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BILYCHNIS
RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
Anno IX. - Fasc. X
ROMA - OTTOBRE 1920
Volume XVI. 4
SOMMARIO
A. T1LGHER: Il tempo e V eternità . pag. 245 | SOTER : Giosuè Sorsi e il cardinale Maffi 253 I [Tavola tra le pagg. 260-261 : Giosuè Borsi].
L. SALVATORELLI : Il pensiero del Cristianesimo antico intorno allo stato, dagli apologeti ad Origene....... 264
A. RENDA : La teoria psicologica dei calori 280 i Per la cultura dell'anima:
C. WAGNER: La poesia - Il sacrificio - Governare. 299
Note e documenti:
La crisi spirituale di Giovanni Rapini - La Chiesa ortodossa in Russia secondo Bielinskii . . . . 305
Note e commenti:
Il Convegno internazionale della Federazione Studenti per la coltura religiosa - Il convegno dell’alleanza mondiale ’ per l’unione dei cristiani per mezzo delle chiese . . . . ....... 309
Cronache:
Q. TOSATTI: La politica estera del Vaticano 312
Rassegne :
m.: Filosofia religiosa ......... 315
Letture ed appunti - Cose nostre. ... 322
Tra libri e riviste:
G. COSTA: Le 11 Confessioni11 di G. Borsi - Varia. 327
Nuove pubblicazioni ........ 331
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BILYCHNIS Rivista mensile dì studi religiosi
A Al UF < « < « FONDATA NEL 1912 > > > >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL' ESTERO
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. D., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma. AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per l’Italia, L. 10; Per l’Estero, L. 15; Vn fascicolo, L. 1,50 [Per gli Stati Uniti e per il Canada <■ autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica, B. D. Pastor, 1414 Culle Ave, Phlladelphla, Pa. (U. S. A.)].
Abbonamento annuo cumulativo col Testimonio, rivista mensile delle chiese battiste italiane, L. 13,50. . " Z ».
Corrispondenti e'collaboratori sono pregati d’indirizzare quanto riguarda la Redazione impersonalmente alla
Direzione della Rivista “ BILYCHNIS ” - Via Crescenzio 2, ROMA 33
Gli articoli firmati vincolano unicamente V opinione dei loro autori.
I manoscritti non si restituiscono.
1 collaboratori sono pregati nel restituire le prime bozze di far conoscere il numero degli estratti che desiderano e di obbligarsi a pagarne le spese. Per il notevole costo della carta e .della mano d'opera la Rivista non dà gratuitamente alcun estratto;
Alcuni giudizi della stampa su BILYCHNIS.
Il GIORNALE D’ITALIA: «Bilychnls va diventando sempre più... una nobile palestra di studi religiósi e di discussioni filosofiche ».
VOLONTÀ: «Una rivista protestante delle più squisitamente italiane per la grande larghezza di criteri e la ricca collaborazione di studiosi anche liberi ».
DIRITTO e POLITICA: «Dotta e diligente rassegna».
REVUE DE L’HISTOIRE DES RELIGIONS: «Nella produzione scientifica italiana, così ricca di tentativi interessanti e spesso fruttuosi, la Rivista Bilychnls, edita dalla facoltà teologica ballista di Roma, si è fatta un posto importante e assai personale in ciò che concerne la critica biblica, la storia e psicologia religiosa, la pedagogia. la filosofia religiosa, la morale, la vita religiosa in Italia e all’estero.
.^ssa *’ *’eno c *’ene ’. 8U.°' lel,or* a' corrente di tutte le questioni vive, non ignora alcun campo del pensiero religioso ed è là dovunque si discuta un problema morale. Non occorre dire che le polemiche dottrinali trovano in essa un eco, ma penetrando in Bilychnls prendono un tono attenuato e prossimo alla quieta armonia della storia ».
DIE CHRISTLICHE WELT : « Da nove anni i Battisti di Roma pubblicano la rivista mensile Bilychnls — la doppia luce della fede e della scienza — che è attualmente la più ricca (d/e bestausgestattete) rivista teologica dei mondo. °
« Dove si trova un periodico illustrato di questa specie? Restando questa rivista nel giusto mezzo essa è scientifica per specialisti, e religiosa per lettori di media coltura. Essa ha tentato sin dal principio di superare per lettori e collaboratori i confini del confessionalismo e di rimanere imparziale tra i contrastanti interessi ».
Come BILYCHNIS è giudicata in Francia (dal fase, di maggio-giugno 1920):
« Ce qu ils remarquent aussi c'est l'abondance des collaborateurs distingués que la Révue parvient à grouper, avec un latitudinarisme doctrinal qui n’est peut-être pas toujours bien compris chez nous, mais qui n'en demeure pas moins un effort sincère de fraternisation chrétienne dons la recherche de la vérité... ».
« Il nous arrive souvent de comparer Bilychnls à Fol et Vie, la première étant pour le public cultivé italien ce que la seconde est pour le publie intellectuel français, avec celte différence, que la reçue italienne colt grand et large, tandis que la nôtre a réduit son format efesi en peine de collaborateurs...».
«... je 1 ai proposée en exemple a Fol cl Vie. Mais calle-ci parait s'orienter autrement, timidement et étroitement».
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Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio 2 - ROMA, 33
RI I VrHWIQ RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI -LJ1 I 11^1 IO fondata nel 1912 -Pubblica scritti originali di critica, storia e. filosofia religiose — Accurate relazioni sui più notevoli movimenti religiosi contemporanei in Italia e alI’Estero — Notizie delle più importanti pubblicazioni e dei più recenti risultati delle ricerche scientifiche nel campo della critica biblica, della stòria del Cristianesimo e storia delle religioni — Inchieste sulla variazione dell’esperienza religiosa con temporanea — Tratta con larghezza di vedute questioni vive. — Pagine per la cultura dell’anima (sermoni, preghiere, spigolature); Cronache di Politica vaticana ed azione cattolica, di Vita e pensiero ebraico ; Rasségne bibliografiche di Critica biblica» Filosofia religiosa, Psicologia e storia religiosa. Religioni classiche, Religioni primitive ed etnografia religiosa, ecc., óltre un ricco Notiziario ed un accurato spoglio della Stampa Italiana.
Abbonamento per l’Italia : annuo L. 10; semestr. L. 5,50; per l’Estero : L. 15 Annate arretrate L. 10 ciascuna, escluso il 1912 e 1913 quasi esauriti
Collezione intéra (1912-1919) L. 100 - Annualmente 2 voi. di 400 pag. ciascuno
PUBBLICAZIONI IN DEPOSITO
CULTURA DELL’ANIMA
Borsari R.: Guardandoli sole 2 —
Burt W. : Sermoni e allocuzioni ;..............2 —
GRATRY A.: Le sorgenti, con I
prefazione di G. Semeria 5,40
Monod W.: L’Evangile du Royaume....... 6,50
— Délivrances . . . . 6,50 — Il régnera ..... 6 — — Il vit . 6 —
— Silence et prière.-. . 6 — Vienot J. : Paroles françaises
Erononcées a 1' oratoire du ;
.ouvre ...... 2,501 Wagner C.: L'ami . . .' S — ! — Justice ....... 6 — Rivista Propileni (Unica an- ' nata 1914) . . . . . 5 — '
FILOSOFIA
Della Seta U.: G. Mazzini pen- ■ satore ...... io — l
Della Seta U. : Filosofia ino- : rale (Voi. I e II) . . 15 — |
Ferretti G.: Il numero e i fan-. cibili, capitolo d’una didàttica dell’inventività. 2 —
Ferretti G.: L'Alfabèto c i fanciulli ......... 2—|
Von Hfigel F.: Religione ed illusione ...... 1 —
Losacco. M.: Razionalismo e Intuizionismo . . . x —
Panini G.: Il tràgico quoti-1 diano . . . . . . . 5,50
— Crepuscolo dei filosofi 3,50 Rensi G.: Sic- et non (meta-.
fisica e poesia) . -. . 3,50 Tagliatatela E.: Giovanni Lo-.
cke educatore. Studio critico seguito da 2 opuscoli pe-, dagogici del Locke (per la j prima volta tradotto in italiano) ......... 4 —• '
GUERRA E ATTUALITÀ
Andreief L.:- Sotto il giogo della guerra . . . . 3,50
Bois H.: La guerre et la bonne conscience..............0,70
Brauzzi U.: l.a questione sociale ......... I —
Ciarlantlni: Problemi dell’Alto Adige ....... 3,50
Ghelli S.: La maschera dell’Austria . . . . . 6 — ■
Kolpinska A.: 1 precursori, della rivoluzione russa 6 — !
l-'A- stessa à dichiarato il metodo del suo lavoro, metodo di antologia o di mosaico e à con I ciò tributato a sò stessa la mag-1
gior lode. Piuttosto che un’opera di storico assimilatore, tósa à • fatto'opera di espositore coscienzioso di guanti ne’ due ultimi secoli segnarono le tappe essenziali dello sviluppo della Russia. Gl'Italiani leggano e meditino le pagine della K.; ciò li esimerà forse dai vaniloqui retorici degli estremisti di tutti i partiti.
Maranelli e Salvemini: Là questione dell’Adriatico. 6 —
Murri R. : L' anticlericalismo (origini, natura, metodo e scopi pratici) . . . . 1,25 MURRI R. : Guerra e religione, Voi. I. Il sangue e l'altare
2 —
MURRI R. : Guerra e religione. Voi. IL L’imperialismo ecclesiastico e la democrazia religiosa ........ 2 —
— Dalla democrazia cristiana' al partito popolare ¡tal. 5 — Puccini M.: Come ho visto il
Friuli ....... 5 — Scarfoglio: L’Italia, la Iugoslavia eia questione dalmata
0.25
Senizza G.: Storia e diritti di Fiume italiana . . . 1 —
Soffici A.: Kobilek (giornale di battaglia) . . . . . 3,50 Stapfer: Les leçons de la guerre
4 ~
Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Am. Tip. Lib. Itai. 15-IV-20I.
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Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio, 2 - ROMA 33
Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10. % per le aggravate spese generali.
(Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Itai. I5-IV-20 .
Wilson : Un soldat sans peur et ! sans reproche (en mémoire । de André Cornet-Auquicr). |
ZANOTTI-BIANCO é CAFFI j A.: La pace di Versailles,! note e documenti (con 20 carte etnografiche e politiche) io —.
RELIGIONE E STORIA
Bùonaiuti E.: S. Agostino 2.70
• » S. Girolamo 2 —
Cappelletti : La Riforma 6 — CHIMINELLI P. : Gesù di Nazareth . '. . . (in ristampa) — Il Padrenostro e il mondo moderno . 3 —
La Chiesa e i nuovi tempi 3,50
Raccolta di scritti originali di Giovanni Pioli - Romolo Murri - ! Giovanni E. Meille - Ugo Ianni ! - Mario Falchi - Mario Rossi - I “ Qui Quondam y, - Antonino . De Stefano - Alfredo Tagliatatela. I
LETTERATURA
Costa G. : Diocleziano .. 3 — .(Profili) Ediz. Formiggini.
— Politica e religione nell'impero -romano' ; . . . 2—Cumont F.: Le religioni orientali nel paganesimo romano. . . . 6,50
Di Soragna A.: Profezie di
Isaia/figlio di Amos. >7,50
Arcari P. : Arnie! . . . Brauzzi U.: I Luciferi Chini M. : F. Mlstral .
Janni U.HI dogma dell'Eucari-stia e la ragione cristiana 1,25 I .eaH.f Le origini del-potere tem....... — -------------- . . 2— porale dei papi . . '.
Della Seta U.: Morale, Diritto LO IS Y A.: Jesus et la tradition
e Politica internazionale nella mente di G. Mazzini.
L5O
Dell’Isola M.: Etudes sur Mon- ’
taigne . .
2,50
évangélique ......
La Religion v. . . . — Mors et vita .... — Epitre aux Galases.
4 —
5 -n 2,25
3.60
Gallarati Scotti T.: La vita di A. Fogazzaro . . . . . io —
Jahier P.: Ragazzo . . 3,50
Brevi, ma vive pagine di vita vissuta, scritte in uno stile.che à i tratti duri, ma incisivi di alcune xilografie e che par più che dipingere trarre dal marmo dell'esposizione fredda la vitalità della statua. È tutto perfuso di (Una spiritualità fremente e d’ima poesia dolorósa che in una prosa tutta speciale è più espressiva talvolta della stessa poesia.,
Lanzillo A.: Giorgio Sorci. 1 — Fanzini A.: Il libro di lettura per le scuole popolari. 2 —
Papini G.: Parole e sangue.
3.50
Sheldon C.: Crocifisso! romanzo religióso sociale tradotto da E.Taglialatela. 2 —
Che farebbe Gesù ? . . . 2 —' Soffici A.: Scoperte e mas-.
sacri (Scritti sull’arte) 5 — Vitanza C.: Spiriti é forme del
divino nella poesia di M. Ra-! pisardi (conferenze). 1,501
i —■- La paix dès nations . 1,50 lOttolenghi R.: I farisei antichi e moderni.... 4 — PETTAZZONI R. : La reli- !
gione primitiva ih Sardegna |
6 — I
Salvatorelli L.: Introduzione i bibliografica alla scienza delle Religioni..... 5 —
—« La Bibbia# Introduzione al - ; l'Antico e Nuovo Testamento.- • • • ......... >2,50
— Il significato di «Nazareno ■................1,50
TYRREL G. : Autobiografìa e Biografìa (per cura di M.
D. Petre) ...... 15 —
J / nostri abbonati non morosi L. 10,50 franco di porlo. Tyrrel G. : Lettera confidenziale ad un professore d’antropologia ....... 0,50
Vitanza C.: La leggenda del ì « Descensus Christi ad in-feros » ....... 1,50
Wcnck F.: Spirito e spiriti nel Nuovo Testamento. 0,75
X. La Bibbia e la Critica. 2 —
X. Lettere di un prete mo derrista.............' 3,50
•La Bibbia (Vèrs.‘ Diodati'<Edi-r zionc 1919) ...... 2,50
Nuovo Testamento, tradotto c . corredato di note c di prefazioni dal prof. G. Luzzi 1,80
Nuovo Testamento c Salmi (é-dizione Fides et Amor) 3 —
Nuovo Testamento e Salmi ad uso dei vecchi . . . 2 —
I Vangeli e gli Atti degli Apostoli (edizione Fides et A mor) . . ... . . . 1,80
I Salmi (Edizione Fides et Amor) ...... . . . ... . . 1,80
Giobbe, tradotto , da G. Luzzi 1,80
Ianni U.: I! culto cristiano ri-' vendicato contro la degenerazione' romana . . . . 1 —
Tagliatatela E.: L’educazione nella Chiesa dei primi secoli
• 3.50
Taylor G. B.: Il Battesimo 0,50
VÀRIA
Bar Jona.: Ite missa est 5 — Cadetti A. : Con quali sentimenti sono tornato dalla guerra . . ... .' . 1,50
Del Vecchio G.: Effetti morali del terremoto ih Calabria secondo F. M. Pagano . 2 —
Lombardo Radice G. Clericali e massoni di fronte al problema della scuola. . . 2 —
Martinelli: Per la vittoria morale ... ... ... . . 3,50
Majer Rizzoli E: Fratelli c sorelle (Libro di guerra 1915I9i8) ................4,50
Menano F. : Croci di legno 3,50
Niccolini E.: I contadini e la: terra ......... 2,50
Papini G.: Esperienza futurista t. . 3.50
— Chiudiamo le scuole 1 — Pioli G.: Educhiamo i nostri
padroni ....... 2.50 F. Momigliano: Scintille del
Roveto di Stagliene . io —
Scarpa A.: La scuola delle
mummie ..... 1 —
Bonaria C. : La tenda c la notte........... ‘ . 3,50
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ni —
ESTRATTI DELLA RIVISTA “ BILYCHNIS „ ===== I Serie —■■==
i. Amendola Èva: Il pen-1 siero religioso e filosofico di ! F. Dostoievsky (con tavola, fuori testo: ritratto del D. di- ; segnato da P. Paschetto). i 1917, p. 40 . . . Esaurito,
2. Bernardo (fra) da Quin-tavalle: L’avvenire secondo Tinsegnamento di Gesù.
1917. P- 43...... 0,80 3. Biondolillo Francesco: La
religiosità di Teofilo Fo-| lengo (con 1 disegno). 19x2, p. 12..................0,40 .
4. Biondolillo Francesco: Per | la religiosità di F. Petrarca , (con nna tavola). 19x3, pa- ' gine 9...................0,40 |
5. Cappelletti Licurgo: Il ; Conclave del 1774 e la Satira j a Roma. 1918, p. io. 0.50
6. Cento Vincenzo: Colloquio con Renato Serra. 1918, p. 11 . ..............o,6o
7. Chiapponi Alessandro: Con tro ridoni ideazione della filosofia e della storia e pei I diritti della critica. 1918, p. 12...................0,60
8. Corso Raffaele: Ultime vestigia della lapidazione (con 2 disegni originali di ' P. Paschetto). 1917, pa-, gine 11.. . . . Esaurito i
9. Corso Raffaele: Lo studio | dei riti nuziali. 1917. pagine 9................. 0,40
io. Corso Raffaele: Deus Plu-vius (saggio di mitologia popolare), 1918, p. 13. 0.75
11. Costa Giovanni: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con due tavole e due disegni). 1913, p. 14. 1.50 T2. Costa Giovanni: Critica e tradizione. Osservazioni sulla politica c sulla religione di Costantino. 1914, pagine 23 . . . . . . 1,50
13. Costa Giovanni: Impero romano e cristianesimo (con due tav.). 1915, p. 49. 2 —
14. Costa Giovanni: Il « Chri-1 stus » della « Cines •. 1917, p. 11 . . . . . . . 0,30
15. Crespi Angelo: Il problema dell’educazione (introduzione). 1912, p. 11. Esaurito!
32. Lanzillo Agostino: Il soldato c l’eroe (Frammenti di psicologia di guerra). .
1918, p. 25 . . . Esaurito
33. Lattes Dante: Il filosofo del rinascimento spirituale ebraico. 1918, p. 21. 1,25
34. Lenzi Furio: L’autocefa- . Ha della Chiesa di Salona (con undici illustrazioni).
1912, p. 16......... 1 —
35. Lenzi Furio: Di alcune medaglie religiose del xv secolo (con . una tavola e quattro disegni). 1913. pagine 21 ..... . 1,50
36. Leopoid H.: Le memorie apostoliche a Roma e i recenti scavi di S. Sebastiano x(con una tavola). 1916, pagine 14 ...... 0,40
37. Lazzi Giovanni: L'opera Spenccriana. 1912, . pagine 7 . . . . .• . . . 0,30
38. Masini Enrico: La liberazione di Gerusalemme. Salmo. 1917, p. 2 .... 0,25
39. Meille Giovanni E.: Il cristiano nella vita pubblica.
1913- P- 31 in-320. . 0,25
40. Meille Giovanni e Ada: ; Gianavellò. Scene valdesi in quattro atti. (Disegni e xilografie di P. A. Pa-. schetto), 1918, p. 67 . . 2.50
41. Mi nocchi Salvatóre;:! miti babilonesi e le origini della gnosi. 1914, p. 43 . . 1.50
42. Momigliano Felice: Il giudaismo di ieri c di domani.
1916. p. 16 . • • *>,6o.
43. Müller Alphons Victor: A-gostino Fa varani (f 1443) (generale dell’ordine Agostiniano) e la teologia di Lutero. 1914, p. 17 . 0.50.
44. Murri Romolo: L’individuo e la storia (A proposito di Cristianesimo c guerra).
1915, p. 12 . . . . . 0.50
45. Murri Romolo: La reli-Sione nell'insegnamento pub
lico in Italia. 1915, pagine 22 ...... 0,75
46. Murri Romolo: La « Religione • di Alfredo Loisy.
1918, p. 16 . . . . . 1,25
16. Crespi Angelo: L’evolu-1 zione della religiosità nell’in-1 dividilo. 1913. p. 14. 0,501
17. De. Stefano Antonino: Le; origini dei Frati Gaudenti.
1915. p. 26............1,50 '
18. De Stefano Antonino: I Tedeschi e l’eresia medie-1 vale in Italia. 1916, pa-1 gine 17 . . .... 1 —
19. De Stefano Antonino: Del- ; le origini dei « poveri lom- ! bardi a e di alcuni gruppi | valdesi. 1917, p. 23. 1 —
20. Fallot T.: Sulla .soglia j (considerazioni sull’aZ di là) ! (con una tavola f. t., disegno di P. Paschetto). 1916. P- 14................. °-5<?
