è qui il caso di esporre, si trovano ormai sperdute e manomesse nel caos dei zavr.yupwcá degli omeliari comuni, scegliamo una trilogia drammatica che non ha guari uno studioso della letteratura bizantina è riuscito con molto acume a ricostruire nei suoi tratti
(1) Viollet Le Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XII siècle, Paris, 1875, alla voce Diable; F. Wright, Histoire de la caricature et du grotesque dans la littérature et dans l’art, Paris, 1903, pag. 69 e segg.
(2) Wuelcker, Dos evangelium Nicodemi in der abendländischen Lilteratur, ecc., Pa-deborn, 1872; William H. Hulme, The old English «Gospel of Nicodemas», in Modem Philology, Chicago, aprile 1904, vol. I, pag. 579 e segg.; A. Maury, Croyances et légendes de l'Antiquité et du Moyen âge, Paris, 1863, pag. 326 e segg.; F. Roediger, Contrasti antichi, Firenze, 1887, pag. 49 e segg.
(3) R. Duval, Littérature Syriaque. Paris, Lecoffre, 1907, pag. 16 e segg.
(4) H. Reich, Der Mintus, Berlin, 1903, pag. 140.
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più salienti, esumandola da alcune* delle omelie di Eusebio Alessandrino e di S. Gregorio Taumaturgo (1).
In questa trilogia, a cui potrebbe darsi il titolo «spi -rifa oizovop.ia;, l’azione scenica riproduce tutta la missione sotcriologica di Gesù, quale si desume dagli Evangeli e dagli Apocrifi e come richiede la dottrina teologica del riscatto.
Sin dalle prime scene ben si comprende che tutta quanta l’azione drammatica è impostata sull’inganno che Dio ha ordito ai danni di Satana.
Presentandosi, infatti, Gesù a Giovanni per riceverne il battesimo, gl’impone anzi tutto di far il più assoluto silenzio sulla sua natura divina, appunto perchè il nemico non sventi i piani dell’Eterno: 05 $éXw osti; sìjm. Il demonio però,
che s’è messo in sospetto, non sa darsi pace: oùz r.SóvaTO diviene cogitabondo, rivolge a se stesso parecchie domande alle quali non sa trovare una risposta rassicurante e le sue preoccupazioni e i suoi timori si traducono in una serie di esclamazioni che lo rendono ridicolo c divertente: Ti; sere o&ro;; Toùvov ofòa sz Mapia; ysmSévra, zzi tòv warspa aùroG tsztovz olàa. Mr apa ovtó; sgti ó Xpitrró;... zzi oùzi {/.oi ore za-razs^avrac p.Oc z Sóvayz; (2).
Per uscire da questo dubbio angoscioso, mette in opera ogni mezzo: avvicina Gesù e lo tenta descrivendogli con una eloquenza irresistibile le seduzioni del potere e commiserandone la povertà. Ma Gesù tien duro, vince la prova, mentre il coro protesta altamente contro il demone malaccorto e imprudente: Ti Xéysi;, oSXis, w oiapoXe, ecc., ecc.
Vistosi fallire questo primo tentativo, Satana escogita nuovi attacchi, e pria di tutto si sbarazza del molesto Battista, il quale, discendendo al Limbo, porta ai Patriarchi, che n’esultano, la lieta novella del prossimo arrivo del Salvatore.
L’Orco intanto che, all’arrivo di Giovanni, ha osservato un insolito movimento tra i reclusi, ne domanda la ragione al demonio, il quale, gloriandosi, gli racconta le sue gesta e novello Pirgopolinice, come ben nota il La Piana, fanfarone e vanitoso, piglia impegno che condurrà prigioniero il preteso Messia, nulla ostante i prudenti consigli dell’Orco, materiati dei più antichi e comuni aforismi della sapienza popolare: BXsws, àdsX<ps, v.z”6>; SéXovrs; zyav zepS^cai, àwavrwv ecc. ecc.,
e prima ancora: Ts zoivcùvzgs'. x&rpa "P^S Xs^z^a ;
Fermo nel suo proposito. Satana induce Giuda a tradire Gesù, quale, preli-sago della prossima fine, orante nel Getsemani dà sfogo all’infinita ambascia del suo spirito ed esclama: IIspiXvwó; sorcv z Savàrou. Queste parole sono
pel demone una rivelazione; ormai egli è sicuro del fatto suo; Gesù ha confessato egli stesso di esser soggetto alla morte. Lieto di questa scoperta, va a trovar l’Orco, gli annunzia l’imminente trionfo, e poiché al solito si compiace di millantarsi, accenna con rammarico, tra le altre sue imprese, alla risurrezione di Lazzaro.
All’udire questo nome l’Orco dà un balzo per lo spavento. Sino a quest’ora egli non sa che Gesù, sul quale il demonio vuol mettere le mani, sia proprio quello che
(1) G. La Piana, Le rappresentazioni sacre nella letteratura bizantina dalle origini al secolo X, ecc.. Grottaferrata, 1912, pag. 72 e segg.
(2) Migne, P. G., LXXXVI, col. 372 e segg. .
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sottrasse Lazzaro dai suoi domini, così che, conosciuto con chi si ha da fare, dà in ¡smanie e si rifiuta di accettarlo nel suo regno: ’EzsTvó; sgtiv Sgt^ tóts tòv Aó^apov zpwtGSv; èàv szsTvó; sgviv, sXstjgóv jts àyày/j; aùvòv èvraOSa... ’EzsTvov èvrauSa
zaTazXstcat où Sóvap.ai.
Qui la scena si vivifica alquanto, giacché si determina tra i due personaggi infernali un contrasto vivissimo, il quale con leggere modificazioni si è perpetuato nelle letterature lirico-drammatiche d’occidente (i).
Il Demonio, irato, apostrofa prima coi più ingiuriosi epiteti il suo compare: SssXè àvavSps zac òkcyó’k^s ; cerca poi di persuaderlo con le buone, ma quegli tien duro e accenna a cedere soltanto allora che ha pensato che in ogni caso è il demonio il quale farà le spese: èàv Ss vczTjSifó, spierai èvraQ^a, zac ézJfóXXsc oùc zszXscg-v.svg'j;, zac tots &qgsc gs zac tov; ùzovpyoó; gou ’louSac'ou;, zac zapaSwGSc óy.a^ ¿poi...
Giuda, intanto, ha compiuto il suo tradimento e Gesù è condannato e messo a morte. Satana che lo ha visto morire ed ha assistito ai prodigi che hanno accompagnato l’ora suprema della scena dolorosa del Golgota, preso da spavento, corre al-l’Orco e ne invoca l’aiuto. Ma ecco che Gesù s’avvicina; ló precedono le Virtù, gli Angeli, le Potestà, che reclamano che si aprano le porte dell’inferno.
L'Orco non sa che fare; impreca al demonio, si rifiuta sdegnosamente di dargli aiuto, e intanto il Redentore è giunto, le porte vanno in frantumi e l'angelica schiera entra in trionfo cantando: flou gou Savane, tò zsvrpov; %ou gou ’'Acòti tò vczo$; mentre i Patriarchi, ormai liberati, levano un inno di grazie a Gesù.
Precede la fine della trilogia una scena comicissima, che, come i contrasti di Gesù con Satana e di Satana con l'Orco, è passata nel teatro sacro di occidente.
Dopo che il Demonio è stato legato e buttato in una bolgia di fuoco, i Patriarchi si avviano al Paradiso. Quivi arrivati, s’imbattono innanzi alle porte in un assai brutto ceffo. È il buon ladrone. Il suo viso non dà troppo affidamento; quelli riconoscono l’uomo e meravigliati gli domandano: Chi ti portò qui? Come sei venuto? Ah, sci venuto per rubare, per rubare anche qui? E non ti bastò di aver rubato in terra, vuoi anche rubare in cielo? ... Mr, GuX^Gac tà òSs xapaysvou; oùz ¿p^sgSti; twv szcysccov, àX).a zac tì ¿zoupàvea àpizacac £s).sc$.
Il buon ladrone però dà contezza dell’esser suo narrando la sua fine fortunata, ed allora tutti in coro levano a Cristo redentore un inno, che chiude l'azione drammatica.
Tralasciando d’indagare come e in qual misura le sacre rappresentazioni bizantine in genere e la trilogia anzi esaminata in ¡specie abbiano influito sullo svolgimento del teatro religioso nelle letterature anglo-sassoni e neo-latine, diciamo soltanto che la teoria dogmatica del riscatto dai dritti di Satana, passando dal dominio della speculazione teologica dei Padri e dei Dottori in quello della libera fantasia popolare, penetrò anche nella trama del dramma liturgico quale si sviluppò nei paesi d’occidente, e si colorì in modo diverso a seconda delle diverse tendenze e delle naturali disposizioni delle genti presso le quali quell’umile ed incondita forma del teatro si svolse.
Presso il nostro popolo, che, nel suo spirito equilibrato, fu sempre alieno da ogni intemperanza,, il tiro truffaldinesco, di cui Satana cade vittima, servì a scopo
(i) Roediger, Contrasti antichi, Firenze, 1882.
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di santo diletto, come fu nella Devotione del Limbo (1386) ricordata nei libri del-l’arciconfraternita dell’Annunziata di Perugia (1), nella Lauda del Sabato santo dei codici Perugino e Vallicelliano (2), e nella Devotione del Venerdì Santo, scoperta dal Monaci e ripubblicata dal Torraca (3).
In questa Devotione, ispirata, nella sua semplicità e freschezza di sentimento, a veri sensi di cristiana pietà, l’ingenita euritmia del genio italico non smentisce se stessa, e la dignità di Dio Padre e di Gesù non è affatto compromessa da nessuna di quelle situazioni comiche e licenziose diableries che contrastano sconciamente coll’austera gravità del dramma sacro. Il demonio stesso, nella sua umoristica figura di truffatore truffato, sa contenersi in tanta compostezza da suscitare in noi più che uno scoppio di risa, un sentimento di commiserazione.
Introdotto, per impossessarsi dell'anima di Gesù, negli ultimi istanti in cui questi ringrazia il Padre che gli ha dato la forza di compiere tutte le profezie, mette in opera le sue arti seduttrici e con voce umile dice rivolto al morente:
Multo mi meravelgio in ventate che ài tanto signo de descrecione. De te aza un poco de piotate. Che per salvare l’humana generazione Sostene tanta crudelitate Et pene assai con grande dolore.
Descende de la cruce e salva a tine. Et tuto lo mondo lasa a mine.
E poiché Gesù respinge la tentazione e minaccia d’incatenarlo e di ridurlo fra breve all’inferno, egli, ignaro tuttavia della natura divina del Redentore, lascia da parte le lusinghe e grida:
L’anima tua a lo inferno portarazo, Dove será forte tormentata.
De zo che me ài fato me vendicarazo Quanto será de lo corpo cazata. Contro de ti sempre serazo. La tua persona è tuta abandonata Et tu te morirai in questa ¡ornata. Et averazo lo mondo senza spaia.
Rincalza il morente nelle sue minaccie, e promette che fra non guari scenderà al Limbo per liberare le anime dei SS. Padri, ma il demonio, sicuro del fatto suo, non se ne dà per inteso e ribatte:
Le tue parole sono senza fruto, Che de le mie mane te cride campare Ne la cruce stai tuto roto. Lo mio consilgio no’ volgi pilgiare. Tu vidi che si abandonato in tuto Et niente de te, me dezo curare, Ché lo Limbo ho bene serato. Et non pori da ti esere spolgiato.
(1) A. D’Ancona, Origini del teatro italiano. 2a ed., Torino. Loescher, 1895, voi. I. P-2o8. (2) Galli, Laudi inedite dei disciplinali umbri. Bergamo, 1910, pag. 60-71.
(3) F. Torraca, Il teatro italiano dei sec. XIII, XIV e XV, Firenze, Sansoni, 1885, pag- 65 e segg.
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Cristo risponde ancora minacciando, ma subito dopo è colpito da Longino che, infertogli il ferale colpo di lancia, ne riconosce la natura divina, s’inginocchia e grida:
Veramente tu si lo filgiolo de Dio Che de male in bene m'ài remunerato. Ai me renduto lo vedere mio!
Imperò sempre si’ magnificato: Io ti adoro con grande reverencia Perchè tu si la divina clemencia.
Dopo questa confessione e l’estreme parole di Gesù al Padre, anche il demonio riconosciuta la divinità del crocifisso, si getta a lambocconi in ierra, lo adora e si dà per vinto. Quel che avviene di poi, cioè la discesa di Gesù all’inferno e la liberazione delle anime dei SS. Padri avrà formato certamente oggetto della Dcvotione del Limbo, che non è arrivata fino a noi, ma di cui possiamo senza dubbio argomentare la sobrietà e compostezza di svolgimento, dato il naturai buon senso del popolo italiano e tenuto conto dei caratteri intimamente pii delle sacre rappresentazioni umbre, dalle quali le drammatiche composizioni a versane principalmente dipendono (i).
Alquanto liberamente, forse per gl’influssi ch'ebbe a risentire dal teatro sacro francese (2), è condotta l’azione in quel dramma ciclico della Passione, rappresentato in Revello nel 1470, nel quale insieme a molte altre scene che ci richiamano alla memoria la trilogia bizantina anzi esposta, troviamo riprodotta con leggere modificazioni anche quella del Buon Ladrone alle porte del Paradiso:
Un va tu compagno? Tu ci vieni indarno
Imperò che tu ay chiera prioprio d’un ladrone, ecc., ecc. (3)
Ben diversamente e senza riguardo alcuno ai freni che avrebbe dovuto suggerire la pietà, fu trattato lo stesso argomento fuori di noi, tra genti prive del senso della giusta misura e del buon gusto del popolo italiano, presso le quali, per altro, fermentava il lievito di quella rivoluzione spirituale che culminò nella Riforma.
In quasi tutti i drammi liturgici del ciclo pasquale, rappresentati in Francia, in Inghilterra e in Germania, come può vedersi dalla più recente e completa raccolta fattane da M. K. Lange (Münich, 1887), riscatto dai dritti di Satana vien travestito assai burlescamente e divarica spesso in una buffoneria scomposta, allorché dalle scene pietose del Calvario si passa bruscamente ai plebei calembours e ai lazzi volgari di cui era condita la discesa di Cristo all'inferno.
Non è quindi a meravigliarsi se l’autorità ecclesiastica, verso la quale del resto non si usavano, durante lo svolgimento della favola diammatica, tanti riguardi, fosse costretta a intervenire, come fece spesso, per proibire i ludi thealrales (4).
In un Mistero tedesco, che appartiene probabilmente al secolo xm, il riscatto si svolge tra situazioni così comiche e burlesche, che ci sembra d'assistere ad una vera e propria parodia della sacra leggenda del Descensus Christi ad inferos.
(1
(2 (3
(4
E. Torraca, op. cit., pag. xx.
A. D’Ancona, op. cit., voi. I, pag. 307 e segg.
La passione di Revello, edita da Pronis, Torino, Bocca, 1898, pag. 503.
A. D’Ancona, op. cit., voi. I, pag. 49 e segg.
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Il Cristo, per liberare le anime dei giusti che ha riscattato dal demonio col suo sangue, scende all’inferno accompagnato da uno stuolo di angeli, i quali intuonano il Toltile porlas, principes, vestras, ecc., in una strana mescolanza di latino biblico e di tedesco: Toltile porlas principes vestras Ihr hollefùrslen thul auf das thor Der kbnig der ehrcn ist davor. (i).
Intanto, come avviene nella discesa di Cristo al Limbo presso V Evangelo di Nicodemo, Lucifero ordina che siano fortemente barricate le porte, le quali, senza che si dica, si spalancano da per sè stesse innanzi al vincitore, onde escono fuori, liberi ornai, gli spiriti di Adamo, di Èva. di Mosè, di Davidde e degli altri antichi Padri. A questo punto, però, l’autore che,di mezzo alla tetra caligine della notte medioevale, mira profilarsi lontano i primi albori della rinasenza, si sente invaso da uno strano fremito di ribellione e atteggia, di fronte alla sacra leggenda, le labbra ad un sorriso scettico che incoraggia la varia turba degli astanti a levare un brutale cachinno profano.
Spalancatesi le porte dell’inferno, fuggono commisti alle anime dei giusti molti spiriti dannati. Lucifero li rincorre, molti ne acchiappa e violentemente li ricaccia nelle tumide bolgie. Anzi, poiché Satana, il quale è qui un personaggio diverso da Lucifero e quasi un suo dipendente, vede il principe del tenebroso regno crucciato per la perdita di tante anime, per compensare tanto danno, esce fuori, va attorno per la terra, fa una buona retata di peccatori, li adduce al suo signore e si compiace di tessere singolarmente la losca storia di essi materiata di delitti e di truffaldinerie.
Un papa apre la serie, e giù giù si scende sino al gregge anonimo degli scagnozzi, dei parassiti, dei ruffiani, delle meretrici e dei più luridi arnesi della suburra e degli angiporti, che fanno le spese deH'incomposto e rude cachinno plebeo.
In un rifacimento dello stesso Mistero, posteriore di qualche secolo, l’irriverenza è più grave, e la burlesca rassegna dei peccatori assume le proporzioni di un vero saturnale profano e petulante.
Lucifero, addolorato per la sconfitta subita, si volge a Satana chè lo soccorra: Sathan, Sathan
Min vii lyber kumpan, lauf hen Keyn Anian brenge mir der babesl und kardenal patnarchen und legai dy den luten geben bosen rat, Konig und Keiscr dy brenge mir alle zu male hcr grafen und fursten dy darf nicht hergelusten riltere und knechle
dy siiti mir alczu mal rechte... (2).
(x) « Aprite, o Principi dell'inferno, le vostre porte, chè il Re della gloria è costì ». Vedi Devrient, Geschichtc der Schauspiclkunsl, pag. 67.
(2) « Satana, Satana, mio carissimo compagno, corri su ad Avignone, portami il papa o il cardinale, il patriarca e il legato, che dànno alle genti tristi consigli, il re e l’imperatore, portameli tutti qua: conti e principi, che qui non se la godranno; cavalieri e scudieri, che mi vanno egualmente bene ». Vedi Devrient, ofi. cit., pag. 70. Per i versi riportati e trad. di essi, vedi T. Massarani, Storia e fisiologia dell'arte di ridere, Hoepli, Milano, 1900, voi. I, pag. 291, 389.
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La giusta posizione delle scene riproducenti le pietose leggende bibliche e cristiane a quelle improntate ad un realismo crudamente volgare, l’oscuro connubio del sacro col grottesco, mentre, in genere, formano uno dei caratteri comici dei più tardi misteri (1), qui tramutano il dramma religioso in una vera parodia delle cose e delle persone più sacre.
L’oscuro naturalismo del popolo macerato per tanti secoli dalle astinenze e dai rigori dell’ascetismo, compresso sotto la cenere dalle superbe autorità teocratiche e imperiali, lingueggia alfine, avvolgendo in una vampata beffarda tutto ciò che sino allora vi era stato di più sacro ed intangibile: la religione, il pontefice, l’imperatore, i re, i signori, la gente di Chiesa.
Il contenuto ascetico del dramma liturgico è svanito; lo spirito popolare immaginoso, salace, pratico, se pur non è riuscito a trasformare in opera d’arte la tetraggine dei simboli ieratici spostati dagli altari sulla scena, ne ha fatto però, direi quasi, un fescennino allegro e smoderato, che preludia la ribellione aperta agli ideali del medio evo che tramonta per sempre, e preannunzia l’alba rosata di un mondo nuovo e l’affermazione di un nuovo contenuto della vita.
E qui mi sia lecita un’osservazione sullo svolgimento del teatro moderno in Italia e fuori.
Un critico eminente, il D’Ancona, studiando l’evoluzione storica del teatro italiano, dopo di avere dimostrato come le prime produzioni drammatiche nostre, V Orfeo del Poliziano, il Caephalo di Nicolò da Correggio, il Timone del Boiardo, la Sofonisba di Galeotto del Carretto, fossero più o meno modellate sullo stampo delle sacre rappresentazioni, azzarda l'ipotesi, condivisa anche da qualche autorevole storico della nostra letteratura, (2), che se in mezzo a noi fosse sorto, come avvenne altrove, un uomo di genio che avesse arricchito quel teatro popolaresco di un contenuto veramente drammatico, e lo avesse avvivato col soffio del sentimento e con l’analisi dei caratteri, quella materia, rimasta allo stato amorfo, si sarebbe di certo potuto trasformare in opera d’arte (3).
Il D’Ancona e molti altri con lui trovano nel prevalere del teatro classico ristorato dalla rinascenza la causa prima del decadimento della sacra rappresentazione, la quale se, tra noi, non si fosse incontrata, dicono, in siffatto ostacolo, non si sarebbe intristita nel languore dei presepi e degli oratori in uso dei monasteri e dei collegi, ma si sarebbe svolta piuttosto alla stessa guisa in cui si svolse il teatro greco, i cui germi, soggiungono, possono perfettamente equipararsi ai drammi liturgici medioevali.
Or bene, con tutto il rispetto dovuto al compianto maestro dell’Ateneo Pi sano, io mi permetto di dissentire da lui e da quanti, dietro l’incontrastata autorità del suo nome, ne hanno seguitoci giudizio intorno allo svolgimento del nostro teatro.
Non dico col Massarani che anche quando gli esemplari classici non avessero preso il sopravvento sul dramma liturgico, non c’era nella vita italiana del rinasci(1) W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, Halle, 1893, Pag- 64-69: M. Wil-motte. La naissance de 1‘élément comique dans le théâtre religieux, Paris, 1900.
(2) V. Rossi, Il quattrocento, Milano, Vallardi, pag. 212.
(3) A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, 2* ed., Loescher, 1895, V<>1- H pag. 2 e segg. e vol. II, pag. 7 e segg.
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mento succo bastevole ad alimentare un teatro prettamente moderno e nazionale, da poiché ^individualismo predominante aveva tra noi fatto smarrire ogni senso di moralità e di decoro (1).
La mancata evoluzione del dramma liturgico non è dovuta, secondo io credo, a cause esterne, quali potrebbero essere il prevalere degli esemplari del teatro classico o le mutate condizioni della vita italiana dei secoli xv e xvi, ma alla costituzione intima del dramma sacro stesso, specialmente come si svolse tra noi, alla sua impotenza organica a tradursi in opera d'arte. Coloro i quali amano stabilire un’equazione tra la storia del teatro greco, sorto, com’è noto, dalla leggenda sacra trasformata in creazione estetica, con quello che avrebbe dovuto essere lo svolgimento naturale del teatro italiano, non hanno prestato attenzione alle diversità profonde e sostanziali che intercedono tra il Cristianesimo e la religione greca, tra i miti del-l’Ellade, formazione spontanea della mobile fantasia dei poeti, e i misteri medioevali resi immobili nel loro simbolismo liturgico dalle pastoie del dogma o dalla rigida censura dell’autorità chiesastica, custode e vindice della tradizione e nemica di ogni novità.
« In Grecia, scrive un critico illustre, il Trezza, oggi a torto dimenticato e vilipeso talvolta da una critica settaria e ciarlatana, fatta di vesciche metafisiche e di freddure balorde (2), in Grecia, dove non si ebbe una tradizione costretta nei dogmi e custodita da una gerarchia fanatica e intollerante, la religione ondeggiava perpetuamente in un’atmosfera di leggende che si tramutavano nelle fantasie dei poeti... I Misteri medievali non si costituirono intorno ad una vasta leggenda trasmutabile delle fantasie dei poeti, ma uscirono dal dogma sillogizzato dai teologi e mantenuto come deposito sacro da una chiesa infallibile.
« La leggenda non vi ebbe alcuna parte, ed il dramma non potè generarsi dalla chiusa immobilità delle liturgie ieratiche.
« Un dramma liturgico è quindi un controsenso, perchè non contiene in se stesso nessuna virtù di trasformazioni estetiche; i caratteri vi sono strozzati in culla o gittati in uno stampo uniforme. La liturgia non si drammatizza; i suoi simboli hanno un contenuto ascetico che mal si conviene agli ardimenti del poeta che converte a suo modo la vita umana, facendone un ideale fuori dei dogmi, fuori dei simboli » (3).