21. Fasulo Aristarco: Pel IV centenario della Riforma. 1917, p. 18..............0,50
22. Fasulo Aristarco: Brevi motivi d’una grande sinfonia (Della Provvidenza).
1918, p. 16...........0,50
23. Formichi Carlo: Cenni sulle più antiche religioni dell'india (con suggerimenti ! bibliografici). 1917, pagine 15 ....... . 1 —
24. Fornati F.: Inumazione c 1 cremazione (con quattro tavole). 1912, p. 6 . Esaurito
25. Gabellini M. A.: Olindo | Guerrini: l’uomo e l'artista.
1918, p. 17..........o,$o
26. Gambaro Angelo: Crisi Contemporanca. 1912. pagine 7 ...... . 0.30
27. Ghignoni P. A.: Lettera a R. Murri (A proposito di Cri-stianesim-ì e guerra). 1910, । p. 9 ...... Esaurito j
28. Giretti Edoardo: Perchè sono per la guerra. 1915.
p. 11 . . . . . Esaurito1
29. Giulio-Benso Luisa: « La vita è un sogno > di Arturo Farinelli. 1917. P- 16. 0.50
30. Giulio-Benso Luisa; La-mennais e Mazzini (con una 1 . tavola f. t.: ritratto del La-mennais). 1918, p. 40. 1.50 j
31. Giulio-Benso Luisa: Il sen- i ti mento religioso nell’opera •di Alfredo Oriani. 1918, P- 43.................... L50
Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Ital. 15-1V-20).
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Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Itai. 15-IV-30).
• Pensieri del Pasca!,»III. Tre | fedi (Montaigne, Pascal, Al-1 fred de Vigny) (con due tavole fuori testo).. 1914, pagine 30 ..... . 1.50 66. Provenza! Dino: Giuoco fatto. 1917. p. 12 . . 0,40
67. Provenza! Dino: L’anima religiosa di un eroe. 1918, p. 12 ...... . 0,75
68. Puglisi Mario: Il problema moialc nelle religioni primitive. 1915, p. 36 . . . 1 —
69. Puglisi Mario: Le fonti religiose del problema del male. 1917, p. 97 Esaurito
70. Puglisi Mario: Realtà c idealità religiosa (a proposito di un nuovo libro di A. Loisy). 1918, p. 13 1 —
71 Quadrotta Guglielmo: Religióne Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Sa-landra (con ritratto e una lettera di Antonio Salan- ' dia). 1916, p. 31 . . 1 —
72. Qui Quondam: Visione di Natale. Frammento (con j otto disegni di P. Paschetto) 1916, p. 7. . . . . Esaurito | 73- Q»>» Quondam: Carducci e il Cristianesimo in un libro di G. Rapini. 1918, pagine 11 ...... 0,50
74. Qui Quondam: La Car- i ridia (La bructte) Dalle Mu-1 sardises di Rostand (con due disegni di Paolo Paschetto).. 1918, p. 5 . 0,40
75. Rc-Bartlett: Il Cristianesimo c le chiese. 1918, pagine 10 ... . Esaurito I
76. Rende! Harris: I tre < Mi-1 steii » cristiani di Wood-I brooke (Introduzione e note di Mario Rossi) (con un disegno di P. Paschetto). 1914 p. 27, in-32® . . . . 0,50
77. Rcnsi Giuseppe: La ragione e là guèrra. 1917, pagine 27 ...... 0,75
78. Rosazza Mario: Del metodo nello studio della storia delle religioni. 1912, pagine 7. . . . . Esaurito
79. Rosazza Mario: La religione del nulla (Il Buddismo) (con sei ■diségni).
1913.............. Esaurito!
80. Rossi Mario: Verso il Conclave. 1913, p. 4 . . . 0,25]
47. Munì Romolo: Gl'Italiani e* la libertà religiosa nel secolo xvii. 1918. p. io- °’5*J
48. Muttinelli Ferruccio: 11 profilo intellettuale di San Agostino. 1917- P- 849. Nazzari R.: Le concezioni idealistiche del male. 1918.
p. 16................ 1 ~
50. Neal T.: Maino de Biran.
I9M. P- 9..............°-5°
51. Orano Paolo: La rinascita dell’anima. 1912. p. 9. * 0,50
52. Orano Paolo: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita ed un ritratto). 1915-P->9 - • ì~
53. Orano Paolo: Gesù c la Guerra. 1915, p. 11. 0.50
54. Orano Paolo: Il Papa a Congresso. 1916, p. 12 0,75
55. Orano Paolo: La nuova * coscienza religiosa in Italia.
1917, p. 19............°«5°
56. Orr James: La Scienza e la Fede Cristiana (secondo il punto di vista conciliato-rista). 1912, p. 25 . . 0,25 •
57. Pascal Arturo: Antonio Ca-racciolo: Vescovo di Troyes.
1915. P-39...........1 —
58. Pioli Giovanni: Marcel Hé-bcrt (con ritratto ed un autografo). 1916, p. 23. 1 —
59. Pioli Giovanni: Inghilterra di ieri, di oggi, di domani. Esperienze e previsioni (con sei tavole). 1917. p. 57 1,50
60. Pioli Giovanni: La fede c l’immortalità nel « Mors et vita » di Alfredo Loisy (con ritratto del Loisy). 1917» P- 22..............°-6°
61. Pioli Giovanni: Morale e religione nelle opere di Shakespeare (con cinque tavole) 1918, p. 46............2 —
62. Pioli Giovanni: Il cattolicismo tedesco c il « centro cattolico ». 1918, p. 21 1.25
63. Pioli Giovanni: Lo spirito della Riforma c quello della Germania contemporanea.
1918, p. 11............0,50
64. Pons Silvio: La nuova ! crociata dei bambini. 1914) ' p. 6................. Esaurito •
65. Pons Silvio: Saggi Pa- : scaliani. I. Il pensiero po- I litico e sociale del Pascal. [ II. Voltaire giudice dei |
81. Róssi Mario: La chimica del Cristianésimo (conferenza religiosa). 1916. pagine .9 ....... 0.50
82. Rossi Mario: Esperienze religiose con temporanee. 1918, p. 13 . . . . . 0,50
83. Rossi Mario: La « Cacciata della morte» a mezza quaresima in un sinodo boemo del ’300 (Note folkloriche). 1918. p. 8...............0,50
84. Rossi Mario: I sofismi sulla guerra e là difesa della nostra latinità (Guerra di religione o guerra economica.?). 1918, p. 17 . . . 0,50
85. Rostan C.: Lo stato delle anime dopo la morte secondo il libro XI deil’Odis-sca. 1912. p. 8 . Esaurito
86. Rostan C.:' Le idee religiose di Pindaro. 1914, «pagine 9. ... Esaurito
87. Rostan C.: L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide ». 1916, p. 15 . . . . . 0,50
88. Rnbbiani Ferruccio: Mazzini e Gioberti. 1915. pagine 15 . . . . Esaurito
89. Rubbiani Ferruccio: Un modernista del Risorgimento (Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga). 1917, pagine 23 ...... 0.60
90. Rutili Ernesto: Vitalità e Vita nel Cattolicismo (I e II). Cronache Cattoliche per •gli anni 1912-1913 Esaurito
91. Rutili Ernesto: Vitalità e Vita nel Cattolicismo (III, IV, V). Cronache cattoliche per gli anni 1913 e 1914 (tre fascicoli di pagine coni plessi ve 52) ...... 1,50
92. Rutili Ernesto: La soppressione dei gesuiti nel -1773 nei versi inèditi di uno di essi. 1914, pagine 6 ....... . 0,40
93. Sacchini Giovanni : Il Vitalismo. 1914, p. 12 0,50
94. Salatiello Giosuè : Il misticismo di Caterina da Siena (con una tavola). 1912, p. io ... . . . 0,50
95. Salatiello Giosuè : L’umanesimo di Caterina da Siena
1914, p. io. . . . . 0,50
7
96. Sa’.vatqrell 1 Luigi :,, La ; storiar 'del1 Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia \ civile. 1913, p. io Esaurito
97. Scaduto Francesco: in-' dipendenza dello Stato c libertà della Chiesa. 1913» S. 25 in-32® ..... 0,25
. Taglialatcla Alfredo: Fu il Pascali poeta cristiano? (con ritratto del Pascoli e 4 disegni di P. Paschetto). 1912, p. 11............0,75
99. Tagliatatela Alfredo: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 4 disegni originali di Paolo Paschetto). 1912, p. 8 . 0,25
100. Taglialatcla Eduardo: Morale e religione. 1916. p.40 1 1. Fattori Agostino: Pensieri dell’ora (Leggendo il « Colloquio con Renato Serra « di Vincenzo Cento). 1919, pagine 13.'...............0,50
2. Di Rubba Domenico: La fede religiosa di Woodrow Wilson. 1919, p. 29 . . . 0,50
3. Fra Massco da Prato verde : Intermezzo sacramentale (A proposito di Unione delle Chiese Cristiane). 1919, pagine 17 ..... . 0,75
4. Dell’Isola M. e Provcnzal Dino: C’è una spiegazione logica della vita? 1919, p. 12 0,60
5. Billia Michelangelo: Il vero uomo. 1919, P- 7 • ■ 0,50
6. Rossi Mario: Religione e religioni in Italia secondo l’ultimo censimento. 1919, pagine 13 . . . . . . 0,50
7. Cadorna Carla: I ritrovi spirituali di Viterbo nel 1541. 1919. P- 7 ■ • • • • °.5°
8. Masini Enrico: Epistola ai fratelli di buona volontà. 1919, p. 11 . . . . ... 0,50
9. Marchi Giovanni: Il «Confiteor • dei giovani. 1919, P- 8....................0.50
io. Qui Quondam: Dopó-guerra nel clero. 1919. P- 14. 0.60
ri. Tucci Paolo: La guerra eia pace nel pensiero di' Lutero. 1919, P- ■ ’.5<>
12. Pavolini Paolo Emilio: Poesia religiosa polacca, 1919, pagine 8................0,50
101. Tagliatetela Eduardo: Lp I inséffnamènw ; religióso se-' | condo odierni pedagogisti . italiani.91,6,jx ,9 • -j .0,50 102. 'Tanfani* Livio: II fine dell’educazione nella scuola dei gesuiti. 1918, p. 27 0,75
103. Tosatti Quinto: Giordano Bruno (con ritratto del Bruno: disegno di P. Paschetto). 1917. p. 19............1 —
104. Tri vero Camillo: La ragione eia guerra. 1917, p. 15 0,40
105. Tacci Paolo: La guerra
nelle grandi parole di Gesù. | 1916, p. 27........... 1 —
106. Tacci Paolo: lì Cristianesimo, e la storia (A proposito di Cristianesimo e guerra). 1917, p. 9 . 0,501
■======== XI Serie =====
13. Pioli Giovanni: In memoria I del P. Pietro Gazzola. 1919, P- »5 ................. 1.59
14. Provcnzal Dino: Ascensione eroica. 1919, p._ 14. 0,80
15. Rensi Giuseppe: Metafisica c lirica. 1919, p. 15 . . 1 —
16. Falchi Mario: C'è una spiegazione logica della vita? 1919 p. 8 ....................0,40
17. Costa Giovanni: Giove ed Ercole (contributi allo studio della religione romana nell’impero), con quattro tavole. 1919, p. 27 . . 2 —
18. (•••) Mancanze di garanzie nello Schema e nel nuovo Codice di diritto canonico e saggio su le fonti. 1920
P- 52 ■ ■ ■ ■ ■ - ' 3 —
19. Della Seta Ugo: La visione morale della vita in Leonardo da Vinci. 1919, pa, gine 31 . . •. . . ; 2 —
20. Losca Giuseppe: Sensi e pen-. sieri religiosi nella poesia
di Arturo Graf (con due tavole). 1914-1919, pagine 40
2 —
21. Nazzari Rinaldo: Intelletto e ragione. 1919, p. 15. 1 —•
22. Ferretti Gino: Le fèdi, le idee e la condotta. 1919. pagine 50...................2 —
23. Cento Vincenzo: L’Essenza del Modernismo p. 52 3 —
24. Mi nocchi Salvatore: Un disinganno della scienza biblica? (I papiri aramaici di Elefantina) pag. 11 . . . 1 —
ift7.- Vitanza/Calogero: - Studi Bòmmdmanei. 17 Gli Anticristi c l’Anticristo nc I • Carmen: apologetici!m » di Com-mbdìanó': II. Commediano Doceta?, 19,15, p. 15 . . 0,75 108. Vitanza Calogero: L’eresia . di Dante. 1915, pagina,. 13 ..... Esaurito 109. Vitanza Calogero: Satana nella dottrina della redenzione. 1916, p. 19 1 —»
1 io. VVigley Raffaele: I metodi della speranza (Psicologia religiósa). 1913, pagine 14 ... . Esaurito iti.’ Wigley Raffaele: L’autorità del Cristo ^-Psicologia religiosa). 1915, p. 39. 1 —■
I. 25. Corso Raffaele: La rinascita della superstizione nell’ultima guerra, p. 20 . 1.50
26. Colonna di-Cesarò G. A.: La guerra europea dal punto di vista spirituale, p. 15 1,50
27. Arcari P.: Atteggiamenti della pittura religiosa di Eùj genio Burnand, p. 14 . 1,50
28. Lazzi G.: A uno studente del sec. XX è egli ancora possibile d’essere cristiano? pag. 12.........1 —
29. Momigliano' F.: 1 momenti del pensiero italiano (dalla Scolastica alla Rinascenza) pag, 12-. . . , . . . . 1.50
30. Thompson Fr.: Il veltro del cielo (Versione di M. Praz) pag. 8 .... . .. . . 1.50
31. Tucci G. : A proposito dei rapporti fra Cristianesimo é Buddhismo p. 12 - . . 1,50
32. Mueller V. A.: G. Perez di Valenza O. S. A. vescovo di Chrysopoli e la teologia di Lutero, pag. 15. . . . . 1,50
33. Troubetzkoi E.: L’utopia bolscevica ed il movimentò religioso in Russia, p. 15 1,50
34. Momigliano F.: L’educazione religiosa di G. Mazzini, pag. io . . ...... 1,50 | 35. Formichi 0,: La dottrina idealistica dellccUpanisliad»; pag, 16................... 2 —
36. Corso Raffaele: Folklore
Biblico, pag. 16 ... 2 —
Sui prezzi del presènte Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Ital. 15-1V-20).
8
— VI —
Sui prezzi del présente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Ass. Tip. Libi Itali 15-IV-20’.
The University of Chicago Press - Chicago (Illinois)
ESTRATTO DEL CATALOGÒ (continuazione e fine)
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RELIGIONE
The university of Chicago publications in | religious education;
Edited by Ernest D. Burton. S hailer I Mathews, and Therodore G. Soares.
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The Sunday Kindergarten: Game, Gift, and Story. By Carrie S. Ferris. Teacher’s Manual, xxvi-272 pages, 12°. cloth.........doll. 1,50
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Georgia L. Chamberlin and Mary Root Kern.
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World. (Teacher's Manual) . . . 1.25
Second Book. Walks with Jesus in His Home Country. (Teacher’s Manual) ........ . . . . 1.25 An Introduction to the Bible for Teachers of Children. By Georgia L. Chamberlin. A Manual for Teachers of children from nine to eleven years of age. xxxvm-206 pages, 120 cloth . ...... . . i .00
The Books of the Holy By Georgia L. Chamberlin. A notebook to be used by the children in connection with An Introduction to the Bible for Teachers of Children. Illustrated. 100 pages. 8®, paper . 0,35
The Life of Jesus. By Herbert W. Gates. (Teacher’s Manual) xvm-156 pages, 16°, cloth . . . . . . 0,75
Old Testament Story. By Charles H. Corbett. (Teacher’s Manual) xiv-216 pages, 12®, cloth . . . . 1,00
The Story of Paul of Tarsus. By Louise Warren Atkinson. (Teacher's Manual) xxxiv-194 pages, 12®, cloth .......... . 1.00
Heroes of Israel. By Theodore G. Soares. (Teacher's Manual) XXX-240 pages, 12®, cloth ...... 1,00
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Studies in the First Book of Samuel. By Herbert L. Willett, xxxviii306 pages. 12®, cloth _...... 1,00
The Life of Christ. By Isaac Bronson Burgess. Adapted from The Life of Christ, by Burton and Mathews. 308 pages, 8®, paper . . 0.90
The Hebrew Prophets, or Patriots and Leaders of Israel. By Georgia L.
Chamberltn. xvm-238 pages, 8®, paper • ... ...... ... 0,90
A Short History of Christianity in the Apostolic Age. By George H. Gilbert, x-240 pages, 8®, paper . .0,90
The Life of Christ. By Ernest De Witt »Burton and Shailer Mathews. 302 pages, 8°, cloth . . . 1.25
The Problems of Boyhood. By Franklin W. Johnson, xxvi-130pages, 12®. paper ...... . . . . 0,70
Lives Worth Living. By Emily ' C. Peabody, xiv-188 pages. 12®. paper . . . .......... 0,70
The Third and Fourth Generation: An Introduction to Heredity. By Elliot R. Downing, xii-164 pages, 12®, paper ......... 0.70
I Social Duties from the Christian Point of View. By Charles R. Henderson, xiv-332 pages. 12®, cloth .......... . . 1,25
Christianity and Its Bible. By Henry F. Waring, xxu-370 pages, 12®. cloth .......... 1,25
Christian Faith for Men of Today. By Ezra Albert Cook, xiv-260 pages, j 20, cloth ...... . . . 1,25
Great Men of the Christian Church. By Williston Walker, x-378 pages, 12®, cloth ......... r .25 I Religiuos Education in the Family.
By Henry F. Cope, xii-296 pages, 12°, cloth ......... 1,25
9
— VII —
Principles’ and methods of religious education.
The City Institute for Religious Teacher s.By'Vl Kvm. Scott Athearn. xiv-152 pages. 16®, cloth doll. o;75
A Survey of Religious Éducation in the Local Church, By William Ç, Bower, xvi-178 pages. 16®. cloth? 1.25
The Sunday-School Building and Its Equipment. With 42 figures.. By Herbert F. Evans. xvi-116 pages. 16®, cloth....................... 0.75
Recreation and the Church. By Herbert w; Gates, xiv-186 pages, 16®, cloth ...............................
The. Church School of Citizenship. By Allan Hoben. x-178 pages. 16®, doth ■ • ■ ■ • • . . . ... 1,00
Graded Social Service for the Sunday School. By William N. Hut. chins, xii-136 pages. 16®, cloth . . 0.75
The Dramatization of Bible Stories: By Elizabeth E. Miller, xiv-162 pages. 16®, cloth , ...... . 1,00
Handwork in Religious. Education.
By Addie Grace Wardle, xviii--142 pages. i6®,'Cloth................1,00
Handbooks of ethics and religion.
The Religions of the World. By George A. Barton, x-332 pages, 12®, cloth. (Revised edition'in press.) . 1,50
The Psychology of Religion. Uy George A. Coe' xvm-366 pages. 12®, cloth ...... J.......................1,50
The Origin and Growth of the Hebrew Religion. By Henry T. Fowler. xvi- 190. pages, 12®, cloth . . 1,00
The Story of the. New Testament. By Edgar J. Goodspeed, xn-150 pages. 12®, cloth . . . -..............1.00
How the Bible Grew. By Frank Grant Lewis. 240 pages, 12®. cloth . ................... . . . . 1,50
The Ethics of the Old Testament. By Hinckley G. Mitchell. X-41S pages, 12®. cloth.............• ( • • ?.00
The Spread of Christianity in the Modern World, By Edward C. Moore. xn-354 pages; crown 8®, cloth . 2.00
The Life of Paul. By Benjamin W. Robinson, xiv-256 pages, 12®, cloth ...... , . . . . ... 1,25
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Four Letters of the A postle Patil.. With map. By Ernest D. Burton. 20 pages, royal 8®, paper ...... 0.50
The Life of the Christ. With map. By Ernest D. Burton. 72 pages, royal 8®, paper . ........ 0,50
The Origin and Teaching of the New Testament Books. By Ernest D. Burton and Fred Merrifield.
102 pages, 12®, paper ...... 0.50
The Origin and Religious Teaching of the Old Testament Books. By Georgia L. Chamberlin. 70 pages
royal 8®, paper............... 0,50
The Gospel of John. By Edgar J.
Goodspeed. 44 pages, 12®, .paper . 0,50
The Foreshadowings of the Christ. By William Rainey Harper. 68 pages, royal 8®. paper .... . . . 0,50
The Work of the Old Testament Priests.
By'William Rainey Harper. 46 pages, royal 8®, paper ...... 0.50
The Work of the Old Testament Sages.
By William Rainey Harper. 70 pages, royal 8®, paper . . . . . . 0,50
The Message of Jesus to Our Modern Life. By Shailer Mathews. 98 pages, 120, paper ........ 0.50
The Social and Ethical Teachings of Jesus. By Shailer Mathews. 66 pages, royal 8®, paper ...... 0.50
The- Problem of Suffering in the Old Testament. By J. M. Powis Smith.
12®, paper . . . . . . . . .. . 0,50
The Universal. Element in the Psalter. By J. M. Powis Smith, 40 pages, royal 8®. paper . . . . . . . . . 0,50
The Message of the Prophets of Israel to the Twentieth Century. By Herbert L. Willett. 98 pages.
12®, paper .........................0.50
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The Realities of the Christian Religion.
By Gerald B. Smith and Theodore G. Soares. 58 pages, 12®, paper. . . ...... ..... 0,50
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ROMA - OTTOBRE 1920
VOL. XVI. 4
IL TEMPO E L’ETERNITÀ
i. - Mentre TAssoluto, non avendo in sè negazione alcuna, è di un sol colpo tutto ciò che può essere, è puramente e semplicemente, è alto puro, la coscienza finita e limitata (coscienza appunto perchè ed in quanto finita e limitata) non è puramente e semplicemente, ma, in quanto ha in sè dei non essere e lavora a rimuoverlo da sè, si riaffermarsi ricostituisce, si restaura come atto puro ed assoluto: non è essere, è farsi; non atto puro, ma alto empirico, sìqtio.
2. - La coscienza, muta: essa è a, è b. In b essa è là stessa e non la stessa che in a, e, in quanto è la stessa, non muta, ma permane. La cosciènza è sintesi di' permanènza e cambiamento, d’immobilità e movimento, di unità e molteplicità; è nel tempo, è tempo, è durata. Il tempo è niente altro che rapporto irreversibile di prima e poi, ma perchè il poi sia veramente poi, si esige che, al suo apparire, il prima, insieme ed in un atto solo, scompaia e non scompaia: scompaia, se no il poi non potrebbe apparire come poi', non scompaia, che, se scomparisse del tutto, il poi non sarebbe poi, ma prima. Il prima adempie a queste condizioni se, nell'atto in cui il poi si pone nell’essere scacciandone il prima, questo è ritenuto in certo modo nell’essere dal poi, che, solo così, ritenendolo, si afferma di contro ad esso come poi', ed il prima è prima solo in quanto, nel porsi come prima, la coscienza va oltre e si pone come poi, chè, se si fermasse al prima, il prima non sarebbe prima, un prima senza un poi essendo impensabile.
3. - L'atto della coscienza è, dunque, essenzialmente sintesi di prima e poi, simultanei e pur successivi: presenti entrambi, eppure sperimentati l'uno come presente, l’altro come passato; molteplicità, eppure stretta in unità. Solo così, a patto di
1’71
12
246
BILYCHNIS
questa contraddizione vivente, la coscienza è sforzo, cioè atto che si fa: quel si importa l’unità dell’atto nella molteplicità dei suoi momenti, molteplicità solo traversando la quale esso si fa, cioè non è di colpo tuttociò che può essere, ma gradatamente conquista l’essere suo contro la negazione che l’affetta e dalla quale, a poco a poco, si va liberando. L’atto della coscienza è, dunque, in quanto farsi, sempre ed essenzialmente tempo, durata, presènte vivo e concreto; non presente indivisibile, semplice, irrelativo,, istantaneo, bensì presente che è sempre unità di molteplicità, di prima e poi, di presente e passato, avvertiti come presente c passato, come prima e poi, eppure sperimentati insieme ed in un colpo solo, avvertiti simultaneamente come esistenti in una relazione di sequenza. Perciò ratto di coscienza è presente concreto, il quale ha sempre una certa lunghezza di tempo, è sempre durata e cambiamento, e, in quanto durata, svolgimento e continuità. Il prima ed il poi non sono due esseri diversi, estranei, incomunicabili, ina uh solo e medesimo essere, che nel poi non è più quello che è nel prima, pur essendolo ancora. Ciò sarebbe affatto impossibile se il poi aggiungesse, creasse, sovrapponesse nuova realtà a quella contenuta nel prima; è possibile solo in quanto il poi libera la realtà che è il prima dalla negazione che l’affetta e la restituisce a se come realtà, solo in quanto, cioè, il poi è grado ulteriore di sviluppo di quello stesso atto che è il prima.
4. - Tempo e sviluppo sono una sola e medesima cosa: il prima ed il poi sono fra loro coinè il grado inferiore ed il superiore dello sviluppo di una sola e medesima realtà. La coscienza dura e permane, non si spezza nè si perde attraverso la molteplicità delle sue determinazioni solo in quanto queste non sono che tappe successive di un processo unico, per mezzo del quale essa va eliminando da sè a poco a poco la limitazione originaria che l’affetta e restaurandosi come atto puro, come Assoluto, come Eternità; in quanto questo processo di determinazione continua non già arricchisce la coscienza di nuova realtà, ma ne elimina progressivamente la irrealtà, la limitazione, la negazione, la tenebra, l'ignoranza originale da cui è affètta e che ne fa l’individualità, e la restituisce a sè stessa. Ciò che fa l’unità, la continuità, la durata della coscienza attraverso la molteplicità, la discontinuità, il cambiamento infiniti delle sue determinazioni è l’Etemità, l’Assoluto, che sono il suo fondo ultimo, la sua sostanza profonda, tutto ciò che è in lei di vera e positiva realtà.
5. - Ora, poiché la cosciènza è essenzialmente tempo, tutte le sue determinazioni soggiacciono alla legge del tempo. Nulla possiamo sperimentare se non come sequenza temporale, sintesi di prima e poi, di passato e presente nel presente. Per questo appunto, essendo assurdo e inconcepibile che il passato — ciò che non è più — esista realmente, in sè, fuori di noi, come passato, tutto ciò che è nella coscienza, tutto ciò di cui abbiamo in un modo 0 in un altro esperienza, non ha realtà alcuna fuori della coscienza, non è nulla in sè, è mera soggettività, fenomeno, apparenza, miraggio, illusione, sogno. L'assoluta soggettività di tutto il contenuto della nostra esperienza si dimostra, in ultima analisi, con ciò: che se qualcosa esistesse in sè, questo qualcosa essendo tempo, cioè Sintesi dì passato e presente nel presente, il passato —
13
IL TEMPO E L'ETERNITÀ 247
ciò che non è -più — avrebbe esistenza, sarebbe, il che è assurdo. Ciò che è in sè non può essere che extra-temporale: o Assoluto, quindi, atto puro che è in un colpo tutto quel' che può e dev’essere — o Coscienza empirica. Sforzo, cioè l'Assoluto medésimo in quanto si va liberando, da una negazione che l’affetta. TI divenire non ha realtà alcuna in sè, non è un in-sè, è semplicemente il processo fenomenologico col quale la limitazione originaria che fa dell’Atto puro un atto empirico viene eliminata e restaurata nellasua purezza l’intuizione simultanea e totale in cui è la sola ed unica realtà. Rovinano così dalle fondamenta tulle le teorie che del tempo, 'si divenire,, dello sviluppo, della storia, concepiti come in sè, fanno la stoffa ultima de gnando.
6 .~ Il finito è nel tempo, è tempo, in quanto non è tutto in uria volta ciò che potrebbe e dovrebbe essere: in quanto fra la sua esistenza c la sua essenza vi è squilibrio e inadeguazione, in quanto è astratto dall’Eterno, avulso dall’unità dell’Assòluto. Futuro è qualcosa di eui la. possibilità è presente senza la realtà. Forre il futuro è negare che resistenza è adeguata all’essenza, che l’essere è di un colpo tutto quello che può e deve essere. Il tempo è sviluppo, cioè processo di restaurazione dell’atto, ritorno del finito all’infinito: esso è il passare del finito, il suo essere divorato dalla potenza infinita dell’Assòluto. L’esperienza pura ed immediata del tempo è esperienza di un’aspirazione, di un’irrequietezza, di uno squilibrio fra ciò che si è e ciò che si desidera di essere: il tempo è la legge di un mondo ove il finito, il limitato, tende a conseguire quel che gli manca, a raggiungere il suo complemento, il suo altro, che è poi il suo vero sè stesso, dal quale si sente scisso e separato e còl quale tende a ricongiungersi. La sequenza temporale è fórma essenziale dell'atto in quanto sviluppo, coscienza, è esperienza immediata del perseguimento di una méta. Ogni essere, in quanto non ha raggiunto il suo ideale e lo va perseguendo (ideale che è Sè stesso affrancato da ogni negazione e restaurato come puro ed assoluto Sè), è tempo concreto e vivente. La coscienza è sequenza temporale in quanto è imperfezione che tende alla perfezione, cercare, perseguire, conquistare che tende a convertirsi in trovare, conseguire, possedere. Di qui la fondamentale irreversibilità della sequenza temporale.
7 . — Se forma è ciò in fòrza del quale un molteplice vien ridotto ad unità, cioè posto e negato insieme come molteplice, se forma è atto vivente e concreto di unificazione, il tempo è forma. Il tempo non è còsa, sostanza, essere, poiché noi non concepiamo la cosa, la sostanza, l'essere, se non come alcunché di permanente. Ora, per concepire alcunché come permanente, dobbiamo pensarlo in rapporto al flusso del tempo e del cambiamento, che esso sperimenta in sè, ma di cui trionfa risolvendolo in sè e mantenendosi identico malgrado ed attraverso la variazione. Dunque, il concetto di cosa permanente, di essere, di sostanza, lungi dal fondare l’intuizione del tempo, la suppone necessariamente. Il- tempo non è qualità o modo di essere, poiché noi concepiamo il modo di essere o la qualità come l’accidente di una sostanza, il quale muta o può mutare, senza intaccare quello che vi è di permanente nell’essere. Il pensiero del mutabile è, dunque, opposto e correlativo insieme al pensiero del permanente, sicché, lungi dal fondarla, il concetto di qualità o accidente o modo di essere suppone l’intuizione del tempo.
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8. - Il tempo non è cosa nè qualità: è la coscienza stessa in quanto Sforzo; desiderio. esperienza immediata di squilibrio fra essenza ed esistenza e risoluzione di esso. Perciò il tempo o durata, come distinto dalle cose che esistono, comune a tutti gli esseri, composto di parti successive, omogenee, infinito in una sola dimensione a parte ante ed a parte posi, è un’astrazione cui non corrisponde nulla di reale. II tempo vuoto sarebbe quello che antecede al cominciamento assoluto dell’essere: non si può pensare ad un tempo vuoto senza pensare ad un cominciamento assoluto che vien dopo e lo riempie.’ Ma il cominciamento è impensabile se non opposto, e perciò riferito, a qualcosa che non comincia ma è, permane, dura, ossia riempie un tempo. Un avvenimento a né precede un altro b non perchè esiste in un istante antecedente a quello in cui comincia ad esistere b (in tal caso il tempo sarebbe distinto dalle cose che esistono, dagli avvenimenti che lo riempiono), ma perchè'la sua natura è tale che deve precederlo necessariamente, perchè a è la potenza di cui b è l’atto, la causa di cui b è l’effetto, il mezzo di cui b è il fine, la virtualità di cui b è la realtà. A e b sono tra loro in rapporto di anteriorità e posteriorità, in quanto sono un solo essere in due momenti, potenza ed atto, del suo sviluppo: isolare i due momenti così distinti, porre l’uno prima e l’altro dopo, indipendentemente dal loro rapporto di potenza ed atto, è porre un tempo distinto dalle cose che esistono, è isolare due termini che si chiamano necessariamente l’un l’altro, che sforzano a passare dall’uno all’altro, è irrigidire in due immobilità un atto vivente, è astrarre e falsificare.
9. - Si obbietta che il tempo non può ridursi allo sviluppo e deve considerarsi come realmente distinto dalle esistenze, perchè nel tempo troviamo anche la simultaneità, la quale sembra non possa trovarsi nello sviluppo, che è sequenza temporale. A questa obbiezione si risponde che l'esame della simultaneità è la riprova luminosa della verità della riduzione del tempo concreto a ritmo dello sviluppo. B e c si dicono simultanei quando sono pensati come momenti inscindibili e correlativi di un solo e medesimo presente concreto: quando il pensiero, pur escludendo fra loro ogni rapporto di potenza ad atto, di causa ad effetto, di mezzo a fine, è sforzato a passare da b a c e da c a b ed a considerare l’unità organica costituita da entrambi come l’atto di una potenza a, la quale perciò vien posta come anteriore, e come potenza di un atto d, che perciò vien posto come posteriore.
io. - Se le cose che a noi sembrano esistere fuori di noi sembrano essere nei tempo, presentare una sequenza temporale (è il caso del moviménto), questa è illusione — sia pure necessaria, almeno in un certo momento dello sviluppo della coscienza — ma pur sempre illusione: non vi è sequenza temporale se non per la, nella, e come atto di coscienza. Dicesi in movimento un corpo che cambia successivamente e continuamente di posizione nello spazio. Per percepire un corpo in movimento si debbono abbracciare simultaneamente, pur ponendole come successive, due diverse posizioni di esso nello spazio: il che è impossibile senza un atto sintetico dello spirito, senza quella vivente relazione che è la coscienza. Il
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moto è reale solo come sequenza temporale: il moto è fondato dal tempo, e non il tempo dal moto. Per questo, fuori dell’atto concrèto della coscienza che lo percepisce e costruisce, non esìste movimento. Il moto in sè è un assurdo: esso è tutto' è solo nella relazione che unisce il termine a quo ed il termine ad quem del moto,, ossia è atto di coscienza. Come relazione, il tempo (e quindi il moto) è insieme continuo e discreto. In quanto l’atto sintetico della coscienza abbraccia due determinazioni a c b passando immediatamente dall’una all’altra, a e b si seguono immediatamente e tra esse non corre tempo. In quanto ogni relazione, essendo un continuo, un intervallo, un’unità, involge un infinito ed è scomponibile aH'infinito* dalla riflessione, tra a e b possono essere intercalate determinazioni infinite ad arbitrio, ed il tèmpo (e quindi il moto) appare allora divisibile all'infinito. Ma questa divisióne non è reale ed attuale prima che sia stata effettivamente operata dalla riflessione: tra a e b non passano i momenti temporali c, d, e, prima che fra a e b Siano state dalla riflessione effettivamente intercalate le determinazioni c, d, e.
il.- Il passato, il presente, il futuro non sono parti del tempo: la parte è omogenea al tutto, e, presa un certo numero di volte, misura il tutto: ora, ciò non accade per il passato, il presente, il futuro. L’esperienza più semplice ed elementare del tempo è quella di una opposizione interiore, di una insoddisfazione interiore e, correlativamente, di uno sforzo per rimuovere ciò che impedisce la soddisfazione. Il passato tende verso il futuro, e tutto il suo significato è di esserne l'aspettazione e la preparazione. Il presente è niente altro che il processo concreto di rimozione del limite che separa lo sforzo dalla soddisfazione: è sviluppo concreto La coscienza è sempre essenzialmente, in quanto atto o sviluppo:, presente concreto, sintesi di passato e futuro, di prima e poi. Ma se la coscienza è sempre presente concreto, i tèrmini di cui questo è là relazione, il prima ed il poi di cui è la sintesi, lo sforzo e la Soddisfazione di cui è il legame vivente, mutano incessantemente. Perciò la coscienza è un'immobilità eternamente mobile ed irrequieta. In quanto relazione, sviluppo, passaggio, il presente è mobilità ed irrequietezza; la coscienza lo sperimenta e 10 vive. È questa immobilità ed irrequietezza medesima. Ma quando vuole afferrarlo, il presente diventa passatói La cosciènza che vuole afferrare il presente a si trasferisce perciò stesso ad un piano superiore, non è più a ma riflessione su a, che ha in sè a come momento superato, come passato. Il presente concreto della coscienza è inafferrabile, pel fatto stesso che è l'atto vivente della coscienza; non si può fissare perchè è passaggio, e niente altro che passaggio. La coscienza non va, dunque, come credesi comunemente, dal passato attraverso il presente all’avvenire: è sempre ed esclusivamente nel presente, è presente in atto, ma questo presènte essendo Sforzo, perseguimento, aspirazione, sviluppo, è niente altro che transito dal passato all’avvenire. Ma l’avvenire non- potrebbe diventare presente se in sè stesso non lo fosse di già: ciò che per noi è avvenire, è in sè un presente immanente. L'avvenire è l'adempimento dell'insoddisfazione, il completamento dello sforzo, ciò che sarebbe impossibile se adempimento ed insoddisfazione non costituissero un’unità primordiale che, negata, si restaura come tale.
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II flusso del tempo ha il suo fondamento in un’esistenza illimitata, pura, senza passato nè avvenire, in cui passato ed avvenire sono fusi in unità indissolubile, in cui non v’è distanza tra sforzo e soddisfazione, desiderio e conseguimento,, in cui non v’è sforzo nè desiderio, ma possesso chiuso, contratto, ràccolto in sè stesso: questa esistenza è F Assoluto, l’Eterno, che perciò è tutto e solo presente. L’Eterno è la base del tempo: gli preesiste, lo accompagna, lo segue. Il tempo esce dallo Eterno e vi ritorna: a misura che la negazione, è eliminata dall’essere, che lo sfòrzo si converte in soddisfazione, l’unità si ricostituisce come tale ed il tempo rientra nell’eternità. Il tempo concreto, in quanto presente Che è sintesi di prima e poi, è sempre s condo momento, perchè ha sempre un prima in sè: un momento del tempo assolutamente primo è un assurdo. In quanto presente concreto, passaggio vivente dal desiderio alla soddisfazione, il tempo involge sempre un futuro, ha sempre un poi in sè; un momento del tempo assolutamente ultimo è un assurdo. Queste caratteristiche del tempo, elaborate dalla riflessione, lo fanno apparire come infinito a parti ante ed a parte post; ab aeterno ed in aeternum.
12 .-' L’esperienza del tempo muta, si complica, si sviluppa, a misura che muta, si complica, si sviluppa la coscienza. Lo sviluppo della coscienza è lo sviluppo dell'esperienza del tempo. Il sentimento immediato del tempo, della durata, è quello di un’opposizione interiore avvertita, e perciò stesso in via di essere risoluta, come tale: è la coscienza, lo sforzo, la vita come sentimento immediato di sè. In ciò il lato giusto delle filosofie che del tempo fecero un’esperienza immediata o un estratto di esperienze immediate. L’opposizione qui è vissuta e sentita immediatamente: la coscienza è sprofondata in essa, coincide con essa, non se ne distingue. I due termini, il prima ed il poi, il desiderio e la soddisfazione, sono sentiti nella loro opposizione c nella risoluzione di questa, ma non sono avvertiti come due. Lo spirito si sente cambiare e durare nel cambiamento: esso è la durata nel cambiamento» il cambiamento nella durata, ma non sa di esserlo, non è riflessione sulla durata e sul cambiamento, è. coscienza come tempo, non coscienza del tempo. La coscienza qui vive nel presente, momento per momento, senza rilegare i momenti successivi, per quanto vicini e contigui essi sembrino a chi li guarda dal di fuori.
13 .- La riflessione sul tempo svincola la coscienza dal presente concreto col quale coincide. La coscienza si pone come riflessione sull'atto: cioè si costituisce come atto b che ha in sè un altro atto a, posto e negato come tale. Questo secondo atto è il passato, posto come passato. In quanto atto, la coscienza è tempo concreto, sintesi di prima e poi, simultanei e pur successivi; in quanto non puro e semplice presente; ma riflessione sul tempo, è atto che ha in sè come oggetto di riflessione un altro atto, un altro tempo, un altro presente, che perciò è posto e sperimentato come passato. La coscienza qui è ricordo e memoria. In quanto posto come passato, l’atto a che è compreso nell’atto b insieme ed in un atto solo è vissuto ed espulso dalla vita, cioè è posto come vita che non è ma fu, ed in quanto fu, ora è irrigidita ed impietrita nell'essere, non più agcns ma aduni, non più divenire ma essere. Sperimentare il passato come tale è sperimentare la vita come morte, vivere
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IL TEMPO E L'ETERNITÀ
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ed insieme negare la vita, ed ogni qualvolta la vita è sperimentata come morte, vissuta e negata in un atto medesimo, appare come passato. Come presente immediato la coscienza è atto, e, in quanto tale, ha in sè una molteplicità di momenti, è sintesi di prima e poi. Come ricordo o memoria, la coscienza è atto che ha in sè una molteplicità di atti. La coscienza qui si raddoppia su se stessa, si eleva a potenza superiore, si pone come presente che ha in sè l’estensione interminata del tempo, come successione di atti e identità di sè con sè in questa successione, come unità di sè con sè attraverso la molteplicità indefinita, e si avvicina così alla sua meta finale che è di confondersi con l’Eterno da Cui si staccò. Fuori dell’atto di Cosciènza che lo pone e costituisce come tale, il passato come passato, come ciò che fu ed «ora non è più, non ha esistenza alcuna. L’esperienza del tempo qui è prodotto della riflessione, dunque è un mediato. In ciò il lato giusto delle filosofie che fecero del tempo un concetto della ragione, una relazione riflessa.