Data, pertanto, la costituzione intima delle sacre rappresentazioni, anche quando fosse sorto tra noi un genio drammatico, sul quale il teatro classico non avesse esercitato nessuna influenza, quella materia sarebbe sempre rimasta, come di fatto rimase, sorda all’intenzion dell'arte, chè il poeta si sarebbe sempre dibattuto tra la necessità di mantenere la leggenda e la fisonomía dei personaggi, quali l’immobilizzò la tradizione dogmatico-liturgica, e l’impossibilità di dedurne un’opera fremente di vita.
Un commediografo nop del tutto mediocre del secolo xvi, il Cecchi, il quale indarno si travagliò d’infondere al dramma sacro nuovi spiriti e di ridurlo ad opera
(1) T. Massarani, Storia e fisiologia dell’arte di ridere, Hoepli, Milano, 1901, voi. Il, pag. 237.
(2) B. Croce, G. Trezza, in La letter. della nuova Italia, Bari, Voi. I, Laterza.
(3) G. Trezza, Il dramma nel Medio evo, in Nuovi studi critici, Verona, 1881, pag. 143, 144.
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artistica degna dell’età sua,' nel prologo del Tobia, si lamenta del letto di Procuste in cui lo poneva da un canto il gran pubblico, che non voleva, come egli dice, misteri da'Lazzeroni e sol dalla paura si grattava il capo e si contorceva, e le anime divote dall’altro, che lo molestavano forte perchè egli impiastrasse loro delle commedie o delle tantajere (i), cioè a dire quelle commedie morali e quelle farse che rappresentavano il rinnovamento poco fortunato degli antichi Misteri e delle Figure.
Che se si volesse una prova irrefragabile dell’impotenza della sacra leggenda drammatizzata a produrre il teatro moderno, si osservi quanto avvenne, fuori d’Italia, nella letteratura bizantina, la quale, sotto questo rispetto, si mantenne assai di più che non le letterature occidentali schiva delle infiltrazioni e degl'influssi del teatro classico.
Assai prima ancora che la Laude drammatica, le Devozioni e i Misteri, fossero comparsi nelle letterature occidentali. Romano il Melode, fiorito con tutta probabilità a mezzo il secolo vi, aveva saputo trattare le umili forme della primitiva lirica liturgica cristiana da cui si svolse il teatro sacro, con tanta ispirazione drammatica che sotto la sua penna gli argomenti più aridi si trasformano in una vera e propria breve azione scenica, assumendo uno sviluppo ampio di contrasti e di situazioni svolgentisi in perfetta armonia con l’adeguata divisione dei tropari, così che, sino a certo punto, non ha forse torto il Boury, quando scrive che Romano è il primo dei melodi per genio poetico e le sue opere rappresentano l’inno liturgico, o piuttosto il dramma religioso nella sua perfezione (2).
Or bene che ne fu, nello svolgimento della letteratura bizantina, di questa lirica drammatico-liturgica, tanto promettente nelle origini sue?
Essa, fondendosi in un solo componimento con l’omelia drammatica, diede luogo alle sacre rappresentazioni, le quali se pur hanno alcun pregio, non deriva affatto dalla leggenda cristiana o dal dottrinarismo teologico-polemico drammatizzati, ma sì bene dagli elementi dell’arte popolare penetrati, nulla ostante l’opposizione del rigidismo chiesastico, nella compagine drammatica. E poiché questi elementi, pei quali il dramma sacro acquistava talvolta attraenza ed efficacia, non arrivarono, come avvenne nelle letterature occidentali, a svilupparsi così da pigliare il sopravvento sul materiale puramente religioso, ma rimasero soffocati entro il breve giro delle scene delle tradizioni e delle leggende cristiane immobilizzate dalla liturgia e sotto la grave mora delle disquisizioni teologiche e dell’arido fogliame delie preziosità retoriche, rimase pure soffocato tutto il teatro sacro bizantino, a cui non spetta altro titolo di merito se non quello di aver forse, alla lontana, contribuito, attraverso l'Italia greca, alla costruzione del grandioso edificio del dramma delle nuove letterature (3).
(x) E. Camerini, Scrittori comici fiorentini (G. M. Cocchi), in Profili letterari, Firenze, Barbera, 1878, pag. 372.
(2) E. Bouvy, Poctes et Mclodes, Nimes, 1886, pag. 367; K. Krumbacher, Geschichte der Bizantinischen Litteralur, Monaco, 1890, pag. 888.
(3) Vedi G. La Piana, Le rappres. sacre nella lell. bizan. dalle orig. al sec. IX con rapporto al teatro sacro di Occidente, Grottaferrata, 1912, opera elencata nella bibliografia della recentissima Storia della lett. biz. (Hoepli, Milano, 1916) di G. Montelatici, il quale
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SATANA NELLA DOTTRINA DELLA REDENZIONE I99
Laddove, poi, la lirica drammatico-liturgica bizantina si mantenne, per così dire, integra dalle contaminazioni oratorie e dalle intrusioni del mimo, pur essendo coltivata, dopo Romano, da melodi non pochi e valorosi, come Ciriaco, Domazio, Sergio, Elia, Teodoro Studita e il siculo Giuseppe l’innografo, diede bensì, coi suoi kontaki all’ufficiatura sacra della liturgia bizantina l’illusione magnifica di un dramma grandioso, ma non potè generare il teatro moderno, chè la vis del dogma, direi quasi, nascosta nei simboli liturgici aveva ‘di già cristallizzato tipi e figure, situazioni e caratteri, nè vi permise la libera fecondazione ideale-fantastica del genio poetico.
Quella poesia rispecchiò la vita di Bisanzio, fatta d’intellettualismo teologico e di luccichio fastoso di uniformi imperiali e di paramenti chiesastici, alla stessa guisa che gli Autos sacramentales del Calderón stesso, che i pappagalli della critica aulica dei due Schlegel si ostinano a proclamare divino, riprodussero quel cattoli-cismo insidioso e gelido dei gesuiti di Spagna, che non ripugnava d’intrecciarsi con la più depravata mondanità (i).
E come ogni vivo spirito d’ispirazione poetica è costretto ad illanguidire sino al completo esaurimento in mezzo alla selva selvaggia delle personificazioni allegoriche degli Autos, che, sull’esempio dei frati di Salamanca, si dibattono in un armeggio snervante e faticoso di sillogismi, così i più vivi fremiti del sentimento, anche nelle produzioni più belle della lirica drammatica bizantina, si congelano in una fredda ridondanza di epiteti faticosamente dotti, di metafore stranamente ardite, di similitudini paradossali e impossibili, che nulla hanno da invidiare ai mostruosi parti stilistici della demenza, che caratterizzano i secentisti nostri e che oggi, messi a nuovo dalla lucida biacca di un bizantinismo risorgente, ritornano nella prosa lussureggiantemente papaveracea e nelle famose lasse e negli altri ritmi novissimi eruditissimamente sibillini di G. D’Annunzio.
Per concludere, quindi, io stimo che al dramma liturgico, chiuso entro schemi fìssi intangibili, mancavano le virtù ingenite capaci di produrre il teatro moderno, il quale trova le cause e le leggi della sua formazione nella vita, negl'ideali e nei criteri estetici del Risorgimento.
Che se, fuori di noi e specialmente in Inghilterra, qualcuno ha voluto vedere una certa continuità tra il dramma sacro e il teatro delio Shakespeare, è da riflettere che quella continuità è semplicemente formale e priva di ogni relazione organica, poiché gli elementi più idealmente veri di arte e di vita dell’opera drammatica del grande Inglese non appartengono ai cimiteri ascetici del Medio evo ma al mondo
ripete bensì i vieti pensamenti del Krumbacher. del Maas e di altri scrittori d’oltralpe intorno alla drammatica bizantina senza aver ricavato profitto alcuno dal pregevole libro del La Piana, che sembra non abbia letto neppure, e mentre riproduce una lunga filza di periodici stranieri occupantisi di studi bizantini, tace della bella rivista Roma e ¡’Oriente pubblicata dai dotti basiliani di Grottaferrata. Sino a quando -questa noncuranza ed ignoranza colpevole dei frutti del nostro ingegno e della nostra attività?...
(1) Per un esatto giudizio sul teatro del Calderón e specialmente su gli Jw/os,vcdi G. Carducci, « La vida es sueño » di P. Calderón, in Bozzelli e scherme, Bologna, Zanichelli, 1880, pag. 19 e segg.; F. Massarani, op. cit., voi. Ili, pag. 432 e scgg. e più recentemente A. Farinèlli, Calderón, in Nuova Antologia, i° marzo 1916.
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risorto della Rinascenza. Il sangue, per insistere nella metafora del D’Ancona (x), che circolava nella spoglia del dramma religioso e si trasfuse nel teatro moderno, non è il succo vitale proprio degli organismi medioevali come lo aveva educato il cristianesimo, ma un rivolo rigeneratore, che ripete le sue origini dal naturalismo lunga pezza mortificato, e, dopo tanti secoli di ristagno, si apre la via di mezzo ai detriti che l’ostruivano e si converte poi in fiume regale che tutto feconda e rinnova.
Prima, infatti, che il genio dello Shakespeare si affacciasse a discoprire le leggi fatali della storia e del cuore, lo spirito medioevale era stato, in Inghilterra, sopraffatto dal vigoroso affermarsi delle passioni gagliarde di una società rinnovellantesi e dell’audacia del pensiero critico, che la rompe risolutamente coi pregiudizi del mondo antico. Nel secolo xiv, senza tener conto dello spirito classico, che aleggia in tutta l’opera di G. Chaucer e che, nel secolo seguente, investirà anche le più umili forme dell’attività letteraria, è tutta una letteratura audacemente giacobina, quale presso di noi non si riscontra, che dilania papi, vescovi, monaci, preti e preludia la Riforma.
L’Obolo di Dio, il Pater nosler dei ghiottoni, le Litanie dei contadini, il Credo dell’Ebreo, il Vangelo delle donne, le satire mordacissime e salaci che correvano sotto il titolo di Bibbie, l’eloquenza veemente di Roberto Greathead e di Giovanni Vic-liffe mostrano chiaramente come il Medio evo e i suoi ideali fossero, in Inghilterra, tramontati per sempre. Allorché, quindi, dopo R. Grecne, G. Peale, G. Lylye, C. Mar-lowe, che avevano educato il loro senso estetico alla scuola dell’umanesimo, spunta il teatro dello Shakespeare, esso non è affatto l’ultima infiorescenza dei germi dei Miracle Plays, dei Mysteries, delle Moralities, ma un fiore nuovo sorto in una serra gioconda, dove il lezzo ascetico del Medio evo è scomparso al soffio gradevole dei Favoni freschi e salubri della nuova primavera del naturalismo popolare. Il qual naturalismo, se, per mancanza di un genio veramente drammatico non solo, ma anche di quella maturità della coscienza nazionale necessaria allo sviluppo del teatro moderno, non potè, nei suoi cominciamenti, fiorire, tra di noi, sulle scene, ebbe pure anche allora la sua artistica espressione nel Decamerone del Boccaccio e diede poi, sotto un clima storico più libero e spregiudicato, il suo primo frutto drammatico nella Mandragola del Machiavelli.
Leonfoite, settembre 1916.
C. VlTANZA.
(1) A. D'Ancona, op. cil., voi. II, pag. 2.
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ENRICO PESSINA
E LO SPIRITUALISMO NELLA VITA
evo esser grato a L. A. Villari, che mi presentò un giorno, proprio sull’alba del secolo ventesimo, ad Enrico Pessina. Lo conobbi nella sua villa di S. Giorgio a Cremano, e potei dire subito di lui: Non minuti praesentia famam.
Quel giorno, a ricordo della mia visita e della sua bontà, volle donarmi una copia dei Discorsi inaugurali, scrivendovi sopra — grande degnazione ed onore per me — « in segno di stima ».
Quei Discorsi ho riletto, come spesso rileggo le opere antiche e savie, ammonitrici di vita nell’immortalità dello spirito e nell’equilibrio della ragione.
Enrico Pessina, il penalista illustre, foratore-principe del Foro napoletano, il maestro per antonomasia che ha insegnato neH’Università di Napoli a più generazioni di alunni, in questi Discorsi, che compiono un lungo ciclo d’insegnamento pubblico — oltre un trentennio — professa nobilmente la sua fede, anteponendo la verità, quando pure sia vecchia, com’egli dice, agli errori diffusi « con la parvenza di nuovi trovati ».
Di questa fede abbiamo più che mai oggi bisogno, per vincere ed umiliare gli odi implacabili, per compiere la protesta della nostra coscienza offesa, dalla perturbazione intellettuale che ha invaso il dominio delle scienze morali e anche del Diritto, e per la quale, pur troppo, assistiamo all'immane spettacolo che toglie ogni luce dì amore, ogni legame di solidarietà alla vita sociale dei popoli.
Si è voluto notomizzare, per così dire, la psiche umana, e si è caduti in basso, attraverso la materia, restando lontani, al di fuori, anzi, d’ogni vetta luminosa. Qualche sistema di filosofia sperimentale, per l'audace sua ribellione al passato, ha potuto trascinare un istante le turbe stupite. Ma lo spirito non può contentarsi a lungo d’alcun motivo di sommissione, e la ragione umana, che non può annullare se stessa, ha fatto e.farà giustizia di tante audacie, attraverso le quali, c’è da esclamare, con l’arguto Jorjk: « Che cosa ci abbiamo guadagnato noi col sostituire là licenza briaca alla libertà onesta, il pappagallismo rumoroso dei cretini alla parola calma ed onesta delle persone sapienti, il dubbio tormentoso alla fede illuminata, la
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cospirazione tenebrosa alla discussione aperta, l’antagonismo all’affetto fraterno, il petrolio all’acqua benedetta? ».
Ci abbiamo guadagnato — do io la risposta — questo scempio di uomini e di cose, questo non sentir nulla per il debole e per l’oppresso, questa selvatichezza di costumi che rende la vita sociale quasi spenta, rallentata ne’ suoi vincoli di cortesia, di solidarietà, di carità per il prossimo bisognoso ed implorante.
Al pensiero — contrariamente ad ogni rettorica declamazione — fu tolta, o almeno si è tentato di togliere, la sua essenza, che è la libertà, asservendolo a dominanti poteri. Onde bene il Pessina proclama, anzitutto e soprattutto, la libertà del pensiero, senza la quale — egli dice — ogni altra libertà è lettera morta, è vuota illusione.
Il pensiero in sè è qualcosa d’inscindibile e, di conseguenza, nessun dissidio vi può essere circa la sua natura libera e superiore ad ogni materiale dinamica. Quel pensiero, che scopre una legge nuova paragonando fra loro i fenomeni, è nel fondo - riconosce il Pessina lo stesso pensiero che presiede a tutte le altre leggi del mondo. Onde afferma la spiritualità sua, dichiarando che la Scienza «è uno dei momenti dello Spirito assoluto, il quale pensa se stesso entro di noi ».
Io non son di coloro — aggiunge — che credono la coscienza dell’uomo essere la suprema forma in cui l’assoluto ha coscienza di se stesso; ma credo fermamente che il nostro pensiero sia contenuto nell’infinito pensiero, cioè nella infinita coscienza che. Dio ha di se stesso. In eo vivimus, movemur et sumus. E però dico che l’afflato divino non pure presiede alle grandi produzioni dell’arte, ma presiede eziandio alle ricerche scientifiche e alle grandi scoperte. Le quali parole suonano ad elevazione dell’arte e della scienza, poiché solo nello spirito e per lo spirito si ascende così nel pensiero come nella vita.
Il Pessina, sospinto dalla sua fede, scorge legami tra le scienze naturali e le scienze morali. Le piante e gli animali —- egli dice — non possono essere benintesi se non si studia quello ch'è principio e cagione della vita, cioè l’unità operosa ed interna dell’organismo; la quale, sebbene non possa oculis cerni, è pure alcun che d'incontrovertibile come principio efficiente del permanere dell'identica forma ed individualità negli organismi, non ostante il continuo mutamento delle sostanze materiali in essi.
C'è, dunque, un’anima delle cose, che non può essere nè negata nè distrutta; ma sulla quale domina e lumeggia l’anima pensante, tutta forza interiore, che ci eleva a quel più alto sentire, considerato da G. B. Vico come la stessa ragione e chiamato da lui sensum aelhereum ac purissimum. Esso — afferma il Pessina — è l’intuito razionale del Noi; e lo spirito allora veramente s’intuisce nella sua pienezza e verità quando disopra al suo sussistere come anima vegetativa e sensitiva, conosce sè qual forza che pensa il suo proprio sussistere come pensiero razionale.
Si smarrisce e si perde la giusta visione psicologica, volendo notomizzare, come già ho detto, la psiche umana. La vera sostanzialità del mondo, d’altra parte, non istà, come riconosce il Pessina, negli atomi di Democrito e del Bùchner, ma nel-Vatomo, prendendo questa parola nel suo pieno significato, cioè indivisibile, ch’è l’uno eterno, la monade prima, la cellula fondamentale da cui l’Universo rampolla.
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ENRICO PESSINA E LO SPIRITUALISMO NELLA VITA
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E’ così, per questa spiritualità dell’intendimento umano, che anche le scienze, in apparenza aride, come le cifre cui sono informate, acquistano virtù di fini e di mezzi. Ad es., l’Economia politica, che fa consistere le ricchezze di una nazione « sempre in ragione della somma delle fatiche », come si espresse il Genovesi, spiritualizza il lavoro nell’utilità comune o, meglio, nel bene per tutti. E Adamo Smith, che condusse tal formula a precisione scientifica, spiritualizzò — dice il Pessina — la scienza economica; imperocché, come il Cousin acutamente notava, il lavoro è io spirito stesso dell’uomo nella sua lotta con le forze della natura, è la vittoria dell’intelligenza sulla materia. E sulla base del lavoro spiritualizzato possono sorgere ed ingrandirsi quelle istituzioni e provvidenze sociali, che rendono possibile V armonia dei legittimi interessi, proclamata dal Bastiat, e redimono anche moralmente l'uomo, con divellere la vergognosa piaga sociale del pauperismo. Ogni altra scienza, essendo prodotto dell’umana attività, non può rimanere estranea alle forme fondamentali che lo spirito assume nella sua esplicazione. Onde, sotto quest’aspetto, ha ragione il De Baader di dire, che colui il quale cerea nella Natura solo la Natura e non lo Spirito, o nello Spirito cerca sol questo e non Dio, o cerca lo Spirito fuori della Natura e senza la Natura, o Dio senza lo Spirito e fuori dello Spirito, non troverà nè Natura, nè Spirito» nè Dio, ma perderà di vista tutte e tre queste entità fondamentali (1).
Siffatta comprensiva contemplazione di Dio, della Natura e dello Spirito — co-menta il Pessina — è il dominio proprio della scienza filosofica. La quale, appunto perchè abbraccia tutti e tre questi termini, cerca penetrare tutte le discipline; e gli stessi sistemi, che combattonsi tra loro nel suo dominio, tentando tutti di porsi come formula suprema ed enciclopedica dello scibile, dimostrano a chiare note la tendenza della scienza a costruire una sintesi superiore di tutte le discipline seconde, ed è questo l'ideale della scienza. Aspirarvi, è condizione di nobiltà dello spirito umano; rinunziarvi, sarebbe il suicidio della ragione.
Ciò premesso, a parer del Pessina, errano coloro i quali credono che l’incremento degli studi fisici menomi il culto delle idee morali. Se non foss’altro, quell'ordine, che anima segretamente tutto l’Universo, educa lo spirito alla regolarità, alla costanza, all’obbedienza verso le norme generali; e se i due mondi sono distinti tra loro, essi non son certo in assoluta opposizione. L’ignoranza delle leggi che governano la natura esteriore, giusta le testimonianze della storia, ha fatto sì che l’uomo ravvisasse nell’entità stesse della natura quel divino di cui sentiva il bisogno, e deificasse o la luce o il calore o l’elettricità; ma, a seconda che comprese la natura di quelle forze, ed ebbe coscienza di poterle soggiogare trasformandole l’una nell’altra, si sentì sollevato ad una sfera più eminente di credenze religiose. E questo fatto prova la potenza dello spirito sulla materia, e veramente, come già intuì lo stesso Voltaire, uno spirito di ordine regna segretamente in tutto l’universo, e, per esso, c’è la necessità etica, che, senza un presupposto metafisico, osserva il Pessina, è un assurdo. Una scienza dei doveri per la libertà umana — egli aggiunge — indipendente da una dottrina su’ fini razionali della vita affidati all’uomo stesso, una scienza morale
(1) Ennemoser, Der Geist des Menschen in der Natur.
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senza il fondamento di una scienza superiore che riconosca un principio assoluto, al quale la libertà deve obbedire, è un non senso.
All'ordine fisico — riconosce il nostro Maestro — è sottentrato per l’uomo l’ordine morale. Dal seno della necessità è venuta fuori la libertà, espressione adeguata del Divino. L'evoluzione è un non senso quando non vi sia una finalità immanente, perchè il concetto del migliore non è possibile se non risulti dalla comparazione di due stati con un tipo ideale; sicché migliore è quello che più adeguatamente esprime quel tipo. Se l’uomo è ridotto a materia organizzata e non altro, se la materia, trasformandosi, non migliora in lui, non v’è progresso vero dall'inorganico all’organico, dall’insetto all’uomo. E se ammette l’evoluzione, riconoscendo questo progresso, là sottopone, però, alla condizione che non si disconosca la ragione suprema che in essa è immanente, che provoca come suo strumento la causalità efficiente delle produzioni tutte dell’Universo, che si riafferma come causalità libera dell'uomo, la quale determina se stessa, coordinandosi all’idea che presiede alle cose tutte come a fine razionale del suo operare liberamente accettato. Avviene che l’uòmo non si sente compiuto se non vive per gli altri; e quanto più si effonde in questa vita per gli altri, tanto più sente allargarsi la sfera della sua personalità. E la vita sociale, cosi, gli apparisce ad un tempo e come il suo diritto e come il suo dovere. La società umana non sorge come pura necessità fisica, ma come un organismo che di sopra al lato fisico ha un’entità morale. La comunanza umana è superorganica, perchè ed inquantochè essa è un organismo etico, cioè libero e razionale. Col nobilitarsi del genere umano si nobilita anche lo Stato. La civiltà, a differenza della natura, è il processo generale della vita, in quanto non vien giudicato secondo la relazione di cagione e di efietto, ma secondo quella di mezzo e di fine. Essa è lo svolgimento della vita, pensato come scopo; e, trattata come scopo, fin dove giungono i mezzi umani, essa è la vita sotto il punto di vista della finalità, come la natura è la vita sotto il punto di vista della causalità.
L'idea dello scopo comune, come veduto dalla ragione, come desideralo da tutti e da ciascuno nell'amore operoso e reciproco degli uomini, come accettalo da tutti e da tutti liberamente attualo nella morale, nella vita economica, nel Diritto e nello Stato, dee costituire il principio organico di tutte le scienze sociali. Non perdiamo di vista questa idea sovrana, eh’è il legame saldo e vero dell’umano convivio: raccomanda il Pessina, quasi come applicazione dello spiritualismo nella vita. Se essa è il vero canto orfico che solleva le pietre alla costruzione delle città, non è possibile il mantener salda questa idea quando non sia fondata in un’idea più alta, cioè nell’idea di Dio come immolo motore dell’ Universo. E poi conclude: « Il sapere che proviene dalle discipline naturali non ci faccia disconoscere per l’elemento terreno e sismico della nostra origine l’elemento divino della nostra destinazione! La materia, da cui siam sorti e a cui siamo incatenati, non soffochi lo spirito! Pensiamo che la legge della nostra vita non è nella ferrea e cieca necessità del destino, ma nella cultura morale, cioè nella libertà razionale, che domina il mondo della natura, e coopera a quella divina armonia di mezzi e di fini, che costituisce la legge dell’Universo ».