14. - Soltanto nell'uomo la coscienza si pone Come memoria o ricordo, come presente che ha in sè il passato posto come tale. Soltanto nell’uomo il tempo delia coscienza diventa coscienza dei tempo. Nella società umana. Ogni coscienza individuale può accogliere in sè, per mezzo del linguaggio scritto e parlato, delle testimonianze di ogni sorta e, in genere, delle comunicazioni- con altre coscienze gli avvéniménti di qualunque altra coscienza reale o possibile, che, cioè, li ha realmente sperimentati o, in determinate condizioni, avrebbe potuto sperimentarli: essa può accogliere in sè la successione interminata degli avvenimenti cosmici, e ■farsi così "gradualmente coestensiva allo sviluppo medesimo del mondo, alla storia universale. In pari tempo, essa va di mano in mano mettendo di accordo il suo tempo concreto, il suo compasso di tempo, il suo ritmo di sviluppo, con il tempo ■concreto delle altre coscienze con le quali vive in società, accordandosi con esse a riferire gli avvenimenti a certi movimenti (del pendolo, degli astri) percepiti in modo praticamente eguale da tutte le coscienze e sperimentati come uniformi e regolari: moti che, in grazia di questa loro uniformità e regolarità (non esistente •realmente in sè, ma sperimentata ed affermata come tale), servono da comune •misura sociale del tempo concreto, che essi dividono in periodi regolari e ritornanti. A ciascuna determinazione della coscienza si può far corrispondere una posizione occupata da uno di questi mobili (pendolo, astro) nello spàzio: queste posizioni, esterne come sono fra loro nello spazio, proiettano la loro esteriorità sui momenti della coscienza cui sono riferite come simultanei ad essi, sicché, grazie a questo lavorio della riflessione, i momenti interpenetrantisi della coscienza assumono l’aspetto di stati esteriori l'uno all’altro, come sono esterne fra loro le posizioni occupate dal mobile nello spazio. Così nasce l’idea del tempo comune, costituito da momenti identici fra loro, che si seguono senza compenetrarsi, misurato e riempito da questi moti uniformi e regolari, nel quale, come in un mezzo omogeneo e indifferente, gli avvenimenti si svolgono, ricevendo il loro ordine dal loro riferimento a quei moti. Questo tempo comune astronomico non esiste in sè, ma è .soltanto un prodotto della riflessione, grazie al quale la coscienza individuale può
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accogliere in sè ed ordinare gli avvenimenti tutti dell’universo senza confonderli tra loro: così essa si potenzia a coscienza universale, che ha in sè posto l’infinito del tempo e della storia mondiale, e si avvicina ulteriormente a quella restaurazione di sè come unità assoluta, che è la meta del suo sforzo.
15. - La coscienza non si ferma qui. Essa riflette ancora su questo tempo comune mondiale così postò. Questa riflessione la svincola dalla differenza qualitativa, dalla eterogeneità di presente e passato, degli avvenimenti che lo riempiono: e non lascia più che l’astratta e generale proprietà della successione continua, il prima ed il poi astratti e generali. Il tempo allora si raffigura come la successione uniforme, continua, omogenea, in cui gli eventi si succedono. Questa idea è simboleggiata sotto l’immagine del moto lineare. Nel moto lineare vi è una successione, un prima ed un poi, una diversità, senza che nondimeno vi sia un cambiamento di qualità. Percorrendo i punti di una linea, il mobile rimane qualitativamente lo stesso, eppure scorre nel tempo. Il moto lineare diventa il simbolo della successione pura, astratta, non qualitativa. Il tempo sembra allora distinto e indipendente dal cambiamento qualitativo, dallo sviluppo che lo riempie. La coscienza qui pone in sè il tempo vuoto nella sua infinità, il simbolo del tempo vuoto ed infinito; essa è presente concreto, atto concreto di coscienza, che ha in sè posta di un colpo la distesa interminata del tempo. Ma questo tempo vuoto ed infinito-non è nulla di reale in sè, è un puro prodotto della riflessióne.
16. - Una riflessione ulteriore sulla forma vuota del tempo svela alla coscienza la natura di questo, cioè di sè medesima: di essere la forma e la legge di un essere in cui l’esistenza è inadeguata all'essenza, éche perciò appunto cérca di adeguarvisi, di una esistenza che è atto parzialmente negato, il quale cerca di restaurarsi come puro ed assoluto. In questa riflessione sul tempo, l’Eterno appare alla coscienza come la base che sostiene il tempo e ne precede, accompagna, segue, muove il flusso continuo. L’Assoluto. l’Eterno entra nella coscienza per e nell'atto che questa, cioè il tempo, comprende se stesso, si rende chiaro a se stesso. L'Assoluto, l’Eterno entra nella coscienza solo in opposizione ed in negazione, ma perciò stesso4 in relazione, alla forma del tempo posta come tale. Attraverso la posizione che è negazione del tempo (cioè della forma stessa della coscienza,, dello sviluppo, della relazione), l’Eterno entra nella coscienza, nel presente concreto che è l’atto di coscienza: questo si confonde col presente intemporale e sopratemporale che è l’Eterno, e la coscienza allora vive di vita eterna, è palpito di vita eterna.
Adriano Tugher.
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GIOSUÈ BORSI E IL CARDINALE MAFFI
O mirabile giustizia di Te, Primo Motore’ Tu non bai voluto mancare a nessuna potenzia l'ordine e qualità dei suoi necessari effetti. O stupenda necessità!
Leonardo.
algrado il molto parlare che se ne è fatto e malgrado i vari tentativi biografici, riusciti tutti inferiori al soggetto, la figura di Giosuè Borsi non è Stata ancor oggi riassunta nei suoi tratti definitivi.
Tutti gli scrittori ecclesiastici che si sono occupati di lui, intenti soprattutto a glorificare la Fede e a fare del suo esempio un tema di edificazione, hanno involontariamente diminuito il suo carattere e offuscato il senso della sua vita.
Nature così complete e così ricche come quella del Borsi non si possono conoscere che attraverso la semplicità assoluta. La mirabile spontaneità del suo carattere non può nemmeno essere intesa da chi non lo ha intimamente avvicinato. Tutti coloro che hanno voluto scrivere a orecchio di Giosuè, giudicandolo su quanto di lui è stato pubblicato, hanno fatto pura opera letteraria, che non può pretendere all’autenticità.
B divenuto anche comune, a proposito del Borsi, parlare di conversione. Questa è una leggenda messa avanti da chi non ha conosciuto il Borsi. Una conversione è un rivolgimento integrale che porti improvvisamente un’anima da un estremo all’altro, una trasformazione totale che muta un essere e lo rinnuova istantaneamente. Ora questo non si ebbe ih Giosuè: in lui si ebbe un graduale riconoscimento di se stesso.
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La santità non fu per Borsi il frutto di una conversione, ma il termine di un avviamento. Sin dall'inizio la sua anima straordinaria era orientata verso il Cristo, e lo sviluppo di essa non fu che un continuo e costante avvicinamento a Gesù. Le gioie fugaci del móndo, le voluttà sottili dell’intelletto, gli oscuri piaceri dei sensi, come più tardi lo sbigottimento della morte, che ben tre volte in due anni segnò là casa e il cuore di Giosuè, il peso di gravi responsabilità caricate sulle sue spalle giovanili, le ansie dello spirito oramai insofferente di catene e anelante agli orizzonti illimitati, tutto fu per Giosuè via verso la Verità e la Vita. La sua esistenza era provvidenzialmente predestinata e in ogni suo atto porta segnata l'impronta della necessità.
Il Borsi stesso ha Un sentimento oscurò di questa provvidenza, Nelle Confessioni a Giulia, in data 6 dicembre 1912, egli scrive: «Tutto al mondo è stabilito per legge eterna e di questa verità debbo a te la chiara coscienza. T’aspettavo, con l’intima certezza che mi saresti apparsa un giorno e che ti avrei subito riconosciuta, regina del cuor mio ed arbitra del mio destino. In certi momenti sento tutto quello che v’è in questo amore di prestabilito e di fatale, di superiore alla mia piccola e futile volontà di uomo. Ogni strada più tortuosa in cui mi smarrisco mi riconduce a te, sempre».
Sostituite a Giulia Dìo, e avrete il senso pieno della vita di Giosuè.
Chi scrive queste brevi note conóbbe Giosuè Borsi fin dalla prima infanzia, fu compagno quasi cotidiano della sua crescenza, ebbe comuni con lui ansie e dolori e in ultimo si trovò intimamente unito a lui nella crisi suprema da cui scaturì l’eroe e il martire. Queste note sono dunque meglio che un ricordo: esse sono una testimonianza.
La vita di Giosuè Borsi è naturalmente divisa in tre grandi periodi, in cui l’intensità è in ragione inversa della durata: il primo e più lungo, che va fino agli ultimi del 1912, si svolse sotto l'influenza umanistica del padre, Averardo Borsi; il secondo, psicologicamente più interessante, si chiude alla fine del 1914 ed è soggetto all’influenza della Fanciulla Gentile; il terzo, più breve ma più fecondo spiritualmente, raccoglie gli ultimi mesi ed è tutto dominato dalla figura imponente ed austera del Cardinale Malli.
Un biografo superficiale e poco preciso presenta della giovinezza di Giosuè un quadro quanto mai falso e retorico. Gli accenni fugaci che si trovano nei Colloqui sono magnifici squarci mistici che rispecchiano il sentimento di chi li scriveva, ma non rispecchiano la realtà. Non vanno presi alla lettera. Nel suo grande fervore, Giosuè chiama infame, obbrobriosa, vile la sua vita di un tempo, non che effettivamente egli avesse mai commesso azioni infami, obbrobriose e vili, ma per umiliarsi e meglio marcare il suo distacco dal passato. Nelle Confessioni a Giulia, Giosuè si qualifica cialtrone, scellerato, ipocrita, furfante per un semplice peccato d intenzione. Moralmente, aveva pienamente ragione. L’amore è assoluto o non è.
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Giosuè BOSSI E II cardinale «affi 255
Di fronte alla fanciulla amata, un peccato anche di sola intenzione è gravissimo e non ammette attenuanti. Ma il giudicarlo non spetta a noi. A' noi incombe solo di essere ligi alla verità;.
E in effetto, la giovinezza di Giosuè Borsi fu serena e limpida, illuminata dai sorrisi dell’arte, e se pur lontana dalle pratiche religiose, confortata dagli affetti famigliari, invero intensissimi nella casa di Averardo.Borsi. Della mamma di Giosuè non dirò nulla, poiché di lèi sono pieni i Colloqui e le Confessioni, e non potrei mai dirne meglio di Giosuè. Ma tutti coloro che frequentarono casa Borsi possono testimoniare quale padre amorosissimo fosse Averardo. Egli era fiero di Giosuè, del suo ingegno, della sua prestanza, e ne seguiva lo sviluppo con cura intelligente e libérale. Egli ne guidava i primi passi nella vita con mano ferma e satura di esperienza, infondendo nell'anima sua i germi di quei sentimenti che fruttificarono poi in modo così meraviglioso.
Poiché Averardo Borsi ebbe il cuore pari all’intelletto, entrambi nobilissimi. Il tratto essenziale del suo carattere era la generosità. Nessuno Che si rivolgesse a lui, amico o nemico che fosse, lo trovava sordo. Egli faceva il bene per bisogno intimo dell’anima, senza cercare nè chiedere riconoscenza. Egli aveva un sentimento che fiorisce solo nei cuori altissimi: aveva il pudore della propria nobiltà. E copriva la delicatezza del suo sentire con un velo di scetticismo, che potè sembrare, a chi non lo conóbbe, il fondo vero della sua psiche. Egli faceva meglio che praticare il culto: praticava il bene. Non andava in chiesa, ma adorava Dio nelle opere meravigliose. della Creazione: in ispirilo e verità, secondo il Vangelo di S. Giovanni. «Miscredente c anticlericale », Averardo Borsi scese pubblicamente in campo in difesa della Madonna e di S. Francesco, scrivendo delle pagine in lode della Vergine e del Poverello meravigliose di sincerità e di fervore.
Giosuè apprese dal padre il disprezzo del denaro. Malgrado una vita attivissima e feconda, Averardo Borsi morì povero. Quando Giosuè .si cinse del cordino dei Terziari di S. Francesco, non faceva che dare una forma concreta al sentimento intimo del padre.
È dunque dal padre Averardo che Giosuè derivò le più brillanti qualità del suo spirito e del suo cuore: la limpidità adamantina, che fa dei Colloqui un gioiello letterario unico, la grande generosità, il sentimento profondo di Dio sempre operante, il coraggio personale che pone l'uomo sopra tutte le vicende della buona e dell’avversa sorte. Dalla madre Giosuè derivò la dote preziosa che diede un valore eccelso a tutte le virtù della sua anima: derivò il senso mistico, il senso dèi trascendente che unisce l’uomo a Dio. Egli quindi ha ben ragione quando protesta alla madre di dovere tutto a lei.
Nell’ambiente famigliare, Giosuè Borsi crebbe serenamente spensierato. Entro le pareti domestiche egli trovava (’appagamento di ogni sua aspirazione. Il sorriso della dolce sorellina, la soave Lauretta, illuminava la casa. Giosuè vi si sentiva sicuro come in una fortezza. Il suo amore era tutto chiuso nel cerchio stretto della sua famiglia e non provava il bisogno di volare oltre. Studiava svogliatamente giuri-
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sprudenza, felice invece di immergersi nei prediletti studi letterari e nei componimenti poetici, in cui più che una promessa era già un’affermazione.
Quella che fu chiamata la sua vita mondana si riduceva a poche apparizioni in salotti intellettuali, dove il suo ingegno era vivamente apprezzato, e più che altro, alla frequentazione saltuaria di artisti, che festeggiavano in lui l’animatore e il suscitatore di ansie elevatrici. Poiché fu questa la caratteristica peculiare posseduta in ogni tempo da Giosuè: di innalzare ogni ambiente in Qui si trovasse. Dare era per lui più che una gioia, èra una necessità. La sua generosità non conosceva ostacoli. Egli dava non solo tutto ciò che aveva, ma anche tutto sé stesso. Ricordo con tenerezza, un giorno che lo richiesi di un favore, come egli abbandonasse subito ogni suo interesse per mettersi tutto a mia disposizione. E quando lo ringraziai, mi guardò con meraviglia come colui che ha fatto la cosa più semplice del mondo, senza merito alcuno.
Il grande Cristiano dei Colloqui era dunque tutto contenuto in germe nel sublime fanciullo che meravigliava di sè la stretta cerchia degli intimi. Talora lo assaliva un’inquietudine oscura, come se il Dio invisibile, ch’egli era chiamato a testimoniare, si agitasse più fortemente in lui e svegliasse la sua coscienza assonnata. Erano allora per lui giorni di scontento, in cui il suo ingegno, la sua fama, il successo crescente, tutto Io infastidiva e gli sembrava vile. Erano quelli i giorni in cui vedeva nel saio di S. Francesco la veste più desiderabile per comparire dinanzi al Signore, e scriveva i versi nostalgici:
Eppure, vedi, è molto Tempo che sogno questo Sogno d’umiltà casta;
Mentre son tra lo stolto Volgo, vano e molesto, Ch’è sordo e mi contrasta.
Gli anni dal 1910 al 1914 furono gli anni della prova per Giosuè. La morte del padre» della sorella, del piccolo Dino lo colpi successivamente. Le preoccupazioni materiali cominciarono a pesare sulla sua vita; dovette dedicare il suo tempo al giornale, alla famiglia. Furono anche gli anni del raccoglimento. Non uso appositamente il termine di ravvedimento, ch’io stimo fuori luogo. Incalzato dagli avvenimenti, Giosuè fece un ritorno su sè stesso e cominciò a vedere chiaro nel proprio cuore. E questo il periodo delle Confessioni, il periodo della Fanciulla Gentile. Giosuè era un’anima sensibilissima, che aveva sempre bisogno di conforto, di appoggio spirituale. Mancatogli il padre, egli si abbandonò con intera fede al suo amore per la Fanciulla Gentile. Fu una fiamma purificatrice ed elevatrice. Tutto l’essere materiale vi passò.
L'ascesa di quest'anima d’eccezione verso le vette più alte dell’amore terreno è documentata, si può dire giorno per giorno, nelle Confessioni. Ma noi vi scòrgiamo
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GIOSUÈ SORSI E IL CARDINALE MAFFI 257
altro ancora: vi scorgiamo l’inconscio avviamento all’amore divino, che in ultimo dovrà imperare solo. Attraverso il suo diario, noi possiamo seguire passo passo Giosuè nel suo lento avvicinamento a Dio. Il trapasso dall’amóre terreno all’amore divino è quasi insensibile: esso è veramente un progressivo riconoscimento di sè stesso.
Il 5 dicembre 1912, Giosuè scrive queste parole angolari: « Da oggi comincia finalmente la mia vita ». Egli infatti ama: non dubita più. L’innalzamento s’inizia. Non si fermerà più. Giosuè stesso ne segna le tappe luminose. Lasciamolo parlare:
« Ora sono già in grado di giudicarmi con una severità assai più fiera e risòluta. Non trovo più nella coscienza tutte le arrendevoli e facili indulgenze di un tempo. Ora le vittorie su me stesso si fanno sempre più frequenti ed agevoli. Sento già in me quei lunghi fremiti trepidanti che precedono di poco il vittorioso coronamento di tanti sforzi angosciosi.
« Soltanto in questo momento mi rendo conto dell’importanza della preghiera nella fede. Che lampo subitaneo m’illumina!
« Ho pregato con tanto fervore, a lungo, con tutta l’anima... Presto voglio confessarmi e comunicarmi. Ho bisogno di sollievo, di luce, di purezza; ho bisogno di rifarmi l'anima.
« Io sono assetato soltanto di sacrifìcio e d’abnegazione.
« Dio eterno e benedetto, io invoco il soccorso della tua infinita provvidenza. Dammi tu una sicurezza senza iattanza, illumina quanto nella mia mente v’è ancora annebbiato e confuso, conforta e ciba di speranza buona la mia folle temerità.
« Tutti i beni mondani stancano prèsto o tardi. Stanca il vizio, stanca la fama, stanca il benèssere, statica la gloria, stanca la ricchézza, stanca la bellézza, stanca il piacere, stanca la potenza, stanca la scienza. Tutto è vano o irraggiungibile, ep-però io non ho più voglia di cercare il mio bene per le vie del mondo. Ora mi aggrappo a te, Giulia, come alla mia ultima, speranza ».
Il Borsi intravede già, ina non osa ancora confessare, che solo in Dio si può avere la pace perfetta, il perfetto appagamento. Questa verità non risplende ancora per lui, ma egli può già chiudere le sue confessióni con queste profetiche parole: « Per più segni credo di avere letto, nel libro del futuro, che vincerò, pur non sapendo quanto potrà costarmi la mia vittoria ».
Egli aspettava una vittoria terrena; il suo fu invece un trionfo dello spirito. Credeva di unirsi con la fanciulla amata; e si unì con Dio. il prezzo della sua vittòria fu la sua vita.
Abbiamo così veduto Giosuè Borsi, sotto l’amorosa guida del padre, passare ^trionfante l’inferno di questo mondo; lo abbiamo veduto, sotto l’influsso della Fanciulla Gentile, purificarsi attraverso il purgatorio della sua passione. Egli oramai è pronto a varcare la soglia del paradiso : il Cardinale Pietro Maffi gliene aprirà la porta.
Se per una grazia speciale, ci fosse concesso di riannodare tutti gli anelli che legano alla nostra vita un avvenimento, rimarremmo spesso meravigliati di vedere
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in quali remote profondità l'avvenimento ha la sua radice e con quale miracolosa sapienza esso sia stato preordinato. Scorgeremmo .così quanta solidarietà ci leghi al nostro prossimo e quanta influenza possa avere sul nostro destino un’azione apparentemente innocua che Si svolge lontano da noi. La grande nemica ' dell’uomo è la sua ignoranza. Se egli potesse percepire anche una sola nota della meravigliosa armonia che domina in tutta la creazione, egli piegherebbe con gioia il ginocchio adorando e il male non avrebbe più presa su lui.
L’incontro di Giosuè Borei col Cardinale Maffi è legato a vicende del tutto estranee al Borei, relative a persone da lui completamente sconosciute e che probabilmente non sapranno mai quale peso decisivo esse abbiano avuto sul destino di Giosuè. 0 stupenda necessità!
Verso la fine del 1913, un caso tristo e pietosissimo mi fornì l'occasione di avvicinare il Cardinale Maffi. Senza merito alcuno, colla sola raccomandazione di un umile parroco, fui accolto nel Palazzo arcivescovile di Pisa, illustrato già da tanti nobilissimi prelati, con una bontà e una benevolenza che ancor oggi mi commuovono. Austero, massiccio, imponente, il Cardinale Maffi, fisicamente e spiritual-mente, era l’antitesi di Giosuè Borei. A vederlo, venivano spontaneamente alla memoria le parole di Gesù: Tu es Petrus et super hanc petram... Anche il Borei, dovette provare un’impressione consimile, poiché scriveva al canonico Zucchetti, dopo il primo incontro: « Ad ascoltare le parole piene di saggezza che gli dettava il suo impareggiabile intelletto, io non potevo fare a meno di pensare con immensa gioia come sarà sempre invitta e fortissima la Sposa intemerata dell’Agnello, finché la grazia dello Spirito Santo animerà il cuore e l'ingegno di uomini di quella tempra, eletti dal cielo ad esserne la difesa e il sostegno». Come San Pietro, il Cardinale Maffi aveva un’anima granitica. Egli aveva in sé lo spirito di fortezza e di sapienza. Nell'occhio chiaro, sorridente, di una luce serenamente infantile, brillavano talvolta lampi aquilini. Si sentiva una grande forza chiusa in quella serenità indulgente. Di fronte al Borei, per continuare la similitudine evangelica, sembrava come Pietro di fronte a Giovanni. Giosuè era infatti l'entusiasmo travolgente, lo slancio spontaneo, l’ispirazione irruente; il Cardinale Maffi era la calma sicura, la saggezza previdente, la riflessione illuminata. Un sentimento era però eguale in entrambi: l’ardore della fede e della carità. Natura eccezionale, creata per il dominio delle anime, il Cardinale avvinceva tutti coloro che lo avvicinavano. La sua purezza adamantina contrastava mirabilmente col senso reale della vita e degli uomini, in lui notevolissimo. Talora, nel parlare semplice e giocondo, sembrava uno di quei fanciulli così cari a Gesù; e improvvisamente un pensiero acutissimo rivelava il genio che nutriva la sua mente robusta e quadrata. Il sentimento immediato che ispirava era la fede. Ci si sentiva sicuri vicino a lui; ci si sentiva amorosamente dominati. Ma il suo giogo era leggero e soave, come quello di Gesù; Il Borei ne fu totalmente preso: al contatto del Cardinale Maffi, tutti i contrasti della sua natura si fusero in una sovrumana armonia e scaturì, libero e trionfante, il perfetto, cristiano che la morte ha glorificato.
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Fu il giorno di sabato 19 dicembre 1914 che Giosuè Borei s’incontrò la prima volta col Cardinale Maffi. L’ottimo canonico Zucchelli, che si era interposto per ottenere l’udienza, mi aveva avvertito che Sua Eminenza ci avrebbe ricevuti alle quattro del pomeriggio. Giosuè era mio ospite a Livorno; partimmo insieme per Pisa. Ricordo ancora con profonda commozione il breve viaggio. Giosuè aveva tirato dal taschino il piccolo Dante che non lo abbandonava mài, e apertolo a caso, si mise a leggere ed illustrare il Canto XXIV del Paradiso, ove San Pietro interroga Dante intorno alla fede.
Chi non ha udito Giosuè Borei declamare Dante non comprenderà mai cosa sia Dante. Più che un poema, la Commedia è un miracolo. Giosuè rendeva il miracolo appariscente. Non si ascoltava, si aveva la visione: ecco Beatrice farsi, avanti e pregare «il sodalizio eletto alla gran Cena del benedetto Agnello», perchè esamini Dante, ed ecco San Pietro interrogare:
Di’, buon Cristiano, fatti manifesto. Fede che è?
I • •
Ed ecco il Poeta rispondere che cosa sia la fede, come egli la possegga, da qual fonte l’abbia derivata, su che si fondi e quale ne sia l’oggetto. La voce di Giosuè vibrava, si faceva ardente, si immedesimava colle parole. Non era più Dante che rispondeva, era Giosuè stesso che si trovava dinnanzi a San Pietro e confessava la sua fede. E quando l’Apostolo, per segno della sua approvazione, impartisce a Dante la sua benedizione, Giosuè appariva commosso come se ricevesse egli stesso la grazia. E pensai a un altro Pietro verso cui andavamo, la cui benedizione avrebbe aperto a Giosuè le vie luminose del cielo...
Appena giunti a Pisa, ci recammo subito dal can. Zucchelli, che ci attendeva. Egli accolse festevolmente Giosuè, e ci accompagnò quindi al Palazzo Arcivescovile. Fummo introdotti nel salottino rosso, dove poco dopo comparve il Cardinale. Ossequiata Sua Eminenza, il canonico, chiamato dà altri doveri, si ritirò e restammo soli col Cardinale. Sua Eminenza ci parlò colla consueta bontà sorridente; ebbe parole di affetto, di consolazione, d'incoraggiamento per Giosuè... Come ridire un colloquio così soave, dove il gesto, l’intonazione, lo sguardo rialzavano il valore di ogni parola? Si ricordano il luogo, l'ora, le persone; ma le parole apron le ali e volan via. Quando ci congedammo Giosuè era profondamente commosso. Non parlava più. Mi disse solo: « Ecco come dovremmo essere tutti! »
Un’eco di questa commozione si trova nella lettera che il 21 dicembre successivo scrissi al can. Zucchelli e più ancora nella lettera traboccante di entusiasmo che scrisse il 28 dicembre Giosuè allo stesso canonico. Le due lettere sono state pubblicate nella rivista Vita e Pensiero (novembre 1916). È inutile ripeterle qui. Basta rilevare da esse l’importanza che ebbe rincontro per il Borei e l’ascendente benefico che il Cardinale esercitò subito sul suo animo. Giosuè sentì immediato il beneficio, poiché il 5 gennaio 1915, mi scriveva ancora: «Grazie nuovamente di tutto. Non
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mi scordo mai che ti debbo molto, mio buon Soler, ma son certo che quel che ini hai fatto è tanto bene che ti sarà reso centuplicato da un pagatore migliore di me ».
Dopo il primo incontro, Giosuè Borsi tornò più volte presso il Cardinale. Di una di queste volte il can. Zucchetti riferisce il ricordo commosso. Da esso si rileva anche come fosse cresciuta l’intimità fra il Cardinale e Giosuè. Certo è che due anime così elevate erano fatte per apprezzarsi ed amarsi subito. Il Cardinale ebbe per Giosuè l'affetto di un padre e Giosuè fu per il Cardinale un figlio devotissimo. In questo periodo avvicinai molto Giosuè e potei notare l’ascendente sempre maggiore che il grande Prelato esercitava su di lui. Di pari passo là sua anima si innalzava. La fede si faceva in lui più profonda, più sincera. Ogni giórno segnava un progresso. Certe ostentazioni che davano atta pietà del Borsi un aspetto mondano erano del tutto scomparse. Diveniva più severo con sè Stesso e più indulgente con gli altri. Non dimentichiamo che Giosuè era anzitutto un artista squisitissimo, sensibile a ogni delicatezza e ad ogni sfumatura. Egli edificava la sua fede come un’opera d'arte: la voleva perfetta.
E la perfezione venne con la Cresima: il 19 aprile 1915, S. E. il Cardinale Matti confermava Giosuè Borsi perfetto cristiano. Fu l’atto capitale della sua vita, il fulcro detta sua ascesa, il suggello detta sua intimità col Porporato pisano. Giosuè stesso nei Colloqui chiama quel giorno felice, benedetto e avventurato, ed ancora ripete... « Benedetta e provvidenziale cresima: è stata una data decisiva nella storia •detta mia vita mortale, non solo perchè mi ha confermato i doni dello Spirito, ma perchè è stato il centro di un certo numero di avvenimenti tutti decisivi ».
Difatti, dà quel giorno il Borei non si appartenne più: fu interamente e unicamente il soldato di Cristo.
E il soldato di Cristo fu insieme il soldato d’Italia.
Appena dichiarata la nostra guerra, Giosuè Borsi si arruolò. Fu per alcuni mesi semplice soldato, assoggettandosi volonteroso alla dura vita detta caserma. Il grande amore in lui vinceva tutto. Questo principe delle lettere, questo intellettuale che pur nelle mortificazioni poneva un’impronta aristocratica, si adattava semplicemente atte più. umili mansioni. Le stesse mani che avevano scritti i Colloqui rifacevano il letto, scopavano le camerate, pulivano le scarpe. Messo a diretto contatto coi popolo, Giosuè non sentì la sua superiorità, ma la sua fratellanza. Era non solo il compagno, ma l’amico dei suoi commilitoni. Provava non l'orgoglio della propria coltura, ma l’umiliazione detta loro ignoranza. Ed era profondamente commosso della loro bontà. « Credi, mi diceva il Borsi in quei giorni, vi sono tesori infiniti di bene nel nostro popolo. Basta toccarne il cuore, e il tesoro palesa incalcolate ricchezze. Quale colpa è la nostra di avere abbandonato a sè i nostri fratelli, di averli lasciati illudere e pervertire. Ciò che facciamo ora è niente in confronto di ciò che dovremmo fare per loro. Dobbiamo educarli e guidarli. Chi di noi può dire di avere compiuto il suo minimo dovere di fronte a loro? »
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Giosuè Borsi
(Firenze - Agosto 1915)
(1V-X-19201
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Nel reggimento, fu presto l’adorazione di tutti. Cercava sempre di comprendere i suoi umili compagni, operai e contadini, e di farsi comprendere da loro; ed essi bevevano le sue parole come l’assetato l’acqua. Tanti echi nuovi esse svegliavano nel loro cuore: echi di amore,'di dovere, di sacrificio! Erano così differenti quelle parole da quelle che essi erano usi ascoltare nei comizi e nelle osterie! E un senso nuovo di timidità e quasi di pudore provavano dinnanzi a lui. Non bestemmiavano più. La sua bontà- scendeva inesauribile e redentrice su quei nostri fratelli, di cui il peccalo è lutto nostro.
Così Giosuè sentì la guerra: non una gara di odio fra popoli, ma una gara di amore fra cittadini di una stessa patria. Era in lui in grado eccelso il sentimento che muoveva allora tutti gli animi generosi: mentre i fratelli penavano e si sacrificavano, non era lecito a nessuno ritrarsi dalla pena e dal sacrificio. Quando l’ora era giunta « di por mano all'aratro », nessuno che non fosse un vile poteva « guardare indietro». A chi ha disertato il posto Gesù ha chiuso inesorabilmente le porte del Regno di Dio (S. Luca, IX, 62).
Occorreva il sommo dell’incoscienza e della viltà per aprire ai disertori le porte del Regno d’Italia.
L’ultima volta che vidi Giosuè Borsi fu la vigilia della sua partenza per il fronte.
Finalmente aveva raggiunto il suo scopo. Non gli sembrava di essere al suo posto se non era là dove la pena e il sacrificio erano maggiori. Aveva accolto quasi con fastidio la nomina a sottotenente, perchè lo avrebbe trattenuto qualche mese per il necessario addestramento in caserma. Aveva seguito con zelo vivissimo il corso di guerra, classificandosi fra i migliori. Ed ora era pago. Partiva. « Nessun amore è maggiore di quello che dà la vita per coloro che ama », aveva detto Gesù. E il Borsi era pronto a dare la vita per amore della sua gente, per amore di questa meravigliosa Stirpe italica, così feconda in genii ed in eroi.
Oramai erasi distaccato da ogni cura terrena. Aveva sistemato tutte le sue faccende. Non lasciava dietro di sè nessun debito. Si era anche recato a Pisa a prendere congedo dal Cardinale Maffi, ed era tornato con animo più forte e fede più robusta. Aveva parlato della morte con Sua Eminenza, ed aveva udito queste semplici e grandi parole: «La morte non doversi nè desiderare nè temere; ma tutto doversi rimettere a Dio». L’anima di Giosuè era colma di serenità. Era chiara come un cielo d’estate.
Ci recammo insieme a salutare la contessa Giuseppina B. P., gentildonna elettissima e madre esemplare, per cui Giosuè nutriva una profonda devozione. Il figlio unico si era arruolato in quei giorni nei Cavalleggeri di Treviso, non sopportando di attendere la chiamata della sua classe. Molti giovinetti dell'aristocrazia fiorentina avevano seguito il suo esempio: quando tutti i fratelli penano e si sacrificano, non è lecito a nessuno che non sia un vile di ritrarsi dalla pena e dal sacrificio... Trovammo la contessa benevola e sorridente come al solito. Pensava al figliuolo con tenerezza, ma senza rimpianto. Per antica tradizione, nella famiglia B. P. il dovere era una religione. Il conte Bemuccio aveva fatto il suo dovere: non avrebbe potuto fare altrimenti.
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Giosuè Borsi si recava volentieri in casa B. P., si sentiva a suo agio in quell'ambiente di grande levatura morale. La gentile vivacità della giovanissima signorina Nory rallegrava il suo spirito. Giosuè fu tutta la sera di un’amenità straordinaria. Declamò versi di Dante e di Manzoni, recitò poesie in vernacolo, disse con incomparabile foga II Pappo e il Dindi che la signorina Maria Luisa voleva sentire. Poi si mise al piano, suonò pezzi di sua composizione, cantò la sua «Barcarola», intuonò le canzoni della Patria, il tutto frammezzato da mille piacevolezze. Pareva 1 un bimbo nella giocondità e la spènsieratezza. La signorina Nory era entusiasmata. Invidiava la sorte di chi era chiamato a servire. Quanto le sembrava più grande il fratello, ora che, fuori del palazzo avito, dormiva sulla nuda paglia e faceva la pulizia delle scuderie! Quanto più ammirava Giosuè, ora che si era Spogliato di tutte le doti della sua ricchissima natura per dedicarsi interamente al suo umile dovere di fantaccino! Le ore volarono. Era già mezzanotte e parevano appena le dieci. Giosuè si alzò per congedarsi. Tutta la famiglia B. lo accompagnò fino all’uscio. All'una eravamo ancora nell'anticamera, ascoltando Giosuè. La contessa mi confessò dopo che al momento del distacco aveva avuto come un oscuro presentimento di vederlo per l’ultima volta. Nel congedarlo aveva il cuore gonfio di commozione.
Uscimmo fuori. Nel firmamento le stelle brillavano altissime. La mattina presto Giosuè doveva partire. Mi confessò la sua preoccupazione. Come il filosofo antico, egli portava con sè ogni sua cosa: una crocetta d’oro al collo, il ritratto della madre e il suo inseparabile Dante, che riportarono più tardi intriso del suo sangue generoso. Non lasciava rimpianti. Sua madre, la signora Diana, era forte e serena. Egli era sicuro di fare tutto il suo dovere, da buon cittadino e da buon cristiano. Era però ansioso: aveva ottenuto da un suo amico, allontanatosi dalla religione, la promessa di trovarsi da lui la mattina alle cinque per recarsi insieme da padre Alfani a pacificarsi con Dio e ricevere la Comunione. E l’ansia di quest’anima da salvare teneva desto Giosuè l'ultima notte che passava in casa sua.
Seppi poi che l’amico era stato puntuale. La sua anima si era riconciliata con Dio.
E lietamente, il 30 agosto 1915, Giosuè Borsi partì — per non tornare più.
Si compiono ora cinque anni dalla morte eroica di Giosuè Borsi. La nostra vita è trascorsa come un torrente impetuoso e travolgente. Tutto questo nostro minuscolo globo è stato colpito da una crisi di febbre e di delirio. Corpo e anima, l'intera umanità ne fu scossa. Il crollo della Russia è appena un episodio dell’immane tragedia. Nella stretta cerchia di casa nostra, gli avvenimenti precipitano vertiginosamente. Dopo le undici vittorie dellTsonzo, la repentina sciagura, Caporetto, un buio tremendo solcato da lampi e da fiamme d’incendio; poi il ritorno della coscienza, lo slancio sublime del popolo, la difesa sul Grappa e sul Piave, la classe del 99, i bimbi d’Italia che rincorrono la vittoria e la ghermiscono; poi l’attesa e la preparazione della riscossa, lo stroncamento dell’offensiva nemica sul Montello, e finalmente il colpo ultimo, il glorioso termine: Vittorio Veneto.
Non andiamo oltre. Per pietà dei nostri morti, per carità dei viventi, fermiamoci alla vittoria. Gli ammaestramenti che ne derivano sono sufficienti. Caporetto non è
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stata una sconfitta militare, ma una disfatta morale. La colpa maggiore non appartiene al popolo che fu illuso, bensì ai governanti che lo lasciarono illudere. La guerra per un popolo è una grande crisi, una tremenda malattia, una febbre mortale che necessita cure assidue, precauzioni sapienti, difese energiche. Il dopoguerra, la convalescenza, è uno stato non meno delicato della crisi. Per superarne le difficoltà, occorrono una gran fede e un grande amore. Solamente l’amore e la fede conducono al sacrificio, che è il nutrimento necessario della nostra vita spirituale. Chi non conosce il sacrificio non conosce la gioia. Sciagurati c itero che predicano le soddisfazioni brutali della carne come fine dell’esistenza! Ih pochi anni il benessere del popolo si è moltiplicato, e si è moltiplicato anche lo scontento. Il popolo vive oggi nell’ebbrezza e te stordimento, ma è ben tentano dalla gioia. Perciò si ribella a tutto.
Ricordo un aneddoto, riferito da Guido Podrecca come esempio di malefica superstizione, che è invece un’alta lezione per chi vuole comprendere. Negli anni lontani della gioventù, egli predicava il verbo socialista nella Lucchesia. Un gruppo di operaie, emaciate dalle privazioni ma salde di animo, uscendo di chiesa te incontrarono e te malmenarono, replicando alle sue esortazioni a ribellarsi: « Non vogliamo il vostro pane. Lasciateci soffrire e sperare! ». Grandi parole, come tutte quelle che escono spontanee dall'anima del popolo! Il pane che occorre all’uomo non è il pane del corpo che sfama per pochi’ istanti, ma il pane dell’anima che dà la pienezza permanente. L’uomo non vive contento senza Dio.
Questo ci dicono nel silenzio i nostri morti; questo ci ha detto con la parola e con l'esempio Giosuè Borsi. Questo ci dice il popolo nel suo confuso affannarsi di ogni giorno alla conquista di beni, che diventano illusione appena posseduti. Chi ha detto che la parte dell'uomo quaggiù è di soffrire e sperare? L'uomo è nato per la gioia, e la sua parte è di sperare nella gioia. Ma la gioia non è apparenza, non è illusione dei sensi; essa è sostanza dell’anima: non si trova che in Dio.
Giosuè Borsi ebbe tutte quante volle le gioie mondane: ebbe il denaro, la potenza, il piacere, la fama, ed ebbe anche più d’ogni altro le gioie dell'intelligenza e del lavoro creatore. Eppure non si sentì pago, e nei giorni della prova, solo con la sua coscienza, tutta la sua vita gli sembrò un deserto sconsolato. Ma quando Dio vi penetrò, la pienezza colmò il suo cuore ed egli conobbe la letizia e la pace.
Questa è la grande verità che Giosuè Borsi fece ancor una volta manifèsta. Essa illumina la sua vita e la sua morte e continua il suo ricordo nel cuore di tutti coloro che amano il bene. Egli rimane un esempio e un modello. Quanti vedono nella nostra vita effimera non un termine, ma un semplice passaggio verso una vita più alta e più durevole, troveranno sempre in Giosuè una conferma e una speranza.
Noi tutti che te abbiamo amato in vita, abbiamo desiderato e sperato di averte con noi, fiamma ardente per illuminarci e guidarci nel nostro incerto cammino terrestre; invece egli è divenuto la luce stellare che, nell'oscurità della nostra notte, segna invariabilmente l'orientamento verso Dio.
Sotxr.
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IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO ANTICO INTORNO
ALLO STATO, DAGLI APOLOGETI AD ORIGENE
no dei fatti capitali che segnano il passaggio, nella letteratura del cristianesimo antico, dal periodo dei cosiddetti Padri apostolici a quello degli Apologeti, è, come tutti sanno, il diretto contatto con la filosofia e le idee filosofiche del tempo. A chi pertanto si accinga a indagare che cosa pensassero dello stato e della vita politica gli scrittori cristiani posteriori ai Padri apostolici (i), sorge spontanea l’idea che le loro concezioni in proposito debbano avere subito l’influenza del pen
siero filosofico greco-romano, e perciò stesso — si congettura — presentino una differenza notevole, e forse anche radicale, da quelle della letteratura cristiana anteriore.
Senonchè basta riandare brevemente il pensiero politico della filosofia nei primi due secoli dopo Cristo (nel periodo, cioè, immediatamente anteriore all'apologetica cristiana e in quello contemporaneo alla sua prima fioritura), per vedere che la sua influenza sul pensiero cristiano poteva, sì, introdurre in esso qualche nuovo elemento e qualche atteggiamento diverso dai precedenti, ma non era certo adatta a condurlo verso una concessione positiva del valore dello stato, e della vita politica in generale.
Quando si parla di filosofia, più precisamente di filosofia morale, dei due primi secoli dopo Cristo, è soprattutto dello stoicismo che si*tratta. Ora, lo stoicismo aveva.
(i) Per le idee cristiane intorno allo Stato nell'età apostolica e postapostolica, fino al periodo degli Apologeti, v. il mio volume Lo Stato e la vita sociale nella coscienza religiosa d Israele e del cristianesimo antico, voi. I: Israele, Gesù e il cristianesimo primitivo. Pavia, Mattei, 1913. Estratto dagli Studi storici, voi. XXI-XXIII. (Citeremo questo lavoro così: Stalo e vita sociale).
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IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO INTORNO ALLO STATO, ECC.
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in verità, fino dagli inizi affermato energicamente la natura sociale dell’uomo e la subordinazione dell’individuo al tutto. Esso aveva fatto qualche cosa di più: aveva proclamato «essere consentaneo alla natura umana che il sapiente voglia governare ed amministrare la cosa pubblica, e che, per vivere secondo la natura, voglia prender moglie e generare da essa dei figli » (1).