Ammesso che la questione sociale è una questione morale, si chiede per essa, come condizione risolutiva, la formazione dell’uomo interiore, cioè l’instaurazione
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del Divino nella coscienza umana, mercè il rinvigorimento del senso morale in tutti gli strati sociali, perchè, vinte le bieche passioni e i feroci impulsi che offuscano le menti e pervertono gli animi, e generano l’odio e la guerra, sian riavvicinate le forze del lavoro con quelle della terra e del capitale nel comune scopo d’integrarsi a vicenda per ingrandire il patrimonio comune. E giova a questa integrazione la scienza morale, che non elimina, ma afferma il principio divino, da cui riconosce la santità del dovere. E per questa scienza di bene e di vero progresso nella vita, il Pessina, come che scrivesse oggi, fra gli orrori deH’immane flagello, avverte: « Il Cristianesimo, nel suo spirito e nella sua verità, non è il nostro passato, ma il nostro avvenire ». Quando l’Umanità sarà tutta evangelizzata nell’amor fraterno, quando l'idea, ch’è Dio stesso, raccoglierà sotto il suo santo vessillo le varie famiglie di popoli, che sono sparse sulla terra, congiungendole in una sintesi armoniosa, in una pace duratura, in una consonanza di tutti gl'interessi, per cui tutti porgano a tutti quello che a ciascuno è di mestieri per esprimere l’idea dell’uomo, allora solo'potrà dirsi che l’Uma-nità è cristiana. Opera veramente, disse Socrate, colui che bene opera, e coloro che son facitori di cose cattive, non operano nulla; e non può operare bene chi non sa quello che debba fare. La parola del Cristo — esclama il Pessina — non è la morte dei popoli sotto il giogo dei despoti; essa è, invece, redenzione degli uomini, e farà degli uomini una famiglia, su cui aleggerà propizio lo spirito di Dio. L'Umanità ritorna a Dio, ricercandolo nell’intimo della sua coscienza per poter dire a se stessa: lo spirito di Dio parla in me; la sua parola è la mia lingua: Est Deus in nobis; agitante calescimus ilio.
Ben lumeggia questa nostra fugace sintesi lo spiritualismo del Pessina. Il quale, diverso da certi suoi discepoli, che chiamano siffatte idee rancide ubbie di vecchia sorpassata metafisica, proclama, alto e’ solenne, il benefico concetto del Divino, che tutto nobilita ed eleva, e che solo dà pace vera e duratura agli uomini, rasserenandone lo spirito e confortandolo nelle speranze, schiudendolo alla vera fede, ch’è la bontà nella vita.
Antonio Rizzuti.
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Realismo di cultura e idealismo di civiltà
Aequam memento rebus in arduis servare mentem.
Orazio.
Guerra e cultura
Recentemente si è agitata, e si agita ancora qua e là in riviste ed in giornali la Questione, piuttosto alquanto oziosa, se e no a qual punto, per sottrarsi al dominio culturale germanico, le nazióni alleate, e le latine in ¡specie, potrebbero sostituire l’opera propria nel campo della cultura a quella della razza tedesca. E naturalmente si sono udite diverse e contrarie voci in proposito, intenti assennati e pazzeschi, anche nella loro suprema intenzione di fare e di volere il bene, opinioni ed idee disparatissime. Onde a me, che, nella forse, ahimè, vana mia vigilia d’armi, inganno le ansie dell’attesa procurando di rendere proficua anche l’opera mia per il fine cui tutti tendiamo, dedicandone i frutti pur che siano alla lotta spirituale — a me, dico, pareva quasi inutile ed ozioso l’esporre ad un ciclo di lettori fra tanto vociare pur il mio gridio. Se non che la convinzione che occorra fare appello al latino senso della misura per procurar d’impedire le delusioni o le irrisioni dell’indomani, mi à spinto a divulgare anche le mie riflessioni sull’argomento, con l’augurio che se pur non portino contributi assolutamente nuovi nel dibattito, valgano almeno, in accordo con le poche opinioni moderate già da altri espresse, a frenare gli eccessi che tendono a portarci verso errori che sarebbero causa di inutile spreco d’energie, quando non fossero oggetto di ridicolo e di spregio per le generazioni che sorgono.
Poiché quel che più importa, a mio modo di vedeYe, nello studio della questione, è che
i suoi risultati pratici non producano per l’appunto quello spreco d’energie che dopo la guerra sarà indispensabile impedire con tutte le nostrp forze, acciocché la cultura nazionale, perdendo il carattere estensivo che aveva in tempi normali, dia un coeflì-cente possibilmente non molto più basso del precedente, grazie ad un'intensività di lavoro che ne economizzi le perdite. E’ dovere quindi di quanti vogliono che anche in questo campo l'Italia ottenga nel miglior modo possibile il posto che le .compete tra le nazioni civili, di far sì che tale economia di energia spirituale e intellettuale si effettui perchè il mondo colto soffra quanto meno è possibile, del purtroppo inevitabile abbassamento di cultura che terrà dietro alla guerra.
Dopo la guerra?...
Il che credo di dover dare per dimostrato, chè il trattarne in modo particolare mi porterebbe troppo fuori tema: è vero che io sono molto scettico sul cambiamento radicale di tutti o quasi i valori umani a pace fatta, credendo piuttosto che il prevederne un mutamento derivi dal fatto che l’umanità, disabituata da lungo tempo a considerarsi fuorviata così estesamente come è ora da una guerra che assorbe pressoché tutte le energie dei popoli, non può intravyedere il ripristinamento delle condizioni precedenti se non come una fase nuova della propria storia. Non altrimenti chi riprenda il corso della vita, interrotto da lunga e grave e pericolosa malattia, imagina e prova nuove sensazioni, ritornando alle usate occupazioni, lasciando li-
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REALISMO DI CULTURA E IDEALISMO DI CIVILTÀ
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bero il corso ai consueti sentimenti, pur senza che nulla sia mutato né in lui, nè intorno a lui.
La cultura nemica durante la guerra
Ma, riprendendo il tema che ci siamo prefissi, la prima questione che sorge dinanzi a chi se ne voglia occupare è quale soluzione debba avere il problema del trattamento, dei risultati, de' portati e dei prodotti della cultura nemica, durante la guerra. Alla quale soluzione per parte mia ritengo debba contribuire piu clic altro il considerarne i dati non sotto l’aspetto intrinseco, ma sotto quello estrinseco, e precisamente sotto l'aspetto economico da un lato, etnico dall’altro. La cultura di un popolo non è diversa dagli altri suoi prodotti di qualsiasi genere essi siano: durante la guerra, quindi, essa va considerata dal lato economico, in quanto che può contribuire con i suoi mezzi alla resistenza del nemico; dal Iato etnico in quanto che può esercitare sulla nazione un influsso che può essere deleterio agli effetti bellici. Chi pensi alla vendita delle opere d’arte, dei libri, dei brevetti, ecc., da una parte e alla costituzione di uno stato d'animo favorevole al nemico dall’altro, mercè la diffusione della sua cultura, avrà chiare queste conclusioni. È bene quindi bandire l’ostracismo della cultura nemica se con la sua diffusione spiritualmente o materialmente si giova all'avversario. Che se la cultura nemica non à efficacia di spirito su di noi, è inutile che se ne astengano quanti vorrebbero occuparsene per ragioni personali. Che Tizio voglia ora studiare il bulgaro o perfezionarsi in turco è cosa che a nessuna importanza, mentre à notevole valore il fatto che si diffonda musica tedesca o si facciano conferenze di cultura tedesca, anche prescindendo dall’eventuale vantaggio economico che nel primo caso possa derivare al nemico. Non è prova perciò di superiorità intellettuale o di elevatezza spirituale in una nazione il lasciare diffondere anche durante la guerra gli elementi culturali nemici, ma è semplicemente espressione di debolezza edi pusillanimità, quando non sia coscienza, come testé dicemmo, della nessuna efficenza della cultura nemica sulla propria compagine morale. Per concludere, durando la guerra, neppure in questo campo si deve dar quartiere al nemico, ed occorre quindi che gl’individui pieghino le esigenze perso
nali alle necessità collettive e si astengano da qualsiasi atto che, facendo appello alla coltura nemica, offra anche il semplice appiglio all’avversario di considerarsi, comunque siasi, superiore o di riconoscere altri tributario dell’opera propria sia pur spirituale e morale. Non richiederemo adunque ai nemici le loro opere culturali qualunque esse siano: musicali, letterarie, artistiche, scientifiche; ne faremo a meno, sacrificandone l’esigenza alle maggiori esigenze della difesa e dell’offesa nazionale.
Elementi universali della cultura
Ma tutto ciò solamente e puramente durante la guerra, durante la quale non occorre esser filosofi per sentire e magari Pubblicare delle banali osservazioni sul-equanimità e sul senso di misura, e per riconoscere alla cultura nemica quella vitalità di carattere universale, parziale o generale, che riposa non sulla.superiorità politica di una nazione, ma sull’indefettibilità di alcuni, se non di tutti i suoi valori spirituali.
Poiché non si può assolutamente negare che nella cultura dei vari popoli, accanto ad elementi di carattere etnico speciale, vi sono elementi di carattere generale e universale che permangono al di sopra della caducità dei primi o che, per lo meno, si diffondono al di sopra della ristretta e limitata efficacia dei primi. Nel dominio dello spirito, difatti, rimane acquisita per la generalità tutta una serie di elementi che non appena usciti dalla mente individuale non sono pixì del dominio speciale di chi li à prodotti; ma per il solo fatto che l'autore li à resi pubblici, tendono a formare quel patrimonio spirituale universale cui attingono, senza esclusione di nessun genere, quanti vogliono e possono, al di là di qualsiasi distinzione di nazio-. nalità, di culti, di razza. Omero à cantato per tutte le epoche; Aristotele à pensato non solo per i Greci, ma per l’umanità; Fidia à scolpito non solo per Atene e per la Grecia, ma per la bellezza ed il sentimento degli uomini tutti; Cesare à scritto romanamente e romanamente operato per la civiltà di tutti; Dante à poetato per italiani e stranieri, come Wagner à espresso il sentimento nel ritmo non solo per i tedeschi, ma per quanti sanno ascoltarlo, come Shakespeare à avuto per tutte le razze fremiti di tragicità e
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Cervantes per ognuno di noi à individuato l'anima idealistica dell’uomo cozzante con la terribile volgarità della vita; come Molière à riso per tutta l’umanità sulle miserie spirituali e sociali degli uomini, come Rembrandt à tratto dall’incanto delle sue tele la luce per gli occhi e per lo spirito di quanti lo comprendono, come Tolstoi à vaneggiato per tutte le anime doloranti nelle tenebre della vita e via dicendo. Sono per l’appunto gli elementi di universalità che rendono indistruttibili alcuni valori culturali ed è per l’appunto in quest’universalità di elementi che consiste la maggiore o minore forza di espansione della cultura di un popolo: è appunto per ciò che la cultura greca domina le altre, che l’italica le segue subito dopo, che la francese tien dietro a queste e che la tedesca viene per quarta, precedendo la inglese, la spagnuola e la slava. Con questi elementi all’incirca si costituisce se non la cultura mondiale, per lo meno la cultura europea che domina il mondo e costituisce la spina dorsale, il perno centrale, la forza motrice della civiltà umana. Le altre culture possono avere dato degli elementi iniziatori o fondamentali, in epoche remote, alla cultura umana, ma nella graduale prevalenza dei caratteri etnici ànno soffocato il loro carattere individuale e separatista, per dire cosi; la loro funzione universale è stata ristretta e limitata e le circostanze storiche ànno aiutato il loro sviluppo in questo senso.
Indistruttibilità'dell’elemento realistico
Qualunque conquista, dunque, si faccia dagl’individui o dalla collettività nelle speciali culture dei popoli che abbiamo ricordate, non appena entra nel dominio pubblico non è più conquista nazionalistica od etnica, ma è conquista universale e non vi è nell’omaggio che si rende Ser ciò a chi l’à prodotta nessun omaggio i carattere politico: chi lo fa in questa forma o vi dà un tale valore non fa opera di cultura, ma opera di partito e l’atto suo va perciò sotto questo aspetto giudicato e considerato.
Nè quel che si dice per le manifestazioni maggiori della cultura si esclude per le minori: quale necessità vi sarebbe, per esempio, di rifare una ricerca paleografica che dovesse riuscire sterile di risultati
nuovi per dare un’edizione italiana di un classico all’intento di soppiantarne, e forse solamente in Italia, una ugualmente buona, sol perchè tedesca? Chi è che potrebbe obbligarmi ed in nome di che cosa a rifare un manuale scolastico sol perchè la traduzione di uno egualmente buono, tedesco, deve essere sostituita da uno italiano e sempre quando l’altro non E sechi neppure in nulla contro l’italianità?
hi potrebbe impormi l’uso d’una meschina carta geografica italiana per sostituire una, ottima, uscita da uno stabilimento tedesco? In simili casi la somma di energia che à spiegato uno straniero per dotare la cultura universale di qualche cosa di cui egli la riteneva priva, comprende non solo l’energia individuale, ma anche l’economia di quelle energie straniere a lui, che avrebbero dovuto spendersi per dotare le culture particolari di quel medesimo documento, onde la sua non è opera nazionale, ma universale e come tale va considerata.
In tutto ciò quindi che à attinenza al dominio realistico dello spirito, non a quello idealistico vi è una tale indistruttibilità di valori nella cultura di un popolò, che una società nemica può tentarne la distruzione, non operarla, a meno che non Eroceda con una violenza metodicamente arbarica e sopprima uomini e cose; ed anche in tal caso è dubbio possa riuscirci totalmente e definitivamente. Possiamo bruciare, come vogliono i futuristi, le biblioteche e distruggere i musei, ma per lungo tempo ancora Atene e Roma parleranno agli uomini il loro.magnifico linguaggio e possono pure sognare gl’imperialisti tedeschi di sopprimere la popolazione dei dipartimenti di Francia che essi agognano, sostituirla con tedeschi e distruggerne tutte le opere d’arte, per lungo tempo ancora la Francia parlerà al mondo il suo immortale linguaggio.
Nelle forze spirituali la natura agisce come in quelle economiche, onde l’opera dell’uomo è vana quando si attenta ad opporre la forza propria, unicamente ed esclusivamente, come sarebbe vana la più atletica vigoria di una moltitudine umana a sostenere una diga contro un’ir-rompente e travolgente massa d’acqua quando con sapiente uso di forze naturali l’uqmo non desse alla diga un valore su-Seriore: ed anche allora, tutti sappiamo no a qual limitato punto l’energia nostra possa ostacolare quella naturale.
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Revisione dei valori idealistici
Nei campo realistico adunque della cultura, indarno si opporranno i nazionalisti di tutti i paesi allo sfruttamento di quegli elementi universali della cultura nemica che permangono indistruttibili; laddove nel campo idealistico le cose si risolveranno indubbiamente in modo diverso. È evidente che a questa feroce e barbarica lotta che insanguina l’Europa, non succederà, appena conclusa la pace — anche ammesso che questa possa avere caratteri di durabilità e di appagamento delle varie e giuste esigenze nazionali (non statali, naturalmente, chè non importa!) — quello scambio di relazioni che caràtteri zzava il periodo che ci à preceduto. Anche accordato che i due gruppi belligeranti tendano ciascuno per sé, di fronte al pericolo del domani, a stringere i propri legami, rimarrà sempre tra i due gruppi un lungo periodo di ostilità che renderà difficili le reciproche relazioni, almeno spirituali se non commerciali, le quali quando non vi si oppongano mezzi politici, sarebbero più facili a riprendere il loro corso normale. Da ciò quindi una diffidenza vicendevole ed un’affermazione sempre più ristretta e dura dei vari nazionalismi: l’elemento «straniero» genera in noi ormai la diffidenza, laddove prima S»roduceva, anche con ostentazione, reietto opposto, tanto ci sentivamo, sopratutto noi latini, disposti a buttar giù le barriere esistenti tra i popoli. A questa nuova tendenza de’ nostri sentimenti c delle nostre opinioni corrisponderà perciò un’inevitabile revisione dei valori idealistici della cultura nemica. Nel dominio artistico, in quello filosofico, religioso e giuridico, sebbene in diverso grado naturalmente, questa revisione di valori si compirà più o meno gradatamente. Già la diversità di vedute si afferma ne’ fini della stessa lotta materiale che assurge ad una lotta di due principi, di quello egemonico contro quello cquilibristico, del collettivismo — sii venia verbo — contro l’individualismo. Si è tratti perciò a dubitare se, anche nella più perfetta buona fede, gli uomini colti del campo opposto, quelli dal cui indirizzo intellettuale dipendeva la cultura della propria razza, non abbiano volenti o nolenti falsato le linee delle indagini scientifiche ed i loro risultati.
Ed ecco come sotto il Dio luterano o
cattolico dei tedeschi noi ricercheremo il vecchio Thor o l’antico Jahve e come rivedremo i valori del diritto positivo germanico, che eravamo disposti a seguire, nè trascureremo l’esame degli stessi valori teoretici e ci domanderemo se effettivamente la codificazione del diritto spetti alla violenza o se non sia questa che sorge dal cozzo delle opposte volontà di diritto. E così forse riprenderemo in esame i concetti dell’assoluto e del relativo in filosofia e le loro pratiche applicazioni, ed ancor più il fenomeno nietschiano dinanzi a cui rimanemmo forse fin troppo ammirati, senza vederne gli elementi durevoli e quelli caduchi, e ci domanderemo se negli studi storici la messa in evidenza delle finalità sociali più positive degli agglomerati umani, fatta dai dotti tedeschi, con crudezza materialistica, non fosse il risultato dell’efficacia dell’ambiente e della cultura dominante presso di lóro, anziché d’un sereno esame e d’una ricerca, per quanto è possibile, oggettiva del grave problema.
Elementi accessori della diffusione della cultura
Così, per sommi tratti, si svolgerà molto probabilmente la revisione dei valori culturali tedeschi dopo la guerra e non è neppure improbabile che anche quelli artistici subiscano, se non una revisione, un oscuramento per il fatto che la cultura generale di quel popolo, venendo ridotta alla sua espressici! più semplice e spogliata degli elementi sovrappostisi artificialmente, rimarrà necessariamente più circoscritta nel suo influsso e quindi meno diffusa e perciò meno larga di efficacia sugli individui..
Poiché è evidente che la cultura straniera oltre che per la sua propria forza di espansione, derivantele dalla sua intima vitalità, si diffonde anche per una serie di coefficenti esteriori che ne favoriscono lo sviluppo fuori del suolo nazionale. In primo luògo deve porsi in questa serie la energia commerciale (cioè politica) di un popolo che vuole e può imporre ad un altro i suoi prodotti, e poiché tra di essi debbono annoverarsi i mezzi materiali con cui la coltura si afferma (libri, quadri e statue, spartiti e ¡strumenti musicali e via dicendo) non vi è nulla di anormale nel considerare anche questo elemento come uno dei maggiori propulsori della diffusione della coltura. In se-
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condo luogo debbono porsi le ragioni di debolezza, ignavia e bisogno di imitazione delle stirpi politicamente inferiori e per ultimo gli elementi minori, individuali e sociali, della diffusione, come il maggiore numero di studiosi, la maggior ampiezza e facilità degli studi, il maggior soccorso governativo a grandi imprese, il maggiore numero ed il maggior valore di personalità superiori.
Vanità di propositi...
Posta così, se non erro, ne’ suoi veri termini la soluzione del problema se e come debba accettarsi la cultura tedesca a guerra finita, credo che a compiere Tesarne e l’esposizione delle questioni bastino alcune considerazioni particolari sugli effetti che avrebbe l'applicazione della tesi opposta ne’ rapporti nostri. E pur rimanendo nel cerchio degli studi che mi sono più famigliati, io dovrei fin d’ora lamentare lo sbandieramento di un criterio, contrario a quello da me enunciato, in alcune imprese librarie che si sono volute additare come l’affermazione nuova ed ultima della vitalità della cultura italiana, anche contemporanea. Prescindendo dal fatto che la nostra cultura è contesta di tali elementi passati e pur presenti da non poter non offrire campo ad un’imposizione e ad una diffusione all’estero — purché sia appoggiata da un Governo forte e cosciente della missione e dell’importanza dell’Italia — rimane ancor sempre ingenuo (direi anzi ridicolo) un tale modo di affermazione che sa di Euerilità. A meno che l’Italia, adagiatasi nora mollemente nelle opere d’oltre Alpe, assecondata dagli editori che pagavano gli autori con compensi di fame, quando non con insolenze e con minacce di duelli (questa è proprio capitata a ine e quindi non si crederà ch’io usi espressioni vaghe di dubbio valore oggettivo) a meno che, ripeto, l’Italia non balzi ora armata come Minerva, dal lungo sonno e miracolosamente non crei quello di cui à bisogno — mi si permetterà — con buona pace dei valentuomini che ànno inaugurato simili collezioni sia pure scolastiche, per soppiantare quelle tedesche — di credere che invece di Atena ci faranno scattar fuori dalla scatoletta in cui tenevano in riserva la energia italica condensata, un molto modesto Pulcinella e non altro. Che si possano improvvisare o, almenocostringere, per sola carità di patria, al lungo, paziente
• e pur dispendioso lavoro del paleografo e del collezionatore di codici, uomini fino a ieri tenutisi lontani da tali lavori, non è credibile: le edizioni verranno e serviranno per ora. Domani ritorneremo a quelle di Oxford, se non a quelle di Lipsia e con ragione. Nessuno potrà obbligarmi ad aver fiducia nell’affrettata preparazione de’ miei connazionali solo in nome dell’italianità, onde, appena mi sarà possibile, io mi troverò per onestà scientifica costretto, anche a condizioni materiali più sfavorevoli, a preferire il lavoro scientifico tedesco a quello italiano. Così come, putacaso, in topografia romana nessuno potrà in nome della latinità obbligarmi, quando non voglia attenermi agli studi del Lanciani o del Bartoli, ad anteporre il comm. Giacomo Boni al Jordan o allo Hulsen.
In un paese come il nostro, in genere come tutti i paesi latini, di carattere un po’, mi si permetta l’aggettivo, facilone, ad assecondare una tale tendenza vi è il grave pericolo di falsare le basi ed i caratteri della nostra cultura in modo da non far ridere solamente i contemporanei, ma da far vergognare i posteri. In tal caso il paventato spreco d’energie di certo non ci sarebbe, ma vi sarebbe in sua vece un tale scorno da preferire in tutti i modi quello a questo. Naturalmente riprenderebbero vigore e forse valore —- e ne abbiamo già qualche saggio — i cosiddetti esteti, i cosiddetti sociologi, i cosiddetti storici sociologi, e il lavoro necessario a tener solide le basi della cultura italiana se ne andrebbe in polvere.
Cultura tedesca e civiltà latina
Si obbietterà, naturalmente, come di consueto, che noi non siamo fatti per il lavoro paziente, per l'erudizione, per la ricerca minuziosa, ed allora noi repli*-cheremo che anche perciò appunto non dovremmo negare alla cultura straniera in genere, alla tedesca, nel caso attuale, Ìnella funzione di elemento costitutivo ella coltura nostra che deve esserle, almeno per ora, riconosciuto. A dire il vero, per me l'argomento apportato non à valore alcuno, poiché ritengo noi come altri adatti al lavoro necessario per qualsiasi genere di studi (gli ultimi decenni avanti la guerra l'ànno dimostrato), anzi sono convinto che dal peso della coltura altrui, dalla larga efficacia che esercita su di noi.
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potremo svincolarci là dove più ci premerà, e meglio vorremo. Quante cose presso di noi attendono e sostanza c forma da studi prettamente italiani? quanti campi non vanno più e meglio lavorati, più e meglio resi fecondi con utili ricerche e con savie e pazienti indagini? Lavoriamo e produciamo per sostituire là dove si deve sostituire, per soppiantare quanto va soppiantato, ma per carità non tentiamo di distruggere l'indistruttibile.