Ma la repubblica degli stoici — anche dei primi stoici — non era lo stato politico empirico. Lo stato di Zenone e Crisippo era lo stato ideale dei saggi, senza famiglia, senza templi, senza tribunali, senza moneta, abbracciante tutti i popoli (2). Ecco uno stato piuttosto differente, non solo dalla polis greca, ma anche dallo stesso impero romano. Non a caso, dunque, Seneca rileva come Cleante e Crisippo, i quali pure, come osserva egli stesso, vissero certo in conformità dei loro precetti, non fecero politica (3). E, più precisamente, leggiamo in Stobeo che Crisippo si astenne dalla politica perchè avrebbe dispiaciuto, facendone, o a Dio o ai cittadini (4).
Già, dunque, nello stoicismo antico sarebbe arduo trovare un apprezzamento veramente positivo dello stato e della vita politica. É tanto più in quello del periodo di cui ci occupiamo.
Certo, Seneca e Marco Aurelio Antonino rimangono fedeli alle tradizioni affermando la socialità dell’uomo. Così leggiamo nel primo: «Natura nos cognatos edidit, cum ex iisdem et in eadem gigneret. Haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit » (5); e secondo lui la dottrina stoica considera l’uomo come «sociale animai communi bono genitura » (6). Con maggior forza e precisione l’imperatore filosofo ci dice che «il bene dell’animale razionale è la vita in comune» (7); che la mente del Tutto è xoivcovizó;, come si vede dal fatto che essa subordinò e coordinò le une alle altre tutte le cose create (8); e quindi ammonisce: « Come tu medesimo sei complemento di un sistema politico, così tutte le tue azioni siano complementari della vita politica » (9).
Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole. «Vita politica» e «sistema politico » non significano precisamente, in bocca a M. Aurelio, quel che significherebbero in bocca nostra. Questo suo sistema politico non è, ripetiamolo, uno stato politico empirico, determinato. Certo, egli non dimentica d'essere cittadino, e anzi capo di stato: « Mia città e patria, come Antonino, Roma », egli dice (io). Ma qui non è tanto lo stoico, che parla, quanto appunto, l’Antonino, e l’imperatore. E, come tale, egli arriva fino all'apprezzamento di quel bene relativo e limitato che
(1 Cic., De Fin., III, 20,68.
(2 Zeller, Phil, der Griechen, 111,3, 1, p. 294.
(3 De otio, 6,5.
(4 Stob., Floril., 45,29.
(5 Ep-> 95.52(6 De dem., I, 3,2.
»In se ipsum, V, 16.
V, 30.
(9 IX, 23.
(10) VI, 44. Cfr. II, 5: « come Romano e conie uomo».
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si può realizzare nel governo politico quotidiano: « Non sperare la repubblica di-Platone, ma contentati anche di un minimo progresso » (1). Ma il filosofo non dimentica che il sistema politico di cui egli parla è costituito dalla riunione di coloro che obbediscono alla legge razionale: « Tutte le cose che hanno un elemento in comune tendono a ciò che è omogeneo con loro »; e perciò « chiunque è partecipe della comune natura razionale tende a ciò che è Gvyyevé^ con lui » (2). La vera società, dunque, di cui egli parla non è una costruzione storica empirica, in cui l’individuo sia legato da una legge a lui esteriore, cioè dalla forza dello stato; la vera società la riunione naturale di tutti gli individui razionali, associati spontaneamente è'ill’elemento comune che è in loro. Essa è morale, e non politica (3); non ristretta ad uno stato, contrapposto ad altri stati, ma universale, e mondiale. In forza della comunità della ragione e della legge, tutti sono concittadini, ed il mondo costituisce una città (4). Veramente, accanto a questa città universale della filosofia, M. Aurelio vuol tenere ferma quella particolare, di Roma: « Mia città e patria, come Antonino, Roma, come uomo il mondo. Unico bene per me ciò che giova a queste due città » (5). Ma, in forza dei principi suesposti, è evidente che le due città non possono essere sullo stesso piano, nè avere lo stesso valóre: la prima è subordinata alla seconda, a quella che veramente conta, e non ne è che una parte, poiché l’uomo è « cittadino della città suprema (róXsw; àvoivaTTi;), di cui le altre città sono come case » (6).
Più esplicito ancora è Seneca, pur romano anch’egli, e, se non imperatore, maestro e ministro d’imperatore. Anche per lui la società non è che l’umanità totale, dotata della stessa natura. «Membra sumus corporis magni... (segue il passo citato sopra, p. 265, n. 5) ...Ille versus et in pectore et in ore sit: * Homo sum, fiumani nihil a me alienum puto ’. Habeamus in commune: nati sumus» (7). E perciò l’uomo, « sociale animai et in commune genitus (cfr. p. 265, n. 6) mundum ut unam omnium domum spectat»(8). Anch’egli riavvicina le due società, i due stati, l'empirico particolare, ed il razionale universale; ma, a differenza di Marco Aurelio, mette in mostra, esplicitamente, il loro diverso valore: « Duas res publicas animo complectamur, alteram magnani et vere publicam, qua dii atque homines continentur, in qua non ad hunc angulum respicimus aut ad illum, sed terminos civitatis nostrae cum sole mctimur, alteram, cui nos adscripsit condicio nascendi... quae non ad omnis pertineat homines sed ad certos» (9). Le due città che in Marco Aurelio vengono unite insieme, quasi entità coordinate
(1) IX. 29.
2) IX, 9.
(3) L’amore ne costituisce un elemento essenziale; e perciò il singolo individuo e è non solo parte, ucpo«, ma membro, '«Toc (VII, 13).
(4) IV, 4; cfr. IV, 3: « Il mondo è come una città ».
(5) VI, 44
(6) III, 11.
(7) Ep., 95.51 2 3 4 5 6 7 8 9(8) De ben., VII, 1,7.
(9) De olio, 4.1.
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fra loro e costituenti un tutto armonizzante in sè medesimo, qui sono piuttosto contrapposte. Una è grande, anzi illimitata, l’altra limitata e piccola; l’una è la società naturale degli uomini e degli dei, l’altra una combinazione dovuta a condizioni esteriori ed accidentali, alla condicio nasccndi; e vera repubblica è solo la prima delle due. Lo stato, cioè, concreto ed empiricamente determinato, non è vera repubblica, e la vera patria è il mondo. « Patriam meam esse mundum sciam et praesides deos » (1). Anche gl’imperatori sono tacitamente licenziati.
In Seneca, dunque, non troviamo soltanto, come in Marco Aurelio, enunciati dei principi generali da cui si deriva il superamento dello stato; ma questo superamento è formulato in maniera espressa. E così, mentre Marco Aurelio, imperatore e filosofo, non si pone il quesito se ci sia incompatibilità fra vita pubblica e filosofia, tra l’uomo saggio e il politico, Seneca, invece, lo formula, e lo risolve, in sostanza, affermativamente. Un quesito simile, in vero, risaliva fino ai primi stoici. Lo stesso Seneca c’informa, che, mentre Epicuro diceva: « non accedei ad rempublicam sapiens, nisi si quid intervenerit », Zenone, all’incontro, affermava: « accedet ad rempublicam, nisi si quid impedierit » (2). Parrebbe, dunque, che l’astensione saggio dalla vita pubblica, la quale per Epicuro era la regola, per il primo stoicismo costituisse invece l’eccezione. Rimane da vedere, tuttavia, quanto fossero frequenti, nel pensiero di Zenone, questi casi eccezionali. Se richiamiamo alla mente il concetto dello stato ideale di Zenone ricordato più sopra, e lo accostiamo a quello che Seneca e Stobeo, come pure abbiamo visto, ci dicono intorno alla mancata partecipazione di Crisippo c Cleante alla vita pubblica, saremo indotti a sospettare che la regola zenonica valesse appunto per il suo stato ideale, e che per quelli empirici, concreti, entrasse in vigore generalmente l’eccezione: che, cioè, anche per il primo stoicismo, in pratica, vi fosse incompatibilità fra la filosofia e la vita pubblica.
Seneca, per suo conto, lo abbiamo detto, è esplicito in proposito. Egli, veramente, non nega la possibilità di servire contemporaneamente le due repubbliche, quella universale umano-divina, e quella particolare dello stato in cui si è nati: « Quidam eodem tempore utrique rei publicae dant operam ». (3) Ma si tratta, sebbene qui egli noi dica, di un’eccezione: «si percensere singulas [respublicas] voluero, nullam inveniam, quae sapientem aut quam sapiens pati possit » (4). Qui è proclamata l’incompatibilità, alla lettera, del saggio e della vita pubblica, ed è generalizzato quello che abbiam visto riferito di Crisippo, astenutosi dalla politica per non dispiacere a Dio od ai cittadini (5). « Quis enim piacere populo potest, cui placet virtus?» (6). E perciò Seneca afferma, citando Atenodoro, che la vita pubblica sarebbe ottima cosa, ma, data la malvagità che vi regna, « a foro quidcm et
(1) De vita beala, 20,5; cfr. De frana, an., 4,4: «patriamque nobis mundum professi sumus ».
(2 De olio, 3,2.
(3 De olio, 4,1 (è il seguito del passo citato sopra).
(4 De olio, 8,3.
(5 V. p. 265, n. 4.
(6 Ep., 29,11.
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publico recedendum est » (i). Quali che siano, dunque, i loro rapporti, considerati in astratto, nella realtà concreta i valori morali e la vita politica si escludono.
Esser membro attivo, dunque, delle due città, e servire contemporaneamente i due padroni — lo stato e la virtù, il sovrano politico e Dio — risulta cosa impossibile. Non rimane se non contentarsi di lavorare per la repubblica maggiore, quella degli uomini e degli Dei. Per servire a questa non si richiede la partecipazione alla vita politica, al contrario: «Huic maiori reipublicae et in otio deservire pos-suinus, immo vero nescio an in otio melius » (2). Ma poiché codesta maggiore repubblica è l’unica vera — poiché, cioè, l’unico valore reale è la virtù e la saggezza — ne deriva che l’ozio del filosofo, cioè l’attività ch’egli spiega, lontano dal mondo, al servizio della sua causa, e più precisamente la predicazione ch’egli fa della sapienza filosofica, debbono necessariamente riuscire utili anche a quella comunità ed a quella vita sociale da cui pur si tiene appartato. # Nec enim is solus rei publicae prodest, qui candidatos extrahit et tuetur reos et de pace belloque censet, sed qui iuventu-tem exhortatur, qui in tanta bonorum praeceptorum inopia virtutem instillat animis, qui ad pecuniam luxuriamque cursu mentis prensat ac rettali it, et, si nihil aliud, certe moratur, in privato publicum negotium agit» (3). E dall’affermazione che il filosofo, nella sua attività solitaria, compie opera utile anche politicamente, si passa immediatamente all’altra, che la sua opera è più utile di quella dell’uomo politico e del magistrato. « An ille plus praestat, qui inter peregrinos et cives aut urbanus praetor adeuntibus adsessoris verba pronuntiat, quam qui quid sit justitia, quid pietas, quid patientia, quid fortitudo, quid mortis contemptus, quid deorum intellectus, quam tutum gratuitumque bonum sit bona coscientia? » (4). E così Cleante e Crisippo, i quali non fecero politica, « invenerunt, quemadmodum plus quies ipsorum hominibus prodesset quam aliorum discursus et sudor » (5).
Il risultato del lavoro filosofico è pertanto qualitativamente superiore, dal punto di vista sociale, a quello dell’attività politica. Ma lo è poi quantitativamente, in estensione, cioè, oltreché in profondità. Zenone e Crisippo, infatti, dettero leggi « non uni ci vitati — come avrebbe fatto un uomo politico qualunque — sed toto h umano generi » (6).
La più trionfale affermazione della superiorità sociale e politica del filosofo sull’uomo di stato la troviamo però in Epitteto. « Qual maggiore repubblica cerchi di quella ch’egli amministra? Parlerà forse ad Atene delle finanze dello stato, colùi che deve discorrere a tutti gli uomini. Ateniesi o Corinzii o Romani, non delle finanze dello stato o della pace e della guerra, ma della felicità e della miseria della prosperità e dell’avversità, della schiavitù e della libertà? Di un uomo che
(1) De tranq. an., 3.
(2) De otio, 4,2.
an’-3' I£ ’! seguito della citazione di Atenodoro, irC S‘ jrattl ancora di parole d’Atenodoro, o di che questi, in ogni modo, le fa sue. ’
(4) De tranq. an., 4. Cfr. nota precedente.
(5) De otio, 6,5.
(6) Ibid., 6,4.
sopra riportata; e poco Seneca, dal momento
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IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO INTORNO ALLO STATO, ECC. 269
amministra una tanta repubblica, tu mi domandi sé farà della politica? Mi domandi anche se governerà? Stolto, qual maggior governo di quello ch’egli regge? » (i).
In questi periodi di Epitteto la svalutazione e il superamento dell’attività politica — e quindi dello stato — da parte della filosofia raggiunge il suo completo sviluppo. E al tempo stesso noi vi troviamo nettamente enunciato il principio, il punto di partenza di questo processo di pensiero, che doveva portare lo spirito greco dal realismo politico aristotelico alla trascendenza mistica del neoplatonismo, in cui la società antica compie il suo naufragio ideale.
Questo punto di partenza è il moralismo individualistico, per cui Epitteto, riassumendo e portando alle ultime conseguenze il pensiero della filosofia greca postclassica, proclama che più della finanza dello stato, più della pace e della guerra importano la felicità e la miseria, la prosperità e l’avversità, la schiavitù e la libertà. Finanza, pace e guerra sono valori politici, statali; la felicità e il resto, valor» morali individuali. La società, per questo tardo stoicismo, che è quanto dire per la coscienza filosofica d’intorno al 100 od al 150 dopo Cristo, non ha più nulla che fare con nessuna formazione storica determinata, nè si realizza, limitandosi e subordinandosi, m uno stato concreto e particolare. Essa non è, l’abbiamo già detto, che la riunione, la giustapposizione dei singoli, che obbediscono alla legge morale intima, cioè alla ragione; e perciò l'individuo non vi è più assorbito in una unità superiore, ma è esso medesimo, che, con la sua coscienza personale, crea la società degli esseri razionali. Valore individuale e valore sociale, valore morale e valore politico coincidono, ma in ognuna di queste coppie è il secondo elemento che viene ridotto al primo, e non viceversa. Perciò il vero uomo di stato è colui che predica la moralità; mentre la vera patria è il mondo, cioè la comunione dei saggi, e il vero sovrano è Dio, cioè la legge di ragione. Lo stato politico e l’uomo politico empirici finiscono per apparire, nella luce-di questi pensiero, come limiti e ostacoli dell’attività razionale, o, nella migliore ipotesi, come dei surrogati scadenti di questa (2).
(1) Diss., Ili, 22,83-85.
•• brevc schizzo dell’atteggiamento filosofico, nel 1 c 11 secolo dopo C..
ed i ei^ a V‘-? pol,t,ca' non ci siamo occupati se non dello stoicismo;
come ASnA?nVWr vJ‘ neoP,rlag°r,sm<>- ch’è pure di questo periodo, non presenta, <cir-.ZELEER; m.2.3 p: 140), nulla di originale e di notevole per'questo
• ■,n Ogn’ • 11 ?,uo >Pd,r,2Z0 generale non poteva condurre se non più avanti
•dello stoicismo medesimo sulla via del moralismo individualistico ed apolitico L’eccle-m^°oM^0"UZan?e raPI* *esfntat<*i da Plutarco non si discosta neppur esso da un si-.a*teSg,a™?”t0- Se Plutarco ha scritto, per esercizio retorico, 1 Praecepta eerendae reipubhcae, d altra parte anch egli sa dirci che la patria non è un istituto naturale (©uatt KSZI’L.T "“T”- e che l’uomo è pianta non terrena, ma celeste, secondo
PUtone, e ricorda che Socrate si appellò cittadino del mondo, (De exilio 5) An-AUctJ ’iGa C d,,?enG,nc dl una repubblica universale, e trovando ch’esso fu at-na?riadi?mn^Andr°’ C1 d,CV -C-?’CS^ comandò che tutti considerassero come loro patria 11 mondo, < e come affini 1 buoni, come stranieri i malvagi » (De Alex, fori., I, 6)
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270
BILYCHNIS
II.
Non possiamo dunque ragionevolmente attenderci c|ie il pensiero cristiano del 11 e ni secolo, venendo a più diretto contatto con la filosofia contemporanea, subisse l'influenza di questa nel senso di un apprezzamento positivo, dello stato e della vita politica; e dovremo piuttosto supporre che ne venisse rafforzata la tendenza, già in esso presente, a svalutare ed ignorare lo stato medesimo. In realtà, è facile vedere che il pensiero cristiano, pur mostrando tracce dell’influenza filosofica, assume una posizione anche e più radicale di quella della filosofia di fronte allo stato e alla vita politica.
Nessuna sentenza, forse, di sapore più spiccatamente filosofico, stoico, potremmo trovare negli scrittori cristiani di questo periodo, di quella, notissima, di Tertulliano: « Unam omnium rempublicam agnoscimus, mundum » (1). Tornano in mente, subito, i passi già citati di Seneca, sul « mundum unam omnium domum » e sulla repubblica « veramente pubblica », che abbraccia tutti gli uomini. Non ci può esser dubbio che, enunciando quella proposizione, Tertulliano non sia stato direttamente ispirato dal pensiero e dalle stesse formule stoiche. Pure, salta agli occhi subito la differenza tra la posizione stoica e quella di Tertulliano, assai più radicale. Per Seneca (e tanto più, come abbiamo visto, per Marco Aurelio) accanto alla repubblica universale non cessava d'esistere quella particolare; le due non erano contrapposte l’una all’altra, ma concepite piuttosto come sfere concentriche. Così, non esisteva una incompatibilità essenziale fra l'opera spesa in prò dell’una e quella in prò dell’altra: « Quidam eodem tempore utrique rei publicae dant operam, maiori minorique, quidam tantum minori, quidam tantum maiori » (2). Certo, abbiamo visto come, di fatto, Seneca ritenesse che alla repubblica maggiore meglio si potesse servire nell’« ozio »; che, cioè, meglio fosse per il filosofo astenersi dalla politica. Ma ciò dipendeva non tanto, come abbiamo detto, da una incompatibilità essenziale, quanto dalla malvagità dei tempi, per cui non si verificavano le condizioni che avrebbero permesso al saggio di collaborare alla cosa pubblica; « si non invenitur illa res publica, quam nobis fingimus, incipit omnibus esse otium necessarium, quia quod unum praeferri poterat otio, nusquam est » (3). Certo, la conclusione pratica veniva ad essere ugualmente negativa; ma lo spirito era diverso, e questa diversità, trattandosi di correnti spirituali, ha il suo valore. Tertulliano, immediatamente prima di proclamar l’esistenza di una sola repubblica, quella del mondo, diceva nettamente, che ai cristiani « nec uffa magis res aliena, quam publica» (4). Una simile sentenza, di così assoluta negazione, non che l’im--peratore Marco Aurelio, e Seneca, ministrò d’un imperatore, neppure lo schiavo Epittèto l'avrebbe pronunciata.
(1) Apol., 38.
(2) De otto, 4,1. V. sopra, p. 267.
(3) Ibid.. 8,3- H H ‘
(4) Apol., 38.
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27I
La formula tertullianea, della unica repubblica mondiale, appunto perchè presa in prestito, di peso, dallo stoicismo, non rappresenta esattamente, nè il pensiero di Tertulliano, nè quello cristiano in genere. Se si guarda bene, essa contraddice alle stesse parole, immediatamente precedenti, dell’autore; e noi abbiamo qui una contaminazione del pensiero cristiano e di quello stoico. Dopo aver detto che ai cristiani nulla è più straniero della « res publica », Tertulliano seguita affermando ch’essi tuttavia conoscono una « res publica », quella del mondo. Evidentemente, l’autore cristiano ritiene che al mondo non possa applicarsi l’idea di « res publica » che in via di traslato, e, potremmo dire, per ironia. Ben diverso, come abbiam visto, è il pensiero dello stoicismo, il quale, quando diceva che il mondo costituiva una repubblica, non intendeva punto fare una metafora, ma enunciare un fatto reale. La repubblica mondiale — insistiamo su questo punto perchè di capitale importanza per la differenza tra il pensiero stoico e quello cristiano — poteva a buon diritto chiamarsi così, perchè essa includeva, non escludeva, i singoli stati, le singole repubbliche concrete, e, pur superandole tutte in valore, era della stessa natura e si realizzava sullo stesso piano della società umana.
Per il cristianesimo, invece, la distinzione effettiva non era fra repubblica mondiale e repubbliche particolari, ma fra la società umana, o meglio, terrestre, e il regno di Dio. La città di quaggiù è opposta alla città celeste: ho mostrato altrove come questa contrapposizione si ritrovi nettamente formulata già in Erma (1). In questo periodo, noi la ritroviamo non meno esplicita nella Lettera a Diogneto (2): i cristiani non hanno città proprie ed abitano quelle comuni agli altri uomini, ma « ogni città straniera è per loro patria, ed ogni patria è straniera »; essi « vivono sulla terra, ma sono cittadini in cielo » (3). Ed Origene ci parla di un'altra organizzazione patria, áXXo cútf-r/jpta che in ogni città è stata fondata
per loro «dal verbo di Dio»(4).