Indubbiamente a noi la via è aperta più che mai in questo momento. Rivedendo i valori idealistici della cultura tedesca fin qui dominante, noi che abbiamo veduto sempre in èssa il carattere maggiormente contrario al nostro temperamento, l'eccessivo realismo e l'eccessiva pesantezza, dobbiamo opporvi i caratteri massimi della nostra civiltà, l'idealismo e la misura. Inutile illuderci; non si sottrae una Coltura da un giorno all’altro al dominio di un’altra senza sforzi e senza un'opera duratura, paziente e costante. E quell’opera deve essere fondata sugli elementi costitutivi del temperamento etnico proprio, non sul vago e sul nebuloso, e pur giovandosi del già acquisito dagli altri, chiunque essi siano. Roma non fu Roma se non quando sulla coltura greca fondò l’opera propria e l’affermò, i Barbari non crearono nulla di nazionalmente individuale se non quando si assimilarono la cultura latina, l’Europa da Napoleone in poi non dette vita e vigore agli elementi rivoluzionari se non quando seppe fondere i valori non caduchi dell’aMcrew. régirne con i principi nuovi; la cultura tedesca, che domina ancora, confessiamolo a nostra vergogna, il mondo, è più composta di elementi latini e più fondata sui valori culturali latini di quel che essa forse non lo sappia,certo non lo confessi.
Ora è assolutamente necessario opporre alla cultura tedesca — che non distrug-Seremo perchè non possiamo nè dobbiamo ¡struggerla — una cultura latina ed accentrare intorno a questa, •'laccandola da quella, i popoli soprattutto d’Europa:
come nella guerra, così nella pace occorre contrapporre Luna all’altra. I popoli sceglieranno tra le due, poiché ormai la storia contemporanea non offre via di uscita che sia intermedia: o il mondo graviterà intorno al nucleo latino, al suo senso d'equilibrio, al suo sano idealismo, al suo rispetto per l’individualità nazionale e. per la libertà, o esso subirà il peso germanico, il suo imperialismo, il suo materialismo, il suo bisogno di distruzione e di oppressione. Non c’è via di scampo. La civiltà per ora è essenzialmente ancora latina, poiché quella che i tedeschi chiamano la loro civiltà si è dimostrato solo essere la loro cultura: il coefficente che mutava questa in quella era falso e preso in Svestito, poiché esso era appunto costituito a quegli elementi di idealismo, di rispetto alla libertà, di equilibrio che formarono il fondamento delia nostra civiltà e che erano l'unica forma d’omaggio che i Germani prestavano a noi per esser ritenuti civili. Il giorno in cui occorse sottoporre alla prova del fuoco, la resistenza di questi elementi nell’animo tedesco, di fronte al pericolo di vedersi sfuggire l’egemonia culturale e quella politica, il tedesco si dimenticò che voleva e doveva essere civile e balzò dai suoi confini barbaro quale era essenzialmente, sebbene coltissimo.
Rinnovamento, non distruzione
E dunque fatale e necessario, non appena sarà esaurita la lotta sanguinosa e barbarica che ora si scatena per i celi e per i mari, per ¡'piani e pei' i monti dell’Europa, di portare l’aspro contrasto rivelatosi tra le razze, nel campo dello spirito, ma non con intenzioni distruttive contrarie non solo alla tendenza naturale delle cose, ma agli stessi interessi supremi della cultura, bensì con intenzioni rinnovatrici. Distruggere per imporre nel vuoto l’opera propria non è solo da barbari, ma da stolti: sostituire, assimilare, rifondere e trasformare è opera degna non solo di savi, ma è opera veramente e potentemente latina.
Giovanni Costa.
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PER£G/LT/RA DELL'ÀNIMA
LA CHIMICA DEL CRISTIANESIMO"’
vostri ocelli, entrando qui dentro questa sera, si sono rivolti con curiosità verso questa cattedra. Una delusione v’attendeva: nè fornelli accesi; nè vasi, nè filtri, nè lambicchi, nè serie di cannelli allineati, niente, in una parola, di tutto quell’apparato, che ancor oggi, nelle moderne e luminose aule di chimica dèlie nostre università, richiama alla fantasia di chi vi entra per la prima volta le remote e tenebrose sale di un castello medievale, dove un alchimista prepari i suoi fantastici e magici prodotti.
Niente, qui, di tutto questo apparato scenico. Non dubitate però: io voglio parlarvi realmente di chimica questa sera. La vostra scienza, i vostri ricordi, la vostra immaginazione suppliranno alla mancanza degli apparecchi necessari all’esperienze di chimica. Sodi parlare in un ambiente cristiano; non crediate, però, che la nostra conversazione stonerebbe in un’aula di chimica, in mezzo ai matracci e in un’atmosfera pregna dell’odore caratteristico che si sprigiona da tanti corpi in combustione; io sono certo, anzi, che le mie parole, accompagnate da esperimenti opportuni, riuscirebbero più efficaci e più concrete. E poi non vi nascondo — come si augurava un grande predicatore francese, Vilfredo Monod, tenendo appunto una celebre conferenza su Gesù nell’Anfiteatro di chimica dell’università di Lausanne — che anch’io spero non lontano il giorno in cui il cristianesimo, ritornato ad essere un efficace fattore di progresso sociale, possa trovare il suo posto anche nei santuari della scienza. E vi sarebbe accolto, ne sono certo, come un gas assai più prezioso e vivificante dell’ossigeno che si prepara nei laboratori di chimica: di quell’ossigeno che avviva tutte le cose e si unisce
(i) Per invito di amici, pubblico questa conferenza tenuta nel febbraio scorso ad un gruppo di giovani. Piuttosto che rimaneggiarla, ho preferito tagliare sviluppi ed allusioni richieste dallo speciale uditorio a cui si indirizzava. Spero che anche tagliuzzata a questo modo, la conferenza possa riuscire non del tutto inutile, sebbene i problemi a cui accenno in essa non sono più sentiti vivamente in Italia come nell’inverno scorso.
M. R.
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sviluppando calore e direi, con simpatia, con la maggior parte dei corpi. Non si tratta di un sogno d’illusi e di sentimentali. Vedete qual cammino s’è fatto! Dal cristianesimo medievale, predicato a pillole, come un ornamento liturgico, in giorni stabiliti e da pochi uomini incaricati a questo ufficio dopo di aver subito mille pratiche burocratiche, in una chiesa ampia e solenne ma fredda, siamo passati al cristianesimo moderno, fin dal tempo della Riforma, predicato a tutti con entusiasmo, nelle case, nelle piazze, nelle riunioni pubbliche, da umili operai come da dotti laici e perfino da donne: quale progresso! Pensate ai martiri della libera predicazione! Pensate alle lotte e alla vittoria che ogni giorno si delinea più nettamente e che su questo punto fondamentale per la vitalità, per l’avvenire del cristianesimo han già riportata le libere e laiche chiese in Inghilterra ed in America! Il cristianesimo saprà trovare la via anche per giungere nelle severe aule dove si fa la scienza e nelle infernali e gigantesche officine dell’industria'moderna. Il cristianesimo ama gli spazi e tende ad espandersi come il più attivo ed il più incoercibile dei gas.
* * *
Questa sera, anticipando l'avvenire, noi abbiamo preso una delle scienze più simpatiche e più caratteristiche della nostra vita moderna, la chimica', l’abbiamo portata qui fra noi e l’abbiamo pregata di offrirci da! suo tesoro di esperienze raccolte in un secolo i mezzi per intendere — per via di confronti — alcune qualità del cristianesimo; anzi, l’abbiamo pregata di aiutarci addirittura a risolvere un problema che tiene perplesse le nostre anime fin dal giorno in cui è scoppiata la guerra: con chi andrà il cristianesimo domani? Con la democrazia o con l’assolutismo? Problema grave e che interessa le libere chiese assai più da vicino di quel che non sembri...
Ma ritorniamo alla chimica. Avevo dimenticato un dovere fondamentale di buona creanza: presentare questa signora, almeno a quei pochi tra voi che non la conoscessero ancora bene. È una delle più utili scienze. Deve molto ai francesi'ed anche un poco agli italiani; vi ricordo solo due nomi, l’Avogadro e il mio maestro Canniz-zaro. I tedeschi, da qualche tempo in qua, le avevano fatto una corte assidua, ma con intenti, pare, poco onesti: le nuvole di gas asfissianti che si innalzano quotidianamente dalle insidiose trincee austro-tedesche e le ruine provocate dalle bombe lanciate dagli areoplani e dagli Zeppelin... e il pane «K » ne sono una prova abbastanza convincente.
Darvi una definizione della chimica?...
... Chimica, dunque, vuol dire trasformazione, nuova creazione: unite due, tre corpi — liquidi gas solidi — e fate in maniera che in un dato momento opportuno si fondino in un’altra sostanza e voi avrete compiuto un’operazione chimica. Non basta però che i corpi siano accanto l’uno all’altro. Ci vuol altro! Debbono andare d’accordo fra loro, intendersi, altrimenti possono restare dei secoli uno-accanto all’altro senza fondersi in una nuova sostanza. Ci vuole che le due sostanze abbiano .tra loro dell'inclinazione, quella tal proprietà appunto che i chimici chiamano affinità. È necessaria anche un'altra cosa: ci vuole un buon agente intermediario, una specie di sensale: calore, luce, umidità, elettricità, pressione, ecc. E poi l'opportunità del momento. La qualità sulla quale io richiamo questa sera la vostra attenzione è V affinità,
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quella proprietà di certi corpi di attirarsi, di modificarsi, di fondersi in un altro corpo. La fisica conosce qualche cosa di simile: il ferro e la calamita. Ma nel mondo chimico quali più potenti attrazioni!...
...C’è anche, in fine, una chimica della vita, la biochimica. L’occhio profano non può scorgerla all’opera: essa agisce nelle nostre vene, nei nostri tessuti, nelle nostre cellule appena visibili ad occhio nudo. Il verde delle piante, il colore smagliante dei fiori, la robustezza e il colorito degli uomini sani sono suoi prodotti. La respirazione, la digestione, la nutrizione portata ai più sottili e più lontani tessuti del nostro corpo sono operazioni chimiche. E come nel corpo umano, così essa agisce negli animali e nelle piante. Quanti prodotti, quale rapidità di creazione, che forza meravigliosa di adattamento, di difesa, di abili alleanze! Ricordate la lotta dei leucociti nel sangue contro l’insidia dei microbi apportatori delle più gravi malattie? Chi ha avuto la fortuna di studiare questa parte della sciènza ha conosciuto l'ebbrezza dell’entusiasmo!
... Torno a ripetere: prodotti complessi, temporanei, voluti dalle supreme esigenze della vita, queste sono le caratteristiche della chimica della vita. Per esse, si stacca nettamente dalla chimica del mondo senza vita e si avvicina alla mobile ricca e finalistica vita dello spirito.
A questa chimica degli esseri viventi noi possiamo chiedere in modo speciale un messaggio spirituale. Ch’essa ci parli il suo linguaggio! Che ne direste, se questa sera considerassimo il « cristianesimo » come un altro elemento da aggiungere ai settanta e più corpi semplici della chimica? Se considerassimo il cristianesimo come l’elemento piti attivo e più nobile della chimica dello spirilo, allo stesso modo che l’oro è il più prezioso e l’ossigeno il più attivo elemento della chimica della materia? Che ne direste se considerassimo come i naturali laboratori di questo gas spirituale, che è il cristianesimo, il cuore dell’uomo e la storiai
A questo punto il curioso titolo della nostra conversazione diviene chiaro; non si trattava nè di una sciarada nè di un rebus da sciogliere: era l'accenno ad un sin-bolismo ricco di significato.
Amici miei, come ci riesce più facile intendere l’opera del cristianesimo nel mondo, la sua funzione, la direzione del suo cammino quando applichiamo alla sua storia i termini, le idee, le immagini così efficaci e piene di significato della vita chimica e della chimica della vita!
♦ ♦ ♦
Vi parlavo pochi momenti fa del doppio laboratorio chimico del cristianesimo: del laboratorio intimo, celato agli sguardi profani, dove non scende che un raggio di luce celeste, dove l’uomo diviene più uomo. Voi riconoscete la più importante reazione chimica che vi provoca la dottrina cristiana: la conversione del cuore; i suoi prodotti speciali: la pace del cuore, l’amore del prossimo, la speranza; le affinità che il cristianesimo vi manifesta per la purità di cuore, per la schiettezza, per la pietà.
L'altro, il laboratorio più vasto dove si crea la grande industria del cristianesimo s’è venuto ingrandendo dagli stretti confini del mondo mediterraneo fino a ricoprire, nel secolo xix, tutta la faccia delia terra abitata, per opera dell’emigra-zione, della colonizzazione e dei missionari.
A noi oggi è più facile che nel passato studiare il comportamento, le leggi, le
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curvé di sviluppo è di pressione — come dicono i chimici — di questo mirabile corpo attivo che è il cristianesimo, che ha una grande affinità con tutte le innumeri forme di progresso. Noi possiamo abbracciare con un solo sguardo diciotto secoli di cristianesimo e di storia della civiltà, perchè quell’esperienza che il chimico raccoglie dagli esperimenti che eseguisce nei suoi laboratori, noi la raccogliamo invece per questo singolare corpo «semplice» che è il cristianesimo dalla storia. Ma non vorrei essere frainteso! Vedete: oggi si parla molto di storia e in nome della storia si dice che il cristianesimo è e sarà quella data cosa che è stato. V’invitano ad ammirare un gigantesco fossile, ottimamente conservato e che ricorda le grandiose impalcature dell’età della costituzione definitiva del diritto romano e della scolastica medievale e vi dicono: « Ecco, questo è il cristianesimo! ».
Se si potesse costruire un grande museo sui generis, a somiglianza di quello di paleontologia del Jardín des Plantes a Parigi, per raccogliervi i fossili della storia cristiana distribuiti secondo le età' gli strati i terreni geologici della storia millenaria del cristianesimo, ognuno di voi cercherebbe invano in essi traccia di quello spirito cristiano che ha creato successivamente quelle forme, vere precipitazioni di una soluzione. Lo spirito cristiano ha lasciato dietro a sè delle carcasse ed è proceduto oltre. Quei fossili, per quanto grandiosi ed imponenti, v’indicano solo che in essi ci fu una vita, v’indicano la direzione di quella vita, la ricchezza di forme di quella vita, ma niente di più. Come la vita ha abbandonato da milioni di secoli i tessuti di quelle gigantesche foreste sommerse che sono divenute carbón fossile, ed agisce invece con possa inesausta nei mille fiori diversi che allietano le primavere del nostro periodo geologico, così la vitalità del cristianesimo s’è allontanata da quei ruderi gelosamente conservati. Ciò che vi farebbero vedere in quel museo sono i prodotti delle reazioni chimiche del passato: incontri della dottrina, dell’ispirazione, della missione cristiana ora con una società ora con un'altra; ora con la civiltà ed ora con la barbarie; ora con l'Occidente e ora con ¡’Oriente; ora col misticismo ed ora con la filosofia; ora con i latini ed ora con i germani; ora con l’impero ed ora col feudalismo. Tanti incontri: altrettante reazioni, altrettanti prodotti succedutisi nei secoli.
Dicevo dunque che la Storia non ci deve condurre ad un museo per venerarvi il passato. Le lezióni di vita che dà ci fanno vedere invece il cristianesimo rivivere in incarnazioni storiche diverse nello spazio e nel tempo; ci permettono di cogliere all'opera il cristianesimo nel suo lavoro di creazione attuale, con le sue caratteristiche reazioni ed affinità.
Oggi, la guerra con i seri problemi che ha posto avanti a noi, con il turbamento delle coscienze, con il precipitare di tutto un mondo, ha ridestato l’attività molecolare dello spirito cristiano, che sta liberandosi da vecchie forme, che si accinge a compenetrare di sè la soluzione di idee, di sentimenti in cui sembra essersi disciolto il mondo di ieri, per creare, sotto forma di precipitali, nuovi organi d’espressione più efficaci, nuovi composti chimici da mettere in circolazione nella società di domani. Perchè quelli di ieri non hanno più « parole di vita »; sono l’archeologia del cristianesimo: simboli superati di ciò che il cristianesimo è stato per un’età, per una razza, per un popolo. Ora, il prendere uno di questi prodotti — Chiesa, codice, dommatica, gerarchia, ecc. — e chiamarlo « il cristianesimo », come se in esso fosse venuto a cristallizzarsi definitivamente tutto lo spirito cristiano, mi sembra follia
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o superbia. La chimica della vita, come vedete, non è troppo favorevole a certi idolatri del passato! Su chi si fissa buddisticamente su di un punto del passato, mi sembra che dal cielo ancora oggi scenda una voce ammonitrice: « Uomini di Galilea, a qual fine guardate immobili nell’azzurro, e vuoto cielo? Andate... Gesù non è più qui! » li cristianesimo è infatti una continua ascensione. Sempre più in alto, e. permettetemi di aggiungere, sempre più avanti!
• • *
Oggi —e v0> sapete comprendere bene la lezione degli avvenimenti — s'è delineata una lotta a fondo fra due concezioni del cristianesimo: la concezione statica e la concezione dinamica. Mi spiego subito. C’è un grande gruppo di cristiani, più di xoo milioni, che sostiene con energia che il cristianesimo è libertà, è ispirazione, torrente impetuoso che vuol farsi la sua strada nel mondo, forza spinta in avanti, opera meravigliosa di creazione continua provocata dagli sforzi degli individui meglio dotati dello Spirito di Dio; altri — i cristiani delle chiese officiali, romana, luterana e simili — i quali dicono che il cristianesimo è un codice, una officialità, un insieme di riti ben definiti, un fiume tranquillo che svolge il suo corso uniforme in-collettato fra due alti e stabili muraglioni. Dobbiamo deciderla questa questione! Questione principale, che va dinnanzi a tutte le altre nel campo delle lotte religiose contemporanee! E la nostra seconda guerra, la sopra guerra spirituale. Non ho questa sera il tempo per discutere, anche brevemente, questa questione. Mi basta accennare ad una controprova. Ditemi: quali sono le affinità del cristianesimo? In termini meno chimici e più familiari: « verso chi vanno le simpatie del cristianesimo »? La risposta che ci dànno la storia e l’esperienza individuale prepara il terreno alla soluzione della questione a cui accennavamo or ora.
Dovrei passare in rivista davanti alla vostra memoria i punti culminanti e decisivi della storia del cristianesimo; dirvi come la predicazióne evangelica Sul suolo nativo della Palestina sentì subito affinità con quei giudei che venivano dal paganesimo, e quando si portò sul suolo dell’impero romano, con tutte le anime del paganesimo che erano state turbate dalle religioni dei Misteri; dirvi come il cristianesimo sentì affinità con gli uomini che cercavano nel caos morale del mondo imperiale romano una via sicura che li conducesse alla sapienza e alla redenzione. E poi sentì affinità per i barbari, per gli schiavi, per i poveri, per le folle, per gli umili, per i grandi che divenivano umili. Ricordate sant’Agostino, il retore africano?
E il cristianesimo ha-sentito successivamente affinità e per'il platonismo e per V aristotelismo, due modi diversi di pensare il mondo e la vita, quando questi due modi di pensare dominavano le menti, e ha creato un platonismo ed un aristotelismo cristiano oggi parimenti incomprensibili per noi.
Come vedete, il cristianesimo ha sentito affinità, s’è unito virilmente e cordialmente, sempre, con quanto di vivo s’è venuto ad incontrare, con tutto ciò che aveva un avvenire « tutto soggiogando a Cristo, tutto provando, il bene assimilando ».
A chi grida: « Il cristianesimo fatto Chiesa ha affinità con noi, uomini del diritto, uomini della forza, uomini della tradizione! » noi diciamo: « No, il cristianesimo è spirito e non istituzione; il cristianesimo è entusiasmo, critica e riforma incessante
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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attesa vigile e fattrice di un mondo migliore qui, su questa terra stessa: il cristianesimo è sopravalutazione dello spirituale, del l'interiore, dell'individuale sugli interessi materiali, esteriori, tradizionali e politici ».
La rigida ed irreprensibile toga del diritto e della romanità in cui si ammanta la vecchia chiesa, è una veste che il cristianesimo ha indossato nel mondo romano bizantino e nel medio evo. Essa ha cessato di essere un simbolo vivente il giorno in cui è morta l’illusione della sopravvivenza dell’impero romano nel tedesco, illusione che ha tenuto per tanti secoli l’Italia serva del tedesco e degli altri stranieri e che le ha impedito di avviarsi risolutamente verso l'unità nazionale. Toga veneranda, senza dubbio! Ma io mi domando se.non sia simile alle fasce di una mummia, che non possono venire tolte se non riducendo in polvere il corpo che avvolgono. Ah! Se fosse così, io dispererei del cristianesimo e dell’avvenire spirituale del mondo. Stringersi al passato sarebbe una questione di vita 0 di morte: il progresso sarebbe finito — intendo, il vero progresso che è spirituale!.,.
Una sola cosa voglio ricordare qui questa sera: si dice e si ripete che « il cristianesimo utile alla nostra patria è il cattolicismo romano, perchè latino, perchè paladino del diritto e della forza. Tutte le altre forme di cristianesimo o sono sentimentalismo democratico o dottrina anarchica di violenza e di individualismo. Come nemici ugualmente della democrazia e della violenza anarchica, in nome della nostra tradizione latina ed italiana, noi ripudiamo con forza queste due forme di cristianesimo e dichiariamo loro guerra ». Il ragionamento è suggestivo ed unisce abilmente dei motivi nuovi della nostra sensibilità sociale, che noi non possiamo trascurare, con il sofisma. Non vi pare di trovarvi di fronte ad un abile trucco che abbia per l’occasione trasformato la distinzione di un filosofo tedesco, lo Schopenhauer, fra il cristianesimo dottrina di compassione e di democrazia, e perciò dispregevole, e cattolicismo dottrina di forza e di supremazia aristocratica, e perciò degna d’un uomo superiore?
Per chi vuole difendere la latinità contro il germanesimo, convenitene, quale ironia è il dover ricorrere ad un puro « prodotto » tedesco!
« * *
I problemi ad ogni modo ci sono, anche se vengono posti da incompetenti e da interessati. Essi battono insistentemente alla porta della nostra intelligenza e ci turbano. Sono problemi vecchi quanto il cristianesimo, problemi che nei momenti decisivi della storia della nostra Europa rinascono in tutta la loro forza, o, se volete, in tutta la loro virulenza. Se il cristianesimo non fosse una religione universalistica; se il cristianesimo non fosse prima di tutto una forza spirituale e una critica di ogni fariseismo, quale è essenzialmente ogni tradizionalismo religioso; se il cristianesimo non postulasse quella immensa e radicale trasformazione della vita sociale che è contenuta nell’idea del Regno di Dio — «Venga il tuo regno»!—nessun germe verrebbe di tempo in tempo a far ardere di febbre la nostra placida e realistica natura, e potremmo accontentarci di ammirare soddisfatti le linee classiche di un monumentale tempio in cui fosse espressa potentemente la maestosa « rispettabilità » di una nostra religione nazionale qualunque.
La religione-monumento! Ne avremmo abbastanza di religione, ve l’assicuro!
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Ma nel nostro sangue c’è stato innestato l’ideale cristiano. Di qui il nostro turbamento e là nostra insoddisfazione, ma insieme il germe del nostro progresso spirituale! Qual meraviglia che ancora oggi la coscienza cristiana ci appaia fra noi in equilibrio ' instabile, sottoposta a due « coppie di forze », universalismo e particolarismo da una parte, tradizione ed ispirazione dall’altra? Come risolvere il conflitto rinascente fra V universalità del fine e del contenuto e la particolarità inevitabile dell’espressione, che nel caso attuale ci si presenta sotto l’aspetto di nazionalismo"! Se aveste de! tempo e un po’ di volontà di ridere, io vi direi qui come il problema formidabile è stato presentato al pubblico da certi organi autorizzati ed interessati,! anto per difendere quella certa neutralità spirituale di chi non ha saputo trovare nella sua coscienza una parola di santo sdegno contro gli invasori del Belgio e della Serbia e contro la sleale lotta dei sottomarini tedeschi...