Non si tratta, dunque, della repubblica universale superiore a quelle particolari, perchè le abbraccia tutte, ma di un altro sistema esistente entro ciascuna città particolare, e che la trascende, come il divino trascende l’umano, rimanendo ad essa completamente estraneo. E così quello stesso Tertulliano che ci aveva parlato, da stoico, della repubblica mondiale come della repubblica dei cristiani, ci dice altrove, con maggior conformità al pensiero cristiano, ed al suo stesso, che la setta cristiana « scit se peregrinam in terris agere, inter extráñeos facile inimicos invenire, ceterum genus, sedem, spem, gratiam, dignitatem in caelis habere»(5). Perciò al cristiano nulla importa delle cose di questo mondo, e solo desiderio suo è di uscirne: « nihil nostra refert in hoc aevo, nisi de eo quam celeriter excedere » (6),
li) Stato e vita sociale, c. VI, p. 156.
\2) Nonostante l'incertezza che regna circa il collocamento cronologico di questo scritto, certo esso va attribuito al periodo che va dai Padri apostolici al trionfo del cristianesimo. /"
(3) 5.5(4) Contra Ceìsum, Vili, 75..
(5) Apoi., 1.
(6) Ibid., c. 41.
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272 BILYCHNIS
poiché a lui il mondo è un carcere, il quale contiene, di colpevoli, nientemeno che « universum hominum genus » (i); e quindi non interessa al cristiano la sua situazione, qualunque sia, in questo mondo a cui egli non appartiene: « nihil interest, ubi sitis in saeculo, qui extra saeculum estis » (2). Così il concetto stoico del mondo, come totalità di vita razionale e valore supremo, che pur Tertulliano aveva in certo modo affermato, dicendo che i cristiani conoscevano la sola repubblica mondiale, sparisce di fronte al concetto cristiano del «secolo», compendio di tutto ciò che al cristiano è estraneo, ed anzi direttamente contrario. L'affermazione filosofica finisce nella negazione escatologica: ed appare chiaro come la «vera repubblica » dello stoico, per cui questo si mostra pronto a rinunziare alla vita politica, nulla abbia a che fare con quella del cristiano, con l’aHo iwrpwos
di Origene. L'ima è sulla terra, l’altra è fuori di essa.
Non basta. Mentre il filosofo si asteneva dalla vita politica per obbedienza alla legge immanente della ragione, si dettava cioè da sé medesimo l’astensione, questa invece è imposta al cristiano dall’autorità trascendente di Dio e del Cristo: e quindi il divieto, mentre è più rigoroso e assoluto, è altresì di origine e natura diverse. Fu Cristo che, come dice lo stesso Tertulliano, non volle esser re, e giudicò « gloriam saeculi alienam et sibi et suis... Igitur, quam noluit, reiecit, quam reiecit, damnavit, quam damnavit in pompa diaboli deputavit » (3). La vita politica è non solo estranea a quella cristiana, ma opposta, perchè il potere politico è non solo estraneo, ma opposto a Dio: «omnes huius saeculi potestates et dignitates non solum alienas, veruni et inimicas dei » (4). Non si tratta più, come si vede, della vita politica in questo o quello stato particolare, a cui lo stoico contrapponeva l'attività filosofica nella repubblica mondiale; ma, invece, delle autorità di questo mondo, del « secolo » preso in blocco, che sono in antitesi con l’autorità estraterrena, trascendente, di Dio.
Questo carattere assoluto e trascendente della opposizione che la coscienza cristiana trovava fra se Stessa e la vita politica, fra il cristianesimo e lo. stato, risulta in maniera anche più evidente dalle incompatibilità ch’essa afferma fra la professione di cristianesimo e certe funzioni essenziali dello stato quali la giustizia penale e l’esercizio della forza armata. Tertulliano, discutendo la questione (ch’egli risolve negativamente) se il cristiano possa essere magistrato, suppone, per comodità di polemica, che si verifichino le circostanze più favorevoli alla compatibilità delle due professioni: « iam vero, quae sunt potestatis, neque iudicet de capite alicuius vel pudore — feras enim de pecunia — neque damnet neque praedamnet, neminem vinciat, neminem recludat aut torqueat, si haec credibile est fieri posse » (5). Egli nega, dunque, che al cristiano sia lecito esercitare la giustìzia penale: imprigionare, torturare, condannare a morte sono atti che un enfi) Ad marlyras, 2. '
(2) Ibid.
(3) De idolol., 18.
(4) Ibid. •
(5) De idolo!., 17.
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2/3
stiano non può compiere, e sono atti essenziali per un magistrato, come lo stesso Tertulliano riconosce, dicendo di essi: « quae sunt potestatis», e concludendo le sue ipotesi negative: «si haec credibile est fieri posse». La ragione dell’incompatibilità, non c’è bisogno di spiegarla, risiede nelle massime evangeliche del sermone sulla montagna; e sono le stesse massime quelle che si oppongono formalmente a che il cristiano faccia il mestiere del soldato: « Quomodo autem bellabit, immo quomodo etiam in pace militabit, sine gladio, quem dominus abstulit?... omnem... militem dominus in Petro exarmando discinxit » (r). « Licebit in gladio conversari, domino pronuntiante gladio periturum qui gladio fuerit usus? Et proelio operabitur filius pacis, cui nec litigare conveniet? Et vincula et carcerem et tormenta et supplicia administrabit, nec suarum ultor iniuriarum? » (2).
Ecco dùnque che quelle massime evangeliche, le quali, nella coscienza di Gesù, non avevano carattere e scopo antistatale, giacché erano pronunciate da lui senza alcun riferimento allo stato, ma solo dal punto di vista dei rapporti individuali (3), qui invece sono dedotte alle conseguenze anarchiche, che esse, prese per se medesime, indipendentemente dalla coscienza religiosa di chi le pronunciò, effettivamente includono. Da massime di moralità religiosa, le sentenze del sermone della montagna e le altre affini di Gesù si trasformano, per opera di Tertulliano, in codice di precetti giuridici, che, come tale, non può non venire in immediato conflitto con l’altro codice, quello dello stato. Un conflitto, che, una volta sorto, doveva ripetersi, a tratti, indefinitamente, nella coscienza cristiana, fino ai con-scientious objectors, che, in Inghilterra e negli Stati Uniti (qualche raro caso, crediamo, si è verificato anche da noi in Italia) hanno ricusato di combattere nella guerra mondiale.
Ecco, dunque, una nuova fonte d’incompatibilità fra il cristianesimo e lo stato, che è tutta propria di quello, e manca, invece, completamente nella coscienza filosofica del tempo. Poco monta che non trattisi, qui, di una diretta negazione dello stato, quando in ogni modo vengono .ripudiate le funzioni essenziali di questo. Nè un simile ripudio è un eccesso di logica personale del focoso avvocato Tertulliano. Il più gran pensatore del cristianesimo anteagostini ano, Origene, uomo di educazione e di mentalità ben diversa da quella di Tertulliano, imbevuto non solo di dottrina, ma di spirito filosofico, non ha, in simili questioni, un atteggiamento diverso, almeno per quanto concerne la milizia. Senza troppo spiegarsi sui fondamenti della sua tesi, anch’egli considera il mestiere delle armi come incompatibile con il cristianesimo, e respinge le esigenze di coloro, che « estranei alla fede », pretendono « che noi militiamo per la cosa pubblica e trucidiamo gli uomini ». Se i sacerdoti degli idoli sono esclusi dal servizio militare «affinchè offrano i sacrifici prescritti con mani non macchiate di sangue e pure di strage », a maggior
(1) Ibid., 19.
(2) De corona, ri. Notare il carattere individualistico di questo passo: Tertulliano non fa distinzione fra l’esercizio della giustizia punitiva statale c quello della vendetta privata; ^sembra anzi trovare più perdonabile il secondo (nec suarum ultor iniuriarum).
(3) Cfr. Stalo e vita sociale, c. Ili, p. 27.
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ragione debbono conservare le mani incontaminate i sacerdoti e ministri di Dio, che pregano Dio per la vittoria della causa giusta, cioè, nel pensiero di Origene, tutti i cristiani fi). Qui, veramente, le massime evangeliche non sono chiamate in causa; ma l’incompatibilità è proclamata ugualmente; e del resto in un altro passo della stessa opera Origene ricorda come Cristo proibisse ai suoi discepoli di uccidere o anche semplicemente di far violenza, contro chicchessia (2).
III.
Possiamo dunque concludere che, se il pensiero filosofico del tempo non era adatto di per sè ad influenzare la coscienza cristiana nel senso di un apprezzamento positivo dello stato, questa, per suo conto, va ben oltre le posizioni della filosofia, verso una più radicale negazione. Per sintetizzare la differenza, possiamo dire che là dove la filosofia non vedeva, in sostanza, se non una incongruenza pratica (il filosofo non poteva al tempo stesso esser uomo politico, perchè riusciva troppo difficile far i due mestieri insieme), il cristianesimo invece affermava una incompatibilità teorica. Stato e vita cristiana formavano, non due sfere distinte, che fosse arduo abitare insieme, ma due mondi opposti, antitetici, che si escludevano reciprocamente.
Alla radice del contrasto — l’abbiamo già avvertito — è la sopravvivente concezione escatologica che noi troviamo. Lo stato s'identifica per il cristiano con il « secolo », vale a dire con l’ordine presente di cose malvage, che deve scomparire di fronte a quello futuro, cioè al regno di Dio. È l'aióv ovtoc che deve cedere il posto all’aiwv
Il « secolo », 1’« eone presente » è dominato dai demoni. Lo stato, dunque, sarebbe anch’esso demoniaco? Così l’intende, sembra, Tertulliano, il quale, avendo osservato, a meglio mostrare il carattere idolatrico delle magistrature statali, che « ipsis etiam idolis induantur praetextae et trabeae et laticlavi, fasces quoque et virgae praeferantur», bruscamente conclude: «et merito. Nam daemonia ma-gistratus sunt sacculi hu«us; unius collegii insignia fasces et purpuras gestant » (3). Qui l’identità è affermata esplicitamente: un solo collegio è quello delle magistrature statali e delle demoniache, e lo stato è dunque il regno del demonio.
Ma la formulazione più esplicita dell'uguaglianza fra stato (cioè, in concreto, impero romano) e regno del demonio la troviamo, in questo periodo, in Ippolito,
( 1) Conira Celsurn, Vili, 73. Che l’esclusione non sia soltanto per il clero, ma per tutti i cristiani, risulta chiaramente dal testo.
(?) ITI, 7. Riguardo alle magistrature, la posizione di Origene (in C. Celsurn, Vili, 75, di seguito a ciò che è detto della milizia) è diversa da quella di Tertulliano. I cristiani ricusano le magistrature perchè hanno da ricoprire le loro cariche, nelle comunità, in un « più divino e più necessario servizio. » È un punto, questo, su cui torneremo. La motivazione ongeniana, del resto, non esclude quella tertullianea.
(3) De idolol. 18.
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la cui testimonianza è tanto più importante, in quanto viene a rappresentarci una corrente di pensiero esistente nella comunità romana (come è noto, Ippolito fu anche vescovo scismatico di Roma, al tempo di papa Callisto). Per lui l’impero romano, regno di Satana, è la contraffazione del cristianesimo. Come questo si è formato di tutte le nazioni, contemporaneamente «allo stesso modo il regno il quale signoreggia ' per la forza di Satana ’ effettuò la contraffazione (àvTS»«ta’AcaTo), e parimenti anch’esso, raccògliendo tutti i popoli della terra, apparecchia i più generosi alla guerra, avendoli appellati Romani. E per ciò stesso anche il primo censimento avvenne sotto Augusto... affinchè gli uomini di questo mondo censiti per il re terreno si chiamassero Romani, e quelli credenti nel re celeste, cristiani » (i).
In tal modo, nella prima metà del in secolo, un dottore della chiesa romana, e vescovo, sia pure scismatico, della medesima, il quale era altresì uno dei principali scrittori cristiani del tempo, e lasciò larghe tracce della sua influenza anche sui posteri (2), continuava la tradizione di pensiero dell’Apocalisse, identificando espressamente l'impero romano, cioè lo stato del tempo, con la Gran Bestia e col regno di Satana. Identificazione spinta tanto avanti da considerare l’impero come una contraffazione diabolica della società cristiana (3).
Ma in questo passo d’Ippolito troviamo un altro elemento interessante, per quel che riguarda il pensiero cristiano intorno allo stato. Vediamo, cioè, contrapposto al popolo romano soggetto al re terreno (cioè a Satana), il popolo cristiano sottoposto al re celeste. La comunità cristiana, dunque, viene a concepire se stessa come una società, un popolo, uno stato a parte, distinti e contrapposti allo Stato terreno, cioè romano. Ecco, dopo la concezione escatologica della identità dello Stato con il « secolo », con l’eone presente, l’altro elemento di capitale differenziazione fra il pensiero politico cristiano e quello della filosofia contemporanea.
Questa, infatti, svalutava lo stato e la vita politica; ma non contrapponeva all’uno ed all’altra un sistema analogo. C’era, sì, per essa, la società umana totale, o meglio la società degli esseri razionali, abbracciante uomini e Dei; ma questa non assumeva e non poteva assumere aspetto e valore di entità e sistema politico. Le due grandezze non erano poste, e contrapposte, sullo stesso piano: la società della filosofia rimaneva qualche cosa d’ideale e di astratto, in cui si risolveva e, per dir così, svaporava la società e lo stato concreto. Trattavasi, appunto, di una risoluzione ideale, che permetteva benissimo allo stato di continuare a sussistere di fatto, senza nessun concreto rivale.
Per il cristianesimo, il caso è differente. Non c'è solo, per esso, il regno di Dio, futuro e trascendente, il quale, pur essendo di carattere ben diverso dalla società razionale dello stoicismo, poteva esser considerato anch’esso come collocato su ✓
(1) In Danielcm, IV, 9,2-3.
(2) Si pensi ai suoi lavori di cronologia c di diritto canonico.
(3) Cfr. In Dan.. II, 13,2 ove si parla di Cristo veniente dal cielo «a sovvertire
1 regni del mondo e ad erigere il regno dei santi ».
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BILYCHNIS
2/)
un piano diverso da quello dello stato, e quindi come non direttamente contrapposto a questo. Fra il regno di Dio, futuro e trascendente, e la società e lo stato terreni, vi è la comunità cristiana, la chiesa, che aspira, sì, ed è destinata a risolversi nel regno ultraterreno dell’eone futuro; ma intanto ha esistenza attuale e consistenza concreta, quaggiù, in mezzo alla società umana, entro i limiti dello stato. Qui, dunque, le due diverse grandezze sono sullo stesso piano, s'incontrano e si contrappongono.
Questa « coscienza politica », come Harnack l'ha chiamata, del cristianesimo non si forma inizialmente nel periodo di cui qui ci occupiamo; noi la troviamo già, nettamente delineata, nel cristianesimo postapostolico (1). In esso appare già la concezione dei cristiani come di un popolo, nel senso materiale della parola, e precisamente del tertium genus, di fronte ai Giudei ed ai Greci, e la Chiesa indica già, non solo e non tanto la riunione ideale dei chiamati da Dio al regno della salvezza, quanto il corpo dei fedeli, concepito come unità anche esteriore, come, appunto, popolo. E questo popolo aveva, e sapeva di avere, non solo le sue assemblee, ma altresì i suoi capi, i suoi organi direttivi, presbiteri e vescovi. I quali, ?e da principio avevano soprattutto origine carismatica e valore spirituale, si erano però ben presto cambiati in vera e propria gerarchia ,sociale e giuridica, incominciando ad assumere aspetto e funzione di organizzazione parallela e distinta, e perciò stesso contrapposta, nei riguardi di quella dello stato: organizzazione che, come si sa, doveva divenire una delle caratteristiche più spiccate della chiesa cattolica.
Non basta. Questo popolo, popolo di Dio, retto da capi stabiliti da Dio e che lo rappresentavano, aveva altresì una legge sua, la legge divina, o di Gesù Cristo, i precetti del Signore. Ed insieme con l'organizzazione e la legge, aveva il sovrano, il re, che era naturalmente Dio, o per lui il Cristo, chiamati, l'uno e l'altro, Signore, o anche addirittura pactXeó;, il re. Fino da allora, questo re divino viene contrapposto — si veda il martirio di Policarpo — al re umano, all’imperatore (2).
Questa coscienza politica cristiana la ritroviamo — e si può aggiungere: rafforzata —- negli scrittori cristiani posteriori alla metà del secondo secolo. Non bisogna farsi ingannare, a questo proposito, da certe loro affermazioni, secondo cui i cristiani non formerebbero una società a parte, ma sarebbero mescolati, in un tutto, alla società comune. Si tratta, semplicemente, di repliche polemiche all’accusa di « odio del genere umano », di astensione, cioè, dalla vita sociale e d'improduttività nei riguardi di questa. « Alio quoque iniuriarum titulo postulamur — esclama Tertulliano — et infructuosi in negotiis dicimur. Quo pacto homines vobiscum degentes, eiusdem victus, habitus, instructus, einsdem ad vitam ne-cessitatis? Neque enim brachmanae aut Indorum gymnosr phistae sumus, silvi-colae et exsules vitae. Meminimus gratiam hos debere Déo, Domino, Creatori;
(1) Cfr. Stato e vita sociale, c. VI. pp. 147 ss.
(2) Cfr. Stato e vita sociale, c. VI, pp. 155-58.
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nullum fructum operum eius repudiamus, piane temperamus, ne ultra modum aut perperam utamur. I taque non sine foro, non sine macello, non sine balneis, tabernis, offìcinis, stabulis, nundinis, vestris ceterisque commerciis cohabitamus in hoc sae-culo. Navigamus et nos vobiscum et militamus et rusticamur et mercatus proinde miscemus, artes, opera nostra publicamus usui vestro. Quomodo infructuosi videmur negotiis vestris, cum quibus et de quibus vivimus, non scio»(i).
Qui l’eloquente avvocato, come è proprio di tutti gli eloquenti avvocati, sofistica. Egli vorrebbe far credere ad una perfetta comunanza sociale fra cristiani e Romani; e si spinge tanto avanti da addurre perfino il fatto che c'erano cristiani prestanti quel servizio militare, di cui egli stesso doveva proclamare recisamente l’incompatibilità con la professione del cristiano (2). Ma, per un esperto di pensiero e linguaggio cristiano, avrebbe bastato una sola parola a svelare la reticènza è il sofisma, là dove egli dice: «cohabitamus in hoc saeculo». Si trattava appunto, per il vero e recondito pensiero di Tertulliano, di una associazione forzata, in questo secolo, e perciò puramente esteriore. Più sinceramente, l’ignoto autore della lettera a Diogneto affermava, sì, anch’egli, che «i cristiani non differiscono dagli altri uomini nè per il luogo, nè per il linguaggio, nè per i costumi», e rilevava che essi « non abitano città proprie nè usano di qualche lingua strana, nè conducono una vita singolare »; ma poco dopo spiegava che « abitano le proprie patrie, ma come forestieri; partecipano di tutto come cittadini, e tutto sopportano come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, ed ogni patria straniera... vivono sulla terra, ma sono cittadini nel cielo; obbediscono alle leggi stabilite, e con la propria condotta di vita vincono le leggi » (3).
Mescolati esteriormente alla società comune, i cristiani, dunque, formano effettivamente società a parte. Ed è lo stesso Tertulliano, e nello stesso Apologetico, ad affermare solennemente la coscienza sociale loro propria: «Corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae unitate et spei foedere » (4). Non si tratta di una società puramente ideale, ma di un « corpus » concreto, e questo è tenuto insieme non solo dalla comunanza, che potrebbe essere puramente intima, della fede e della speranza religiosa, ma altresì dall’uniformità esteriore della disciplina. E la coscienza che i cristiani costituiscono un corpo sociale a sè è così forte in Tertulliano ch'egli arriva a contrapporli nettamente ai Romani, nello stesso Apologetico (c. 35), là dove dice che i ribelli agli imperatori sono « de Romanis, nisi fallor, id est de non christianis ».
Ma la più esplicita afférmazione che i cristiani costituiscono una società, e, possiamo ben dire, uno stato a sè, la troviamo non in Tertulliano, ma in Origene: e non è certo privo di significato e d'importanza che certi atteggiamenti estremi
(1) Apoi. 42.
(2)^V. sopra, p. 273. Non è il caso di pensare a una evoluzione di pensiero di Tertulliano. E la differente posizione dell’apologeta essoterico c del moralista esoterico che spiega il contrasto.
(3) 5,1-2, 5,9-10. Cfr. sopra, p. 271.
(4) Apoi., 39.