A me bastava accennare ai formidabili problemi che stanno dietro a certe insidiose, sofistiche e ristrette rappresentazioni di un diffuso stato di coscienza assai penoso. Non è ad una modesta conferenza che voi potete Chiedere di mettere in luce tutti i termini di un problema e di tentarne una soluzione; insisto solo su di un aspetto pratico della questione: al vostro compito in quest’ora di difficoltà e di equivoci. E il vostro compito, un compito arduo senza dubbio, miei giovani amici, è questo: fate il cristianesimo evangelico, qui fra noi, più latino, più italiano. Dalla sua storia, dai suoi precedenti e dalla conoscenza dell’anima, della storia, della coltura latina voi ricaverete quegli elementi di luce, di calore, di simpatia che possono favorire rincontro, esau-rireì'affinità che il cristianesimo ha con la nostra civiltà millenaria e con il nostro senso di libertà e di rinnovamento spirituale. Non fate opera negativa di critica, non opponete altare ad altare, non maledite, non appartatevi dal mondo in cui Dio vi ha chiamati ad agire; ma ascoltate tutte le buone voci che salgono dal passato come dai presente, innestate la fresca linfa della predicazione rinnovatrice di Gesù su i vecchi tronchi della nostra civiltà. Voi avete dinanzi agli occhi un ideale più alto e pili attivo di cattolicità di quello delle vecchie chiese ieratiche e gerarchiche. Le « Chiese libere » hanno saputo superare l’antagonismo fra la ristretta concezione « cattolica » delle chiese storiche e l'individualismo religioso così geloso dei primi puritani, inaugurando un glorioso periodo di catlolicismo veramente cristiano ed evangelico. Fate valere questa nobile conquista!
Siate dunque dei grandi chimici nel mondo dello spirito; associate, con fine intuito delle vere affinità, l’elemento spirituale ed attivo del cristianesimo con quelle correnti di pensiero e con quelle forme di attività pratica a cui domani spetterà l’avvenire nella nostra patria.
Seguite i passi di Paolo, il primo' grande chimico del cristianesimo, il Lavoisier dello spirito cristiano. Egli ci rivelò, nello Spirito, le vere ed eterne leggi dell'o^mtò cristiana ed arditamente, contro il ristretto spirito dei suoi colleghi nell’apostolato, associò in uno stabile composto il cristianesimo nascente alla società occidentale e romana, che è anche, dopo due millenni, la nostra civiltà.
Amici, siate imitatori di Paolo e creatori, a vostra volta!
Mario Rossi.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
VII.
LA DOTTRINA DELL’IMMORTALITÀ DOPO KANT
» Il problema dell'immortalità dell’anima. dopo l’apparizione della Critica della ragion pura, attraversò una specie di crisi. Pareva che la " Dialettica trascendentale ’’ e la " confutazione dell’argomento di Men-delssohn ” fossero qualche cosa di definitivo; l’avventurarsi nel •• vasto e tempestoso oceano ” cingente " l’isola della verità ” sembrava un sogno vano; qualunque asserzione positiva, fondata sulla pura ragione, intorno alla natura e al destino dell’anima dopo la morte, era ritenuta una fantasticheria. Anche i pensatori che credevano d’aver superato Kant, o d’es-sersene staccati, rifuggivano dal guardar fisso la morte, come un abisso troppo profondo. Il Fichte, p. es., non fece che ripetere che la vita e realtà vera è quella dell’io assolato, in cui naufragano gli individui; ma non trattò di proposito l’argomento. Lo Schelling lasciò solo alcune espressioni frammentarie e non mai definitive della sua opinione al riguardo. L’Hegel, sebbene, come pare, propendesse ad ammettere solo l’immortalità della specie (idea), non si pronunziò mai chiaramente sulla questione; ma, col suo linguaggio sibillino, l’avvolse d’ombra misteriosa; cosicché neppure i suoi discepoli sapevano dir bene se egli avesse affermato la sopravvivenza delia personalità dopo la morte. Accadde anzi che alcuni suoi seguaci, come F. Richter e il Blasche. respingessero la credenza nell’immortalità.
mentre altri, come C. H. Weisse, la ammisero, almeno per quegli uomini eletti che avessero raggiunto una vita spirituale {iena e vigorosa, dominatrice dei corpo.
.’Herbart scrisse solo che l’anima è una sostanza semplice (un reale) e che la sua immortalità si intende da sè a causa del-l’extratemporalità del reale; ma non entrò nel vivo della questione. Lo Schopenhauer, pur dedicando parecchie pagine, letterariamente belle, all’argomento, non ne affrontò con chiara coscienza tutte le difficoltà; giacché ammise l’indistruttibilità del nostro essere in sé, non dei fenomeni, ma considerò come il vero essere in sè la vita o, meglio, il voler vivere della specie, e come fenomeni le persone con la loro intelligenza e ragione; e così, passando oltre molti punti oscuri e scabrosi senza accorgersene, non approfondì il problema. Anche il Loke trasvolò sull’argomento ».
Con queste parole G. Capone Braga inizia un suo studio (Cultura filosofica, 1916, n. Il) su VAthanasia di Bernardo Bolzano, un filosofo di origine italiana, nato e vissuto a Praga, dove morì il 18 dicembre 1848.
Quello che il C. B. scrive non fa meraviglia. La fede nella immortalità dell’anima, fondata da Kant sulla ragione pratica, come postulato non dimostrabile, doveva cadere insieme con quel residuo di realismo e di dualismo che era il suo mondo noumenico; e si può dire che, dopo lui, l’idealismo trascendentale, considerando le persone singole come fenomeni dell’w, venisse con ciò a negare lo stesso soggetto finito al quale si tratta di
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attribuire o negare l’immortalità; e solo con una negazione radicale dell’idealismo (Herbart) si poteva per allora tornare a parlare di immortalità. La logica del sistema apparisce chiara nella dottrina, della quale diremo in seguito, di B. Croce su questo argomento. B. Bolzano tenne fermo al noumeno di Kant, facendo un passo innanzi. • Secondo .Kant, egli dice, noi mediante la semplice ragione non possiamo conoscere nulla degli oggetti soprasensibili, p. es., della nostra anima; ossia non possiamo pronunciare nessun giudizio sicuro su di essi, tranne che non ci limitiamo ad affermare quel che già si contiene nel semplice concetto nostro... Se... asseriamo che l’anima è semplice o immortale le attribuiamo proprietà che non sono contenute nel semplice concetto di essa; pronunziamo quindi giudizi sintetici. Ora questi sono validi se si riferiscono a oggetti dell’esperienza, la quale appunto ci dà i predicati non racchiusi nel concetto, ma non se concernono oggetti soprasensibili; perchè in tal caso... sono sospesi nel vuoto. Ma, osserva il Bolzano, questo discorso si contraddice; poiché è pur esso un giudizio su oggetti soprasensibili. Infatti noi. dicendo di non poter enunciare nessun giudizio sintetico su di essi, pronunziamo manifestamente un giudizio, e per giunta sintetico. Ne) concetto di oggetto soprasensibile in vero non c’é se non l’idea che esso dev’essere un ente di cui é impossibile per noi avere una intuizione, una percezione sensoriale. Ma che noi non possiamo enunciare su di esso un giudizio sintetico, è tutt’altra cosa: non è nel concetto di ènte soprasensibile. È dunque un giudizio sintetico; e noi, enunciandolo, diciamo di non poterlo enunciare. Ecco la contraddizione ».
Del resto, prosegue il Bolzano, Kant ammette che dell’immortalità dell’anima, come dell’esistenza di Dio, noi possiamo essere immediatamente certi, fondandoci sul giudizio della nostra coscienza morale. E allora, se, mediante la riflessione, troviamo delle ragioni per queste verità, possiamo accoglierle fiduciosamente, trattandosi solo di persuaderci, per mezzo di esse, di ciò di che già dobbiamo essere sicuri.
LE PROVE DELL’IMMORTALITÀ
Con queste premesse critiche, il Bolzano si accinge all'opera, e la prima cosa è l’affermazione dell’anima come sostanza, come cosa in sé, come monade. Dopo di
che, cinque prove adduce il Bolzano, delle quali tre razionali.
La prima è uno studio sulla natura dell’anima. Se essa è sostanza, è sostanza semplice: non un composto, non un aggregato. non un insieme nel quale le vane funzioni dell’anima possano essere attribuite a parti ed organi diversi. La coscienza, la rappresentazione, il pensiero, la volontà sono atto unico e inscindibile di una sintesi spirituale. Con una lunga analisi psicologica e metafisica, il B. illustra e spiega questa parte fondamentale della sua dimostrazione. Dalla quale poi passa facilmente a mostrare che non può esservi un'anima per ogni atto spirituale che richiede questa semplicità; ma vi è un’unica anima identica per la serie di questi atti; poiché essi non sono staccati, ma si implicano a vicenda e si svolgono. Da ciò segue che l’anima non può venire meno per disgregazione deile parti, per decomposizione, poiché essa non ha parti.
Ma, se non per decomposizione, non potrebbe essa venire a mancare per distruzione? Essa, se è in sé, non esiste indipendentemente dall’atto assoluto: se da questo ebbe l’esistenza, da esso può anche esserle tolta. Per il B. la indistruttibilità dell’anima implica il concetto della sua non creazione nel tempo; e nella seconda prova egli si industria appunto di dimostrare che l’anima non ha origine temporale. Un esame acuto della nozione di causa ed effetto gli serve a mostrare come, data una causa totale di un certo effetto, nella quale cioè sicno poste a un tempo tutte le condizioni del procedere all'atto suo che è l’effetto, questo segue immediatamente la causa. Tale è appunto il caso della creazione dell’anima da parte di Dio. Poiché dunque l’anima umana non nasce nel tempo, essa non muore nel tempo.
La terza prova è tratta dalla vita e dallo sviluppo dell’anima. Questa, dice il B., è di natura sua tale che, nel suo agire, diviene sempre più comprensiva e ricca di energia e di vita interiore. La stanchezza, l’indebolimento, la degradazione dell’energia avvengono nelle sostanze com: poste. Dove c'è immediatezza di essere e di atto, e perfetta corrispondenza fra questo e quello, la crescente ricchezza ed esplicazione dell’atto è un arricchimento di vita. Un esempio di ciò, dice il B., si ha anche in talune energie fisiche; p. es., nella forza di attrazione, la quale pure procede immediatamente dai corpi.
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non mediante organi o meccanismi speciali. La capacità rappresentativa, in particolare, dell’anima aumenta sempre; ed essa è la base e il pernio della vita spirituale.
Dal che risulta chiaro che la nostra vita terrestre non è che una breve pulsazione della grande vita infinita, che ogni anima deve percorrere. Onde la necessità di ammettere altre pulsazioni più possenti e più vicine alla fonte dell'immenso oceano di luce e di vita.
Ma perchè, si domanda giustamente il C. B. noi non siamo, in questa vita, perfetti onnipotenti, se, vivendo dalla eternità, abbiamo percorso infiniti gradi di esistenza?
Il quarto argomento del B. è tratto dalla esistenza di Dio, e dalla conclusione che il mondo, creato da lui, non può essere che il più atto ad assicurare la vita e lo sviluppo degli esseri creati, secondo la natura e le aspirazioni loro. Il quinto è tratto dagli evangeli (rivelazione divina).
Il C. B. fa seguire una breve analisi critica degli argomenti del B.; eia sua conclusione sul. loro valore è negativa.
LA PSICOFISIOLOGIA E L’IMMORTALITÀ
Se la dimostrazione tentata dal Bolzano Euò parere inficiata di dogmatismo pre-antiano, trasferendoci essa in un mondo di reali, di sostanze, di monadi e di costruzioni metafisiche soggette alla diffida del criticismo, potremo con più fiducia, sotto questo aspetto, ascoltare le caute ma pur fiduciose intuizioni del fondatore della psicologia sperimentale, G. T. Fech-ner. Nell’/ftoò«'/ Journal, voi. XIV, n. I Sottobre 1915) troviamo, in un articolo li J. Arthur Hill, riassunto il pensiero di Fechner sull’immortalità, quale apparisce specialmente nel suo libro: Weber dìe See-lenfrage, ripubblicato nel 1907, 46 anni dopo la prima edizione, dal prof. F. Paulsen con una introduzióne.
Le difficoltà opposte all’immortalità, dal punto di vista scientifico, possono essere ridotte a tre fondamentali:
ia La materia inorganica non ha coscienza. Ora il corpo, dopo la morte, diviene, più o meno lentamente, materia inorganica. La coscienza, che era in esso, quindi, svanisce,
2a Se c’è in noi qualche cosa che la morte fisica non tocca, come può sopravvivere separatamente se non ha più un corpo che la contiene e distingue? In
particolare, come si può concepire una memoria se non c’è pili cervello, il cervello nel quale essa s’era formata?
3“ In breve, noi dobbiamo poter vedere continuità, lenta transizione prima di credere nella sopravvivenza. La vita futura deve essere veduta come un ulteriore stadio di evoluzione, non come un fatto metafisico, isolato dal nostro stato presente.
Fechner risponde, sostanzialmente:
1. La prima osservazione è falsa. La materia inorganica non è inconscia e morta. Dalla terra viene la vita. È più ragionevole supporre che tutta la terra è vivente, benché la vita vi si manifesti in forme diverse dalla nostra. Come il mio corpo è il sostegno e la visibile espressióne del mio spirito, così in generale il corpo è il sostegno e la visibile espressione dello spirito. Mens agitai molem. L’universo è materia satura di mente. La terra, porzione di esso, è corpo e spirito, come siamo noi, frazioni di questa frazione. Nella morte, coinè il corpo si ricongiunge alla terra, lo spirito che era in esso si ricongiunge allo spirito della terra. Ma in qual modo? Sommergendosi e disparendo come acqua nel mare? No, dice il Fechner. questa immersione non può essere sparizione della individualità. Se il corpo si disintegra. perchè tale è la sua natura, l’io spirituale non si disintegra, perchè altra è la sua natura. E qui passiamo al secondo punto.
2. Il principio della nostra vita mentale è percezione e sensazione. Queste esperienze sono quindi trasferite nel dominio della memoria, dove sono unite e fuse, senza perdere la loro individualità. Fechner assimila questa vita al momento della percezione e la ventura al momento della memoria. Quando muoio, lo spirito della terra cessa di percepire in me, ma la mia mente entra in questo spirito, acquistandovi più ampie connessioni e rapporti con altri spiriti, senza perdere la sua individualità. Se si domanda: come può la personalità consapevole mantenersi in questa intercomunione e fusione? F. domanda, alla sua volta: come può mantenersi l’individualità delle percezioni e dei ricordi nell'unità dello stesso cervello?
Noi non abbiamo una terica fisiologica della memoria. Non sappiamo, anche ora, come avviene che ricordiamo. Non è troppo esigere il chiedere come potremo ricordare dopo? Al più, dovremmo tenerci in una attitudine agnostica. Se una ulteriore anatomia del cervello dovesse darci una teoria fisiologica della memoria — co-
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me ha poi tentato di fare il Bergson, in: M olière et M ¿moire — la credenza nella memoria post mortem dovrebbe implicare la scoperta di una qualche base materiale per questa. E ciò ci conduce all’ulteriore e più vasta questione di un corpo dello spirito dopo la morte.
3. Cominciando, come è suo uso, dal noto, F. ci richiama al fatto della nostra persistente identità. Il corpo di un ottuagenario non ha più nulla di comune col bambino che egli fu: ma viene da quello. Ma questo farsi graduale del nostro corpo non si limita all’organismó in sè; ha una sfera più vasta. Con le azioni nostre e sin con i pensieri noi modifichiamo continua-mente il mondo circostante. Così noi ci formiamo una specie di organismo più vasto. L’insieme della nostra azione su! mondo, la materia che è stata in qualche modo e misura trasformata dalla nostra attività è il corpo della nostra consapevolezza posi mortem.
Se si osserva che questo corpo largamente diffuso sembra un assurdo, la risposta è che tutta la materia è connessa e che la distanza è relativa. Anche il nostro organismo fisico è un mondo; e un corpuscolo di sangue si stupirebbe della presenza dell’io in una così vasta massa come il cervello. Le molecole non sono meno separate l’una dall'altra di quel che siano i corpi visibili; e pure la stessa coscienza le include tutte. Analogicamente, lo stesso uò essere, in più larga scala, dello spirito opo morte. E qui il F., e sulle sue tracce
lo Hill, entrano in considerazioni attinenti a quell’insieme di esperienze che è chiamato spiritismo, nelle quali non li seguiremo.
RAGIONE E FEDE
Ma queste sono analogie, e dipendenti in parte dalla sorte riserbata alla dottrina generale del parallelismo fisio-psichico. E’ dubbio quindi se esse, pur essendo un monito alla presuntuosa ignoranza dom-matizzante dei materialisti, possano dare la certezza, meglio che le prove metafisiche del Bolzano. Più sicura può parere la posizione che, in un altro numero dello Hibberl Journal, voi. XIV, III (aprile 1916), prende il rev. W. Tempie. La ragione ci lascia nella perplessità in cui era Socrate avanti la morte, secondo il racconto di Senofonte; ma « io sostengo che l’immortalità è una verità di teologia e non di filosofia, cioè a dire, che noi troviamo una valida base per credere in essa
solo in un convincimento religioso che la. filosofia, di per sè, non può dimostrare, e che non trova una tale base nè nella metafisica, nè nella scienza del reale oggettivo, nè nella psicologia, scienza dell'anima ». Il Tempie analizza in fatti gli argomenti del Fedone, mostrandone l’insufficienza. Nel Timeo, Platone conclude dicendo che l'anima non è immortale per suo diritto, ma per volontà di Dio; e ne fa quindi una verità di teologia. Aristotele non ammetteva l’immortalità dell'ànima.
Da questi, possiamo saltare a Kant, il noto ragionamento del quale è volto a mostrare che la ragione pratica, la vita morale postula il soddisfacimento suo oltre la realtà e la durata empirica, che essa trascende e nega col suo imperativo; e quindi l’esistenza di Dio' e l'immortalità dell’anima. Ma questo argomento è hope-lessly unconvincenl. « Non c'è dubbio che la mia coscienza implica un ordine di perfetta giustizia che solo resistenza di Dio e la verità dell’immortalità rendono possibile. Ma non può, dopo tutto, la coscienza essere una splendida fantasia? E non può il supremo potere esser tale che, come V Assoluto di Bradley, in un periodo del suo sviluppo, è capace di prendere piacere nella futilità dello sforzo umano, e ci diede la coscienza morale per ! »rendersi il gusto di veder gli uomini afaticarsi dietro una virtù irraggiungibile? »
Ricordino, i lettori italiani, il lamento di Leopardi nel Bruto minore:
Stolta virtù, le cave nebbie e i campì, eco.
Io non dico, prosegue il T., che credo essere la ragione da questa parte; al contrario, penso che il peso di essa è dall’altra parte; ma esso non giunge ad una dimostrazione, neanche a quella prova morale che Kant credeva di averci offerto. Io non veggo che l'obbligazione morale sia affetta, in un senso o nell'altro, dalla nostra risposta alla domanda: può essa essere pienamente compiuta? Se. come Huxley temeva, l’universo è contro di noi e noi dobbiamo essere schiacciati come mosche nell’ingranaggio, la nobiltà del dovere rimane quale era. Se dobbiamo morire, moriamo. almeno da eroi.
« Io sono convinto che il pcnisero di Kant non conduce a nulla se esso non conduce a un Dio di amore; ma, se Dio è amore, egli deve avercelo detto, poiché è nella natura dell’amore di manifestarsi. Se non fosse per la vita del Cristo, io
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sarei costretto a dire come Cleone nel poema:
Giove non lo ha ancora rivelato, e, ohimè. Egli lo avrebbe fatto se fosse stato possibile.
Un rapido sguardo ai tentativi di altri filosofi, dopo Kant, e in particolare al Royce, ed a quelli dei seguaci delle ricerche psichiche, conduce lo Hill alla stessa conclusione; sicché egli si volge alla rivelazione cristiana e si arresta in essa.
I “ PRAEAMBULA FI DEI ”
Eppure, metter da parte intieramente la filosofia non è, evidentemente, possibile. Almeno perchè essa deve illuminarci intorno a questi due termini: Dio e anima; deve darci, se non una visione del mondo della realtà oltreterrena, una visione della realtà in cui questa non si intenda come contradittoria e positivamente impensabile. Della proposizione che afferma l’immortalità umana, la filosofia deve darci almeno il soggetto. Ora, come notavo sopra, questo è il problema intorno al quale si applica oggi la filosofia: e dalla incertezza di esso dipende, in gran parte, l’incertezza intorno alla immortalità.
Nel volume di R. Murri: // sangue e l’altare, un capitolo, l'ultimo, è dedicato appunto alla immortalità. La guerra ha posto di nuovo il problema, per moltissimi: quelli che muoiono, per una causa alla quale la nostra coscienza è portata ora ad attribuire il massimo valore morale: la patria e la giustizia, fanno semplicemente Stto della loro vita, disparendo intieri?
perdendo l’anima loro, la salvano? Il fervore dell’ora non deve impedirci di guardare serenamente in viso la questione. Un esame tecnicamente filosofico di essa dovrebbe incominciare da! chiedersi: che cosa è l’io del quale e nel nome del quale si afferma l’immortalità? Prima di sapere se egli è soggetto di vita immortale, bisogna chiedersi se ed in qual modo egli è semplicemente soggetto.
Abbiamo veduto come la metafisica realistica e la psicologia empirica del parallelismo rispondano a questa domanda. La loro risposta non può essere accolta senza riserva; perchè il dualismo che essa implica è, od almeno sembra, sino ad oggi, contraddetto da un più accurato esame dell’autocoscienza, la quale ci apparisce inscindibile unità di soggetto-oggetto, sintesi di natura e di pensiero, coscienza non di un io empirico, il quale non
riesce, altro che nella coscienza volgare, a tracciare una linea di demarcazione fra la propria personalità e il mondo così detto esterno, e mólto meno fra quella che si dice anima e quello che si dice corpo, ma piuttosto di un sè universale nei processi dell’io empirico. Sicché avviene che alla persona, secondo la comune concezione volgare, in quanto cioè è coscienza assommante questo processo psichico e ad esso rif cren tesi totalmente, molti desiderano e sperano l’immortalità.
Ma d’altra, parte l’idealismo assoluto, nella sua interpretazione più strettamente immanentistica, di G. Gentile e di B. Croce, costruisce l'io assoluto, degli elementi del mondo, ma risolve l’io empirico, risolve la mia autocoscienza, il mio essere e sentirmi io, nell’unità dell’atto puro, annulla in questa unità ogni differenza di individui e di cose. Noi non possiamo seguirlo in queste sue estreme deduzioni, non perchè esso minacci la vita dell’individuo dopo la morte, ma semplicemente perchè esso risolve ed annulla l’individuo nel tutto, non sa dar conto della molteplicità delle esistenze, dell'unità dei singoli processi di autocoscienza, non riesce a fondare la vita morale.
Fra questi due estremi, una via ci si apre ed è il considerare là personalità là dove essa ha veramente sede, nel processo libero e volontario di unificazione morale dell’io; in quel graduale dominio di sè e del mondo, per uno scopo morale proprio, per il quale la volontà diviene atto e conquista di un fine unico. In questo la personalità acquista una consistenza che ci apparisce essenzialmente di natura morale, ma cui non possiamo negare una vera realtà, tanto più vera quanto meno soggetta alla erosione del criticismo kantiano. Ora questo costituirsi della personalità morale implica rassegnare allo scopo etico della vita un valore assoluto, nel porre questo valore sopra a tutto; abbiamo quindi qui un nucleo di personalità in cui l’immortalità è in qualche modo contenuta per definizione. L’essere morale, l'io, è una, fra le innumerevoli, concreta e definita attuazione dell’assoluto. nell’unità non dell’attimo, ina di un processo individuo di inveramento, di attuazione e di conquista. L'espressione più alta di questo dominio etico di sè, e quindi la più sicura via verso l’immortalità, è il dare consapevolmente e liberamente la propria vita per una causa.
Questa, in sostanza, l’argomentazione
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del Murri; il quale, con un processo di pensiero indipendente, giunge ad una sostanziale concordanza di dottrina con taluni noti idealisti e teisti inglesi ed americani che stabiliscono e fondano la personalità come essere di natura essenzialmente finalistica e morale.
GUERRA, AMORE E IMMORTALITÀ
Sotto questo titolo, il sen. A. Chiapponi ristampa presso Hoepli, con una nuova introduzione e numerose aggiunte, un suo noto studio « sulla questione della sopravvivenza umana ». Notevoli sono innanzi tutto, in queste pagine, la larghissima informazione dell'A. e la ricca bibliografia. Il Chiappelli raccoglie, con signorile prodigalità, quanto poeti e mistici, scienziati e filosofi hanno pensato e scritto in questi ultimi tempi a favore della immortalità; nè disdegna le tentate dimostrazioni degli psichisli, ma ad esse anzi torna con insistenza e ad esse dedica uno dei più diffusi capitoli del volume.
Non è, questo, uno scritto di filosofia sistematica, e il filosofo sistematico può quindi risparmiarsi le osservazioni che gli sarebbe facile fare; a cominciare da questa che il Ch., occupandosi diffusa-mente di morte e di immortalità, non pone in alcun punto del suo studio l’argomento di esso con netta precisione di termini. Appunto, a porre filosoficamente il problema — e poco più che questo, in sostanza, si può fare dai filosofo — ci voleva espressamente un volume, anzi un intiero sistema di filosofia; e il Ch. non ha inteso fare questo e non ha inteso scrivere per filosofi. E pure non mancano nel libro alcune buone pagine sull’argomento morale, che è quello che di più solido — come ho notato sopra — si possa dire sull’argomento. In realtà il mondo morale nega se stesso, nell’atto medesimo in cui si pone, se esso non implica la permanenza dei valori ideali come permanenza dell'io che nella conquista di essi ripone lo scopo consapevole e libero della sua vita. Voi potete negare questa tesi, ma condannandovi a un oscuro pessimismo o costruendo una razionalità dell’essere, la quale rimane di qua dalla volontà e dal mondo dei valori morali.
Nelle dimostrazioni tentate dagli psi-chisti, specialmente col mezzo delle ri
cerche medianiche e spiritiche, il Ch., ha molta fiducia; così da ritenere che l’immortalità non manchi oramai di una prova scientifica. Ma la fiducia non è senza un « cauto riserbo ».
■ Se non la virtù di creare il fatto stesso dell'immortalità, potremmo bene ammettere che il bisogno della continuità della vita possa avere quella di formare un organo più atto ad acquistare sentore d’un mondo spirituale diverso dal nostro, cioè d'una, per così dire, maggiore sensibilità d’un altro piano di vita; e, per usare una efficace espressione evangelica, di fare violenza al regno dei cieli. Per escir di metafora, non è senza significato che una metodica e rigorosa ricerca sui fatti psichici non sia cominciata se non da un trentennio; dopo che la società inglese per le ricerche psichiche si costituì ed imprese i suoi lavori nel 1882; prima alquanto incerta nei metodi da seguire, poi sempre più fatta sicura dei suoi procedimenti e più rigorosa in quella sua opera critica, la cui storia ci è stata meglio che da ogni altro narrata da sir Oliver Lodge. Noi non diremo —- come altri hanno fatto — che le manifestazioni o rivelazioni del mondo spirituale si sien fatte, in quéste ultime generazioni, più frequenti ed evidenti e che quel mondo si sia avvicinato a noi. Ma potremo dire che la capacità di tentare un ordine di esperienze nuove intorno alla vita psichica più occulta e supernormale si è, senza dubbio, più acuita e disciplinata in questi ultimi tempi. Fatto, questo, la cui importanza sarebbe vano disconoscere ».
Nell'insieme, la lettura di queste pagine tende adunque a persuadere delle pensa-bilità e delle credibilità di una vita oltre la morte. La prova è nella tenacia, nella bellezza, nella ricchezza di intuito e di ispirazione sentimentale e lirica, nella forza morale di questo desiderio di immortalità. Una contraddizione dolorosa sarebbe inserta nel più intimo della vita se a tanto desiderio non rispondesse, oltre il silenzio, che il vuoto; coppe protese con infinito anelito verso il cielo, desiderio che attende d’esser colmato, esse cadrebbero infrante nella morte; e la vita del mondo non accumulerebbe che macerie, sulle quali inutilmente il cristianesimo avrebbe issato la croce, come sul tnons testaceus, sotto l’A ventino.
w.
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Cambio colle Riviste
INTERPRETAZIONI RELIGIOSE
DI GRAVI SCIAGURE NAZIONALI
L’ammiraglio inglese Sir David Beatty, scrivendo recentemente alla « Società per promuovere la conoscenza del Cristianesimo », così sì esprimeva: « ...L’Inghilterra deve ancora riaversi dallo stupore della propria soddisfazione e compiacimento, di cui la hanno imbevuta le sue fiorenti condizioni: e fino a che essa non sarà scossa dal suo letargo e finché non succeda un risveglio religioso generale, la guerra non volgerà verso il termine. Quando essa potrà riguardare al futuro con umiltà e con una preghiera sulle labbra, solo allora noi potremo cominciare a contare i giorni che ancora mancano al termine ».
Uno scrittore del New Statesman contrappone a Jueste visioni e speranze le parole con cui Tucidide escrive la grande demoralizzazione prodotta dalla famosa peste di Atene complicata dalla guerra, come tipiche degli effetti che i « grandi castighi di Dio » sogliono produrre sui popoli. Il grande storico così scriveva nel v sec. a. Cristo: « ...Ora i cittadini si abbandonavano freddamente ad azioni che prima avevano compiuto solo di nascosto e senza la piena libertà. Essi vedevano i repentini passaggi di ricchezza Srodotti dalla morte improvvisa di persone agiate e alla rapida successione di persone dianzi miserabili nel possesso di tutti i loro averi: e perciò risolvevano di spendere rapidamente, investendoli in piaceri, i loro beni e la loro vita, non considerando vita e ricchezze che come capitale di un giorno. La perseveranza nel perseguire quelle che si chiamano azioni onorevoli aveva perso la stima popolare, vista la grande incertezza del conseguimento di scopi a cui la vita poteva non bastare: invece, si riteneva che il vero onore e il vero utile consistesse nel godersi il momento presente e in tutto ciò che a questo conduceva. Nè timore degli Dei, nè riguardo a leggi e ad uomini valeva a rattenerli. Giacché, quanto al primo, giudicavano che fosse perfettamente indifferente il venerare, o no, gli Dei, visto che tutti perivano ugualRivista internazionale di scienze sociali e discipline au-siliarie. Roma. Anno XXIV, voi. LXXI, fase. 284; 31 agosto 1916-Carlo Grilli: «Lo adattamento sociale allo stato di guerra» - Romeo Vuoli: ■ L’intervento degli enti pubblici nella delimitazione dei prezzi dei generi di prima necessità » - Giulio Castelli: « La ricostituzione del‘Vaccinogeno di Stato’ e la nuova legge di sanità pùbblica » - Sunto delle Riviste - Esame d’opere - Note bibliografiche - Cronaca sociale.
Rassegna Nazionale. Firenze. Anno XXXVIII. voi. IV; 1 e 16 agosto 1916-C.: «Un rapporto diplomatico del Conte Nigra sulla questione Polacca » - Arnaldo Cervesato: « La lotta della Scienza e della Fede»-Cristina Agosti Garosci: <1 Lucia Felix-Faure Goyau » -Angelo Ragghianti e Salvatore Dalmazzoni: « Il problema degli orfani » - Gino Bassi: «Carlo Dickens umorista c riformatore sociale » -Mario Fichi: «La pietruzza nascosta » (Bozzetto drammatico in un atto) - E. Paganelli: ■ Osservazioni sulla sistemazione di Piazza De Ferrari in Genova » - Francesco Picco: «Un prosatore: Dino Mantovani » - Il conte Lao: « A proposito dell’ultimo- romanzo di P. Bourget: 'Le sens de la mort’ » - Mario Pratesi: « Il mondo di Dolcetta » (romanzo) - Carla Cadorna: « Recenti pubblicazioni » - Rassegna Politica - Libri e riviste estere - Note e Notizie.
Conferenze e prolusioni/ Roma. Anno IX, n. 15; i° agosto 1916-Felice Momigliano: • Ugo Foscolo e l’Italia » -
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Luigi Panichi: « La vecchiaia nella società e nella medicina • - Matteo Pantaleoni: « Problemi italiani dopo la guerra » - Dalle Riviste e dai Giornali - L’attualità.
— N. 16; 16 agosto 1916. -Francesco Flamini: ■ La tradizione nazionale nella letteratura italiana » - Ugo Cer-letti : « Il cretinismo » - Dalle Riviste e dai Giornali - L’attualità.
Nuovo Convito. Roma-Pescara. Anno I, n. 6; giugno 1916-Maria del Vasto Celano: « Disciplina civile ■ -P. Orano: • Previsioni • - T. Venuti: «Donne guerriere» — A. Anile: « Prothomo » — L. Gamberale: «Pilastro» - A. Vi-nardi: « Il teatro del popolo » -Marion Buttler: « Lettera da Londra » - R. Tomei-Fina-more: • Novella ironica » -Illustrazioni di T. Patini, P. Stala, R. Galli, V. Bonanni, A. Rossetti.
¡.'Eroica. La Spezia. Anno VI, fase. I-IV. Grosso e bel fascicolo di oltre 200 pagine -grande formato - carta a mano - numerose xilografie nel testo e 36 tavole fuori testo. Il fascicolo è dedicato alla Polonia, come il precedente lo era all’Armenia; costa in Italia lire io, all'estero lire 15.
Sommario: Ettore Cozzani: « Polonia e Italia » (discorso) -Bronislaw Ostrowska: « Lettera a d'Annunzio » (Lirica) -Jacek Malczewski: « Il dono della luce • (tav. f. testo) -Mattia Loret: « Attraverso la storia » - Antonio Madeyski : < Stefano Batory » (scultura) -Visioni polacche di Frycz e Wyczolkowski (4 tav. f. testo) - Enrico Opienski: « La musica polacca » - Maria Konop-nicka: « Italia » (liriche) - Stefano Zeromski: « Verso il loro Dio • (novella) - Ettore Cozzani: « L'arte polacca » - Creamente, e quanto agli altri riguardi, nessuno si riprometteva di vivere tanto da essere processato pei suoi delitti, ma ognuno sentiva che una sentenza assai più severa era stata già pronunziata su tutti, e pendeva sopra i loro capi, e che prima che scendesse a col-£ irli era troppo ragionevole di godersi ancora un poco
1 vita... ».
E notevole osservare, come di fronte a un popolo cosi demoralizzato, Pericle fece appello a sensi di orgoglio nazionale, di dignità e di amor proprio cittadino, più che a motivi individuali: ■ Nati, quali voi siete, cittadini di un grande Stato, ed educati come siete stati, a sentimenti pari alla vostra nascita, voi dovreste esser pronti a fronteggiare i più gravi disastri, senza contuttociò contaminare io splendore del nostro nome... La mano del Cielo deve essere sopportata con rassegnazione, quella del nemico con fortezza; è questa la vecchia tradizione Ateniese, e sta a voi di non impedire che essa perseveri ancora. E ricordatevi anche, che se la nostra terra porta il nome più grande che sia al mondo, ciò è dovuto al non avere esSa mai piegato il capo dinanzi ai disastri... Non lasciate trasparire alcun segno che mostri essere voi deformati dalla presente calamità, giacché coloro il cui spirito é meno sensibile alle sciagure e le cui mani sono più pronte a fronteggiarle, sono i più grandi uomini nelle più grandi comunità... ».
Nella sua lettera al Cardinale Vicario in data 4 marzo Benedetto XV utilizza il motivo religioso in maniera con tradi ttoria. Egli presenta successivamente e ripetutamente la guerra, come un flagello voluto dalla « giusta via ■ divina, da placarsi con preghiere e limosino, e come un suicidio in cui l’Europa civile si ostina per motivi di un amor proprio e dsinteressi particolari, ai quali il Pontefice la scongiura a rinunziare, appunto • in nome di quel Dio che è giustizia e carità infinita ». il quale Dio, viceversa, ha voluto la guerra come castigo, e deve essere placato ancora.
Citiamo alcuni brani, raggruppando e sottolineando i passi in cui si enunziano le due interpretazioni « religiose » accennate. La prima:
■ ...Alcune pie signore ci hanno manifestato l’intenzione di restringersi... in unione spirituale di preghiera e di morti fica//ioni, a fine d’impetrare più facilmente dalla infinita misericordia di Dio la cessazione dell’immane flagello..., come mezzo efficace per impetrare dal Signore la sospirata pace. — Noi facciamo invito... ad innalzare a Dio... una continua più fervida prece, ed a presentare al suo trono divino un’ offerta di volontari sacrifici che ne plachino la giusta ira... — E poiché anche con l’elemosina si redimono i peccali e si placa la giustizia di Dio. noi desideriamo, ecc. ».
E l’altra:
’ Gettandoci, per così dire, in mezzo ai popoli belligeranti, ...li abbiamo scongiurati in nome di quel
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Dio il quale è giustizia e carità infinita, a rinunziare al proposito di mutua distruzione... a esporre con chiarezza... ¡ desideri di ciascuna parte... accettando, ove occorra, in favore della equità e del bene comune del gran consorzio delle Nazioni i doverosi e necessari sacrifizi di amor proprio e di interessi particolari. Questa era, ed è l’unica via per risolvere il mostruoso conflitto secondo le norme della giustizia... Non possiamo astenerci dal levare la voce ancora una volta contro questa guerra, la quale ci appare come il suicidio dell’Europa civile... orribile lolla fratricida ».
Si potrebbe osservare, che in realtà il contrasto qui non è fra due interpretazioni ambedue intese come religiose, perchè mentre il motivo del Dio irato e castigatore da placare non ha in verità di religioso che la parola « Dio », appartenendo esso invece proprio a quell’ordine stesso di sentimenti sub-umani che sono addotti come responsabili della presente guerra, l’altro motivo della solidarietà e fratellanza umana; che è il solo fondamentalmente religioso, resta nella lettera a .un livello etico e umano, senza assorgere a coscienza ed espressione religiosa. E la lettera pontificia, anziché risolverlo, acutizza il problema: «Perchè Dio non arresta la guerra? ».
In un recente articolo sul Christian World, il rev. Rhondda Williams, noto oratore e scrittore congregazio-nalista, investe di una luce religiosa eminentemente etica il problema appunto sollevato dalla lettera di Benedetto XV, e risponde così: « ... Se pur vogliamo che il carattere dei popoli venga educato, è indispensabile che essi non abbiano a raccogliere uva dalle spine nè fichi dai cardi... Se la guerra potesse terminare Ser un intervento soprannaturale, lo spirito pugnace elle nazioni non ne resterebbe punto modificato; nessun passo si farebbe verso la pacificazione delle contese, verso l’abbassamento delle ambizioni, la liberazione dagli odi, l’addolcimento delle rivalità: le radici profonde della guerra resterebbero intatte. Quando tutto è stato detto sulle responsabilità della Germania, resta sempre che tutte le nazioni erano entrate nella gara degli armamenti che doveva prima o dopo rendere la guerra inevitabile... Pensate alla questione ad esempio delle incursioni degli Zeppelin* e degli areoplani. Alcuni anni fa, nessuna nazione ne possedeva: e quando si scoprì la possibilità di costruire macchine da volare, nessuna nazione protestò contro l’uso che avrebbe potuto farsene in tempo di guerra. Al contrario, tutte le nazioni applaudirono all'idea ed entrarono nella gara. Le Chiese cristiane non fecero sentire in alcuna nazione la loro voce di protesta, e col loro silenzio approvarono anch’esse il nuovo sistema di lotte aeree. Se noi in Inghilterra potessimo dire: "Quanto a noi, abbiamo fatto del nostro meglio: le nostre Chiese, la nostra nazione, il nostro governo, protestarono contro quest’uso degli
ture polacche di S. Wykspian-ski, Wyczolkowski, Malcze-wski, Azentowicz (11 tavole f. t.) - L. Janowski: « La cultura polacca » - Giovann -Amendola: « La Polonia ri-' torna » - S. Dobrzcki: « La letteratura polacca » - Il Veliere: Le fiammole - Alle vedette.
Eco della Cultura. Napoli. Anno III, fase. 13-14; 15-30 luglio 1916-Giulio Azzolini: « Jules Lemaître » - Antonio Zucca: « Intorno al grande Enigma » - Alfredo Giannini: L’uomo in punto di morte e uno scrittore spagnolo del sec. xvi »-G. Sennino: «Del meraviglioso nella Storia » -Lionello Fiumi: « Il Govoni cosidetto 'futurista' » - Corrado Govoni: « Italia » - Alberto Neppi: «La certosa'ardente » - Francesco Menano: « Scoperte » - ecc.
La nostra scuola. Milano, Anno III, n. 10-11; luglio: 15 agosto 1916-V. Cento.
L’individuo e lo Stato » -G. Gentile: « Il sofisma del doppio fatto » - G. Santini: « Le aquile c le talpe » - A. Calderara: « Tornano in scena i direttori » - E. Bahr: « II nostro umanesimo » - M. Sal-voni: « Una macchia sul muro • - A. Errera: « I pi imi passi della Biblioteca dei Maestri » -Recensioni - ecc.
Vita e pensiero. Milano. Anno II, voi. IV, fase. 2; 31 agosto 1916-Filippo Cri-spolti: • Il Manzoni storiografo secondo Benedetto Croce » - Gaston Vanneufville: • L’emigrazione italiana in Francia c l'avvenire sociale dei due popoli ■ - Agostino Gemelli: <1 La chimica omicida dei Tedeschi: I gas asfissianti » - Giulio de Rossi: « Ricerca di statistica pastorale: La cura pastorale in tempo di guerra nella regione veneta » - Ernesto Vercesi :
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• L’avvenire dell’Austria-Ungheria » - Gabriele Pagani: « L’arcivescovado di Gorizia » - Spectator: « Battaglie, fatti e commenti » - ecc.
La riforma italiana. Anno V, n. 8; 15 agosto 1916 - La R. I.: « Per la libertà della Scienza • - P. Orano: « L’espiazione » -A. Crespi: « La guerra e la vita dello spirito » - Un modernista: ■ Alle origini del dogma trinitario » - I. E. Car-Fenter: « Le influenze del-Egitto sulla letteratura ebraica » - L. Giulio Benso: « Corriere Femminile • - Fra Dol-cino e Margherita-Fatti e commenti - Letteratura religiosa.
La Nuova Riforma. Napoli. Anno IV, fase. 4; luglio-agosto 1916 - Michele Cesario: < La vita della morale e quella del diritto » - Raffaele Valerio: • Per una pace cristiana »-Angelo Conti: «La moda e la guerra » - G. Avolio: « La lettera anonima»-W. Mo-nod : « Marcel Hébert » -Magda: • Sursum corda » -Pagine scelte - I periodici.
Luce e ombra. Roma. Anno XVI, fase. 7-8; 31 luglio, 31 agosto 1916-I. P. Capozzi: • Le fonti dello spirito italico » - V. Cavalli: • Un mezzo radicalissimo per far cessare le infestazioni spiritiche di case ■ - « Vaneggiamento » - M. Saltarelli : «Determinismo e indeterminismo: storia e critica della questione » - A. Marzorati: « Documenti medianici di Luigi Capuana » - L. Capuana: « Diario spiritico, ossia comunicazioni ricevute dagli spiriti Ser medianità intuitiva »-A.
ruers: « Questioni spi rituali-ste » - G. Forni: «Del mondo degli spiriti e della sua efficacia nell’universo sensibile » - ecc.
Ultra. Roma. Anno X, n. 4; 31 agosto 1916-R. Novelli: • Gli ideali della perfezione e i precursori del superuomo » areoplani, e noi facemmo del nostro meglio per stringere con le nazioni europee un accordo internazionale perchè quel genere di lotta mai si traducesse in pratica: se non riuscimmo, fu tutta colpa dell’opposizione della Germania ”: se noi potessimo dir questo, la nostra coscienza proverebbe ora altro. Ma noi nessuno sforzo facemmo in tale senso, e perciò quello che noi ora soffriamo dagli areoplani e Zeppelins è precisamente quello che ci meritiamo. Sicché ora, la miglior cosa che le nazioni tutte possano fare, per quanto terribile sia la guerra, è di soffrire le angoscie causate dalla loro propria condotta o dalla loro colpevole trascuratezza, e di apprendere fra le tribolazioni e le angoscie le migliori vie della vita.. ».
Sicché per il Williams la parola della religione è: « Responsabilità, Espiazione ».
• * *
Il signor Cesare Gay, segretario genérale della « Federazione Italiana degli studenti per la coltura religiosa » toccava lo stesso problema in una lettera dal fronte che troviamo in Fede e Vita di febbraio: «’...mi chiedevo: Ma perché, se Dio esiste, i nostri migliori sforzi hanno fallito? Come conciliare gli orrori a cui assistiamo con un amore che veglia sulle sue creature? Poi riflettevo— Ma non è forse questo S¡ustamente ciò che l'Evangelo ci grida? Chi è al centro ell’Evangelo? Un essere irreprensibile, maltrattato dagli uomini, abbandonato apparentemente da Dio. Ma questo Giusto ha forse perciò rinunziato -a sperare ed a pregare? Oh, ha continuato a sperare, ha continuato a pregare, ha soltanto modificato la sua preghiera! Dopo aver domandato al Padre di risparmiargli l’amarezza della sua coppa, gli domando di trasformare la prova in bevanda vivificante. Che cosa lo sostenne? Questa convinzione: Il regno di Dio verrà, la sua volontà sarà fatta malgrado tutto. Ecco la speranza, ecco la preghiera che mi è stata possibile anche quando sono stato (oh quante volte!) tormentato dal dubbio... Non possiamo rendere grazie come se fossimo felici, circondati d’affetto. Ma possiamo dire: Bisogna che il mondo sia cambiato. Bisogna che la giustizia regni. Io voglio credere in un mondo migliore ».
Cosi al Gay la fede che divide col Cristo, dice che il dolore e gli orrori del male sono parte di un piano divino di amore, che appunto sulla via regia del dolore promuove il suo regno ed eseguisce la sua volontà. Ed egli spera: « Per crucem ad lucem ».
• • •
Al dott. Clifford, là visione religiosa ispira ancora una volta speranze e propositi di un fulgide avvenire. « ...Io non posso dubitare che noi usciremo da questa fornace europea più vicini che mai per l’innanzi a quella meta che Dio si è proposto nel nostro mondo. La guerra sarà odiata con un’inesauribile amarezza... e non sarà più lecito al despotismo di pochi di intrigare in-
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tierc nazioni in guerre che altro non significano che la distruzione dei milioni per soddisfare le selvagge ambizioni di maturati signori della guerra. I.e nostre madri e le nostre sorelle, quelle che più soffrono in una guerra, reclameranno e riceveranno il diritto di Ìiarola e di voto nella vita civile e politica della società □tura, ed esse ricuseranno il loro assenso al sistema di decidere le controversie nazionali per mezzo di macchine da guerra. Sopratutto, gli uomini lavoreranno per il trionfo della giustizia e si prepareranno con tutto il cuore, anima e forze alla pace che un giorno condurrà tutti gli uomini, in questo ampio mondo di Dio, in cui vi è posto abbastanza per tutte le nazioni, per tutti i popoli, per tutte le razze, a vivere insieme in un mutuo soccorso, in una reale fratellanza, in una vera uguaglianza e in un'ampia libertà ».
Ma il venerando vegliardo aveva pregato, al principio del suo discorso: « ...Liberaci o Dio, te ne scongiuriamo, da qualunque cosa che sia aliena dallo spirito cristiano. Dacci che noi combattiamo i nostri nemici senza sentimenti di amarezza, e che nel conflitto contro l’odio Sortiamo uno spirito di amore e di perdono, decisi i non permettere che le anime nostre e l’anima della nostra nazione restino contaminate.
Concedi a noi e ai nostri alleati la vittoria della causa della giustizia e della libertà, della fratellanza e della buona volontà, sicché i propositi che tu hai espressi nel figlio! tuo e nello stabilimento del tuo regno possano sollecitamente realizzarsi... Amen ».
Così, un ammiraglio inglese riconosce alla guerra la missione di provocare un risveglio morale e reglioso; lo storico ateniese constata e descrive il lato dcmoraliz-ratore delle .grandi catastrofi; Pericle fa appello alla grandezza nazionale e all’orgoglio sociale « per sop-Sortare con rassegnazione la mano del Cielo »; Bene-etto XV ci lascia incerti se attendere la pace dal disarmo della « giusta ira di Dio » per mezzo della preghiera degli uomini, o dal disarmo degli uomini scongiurati a nome di Dio; Rhondda Williams riconosce nella guerra la meritata lezione immanente, che augura proficua alla formazione del carattere; il Clifford sembra avere in vista le parole di Paolo: ■ A quelli che amano Dio tutto riesce per il meglio », tulio,.anche la guerra, purché combattuta con spirito cristiano; per Cesare Gay, la fiducia in Cristo e nella sua visione religiosa resta, anche fra gli orrori della guerra, la: « Solutio omnium difficultatum ».
LE BASI CRISTIANE DELL’ORDINE SOCIALE
Su questo argomento parlò in un'adunanza generale della Società dei « Friends » (Quaccheri) in Londra, a proposito dell’« ordinamento industriale e sociale in rapporto con la grande guerra » il direttore del Settlement
Gli evoluzionisti italiani: « La mobilitazione spirituale italiana » - « Sensazioni dei morti in battaglia » - « Psicologia occulta dell’Egitto » - ■ Rinnovamento spiritualista » —« As-sociaz. 'Roma' della lega teosofica » - « Per le ricerche psichiche » - « 1 fenomeni » -« Rassegna delle riviste » -« Libri nuovi ».
Toi et vie. Paris’. Anno XIX, n. 14-15; 1-16 agosto 1916-Cahier A. - Esquisses du statuaire arménien Tér Marou-kian (fotographies) - P. Dou-mergue: « Vacances »- Charles Gide: « Pour une ligue nationale d’économies » - M. B.: « Quelques mois à l’armée d’orient » - Marie Dutoit: « Les batailles de l’invisible: Les. deux maisons » - F. Macler: « L’Arménie et les Tsars» -etc.
Cahier B. - Eisen mann: « La maison d’Autriche et les nationalités».
Record of Christian work. East Northfield, Mass. Vol. XXXV, n. 8; agosto 1916-D. G. Gilmore: « The Burma Northfield » - « The crisis of Russia » - Bishop Charles H. Brent: « The challenge of capacity » - D. L. Ferris: « The epistle to the Hebrews » - ecc.
The modern churchman. London. Vol. VI, n. 5; agosto 1916 - The editor: « Church and state » - W. A. Cunningham Craig: « The outfit of a modern churchman » (VIII) - The headmaster of Marlborough: « The church in the immediate future » - Canon Streeter: « The church’s failure and some remedies »-Hubert Handley: « Dead Anglicanism and living » - ecc.
The biblical world. Chicago. Vol. XLVIII, n. 2; agosto 1916 - Editorial: « When the sound of the idealist is low » - Rush Rhees: « Evangelizing education » - Orlo J. Price: « The
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significance of the personal equation in the ministry» H. C. Ackerman: «The problem of ecclesiastes • - J. Wright Buckham: « The principles of pacifism »-H. Kngman: ■ The faith of a middle-aged man » - B. Uraguchi: «The Bethany family • - Current opinion - The church and the world - Book notices.
The international review of Missions. Edinburgh. Vol. V, n. 19: luglio 1916.-Wm. J. W. Roome: «Strategic lines of Christian missions in Africa » - Arthur H. Smith: « A chapter of experience in China • -Annie H. Small: « Missionary life as vocation ■ - Charles H. Robinson: «The conversion of Russia > - Lars Dahle: • The home base of missions in Norway ■ - R. E. Diffen-dorfer: « Missionary education in the sunday school » - Henri Bois: « A sociological view of religion ■ - J. N. Farquhar: «Christian literature in India » ecc. - Reviews of books -International bibliography.
The expositor. London. Anno XLII, n. 68; agosto 1916-G. G. Findlay: • The ministry of reconciliation: a study of 2 Corinthians, III-V »-J. E. Me. Fadyen: «The mosaic origin of the decalogue »-Maurice Jones: « The Christian ministry in the apostolic church: a new theory ■ - C. J. Ca-doux: «St. Paul’s conception of the state • - Rendel Harris: • The origin of the prologue to St. John's Gospel».
The Princeton theological review. Princeton, N. J. vol. XIV, n. 3; luglio 1916- Benjamin B. Warfield: «The divine Messiah in the Old Testament • - John D. Davis: «Suggestions of the survey party regarding biblical sites» - Robert Dick Wilson: «The silence of Eccle-siasticus concerning Daniel •-Reviews of recent literature.
di Toynbu Hall in Londra, Giorgio Heath. Dopo ricordata tutta la portata e il contenuto positivo dell’atteggiamento pacifista della Società, e riconosciuto che solo un grande atto di fede in Dio e nel prossimo poteva giustificare quella che appare « una pietra di scandalo per i fratelli cristiani e una stoltezza per gli uomini di Stato e per le persone colte » egli si domandò: « Siamo noi pronti ad estendere quest’atto di fede anche alla nostra vita sociale?». E dopo mostrato che ■ la base dell’ordine sociale in Inghilterra, dalla Rivoluzione in poi, è stata quella dell’utilitarismo individuale, di cui sono frutto la concorrenza spietata, i bassi salari, il naufragio sociale, e la crescente animosità amara tra capitale e lavoro», osservò che « spesso non è meno difficile per 'un commerciante incalzato da concorrenti o per un padrone in tempo di sciopero di amare i suoi rivali o i suoi operai, di quello che sia per un soldato di amare il nemico che si appresta ad uccidere ». E soggiunse: • Non sarebbe possibile di applicare alla nostra vita industriale concezioni più alte? Si dice che gli uomini non lavorerebbero senza lo stimolo del guadagno personale. Eppure, il missionario, il predicatore, il riformatore sociale, l’artista lavorano per qualche scopo più alto, ed altro non domandano se non il necessario per conservare in buona salute e vitalità se stessi e le loro famiglie. Avere fede nel Cristo significa credere che anche gli uomini di affari sono capaci di tanto. Ora, gli stessi « Friends » che con tanta fermezza denunziano la guerra come anticristiana, pure accettano, nell’insieme, il presente ordine sociale con la sua base di ricerca delle ricchezze, sia pure sforzandosi di temperarne il rigore e di ridurla a leggi determinate, e non osano di denunziare anche quello come contrario all’idea di Cristo. Precisamente l’atteggiamento di compromesso che le altre Chiese Cristiane hanno assunto rispetto alla guerra.
« Ora che cosa bisognerebbe fare per far fermentare tutta la massa, e rendere la testimonianza cristiana non solo in rapporto alla guerra ma in rapporto a tutta la vita? Certo non è possibile che noi usciamo dal presente ordine sociale, più che noi possiamo uscire intieramente dal sistema politico a base di armamenti e di guerre, o che Woolman potesse uscire dalla società a sistema di schiavitù: ma noi possiamo ben protestare contro un ordine sociale che non è radicato nel Cristo. E ciò che ci occorre per prima cosa, non è già un nuovo sistema economico, bensì una volontà determinata di ricostruire il nostro sistema sociale sulla base del Cristo. La nostra società dovrebbe mostrare un poco di eroismo in tempo di pace, e rispondere cosi all’accusa che noi ci nascondiamo dietro a quelle forze materiali che ci proteggono.
« Anzi tutto, per ciò che riguarda i membri piti facoltosi della nostra Società, non vi è anche per essi l’appello ad una vita più semplice che fu udito e seguito da John Woolman? Grazie a Dio, molti ricchi hanno volontariamente ceduto le loro comode abitazioni, e sono andati a vivere in mezzo ai loro fratelli poveri.
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Ma nella Società vi è abbastanza eroismo ancora per limitare di più le spese personali senza accumulare nuovi capitali— Noi diciamo spesso che non ci è possibile immaginarci Gesù quale agente di reclutamento o quale soldato attivo: ma è forse più facile d’immagi-narci un Gesù che sfrutti il lavoro di qualche dozzina di creatura umane, o che viva in un'ampia nazione, sia pure per dare ospitalità ai suoi seguaci, o che pretenda un esatto profitto, allo scopo di poter spingere avanti istituzioni religiose o filantropiche?
«E quanto ai piccoli commercianti,a impiegati,commessi, ccc., essi dovrebbero sforzarsi di essere onesti ricordandosi che tutto il loro lavoro appartiene a Dio e sforzandosi di produrre soltanto quei generi che sono richiesti dalla Comunità. Non potrebbero anzi mostrare in tempo di pace l’eroismo stesso del campo di battaglia, e rinunziare coraggiosamente a qualche industria indegna, gettandosi interamente nelle braccia della Provvidenza? Spesso è più difficile di applicare il pensiero di Cristo a questioni di rendita e di vita economica, che di predicare il Vangelo ai poveri.
«E quanto ai mentori della nostra Società in generale, come potremmo noi dopo aver prodigato la nostra simpatia per alleviare le sofferenze dei poveri Belgi, dimenticare le sofferenze di quei poveri che sono sempre in mezzo a noi? Perchè i pili giovani di noi non fanno premura presso il Governo per questo nuovo ■ servizio nazionale?« Non sentono essi, i nostri giovani, uomini e donne, una vocazione ad accorrere sui campi del servizio della patria, a prepararsi con lo studio e rendersi atti a promuovere i veri interessi del loro prossimo, a impedire lo spreco di vite infantili; e a rendere cento altri benefici all’umanità? Compito della nostra Società è di mostrare che la pace può essere altrettanto eroica quanto la guerra.
■ Nostra vocazione è non di sopportare privazioni temporanee sul campo di battaglia, ma di sostenere privazioni e disagi per tutta la nostra vita, e, se questo occorra, di affrontare anche l’insuccesso nel perseguimento dei nostri alti ideali. La grande opportunità è venuta... **.
Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Prima pubblicazione Savo-naroliense. Primavera 1916. Torino. Pagine 108; L. 2, con una tavola. - Sommario: Chiarori - A l’ignota - Due pagine del mio diario (Nino Cavaglià); I nostri morti -Contorni del ■ Decameron ■ (Pietro Cerosa); La religione di Dante (Giovanni Savarioo) ; Visione di Romagna (Pier buso); Indulgenza (Walter Lo-wrie); Il valore etico della guerra (Giovanni Davicini); Fantasma - Fede - Obliando (Pier de la Croce); Anarchia ideale (Piero Alessio); A Elisa del Giocondo (Arturo Mensi).
CROCE ROSSA
Le idee accennate dall’Heath si sono di già concretate in un corso di ■ Preparazione al servizio sociale dopo la guerra »: per preparare, cioè, dei volenterosi a compiere dopo la guerra, e fin da ora, la loro parte nella ricostruzione sociale. L’Heath è appunto il direttore del lavoro pratico di tirocinio sociale.
All’indomani della guerra, quando tutte le forze buone si scateneranno, come esplode la vita dopo un lungo inverno, e si coalizzeranno per un'opera di palingenesi sociale, non sarebbe opportuno che nostri giovani si recassero ad assistere, ad apprendere e a partecipare della splendida opportunità che sarà offerta nella capitale inglese a tutti gli aspiranti alla missione di servitori sociali?
LE LEGGI DELLA BONTÀ
Specie una grande città, nervosa e inquieta, ma lontana dai luoghi della guerra, impedisce di percepire a sufficienza qual'è l’opera che si richiede da questa istituzione. Noi viviamo quasi lo stesso, benché peggio come in tempo di pace; e anche la Croce Rossa non appare che una delle tante cose che ci rasentano, ma che non ci riguardano. È impossibile consumare quel tempo che ci vorrebbe perchè il nostro sentimento si affermasse decisamente, costringendoci a dedicargli al meno una parte delle nostre giornate. Le infermiere. i medici, i militi sono, per i più, soltanto figure esteriori, la cui importanza, anche se sentita rapidamente, non ci s’impone.
Analizzare quel che rappresenta questo sentimento sul rapporto che la nostra anima ha con gli altri, sa-
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rebbe molto interessante; ma, forse, altrettanto inutile. Vi si potrebbero scrivere parecchie parole belle, e anche bellissime; ma quel che conta è la persuasione modesta che dovrebbe afferrare ciascuno; senza pretese, per dirgli: tu non indugiare di più. Troppo ti sei già permesso di criticare e di chiacchierare; ora, agisci. È anche il tuo momento. Va alla Croce Rossa e fatti socio. Vedrai che questo farà bene anche a te.
Perchè, specie ora, è necessario che la nostra fede abbia uno scopo chiaro e semplice. Se per caso, c non è diffìcile, ti sembrasse di aver fatto poco, tu, allora, trova altri soci. Convinci anche gli altri che la Croce Rossa non è un’aggiunta di cui in questo momento l’esercito possa fare a meno; ma giacché essa ti offre il modo di compiere e di prolungare un atto di dolcissima bontà, comprendi che anche tu devi averla.
Il resto conta poco: quel che vediamo e sappiamo della vita quotidiana passa in seconda linea: la Croce Rossa invece si sostituisce a te e agli altri che sono buoni come te. Con pochi soldi anche tu contribuisci ad un’immensa bontà. Non altro che bontà ci vuole.
Questa parola deve tornare più in uso; dobbiamo comprenderla tutta quanta, e metterla dentro la nostra anima. Troppo abbiamo dubitato di lei, troppo abbiamo voluto serbarla. La bontà c’è: basta crederci, e operare secondo le sue schiette leggi. Dunque, inscriviamoci soci della Croce Rossa: o al pro-Srio Comitato regionale o al omitato Centrale di Roma
in via Nazionale, 149.
I PRINCIPII CRISTIANI
E LA RICOSTRUZIONE DELL’EUROPA
Il dr. Seton-Watson torna in un opuscolo d’ispirazione cristiana ad esporre le linee di ricostruzione della civiltà europea, che dovrebbero proporsi tutti i fautori dei principii di nazionalità e di democrazia sulla base di una concezione cristiana del dovere e dei diritti degli individui e delle nazioni.
« Anche ammesso » — egli dice — « che l'Inghilterra era moralmente tenuta a intervenire nella presente guerra, non è men vero che la guerra è il risultato e la rivelazione dello spirito anti-cristiano che per lungo tempo ha dominato sulla vita del cristianesimo occidentale, e del quale la Chiesa e le nazioni debbono fare penitenza, e solo i principii cristiani posti in azione potranno ricostituire l’Europa moderna... 1 milioni di soldati che ritorneranno dal fronte non vorranno in alcun modo ripetere le loro esperienze di ciò che significa la politica degli armamenti e la diffusione della barbarie tinta di coltura. Probabilmente, essi vorranno chiedere un conto rigoroso a coloro che hanno la responsabilità delle loro sofferenze, ed insisteranno perchè la lotta immane non sia stata combattuta invano, e l’assestamento che le seguirà sia l’espressione concreta dei loro ideali ». Nella certezza che la vittoria finale resterà alle potenze della « quadruplice intesa », il Seton-Watson indica le linee di ricostituzione degli Stati di Europa secondo il principio di nazionalità. Per ciò che riguarda, ad esempio, il riaggruppamento degli Stati dell’Europa Centrale e Sud-Orientale, egli Sropugna: 1® la riunione della Galizia con il resto ella Polonia; 2° della Galizia rutena con la Ukrania russa; 3® del Trentino, di Trieste e dellTstria occidentale con l’Italia; 4® la creazione di una Boemia indipendente, che abbracci non solo gli Czechi ma anche i loro affini Slovacchi dell’Ungheria Settentrionale; 5« di una più grande Rumania che abbracci le popolazioni rumene dell’Ungheria c la Bucovina; 6® di un nuovo Stato Slavo del Sud, formato degli attuali regni di Serbia e Montenegro, e dell’antica triade, Croazia-Slavonia-Daimazia. Bosnia Erzegovina, Istria orientale, e forse anche i distretti sloveni dell’Austria; di un’Ungheria indipendente, diminuita di quelle razze che essa ha cosi a lungo e così grossolanamente sgovernato, e posta nell’opportunità di aprirsi una nuova era di sviluppo democratico ».
Il Seton-Watson non crede che in questo rifacimento dell’Europa alcuna seria difficoltà verrà opposta dalle differenze religiose, ed auspica una « tregua Dei » tra il Cattolicismo e l’Ortodossia.
Ma i principii di autonomia delie nazionalità che rendono necessario lo smembramento dell’Austria e della Turchia, si oppongono altrettanto fortemente a qualunque smembramento della Germania. « La rigenerazione morale della Germania » — egli dice — « non
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La KULTUR 6 passata di qui...
(Diiejno dcll'olandete L. Racmacksrs)
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può venirle che dal di dentro; essa non può esserle imposta dal di fuori. E questa rigenerazione deve essere in cima a tutte le preoccupazioni europee, se non vogliamo che la futura pace non sia altro che un lungo incubo di armamenti rivali, temperato da epidemie e da fallimenti... E’ scio demolendo, la dottrina che il Materialismo e la Forza brutale formano il Vangelo dell’umanità, che noi possiamo sperare di produrre in Germania un ritorno a quel culto deH'idealismo, nel quale un tempo il popolo tedesco fu condottiero al mondo intiero ».
E prosegue .insistendo sulla necessità di distruggere il militarismo tedesco, e di chiedere un conto rigoroso ai «criminali alto-locati» dei loro misfatti. E conchiude: « Il compito degli alleati è ben più vasto che l’evacuazione del Belgio e del Nord della Francia (ed ora aggiungerebbe, • della Serbia ■): esso non è altro che quello della rigenerazione dell’Europa, della rivendicazione dei due principii gemelli della Nazionalità e della Democrazia, e della emancipazione delle razze soggette dal dominio degli oppressori...
"Noi attendiamo che sorga il "Capo-mastro” di questa grande ricostruzione... ».
PERDITE DELL’UMANITÀ
« Il mio nemico è morto: un uomo divino quanto me stesso è morto ».
È al lume della fede religiosa che la tragedia umana che imperversa da tanti mesi acquista il suo significato più profondamente drammatico. Quando l’uomo, ogni uomo, è concepito come una cellula e un’incarnazione della Divinità, la guerra non è più solo un’orrenda successione di omicidi, essa è un suicidio parziale dell’umanità intiera: e questo suicidio è un Deicidio. O piuttosto, una crisi di dissoluzione e di creazione; il parto di un’umanità nuova, risolta dalla prova del sangue e del fuoco nei suoi elementi costitutivi e avviata ad una sintesi nuova. Giacché credere che è un organismo divino quello che soffre e che muore per mano dei suoi figli, è credere che all’agonia ed alla morte seguirà la risurrezione: che dopo la discesa nell’abisso dell’odio e dello strazio, l’umanità risalirà la vetta radiosa per crucem, ad lucetn.
Noi assisteremo probabilmente, non solo ad una riconciliazione compieta dei fratelli deliranti, ma ad un’esplosione frenetica, a un parossismo di sentimenti di perdono, di fratellanza, di amore. Sono i morti nostri e loro, che grideranno da tutti i campi insanguinati, dal fondo degli oceani e dalle vette disputate: * Pace, perdono, amore: che il nostro sangue non sia stato sparso invano! ».
E ad affrettare questo ritorno di amorosi sensi, gioverà grandemente l’accomunamento nel lutto e nella miseria spirituale per la perdita di tante individualità rare e preziose, su cui non una sola nazione ma l’Uma-nità intiera faceva assegnamento; il senso che « non al vinto sol toccano i guai •; l’inventario delle perdite delIL “PADRENOSTRO,, E IL MONDO MODERNO
di PIETRO CHIMINELLI f>
Così ne parla il prof. V. Cento ne « La nostra scuola » di Milano del 15 agosto 1916, n. 10-11:
« Fra il cumulo di pubblicazioni che, togliendo motivo dalla guerra, si propongono di fortificare nelle anime il senso della vita cristiana, piace segnalare quella del Chiminelli e per la singolarità sua e per il pregio intrinseco dell’opera.
«L’idea che ha inspirato l’A. nella concezione del suo lavoro risponde a un bisogno veramente sentito del • mondo moderno »: il Pater è sempre la più meravigliosa e non comparabile espressione della devozione spirituale e della fiducia in Dio; è tale, però, non per chi se ne serva per un meccanico sbattìo di labbra o per obbedire a una abitudine d’orario domestico, ma per chi ne riconquisti volta a volta il senso profondissimo e, traverso le parole, raggiunga lo spirito di Gesù. • Essere in comunione col Padre » vuol dire non centuplicarne ¡’invocazione verbale, ma cogliere, con un atto di volontà amorosa e di ùmile dedizione, la voce che parla nel profondo del nostro spirito.
« Ora non tutti, forse, anche animati da fervore religioso, riuscirebbero da soli a penetrare le intime bellezze, gli ascosi intendimenti della Preghiera. Il Chiminelli s’è proposto d’essere guida discreta e illuminata in cotesto andare dello spirito verso le vette dell'infinito: ed ha raggiunto l'intento.
(x) Deposito presso la Libreria Ed. “ Bilychnis „. - Prezzo L. 3, Per gli abbonati della Rivista che sono in regola coll*Amministrazione il prezzo è ridotto a L. 2.
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• Per quanto l'A. si addi-mostri nudrito di severi studi critici e bibliografici, ha avuto l’accortezza di non sovraccaricare il testo di note; le questioni critiche sono accennate, come si conveniva alla natura del libro, volto assai più che a erudire, a suscitare entusiasmi. Opportunamente anche arricchisce le pagine di esempi e di aneddoti brevi che richiamano altri echi di esperienza religiosa.
■ C’è forse diffuso un senso troppo arcadico della vita; nel Cristianesimo che il Chimi-nelli ci presenta, si riflettono e il suo temperamento e certi astrattismi in voga nel nostro tempo: il sogno della Pace Universale e della fratellanza internazionale, di un dominio quasi mondano del Padre sulla terra pacificata; non riflettendo che il Padre domina anche sui contrasti e sulle lotte, le quali Egli suscita, nella imperscru-taoilità dei suoi giudizi, come momenti necessari per la elevazione spirituale e la conquista del Bene.
• Ma forse l'A. si è preoccupato di costruire quasi una oasi di pace, all’anima tormentata dallo spettacolo di tante lotte e di tanti dolori. A ogni modo la sua parola è sempre penetrante e affettuosamente consigliera: il senso religioso che vibra in quelle pagine si trasfonde nel lettore.
• E al valore del testo si aggiungono l’eleganza della edizione e alcune stupende xilo-Ì;rafie disegnate con mano agi-e e con profondo intuito da Paolo Paschetto, il giovane artista che profuma della sua arte squisita le pagine di Bily-chnis; il quale mi pare vada distinguendosi vittoriosamente non solo per la singolarità dell’espressione, ma per l’intrinseco valore della sua arte. Ho l’impressione che queste illustrazioni costituiscano una vera affermazione d’arte ■.
l’Umanità intiera. Ecco alcune di queste perdite che vanno registrate nel gran libro del deficit dell’umanità.
Uno dei primi medici vittime della presente guerra è stato il dott. Bertheim, professore nell’istituto Fisiologico di Francoforte sul Meno, la più grande autorità del suo tempo sui composti organici dell’arsenico. Fu egli che cooperò efficacemente col prof. Ehrlich nelle ricerche che condussero alla scoperta del • salvar-san » che già tante vite ha salvato da terribili morbi.
Nell’annunziare la sua morte, svW Atlantic Monthly, W. Horwill così commentava: « Nelle liste ufficiali, la sua morte è annoverata, tecnicamente, fra le “ perdite tedesche ": ma in realtà, essa ha inflitto una perdita non meno severa alla Francia, all’Inghilterra, all’America, anzi ad ogni regione che si avvantaggia dei progressi della medicina scientifica. Ma valeva proprio, l’importanza militare della perdita di quel soldato, il costo che gli Alleati dovranno pagare in ultima analisi per essa? »
Il Mercure de Frana dava già negli ultimi mesi dello scorso anno, una lista di 59 scrittori francesi che avevano spezzato, con la vita, una carriera di attività letteraria la cui influenza avrebbe certamente varcato i confini della loro nazione.
A ventine poi si contano i professori universitari francesi, che hanno lasciato scoperte cattedre difficilmente ricopribili da altri. Il citato W. Horwill osservava al propositc: « Il tanto decantato cosmopolitanismo della scienza, dell’arte, delle lettere, ha sofferto un colpo dal quale non si riavrà per moltissimi anni ancora ».
Un poeta dal quale non solo l’Inghilterra ma l’Umanità intiera aveva motivo di attendersi grandi cose, è caduto nei Dardanelli dopo aver preso parte ad altri fatti d’arme, in persona di Rupert Brooke, del King's College di Cambridge. Solo pochi giorni prima della sua dipartita, egli tracciava questi versi dedicati a quelli che, come lui, sacrificavano sull’altare della patria la vita loro:
Al Mondo dieder l’addio; profusero rosso
lìquor soave di gioventù; agli anni avvenire rinunziarono
di lavoro e di gioia, c a quel non desiato sereno
che noman vecchiaia: c a quelli pure che alla vita aspiravano, ai figli loro, rinunciarono — alla loro immortalità.
■ Un’ altra vittima che la guerra ha tolto, non all’America soltanto ma all’ Umanità, nell’affondamento del I.usitania, è stato l'originalissimo scrittore americano Elbert Hubbard, più noto col « nom de piume » •< Fra El-bertus », editore del Filisteo, fondatore e capo delle famose ufficine Roycrofter da lui impiantate nel villaggio di « Aurora Orientale », in cui 400 operai trovavano condizioni fraterne d’industria e largo campo per l’esercizio di attività artistiche.
Nel citare questo caso di perdite dell'Umanità, il ■ Brotherhood > rifletteva: « Quanto enorme non dovrà essere il guadagno morale che il mondo dovrà ritrarre, se non vorrà che tali e tanti sacrifizi non siano una pura perdita ».
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LA GUERRA
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Mi sia permesso di commemorare qui anche una persona la cui perdita fu grande, almeno per l’Italia, e in particolare per Genova: grandissima per i suoi grandi e piccoli amici. Il dott. J. R. Spensley ha personificato per circa venti anni »iella patria di Mazzini la figura del connubio fra pensiero e azione; ira l’umanista bramoso di dar fondo all’Universo e il mistico avido di contemplarlo; fra l'asceta ed il critico razionalista, fra il missionario laico e il cavaliere « senza macchia e senza Sura »; fra l'apostolo d’idee e il suscitatore di energie;
. il santo e l’uomo di mondo; fra l’ideale inglese e l’italiano. Nulla e nessuno; ninna causa, niun lembo della sconfinata « primogenita di Dio », niuna pièga del cuore umano, nessun meandro dell’edificio sociale, nessun problema filosofico, morale, religioso, usciva dall’ambito del suo interesse. Anima, intelligenza, cuore, erano in lui aperti a tutte le emozioni e pronti ad ogni reazione, fusi insieme e operosi insieme. Chi. trovandolo sul suo tavolino da caffè in piazza Corvetto, intento a decifrare iscrizioni geroglifiche o immerso in uno studio recentissimo sui misteri orfici, avrebbe sospettato che egli era atteso a presenziare, quale arbitro, una partita nazionale di foot-ball, nel « Genoa Club » da lui fondato? Chi mai, conoscendo il suo penchant per la speculazione filosofica e per gli studi religiosi, la sua coltura classica e la sua mentalità umanistica, avrebbe pensato che sua occupazione professionale fosse quella di medico della marina mercantile e della colonia britannica: chi, dopo averlo veduto in un crocchio di professionisti e di studiosi, bonariamente ma sempre con acume e finezza, discutere de’ problemi metafisici e letterari, avrebbe immaginato che le sue ore serali e i pomeriggi delle domeniche erano da lui dedicati, in questi ultimi anni, alla educazione morale, civile, nazionale, della gioventù, nel gruppo di Scout-boys da lui fondato in Genova, ma con uno spirito più confacente al carattere italiano? Ed infine, chi avrebbe sospettato che sotto il suo interesse accademico per le diverse religioni del Mondo, il suo rispetto, anzi la sua simpatia per ogni forma sincera di religiosità (• io potrei, nel mio simbolismo e misticismo, aderire anche al Cattolicismo » — mi diceva un giorno — « sopra un solo punto fare» riserva: sulla pretesa di esso di esaurire il tesoro della rivelazione divina, e di fare a meno del contributo delle altre correnti religiose: sulla sua in tolleranza; sulla infallibilità che il suo Capo si ascrive ») si ascondesse tale calore di vita religiosa, quale si rivelava nel piccolo cenacolo che settimanalmente si riuniva, su su in alto, in una estrema soffitta da lui trasformata in una suggestiva cappella, nel suo appartamentino nell’Wdte/ Unione? Là egli effondeva la sua intelligenza, il suo carattere, e mostrava quale fosse per lui il significato e il contenuto profondo della religione: una vita seria, «earnest lifè », una vita intensa, una vita umana. I.’« homo sum, et fiumani nihil a me alienum puto ■ era la sua religione, come era il motto e la divisa di tutta la sua vita. E appunto
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NON DIMENTICHIAMO I MUTILATI
I mutilati! Li consideriamo un po’ come assenti dalla vita perchè difficilmente li vediamo. Tutti hanno applaudito i nostri gloriosi feriti nelle strade, guariti; li hanno seguiti con compiacenza, con orgoglio, con vigilanza, e il loro sorriso e la loro gaiezza sono parsi il sorriso c la gaiezza della gioventù che riafferma il suo diritto sul corpo risanato. Quei cari soldati che passano nella via zoppicanti sul bastoncino o col braccio al collo suscitano una simpatia a cui non si resiste: vien voglia di fermarli tutti, quei cari figliuoli, c di abbracciarli con l’ansia d’orgoglio con cui si abbraccia l’eroe che ritorna.
Ma i mutilati non possono essere nella strada, non si vedono; ed è più difficile pensarli. Eppure i mutilati sono gli eroi più gloriosi. Essi hanno sofferto di più, essi hanno fatto sacrifìci pili terribili, essi debbono prepararsi a una rinunzia inesorabile: non dimentichiamo i mutilati!
Erano dei soldati forti, bellissimi, ardentissimi. Sono stati i primi a battersi virilmente, a soffrire nelle trincee, hanno sempre avanzato facendo retrocedere il nemico, hanno conquistato una vetta, hanno vinto. Sicuro: hanno vinto. Sono dei vincitori. Ma, nei terribili urti degli eserciti, anche i vincitori possono essere dei vinti: possono cioè raggiungere la vittoria con le membra smozzicate, frantumate, sanguinolente. Poi, raggiunta la vittoria, sono dei mutilati.
Non dimentichiamo i mutilati! Non aspettiamo ch’essi vengano a noi col mite e mesto sorriso che chiede cernii senso profondo di responsabilità e di solidarietà umana che investiva il suo carattere e tutte le sue attività, lo fecero aderire ad un movimento, il « teosofico », il cui maggior merito, per lui, consisteva nell’avere insistito in modo speciale sull’idea della responsabilità individuale delle proprie azioni nella vita terrestre — all’in fuori della pseudo soluzione delle pene eterne e sterili, che nulla risolve e nulla espia — ; nell’avere riconosciuto, più che qualunque altro atteggiamento religioso, che le diverse rivelazioni spirituali delle grandi religioni storiche sono facce diverse del poliedro divino; e nell’avere intuito la ricchezza inesauribile delle potenzialità e delle energie dello spirito umano ed essersi quindi fatto incontro con simpatia e reli-5iosa curiosità ai tentativi, sia passati che presenti, ’investigare ed attenuare queste potenzialità, di rivelare l’occulto, di spronare l'uomo a superare se stesso, a dominare lo spazio ed il tempo, a intensificare il processo di « angelizzazione ».
Ma in fondo a tutto, lo Spensley era un Cristiano: Cristiano nel senso squisito del valore spirituale della personalità umana: Cristiano nel proseguiménto di « una vita abbondante » e nella nostalgia insoddisfatta di un ideale di perfezione che ne ossessionò la vita intiera: Cristiano in quel suo « utmost for thè highest », Siel suo « tutto per il sommo » c « il sommo per Dio », ic consacra un’anima fin dalla nascita all’apostolato e all’eroismo: Cristiano nel disprezzo delle cose terrene e della vita stessa — egli che tanto amava tutto il bello ed il buono della vita — quando si trattava di « perdersi per ritrovarsi ».
E Cristiana fu la ostinata insistenza con cui volle «i esporre la sua vita per i suoi amici », e ottenne dopo ben undici istanze, di essere inviato al fronte nei Dardanelli, a prestare la sua opera di medico nell’esercito inglese. La morte non avrebbe potuto sorprenderlo in atteggiamento più consono alla sua vita intiera: con gli occhi volti verso l’Oriente sacro, con le mani in atto di apprestare conforto e salvezza, col cuore palpitante di un solo amore che tutti gli altri accoglieva: per l’umanità — per la patria, per il dovere, per la giustizia — per Dio.
Egli aveva disposato l’idealismo, e numerosi figli spirituali, nati dal connubio, si sentirono orfani quando egli disparve da questo mondo: e piansero ma sperarono. Egli nella forma teosofica, essi forse in forma cristiane più tradizionali, i suoi amici forse in forme meno definite o più panteistiche, tutti avevan creduto, avevan sentito, che il bello, il buono, il sacrifizio, l'amore. non può morire. E tutti, egli ed essi, lo sentono ancora, c più ancora, e cercano intorno a sè, cercano nella società che fu sua, cercano nei sussulti verso il meglio che fan sobbalzare l’anima moderna, cercano nelle pieghe più intime del proprio spirilo, ciò che resta dell’anima grande del dott. R. Spensley. Che essi, che noi possiamo ritrovarlo, ritrovando noi stessi...
Virtutis quaesivit glori am: videi Dei.
Giov. Pioli.
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A FASCIO.
Induismo e Cristianesimo
Nel mese di febbraio un atto sintomatico è stato compiuto dal governo inglese con la erezione di una università prettamente Indù nella citta santa di Be-nares, culla del Buddismo.. Alla posa delia prima pietra fatta dal Viceré stesso delle Indie, intervennero con pompa solenne quasi tutti i governatori delle £rovincie, e molti dei sovrani degli stati dipendenti.
a dotazione fatta dal Governo ammonta a parecchi milioni, oltre ad una vistosa somma di contributo annuo. La sua caratteristica più importante si è, che il Consiglio Supremo dell’università sarà composto esclusivamente di Indù, e che la sua fisionomia è schiettamente religiosa e Indù: talché tutti gli studenti Indù dovranno osservare i riti religiosi Indù, e assistere ai corsi d’istruzione nella filosofia religiosa Indù. Per tal modo, il valore e l’importanza della religione Indù riceve per la prima volta una sanzione ufficiale, ed è posta a base di una coltura essenzialmente religiosa. L’epoca in cui la religione Indù era tacciata di « idolatria » e la cultura Indù trattata di assurda sembra chiusa per sempre.
È notevole l’osservazione dello Spoetato? in un recente numero, che lo spirito del Cristianesimo fermenta attivamente nell’anima indiana anche nell’atto che essa resiste con maggiore consapevolezza alle dottrine specifiche delle diverse Chiese: e cita al proposito un estratto di una lettera che rende un suono noto a orecchie cristiane, scritta da una Indù ad un suo correligionario in Inghilterra: « Il momento presente è triste per tutto il mondo: dappertutto vediamo sofferenze, trepidazioni, angustie di spirito. Siamo tentati di dire che le colpe dell’umanità hanno toccato il colmo e che il flagello divino sferza il dorso di noi tutti. Ma noi dobbiamo stringerci al Padre nostro che tuttavia ama i suoi figli anche colpevoli e fuorviati. Egli conosce le nostre angoscie, le ore stanche di ansiosa attesa, le sofferenze che sopportiamo. Volgiamoci a lui per conforto, con la fiducia con cui un fanciullo corre a rifugiarsi fra le braccia della sua madre... ».
In un'intervista con un redattore del Christian Commonwealth », il signor Arundale, segretario generale della Società teosofica, così parlava dello spirito con cui questa società si occupa nei suoi collegi della educazione di giovani indiani: « ...Noi insegnarne ài nostri allievi, anzitutto a comprendere e ad amare la loro propria religione indiana. I missionari, sia in India che in altre regioni, potrebbero fare un bene immenso, se riconoscessero che le religioni indiane sono altrettanto essenziali agli Indiani quanto il Cristianesimo ..agli Europei. Ma da questo che noi insegnamo agli studenti indiani ad amare ed apprezzare la loro propria religione, non ne segue che insepassione e pietà: sentiamo noi il dovere d’andare verso di loro con la fraternità che incuora, assiste, si sacrifica, si umilia. Che cos’è il mutilato, anche quando le orrende cicatrici sono rimarginate, anche quando l’arto accorciato non sanguina più? Che cos’è se non un povero avanzo di umanità, senza speranza di amore, senza più desiderio di lavoro, senza più fede, propositi, ideali? Tutto è crollato intorno a lui. La sciagura ha coperto di un velo di nebbia tutte le cose belle che lo circondano: non c’è più nè cielo, nè verde, nè fiori, nè voci, nè oggetti cari. Tutto è silenzio e tutto è accidia. La vita è finita: solo, non è finita con la morte...
Ebbene, non è, non dev’essere cosi. Il mutilato ritornerà come prima se troverà intorno a sè dei fratelli che l’amino e che lo aiutino a fare i primi difficili passi sul nuovo cammino. Si è costituito a Roma un Comitato Pro-Mutilati (Piazza Cavour, 3) che ha già fatto moltissimo Ìier quei nostri eroici e in felci fratelli: e ha perfino di recente aperto un istituto per la loro rieducazione fisica e morale in una delle più belle ville romane: Villa Mi-rafiori. A Villa Mirafiori ogni mutilato ha veramente intorno a sè dei fratelli e delle sorelle che l’amano e lo servono con infinito amore, sollecitudine, metodo, pazienza. Appena il mutilato vi è condotto dall’ospedale, è fatto entrare nella stanza di « orientamento », dove un esperto chirurgo gli misura la sua forza costituzionale e l’energia delle sue singole membra, di Jnelle sane e dei moncherini, opra i sensibilissimi schermi, mentre il mutilato si prova alla pialla, alla lima e a tutti i movimenti del suo mestiere appaiono i diagrammi
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che mostrano quarfta fatica gli costi il lavoro, quanta sia in lui l’energia residua e potenziale e a quale lavoro, per la regolarità maggiore o minore dei suoi movimenti, egli sia più adatto. Saputo dunque in tal modo come debba ciascuno incominciare la propria rieducazione, a ciascuno l’officina ortopedica dà arti provvisori ed apparecchi « di protesi ». Di qui comincia la nuova vita del mutilato. Eccolo in officina, operaio, c operaio allegro, a cui l’arto artificiale non procura imbarazzi, tristezza, disgusto. Il mutilato lavora: non è più mutilato. Tutto ciò che lo circonda è gaio e sereno: una bella casa, dei buoni compagni, delle dolci sorelle, delle care consuetudini, un giardino bellissimo con molti alberi e molti fiori... Che si può desiderare di più? Egli si guarda intorno stupito e ammirato: chi avrebbe creduto che la vita fosse ancora così bella, così buona e così bella?
Buona, bella... Aggettivi che sembrano un po’ eccessivi a noi che non siamo degli infelici. Ma appunto per procuraré un’illusione durevole agli eroici mutilati - un’illusione che noi non abbiamo più! - concorriamo senza trop-S3 indugio all’opera santa del omitato Pror Mutilati. Offriamo quello che abbiamo: se abbiamo poco, offriamo poco. Ma nessuno dimentichi che se ai morti della guerra abbiamo decretato la gloria, ai mutilati della guerra dobbiamo una cosa più umana e forse più bella: l’amore.
gnamo loro a disprezzare le altre religioni: al contrario, insegnamo ad essi a rispettare il Cristianesimo, a comprendere questa ed altre religioni, e a riconoscere l’unità fondamentale che giace in esse tutte >.
Questo atteggiamento è, per 1 teosofi, non solo il più religioso, ma anche il più cristiano.
Una parola franca
Riferimmo nel numero di gennaio dei «Servizi d’intercessione » celebrati al principio dell’anno in tutti i templi inglesi per invocare l’assistenza divina nella tremenda crisi nazionale. Ora sullo Spectalor dello stesso mese leggiamo una lettera firmata « Plain Speech • (Una parola franca) non priva di giuste critiche estendibili in parte anche ad altre nazioni belligeranti: « ...Quando il clero si assumerà il compito più difficile, ma non meno essenziale, di inculcare al popolo con eguale energia che non basta invocare la Provvidenza ma bisogna che ognuno faccia la sua parte? Quando intraprenderà esso una crociata a fondo contro l’intemperanza del bere, cominciando dalla più eloquente delle prediche, quella dell’esempio, dichiarando che durante tutto il corso della guerra si asterranno da bevande alcoòliche? È facile di inculcare in astratto la temperanza e l’astensione dal lusso. Chi è che riconosce di essere intemperante o lussurioso? Si sa che sono sempre i nostri vicini, o le altre classi, insomma mai noi ad esserlo. Quello che ci occorre è una parola concreta. Al presente noi vediamo la nazione spendere circa 200 milioni (di lire) più che negli altri anni di pace, in bevande alcooliche (la spesa annuale per tali bevande è ora di quasi 4 miliardi e mézzo di lire: quanto basterebbe a coprire le spese di guerra per più di un mese). Un gran numero di individui delle classi operaie stanno sprecando in sciocchi divertimenti, in pranzi e in costosi vestiti gli alti salari che ora ricevono, senza curarsi del bisogno, altrui nè preoccuparsi del loro avvenire. D’altra parte, vediamo numerosi individui delle classi superiori « economizzare » nelle loro consuete sottoscrizioni caritatevoli, allo scopo di far comparire i loro nomi nelle sottoscrizioni più di moda riguardanti la guerra. Vediamo le nostre donne tuttora fra gli artigli mostruosi della così detta moda, in maniera che mentre i nostri infelici alleati se ne vanno mezzo ignudi nel freddo più intenso, esse ostentano nelle vie le loro pesanti pelliccie, altrettanto antigieniche quanto superflue. È ora che tutti, uomini e donne, pratichino l'abnegazione personale in tutta sincerità e verità: che rinunzino ai loro vini ed al whisky, frenino il loro delirio per i divertimenti, abbandonino certe stupide mode recentissime e rinunzino alle pelliccie di povere bestie prese in trappola; sacrificando anche le corse dei cavalli e la caccia alla volpe. Solo con questi pegni della nostra serietà potremo forse nutrire fiducia che le nostre preghiere imploranti il Soccorso Divino ricevano qualche risposta.
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LA GUERRA
[Libreria] 239
« Ma nessuno dei vostri lettori ha fatto caso alla singolare coincidenza, che ogni periodo à" intercessione è stato accompagnato da qualche terribile catastrofe?
« Quale ne sarà la ragione? ».
« Lettere in tempo di guerra."
Dal volume in cui la signora Wragg ha raccolto una scelta di < lettere in tempo di guerra • scritte da personaggi inglesi della metà dei sec. xv alla metà del sec. xix, estraggo tre lettere storiche, che mostrano in quale ibrido rapporto siano state poste in ogni guerra, e da qualunque delle parti belligeranti, la religione e la guerra.
Una delle più interessanti è quella in cui I ionel Sharp riferisce al duca di Buckingham l'interrogatorio subito da uno dei prigionieri fatti dal generalissimo della flotta inglese sir Francis Drake, alla vigilia dell’approssimarsi della « Invincibile Armada » spedita da Filippo II nel 1588. come è noto, per motivi principalmente di rappresaglia religiosa. E’ necessario ricordare che i cattolici inglesi si unirono con la nazione per combattere i nemici della loro patria.
AUa domanda fatta dai giudici, perchè I'Armada si avanzasse c quali disegni avesse, il prigioniero rispose fieramente: « E quali altri disegni se non sottomettere la vostra nazione e distruggerla dalle radici? ». « Va bene, replicarono i giudici, ma e dei cattolici che cosa vorreste fare? » « E’ nostra intenzione, rispose, di mandarli dritti dritti in Paradiso, trattandosi di buona gente, appunto come voi eretici manderemo tutti all'inferno». «Va bene, ripresero i giudici, ma le vostre fruste di corda e fil di ferro a che dovrebbero servire? ■ «A che cosa? Ma a frustare gli eretici fino a farli morire sotto i colpi. Non hanno essi aiutato i ribelli al mio signore e disonorato il nostro re e la nostra nazione cattolica? • • Ma. e dei loro piccoli figli, che cosa vorreste voi fare?» «Quelli, rispose, maggiori di sette anni, dovrebbero raggiungere i loro padri, i rimanenti dovrebbero vivere in perpetua servitù, con sulla fronte il marchio della lettera " L, ’’ cioè " Luterani ” ».
A questa lettera fa degno riscontro la risposta della regina Elisabetta: « Io non ho alcun desiderio di vivere priva della fiducia del mio amato e fedele popolo. Che i tiranni temano per la propria vita. Quanto a me, mi son sempre condotta in modo da riporre in Dio la mia principale forza, e nei cuori leali e nella benevolenza dei miei sudditi la mia salvaguardia. E perciò vengo fra voi in questo momento, come vedete, non già per sollievo e diporto, ma risoluta nei mezzo e nel cuore della battaglia di vivere o di morire fra voi tutti, prodigando per il mio Dio, per il mio regno e pel mio popolo il mio onore e il mio sangue. So bene di avere il corpo di una debole e povera donna, ma ho il cuore e il coraggio da re, e per giunta da re d’Inghilterra... ».
Le lettere di Cronwell lo spietato rivendicatore delle innocenti vittime dell’odio irlandese, presentano uno
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Pendant la guerre. Volumetto 130 di pag. 100, L. 1,25.
Sommario: Rendez à César (J.-E. Roberty) - Pour les
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découragés (J.-E. Roberty) -LeS causes ultimes: IV. Nobles et justes causes (L. Monod) - L’Oubli des morts (J. Viénot) - L’attente (E. Soulier) - Jusqu’au bout (J.-E. Neel).
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Sommario: L’homme, un soldat - Comment souffrir - Où est ton Dieu? - La foi disparaîtra-t-elle de la terre? - J’ai gardé la foi - Les neutres et la conscience - Le rôle de la vérité - Le monde haï et vaincu - Aimer c’est vivre - La fatalité dans l’Evangile - Aux sans-abri -Contre le découragement - En souvenir des infirmières mortes au service de la France - Noël i9>5000
[Novità] J.-E. Roberty: Nos raisons d'espérer. Deux sermons, L. 0,60.
strano miscuglio di fosca religiosità e di spirito selvaggio. Valga questa di saggio:
« Diedi ordine ai soldati che non risparmiassero alcuno di quelli che furono trovati armati nella- città (Drogheria); e credo che in quella notte posero a fil di spade circa 2000 uomini... Il giorno seguente fu intimata la resa ad altre due torri: ma poiché i loro difensori, circa 150, ricusarono rii arrendersi, quando furono presi i loro ufficiali uccisi con mazzate in capo... Sono persuaso che questo è un giusto giudizio di Dio sopra questi barbari ribaldi che hanno intriso le loro mani in tanto sangue innocente e che esso avrà per effetto d’impedire l’effusione di altro sangue nell'av-. venire. Sono questi i miei motivi di rallegrarmi per quest’azione che, altrimenti, non potrebbero causare altro, che rimorso e rimpianto... La domenica scorsa prima nell’assalto, i Protestanti erano stati espulsi dalla grande chiesa detta di San Pietro, ed essi (i cattolici) vi avevano celebrato una messa solenne; e nello stesso luogo circa mille di questi furono mèssi a fil rii sparia mentre cercavano quivi uno scampo. Credo che tutti i loro frati, meno due, ricevettero una mazzata sul capo... A me però non piace rii far guerra alle donne ».
Mi si permetta un trapasso dal mondo della storia a quello della letteratura, per citare qui le parole di Dick Steele ad Henry Esniond nella nota opera omonima del Thackeray — romanziere inglese contemporaneo di Dickens — :« Non è già il morire per una ferie che è così difficile Signor Harry : lo sanno fare gli uomini di ogni nazione: la vera difficoltà consiste nel saper vivere per essa ».
Giovanni Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma - Tipografia dcll’Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45. *
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