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di fronte allo stato si .ritrovino nel pensiero di colui che, nel campo culturale, era il più vicino al mondo pagano, mentre, per tutta la sua concezione còsmo-logica e la sua forma meritale, era altresì ir più lontano da queH’escatologismo che sembrerebbe, a prima vista, il necessario compagno nella coscienza cristiana, dell'opposizione antistatale.
Origene, dunque, polemizzando con Celso, il quale esortava i cristiani « ad esercitare le magistrature della patria, ove fosse necessario fare anche questo per la salvezza delle leggi e della pietà », non accetta l'invito, neppure con quella filosofica restrizione del caso dì necessità la quale ci fa vedere quanto anche Celso, questo difensore della società pagana, fosse ormai lontano dallo spirito politico di Aristotele. Origene non accetta, anzi respinge nettamente l’invito, dicendo: « Noi, che sappiamo come in ogni città sia costituita un'altra patria (aX).o «tornp« natptòoc), fondata dal verbo di Dio, esortiamo coloro che sono valenti nel discorso e costumati a reggere le chiese... E coloro che saggiamente presiedono a noi sono a ciò costretti dal gran re, che noi crediamo essere figlio di Dio, Verbo-Dio. Che se bene governano coloro che sono i capi nella chiesa e vengono detti i presidi della patria divina, cioè della chiesa, o governano secondo le leggi prescritte da Dio, essi non sono affatto contaminati per questo dalle leggi costituite. Nè i cristiani evitano simili cariche per sottrarsi ai pubblici servizi, ma per riserbarsi al servigio più necessario e più divino della chiesa di Dio per la salvezza degli nomini » (1).
In queste parole di Origene troviamo avverato quel che dicevamo prima in generale: che, cioè, la comunità cristiana, frapponendosi fra il regno di Dio e l’attuale ordinamento terreno, viene a trovarsi sullo stesso piano dello stato, in contrapposizione ad esso. L’zXXo «fonala di Origene non è futuro, ma presente; non celeste, ma terreno. Esso si trova attualmente costituito in ogni città. È la chiesa cristiana, cioè, in questo caso, l’organizzazione sociale cristiana, concreta e visibile, che costituisce quest'altra patria, e le magistrature di questa sostituiscono quelle dello stato per il cristiano, il quale « non si macchia », non ha, cioè, alcun contatto profano con le leggi civili, dappoiché si governa e governa con le leggi divine.
Questo stato nello stato è concepito altresì come una milizia che possiede il suo capo supremo, il proprio imperatore. L'apologeta autore della Or alio ad Graecos attribuita a Giustino parla del « nostro stratega », come del « nostro re » (5,3-4); Tertulliano e Cipriano parlano del «nostro imperatore»: «Sub armis orationis sigrium nostri imperatoris custodiamus, tubam angeli expectemus orantés»(2); “ cum omnes milites Christi custodire oporteat praecepta imperatoris sui » (3). Dio, o più precisamente Cristo, è dunque Yimperator cristiano, nel senso rigoroso
(j) Cantra C., Vili. 75.
(2) Tert. Ot orai., 29.
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della parola. I cristiani formano un esercito che milita sotto la sua bandiera, e che non può aver nulla di comune con l'altro esercito e l’altro imperatore (i): « Non convenit sacramento divino et humano, signo Christi et signo diaboli, castris lucis et castris tenebrarum; non potest una anima duobus deberi, Deo et Caesari » (2). « Vexillum quoque portabit aemulum Christi? Et signum postulatit a principe, qui iam a Deo accepit?... Ipsum de castris lucis in castra tenebrarum nomen deferte transgressionis èst » (3).
La concezione del cristianesimo come formante uno stato a parte si riannoda, qui, e si salda con quella già esaminata della incompatibilità fra la vita pubblica e la vita cristiana. Non solo il cristianesimo forma uno stato nello stato; ma lo stato cristiano esclude l'altro, terreno-diabolico. Il rapporto fra i due non è di coordinazione o di Subordinazione o d'indifferenza, ma di antitesi.
(La fine al prossimo numero)
Luigi Salvatorelli.
(1) Questa concezione del cristianesimo come una milizia è particolarmente illustrata dai Harnack nel noto studio MUitia Christi.
(2) De idei., 19.
(3) De corona, n.
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LA TEORIA PSICOLOGICA DEI VALORI'
I.
Riduzioni dei fatti naturali e spirituali
PRINCIPII D’UNA TEORIA PSICOLOGICA DEI VALORI
ra i caratteri del pensiero contemporaneo è senza dubbio notevole il tentativo di una spiegazione scientifica delle attività umane, che costituiscono ed esprimono meglio il mondo dello spirito: l’arte, la religione, la moralità, il diritto, la sapienza, la storia perfino nella sua complicata unità di processo cosciente del reale.
Ai trionfi della scienza nell'intendimento e nel dominio della natura si aggiungevano sin dalla prima metà del secolo scorso la fortuna delle conoscenze biologiche — per cui anche la sfera della vita organica
pareva strappata all’oscurità delle costruzioni metafisiche e finalmente sottoposta alla chiara luce delle indagini scientifiche — ed i primi successi della psicologia sperimentale, che aprivano alla ménte speranze piu vaste.
La via era preparata. Una pausa nel processo speculativo, dovuta al fastidio per talune audacie illegittime della metafisica idealistica e segnata dal breve ma rumoroso predominio del materialismo prima, del positivismo poi, fiaccava ogni resistenza della filosofia contro l’invasione della scienza in un territorio sempre
conteso.
Le espressioni più significative, se non le più profonde e durature, di questa caratteristica fase della storia del pensiero, tuttora in via di svolgimento, si trovano negli ardimenti dell’antropologismo e del sociologismo. Le teorie antropologiche
(i) Da una prolusione al Coreo di Psicologia nella R. Università di Napoli, fatta il 9 dicembre 1916.
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LA TEORIA PSICOLOGICA DEI VALORI
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della criminalità, gli studi psico-patologici sul genio, le analisi psichiatriche sui mistici, la letteratura clinica delle anime d’eccezione, le dottrine sociologiche sull’attività scientifica, etica, religiosa, sono la lussureggiante espansione tropicale d’una flora, che non è già del tutto isterilita, ma solo adattata al clima temperato delle scienze spirituali, con forme più modeste e perciò meno sgradite.
L'esigenza fondamentale, a cui ubbidivano gli implacabili psico-patologi, è sostanzialmente la medesima dalla quale sorgono, spesso con lustra di finalità speculative, molte correnti odierne di-pensiero, volte a spiegare naturalisticamente, in base ai fatti e con metodi scientifici, l’arte, il diritto, la morale, la religione, l’attività lògica pur anco.
Il rapido tramonto delle particolari dottrine antropologiche e sociologiche non segna la fine, ma un’orientazione più serena e precisa dell’atteggiamento scientifico. Con plauso assai largo questo si afferma ora nei tentativi, spesso autorevoli e seri, d’una spiegazione psicologica delle più elevate e complesse forme di attività spirituale. Considero questi tentativi condannati anch’essi a fallire, se diretti a fondare una teoria dei valori. Ma prima dell’esame critico è opportuno mettere in luce le eventuali ragioni, che si potrebbero addurre in loro favore.
Il dissidio tra le pretese del naturalismo scientifico e le resistenze secolari della filosofia circa il modo di intendere i valori spirituali, sembra si possa comporre, •come su un terreno neutro, mercè i buoni uffici della psicologia. Essa è oggi di proposito aliena tanto dalle audaci negazioni materialistiche del meccanicismo, che disconosceva ogni validità e quasi ogni realtà agli ideali dello spirito, quanto dall'esclusivismo metafisico, al quale si rimprovera di ostinarsi a sottrarli al controllo d’ogni indagine positiva, timoroso che la loro dignità si contamini, quando sia ravvicinata al mondo dei fatti e considerata scientificamente.
Lo psicologo affronta il difficile compito, rinunziando esplicitamente e intenzionalmente a risolvere i problemi metafisici e gnoseologici circa l’obbiettiva validità o l’esistenza extrasoggettiva dei principi dell’esperienza valorizzata. Egli sottopone ai suoi ordinari metodi di indagine la manifestazione psichica dei valori, potremmo dire la loro empirica e fenomenica traduzione psicologica; sì che avrebbe il vantaggio di rassicurare le gelose anime timorate dei filosofi, ai quali lascia volentieri la loro preda secolare, che à per lui una dubbia consistenza, e di acquetare le pretensioni conquistatrici del naturalismo, a cui offre il solido bottino di fatti incontrastabili.
Nè il credente nè il miscredente, nè l’idealista nè il materialista —- per citare uno dei casi tipici e più chiaramente significativi — sembra possano dissentire da chi ricerca quali caratteri abbiano e d'onde nascano e come procedano le umane subbiettive manifestazioni del divino, che sono fatti empiricamente constatabili, tanto se Dio è personalità trascendente, tanto se è un fantasma, che l’immaginazione compone , e la ragione dissolve.
L’affermazione o la negazione dell’obbiettiva validità del divino non pare debbano pesare sui risultati dell’indagine psicologica, nè interessare la compiu-
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tezza della spiegazione dell'umana esperienza religiosa, più di quello che non influiscano sui risultati delle scienze naturali l’affermazione o la negazióne d’un’ob-bietliva esistenza della cose. Il dissenso, se mai, è oltre, non dentro i confini della spiegazione psicologica dei valóri.
Questa neutralità del metodo psicologico, questa cauta limitazione dei fini esplicativi a una conoscenza dei fenomeni subbiettivi del valore — la cui fondatezza, anche dentro tali limiti, è il puntò centrale di riferimento delle riflessioni che tra poco vi inviterò a fare — non sono le sole ragioni che potrebbero conciliare il favore degl’, studiosi alla spiegazione psicologica. Altre sembra si trovino nei caratteri stessi di ogni attività spirituale, che giustificherebbero pretese anche meno riservate. '•
Il valore, qualunque sia il grado della suà dignità, è reale nel soggetto psicologico ed esiste nelle determinazioni che la particolare natura e la storia di esso generano. Nessun idealista per quanto radicale può oggi disconvenirne, rinnovando quella negazione dell’importanza dell’esperienza che il pensiero à logicamente superato.
La verità è reale nella determinata conoscenza d’un soggetto; il bene si concretizza in azione; il divino è presente in un atto di adorazione o in una preghiera.
Di contro all’astratta esistenza, affermata dal vecchio spiritualismo, sta questa concreta esistenza, dimostrata da fatti sperimentabili; di contro agli idoli del mitologico paradiso metafisico, all’astratta verità, bontà, bellezza, divinità sta la concretezza delle loro storiche espressioni psicologiche, la molteplicità empirica delle manifestazioni della scienza, della condotta morale, .dell’arte, della vita religiosa.
D’una realtà dei valori trascendente nel senso tradizionale, cioè a parte ed oltre questa empirica loro esistenza, d’una realtà assoluta, distinta anche direi quasi numericamente da quella relativa e che con essa coesista, anche lo spiritualismo contemporaneo parla con molta prudenza, sebbene sia sempre viva la questione dell’assolutezza dell’esperienza contro la concezione che si arresta alla sua empirica molteplicità e soggettività.
Non sarebbe anzi l’immanentismo spiritualistico con temporaneo un’istanza in favore della spiegazione psicologica e quasi il commento e la potenziazione filosofica di essa? Non sono appunto gli idolatri dello spirito assoluto e dell’identità i giustificatori definitivi del riassorbimento dei valori nell’unità cosciente del soggetto, i negatori d’ogni obbiettività e quindi i responsabili del relativismo e del soggettivismo, che, come vedremo, insidiano la fiducia nella validità d’ogni esperienza e insieme ne mutilano la spiegazione?
A malgrado che il disconoscimento della capacità teoretica della psicologia sia uno dei motivi favoriti di qualche sistema idealistico, ciò si è anche chiesto con sagaci analisi, degne di attente e rispettose considerazióni.
Bisogna convenire che l’immanentismo idealistico può, corrompendosi, sfociare in uno psicologismo relativistico e sostanzialmente scettico; che l’ardore spirituale, da cui è ispirato, può attenuarsi nel fatuo focherello d’un soggettivismo
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positivistico. La nuova teologia a sfondo psicologico, che vuol rinverdire e razionalizzare i vecchi dogmi, è meritamente sospetta al cauto razionalismo cattolico.
Ma non deriva ciò da un traviamento anziché da una logica necessità intrinseca al sistema? appunto da un’erronea traduzione psicologica d’una verità filosofica? da un’equivoca ed ingiustificata identificazione del soggetto o spirito, di cui parla l'idealismo, con il soggetto psicologico, nella ciii empirica relatività la psicologia vuole esaurire la ricchezza e la validità delle creazioni spirituali?
Questo punto di vista — sebbene metta in evidenza un aspetto assai interessante della spiegazione psicologica dei valori — non sarà obbietto d’un esame diretto nè qui, dove se ne parla incidentalmente, nè oltre. Ma risulterà ugualmente chiarito. Il corso delle prossime riflessioni spero vi dimostrerà che l’orientamento psicologico è insostenibile, tranne che non si precisi ancora di più come naturalismo e abbandoni le pretese d’intendere ciò che di proprio ed essenziale includono l'arte, la. religione, la moralità, rinunziando a costruire una teoria dei valori, sia in sè compiuta, sia come preparazione a un concetto filosofico della realtà spirituale.
Notando qualche ragione che spiega il favore per le indagini psicologiche non ò dunque inteso di giustificarne e fondarne le speranze di successo.
Il limite che la psicologia pone a se medesima ci apparirà presto, pur con le sue prudenti riserve, incongruo con una posizione schiettamente scientifica e gravato di compiti irraggiungibili. È un compromesso per cui la psicologia, oltrepassando la sfera della scienza c non raggiungendo la sfera della filosofia, è condannata ad oscillare incerta tra esse.
L’innegabile espressione empirica e soggettiva del bene, del divino, del vero,, del bello, se può includere la possibilità d’una constatazione descrittiva, non vale, senz’altro, a dimostrare la legittimità e la efficacia di un procedimento che si propone di scoprire i principi creatori o informatori della vita spirituale nella coscienza psicologicamente intesa, con metodi naturalistici, a titolo di. fatti, e di spiegarne l’origine e l’attività.
Ma ciò è appunto la nostra questione.
CARATTERE DELLE RIDUZIONI SPECULATIVE
La psicologia adotta nel suo arduo compito un procedimento esplicativo, fondamentale e comune a tutte le scienze: la riduzione della complessa e concreta realtà spirituale a fatti elementari e analogamente l'inclusione d’ogni sua manife-. stazione in una serie causale.
Il procedimentojsuppone un principio generale, correlativo a un’esigenza, la quale è in fondo lievito di ogni ricerca e legge d’ogni spiegazione: l’unità del molteplice.
La varietà delie fórme spirituali non può essere compresa restando una iuxta-posizione di attività separate e quasi coesistenti nel « luogo » dello spirito.
Anche chi le concepisca, tutte o alcune, quali specifiche e distinte manifestazioni di vita spirituale, è poi costretto a ripensarle in un sistema che le includa
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in una sintesi coerente. Spiegare è unificare. La riduzione del molteplice all’uno non è solo un problema speculativo, è anche un’esigenza fondamentale del pensiero.
I concetti distinti di arte, morale, religione si inverano e cioè si ordinano definitivamente e si determinano universalmente in un'unitaria concezione, dalla quale la loro distinzione sia spiegata e nella quale assumano il posto e la funzione che anno le membra in un organismo.
Le riduzioni psicologiche — che sono l’obbietto delle nostre presenti riflessioni — costituiscono un caso particolare di questo procedimento: la sua forma naturalistica. Èsse perciò son ben diverse, per intenti e per risultati, come lo sono per metodi, dalle riduzioni speculative o dialettiche.
In modo implicito nelle prime, in modo esplicito nelle seconde sono sottintese due distinte concezioni del reale o meglio due distinti tipi: il naturalistico e il filosofico. Sarebbe dannoso e arbitrario confonderle in una medesima critica, solo per il fatto che le riduzioni psicologiche e le riduzioni dialettiche riferiscono a un’unica base la molteplicità delle forme spirituali.
La filosofia, prima e più rigorosamente delle scienze, riduce il molteplice della realtà empirica all’unità del sistema; ma intenzionalmente pretende di restare-fedele alla ricchezza delle distinzioni, che la coscienza avverte. Riconosce nel vero, nel bello, nel giusto, nel divino quel carattere di distinzione che ànno nella e per la coscienza del soggetto e la riporta all'attività dello spirito, che con un processo dovuto alla sua intrinseca natura realizza sè, realizzando le distinte manifestazioni spirituali come suoi momenti o gradi.
La ragione, ricercando nelle empiriche varietà delle umane valutazioni il principio, universalmente valido, interpreterà la moralità come legge incondizionata o come piacere, il diritto come .limite estrinseco alla volontà o come la sua intima legge; la conoscenza come sintesi a priori o come eco soggettiva di una realtà esterna; la religione come esperienza del trascendente o come coscienza cosmica; ma qualunque ne sia l’interpretazione —- die varia a seconda del modo di concepire lo spirito e il suo processo — tenterà di intendere nella sua distinzione ciò che per il soggetto è valore distinto.
'fra ciò che la ragione determinerà e ciò che la nostra soggettiva coscienza attesta nella sua spontaneità può esservi —- forse deve esservi — una differenza; ma questa riguarderà il criterio di valutazione, non già l’esistenza del v’alore.
Di rado le riduzioni importano una degradazione di dignità per qualche distinto ideale; piu spesso ne risulta un elevamento dell’indice di validità. Il termine di riferimento è, diciamo così, in alto, non in basso; e lo scopo è una gerarchia sistematica e razionale dei valori, un ordine universale, in cui non sia perduto o attenuato, ma anzi riconsacrato il loro carattere di ideale necessità.
Un commento critico di questo tipo di riduzione sarebbe di grande interesse, ma supera i limiti del mio compito. Accenno di sfuggita a due punti di possibile dissenso, che alcune interpretazioni dialèttiche possono suscitare.
Uno più generale, riguarda il dubbio che, accentuando l’importanza del pro-
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cesso unitario e dirci quasi riassorbendo nella sua assolutezza i distinti gradi, la validità di questi, cioè delle manifestazioni spirituali, perda o per lo meno attenui, se non ogni distinta caratteristica, la sua specifica funzione.L’importanza del divenire dello spirito aduggerebbe la vita delle forme in cui il divenire si realizza. L’arte, la morale, la religione esisterebbero principalmente per dissòlversi nell’unità. La loro funzione essenziale sarebbe il loro eterno passare o morire.
L'altro dissenso riguarda l’eventuale arbitrarietà con cui talvolta la distinzione d’una attività spirituale è negata come empirica e soggettiva, quindi, ridótta a un’altra di valore diverso in un riordinamento razionale: la religione a conoscenza o eticità, la morale a piacere o utile, il diritto a morale o a forza o a economicità ece. Il valore ridotto è quello residuale, che il filosofo non intende nella sua distinzione, perchè non corrisponde ad alcun grado distinto del processo spirituale, come è da lui concepito.
Le due questioni non sono trascurabili. Esse domandano se la riduzione dialettica non abbia il difetto che vi dimostrerò esser proprio della riduzione psicologica — cioè il disconoscimento di qualche valore — se la filosofia non includa quella medesima tabe dell'astrattismo livellatore, che con maggior fondatezza si può rimproverare al procedimento scientifico. Il dubbio è in qualche caso giustificato. Il riconoscimento delle distinzioni talvolta è un lodevole proposito anzi che un fatto. Per mió conto — e qui incidentalmente non posso dirlo che a titolo di opinione — la riduzione dialettica è il più legittimo modo di spiegare l’esistenza e la funzione delle distinte attività dello spirito, che nell’unità del processo spirituale trovano il principio d’una validità e d’un’intrinseca necessità ideale, altrimenti difficile a dimostrare. Ma ritengo anche che « il fiore non debba spezzare il calice», che nel processo i singoli momenti non debbano perdere, ma più tosto ritrovare meglio affermata la loro importanza e la loro funzione, che il concetto dello spirito, comunque pensato, debba essere la legge onnicomprensiva di tutti quei valori, debba includere la giustificazione di tutte quelle dignità, che la coscienza umana nella sua storia temporale à distinto e sempre meglio determinato e approfondito e chiarito, che ànno creato c creano forme di condotta, prodótti spirituali, istituzioni ¡neonfondibili.
La storicità del pensiero implica sì la possibilità di un diverso organamento gerarchico di essi, anzi è <^ciò la dimostrazione, perchè la storia — di cui la filosofia è la luce concettuale — è vicenda di predominio di un ordine di valori su un altro; ma insieme prova l’insufficienza e la caducità di ogni concetto dello spirito, che ci imponga il disconoscimento della validità distinta e la negazione della ragione d’essere di qualcuno di essi, e la inanità, in vero non doma, di tutti i secolari tentativi fatti per dimostrare che qualche distinzione è solo empirica, razionalmente impensabile.
CARATTERE DELLE RIDUZIONI PSICOLOGICHE
Per l’intendimento , della vita spirituale, in analogia con l’intendimento della natura, la riduzione che si modella sul metodo scientifico è la psicologica. Pur abbi’
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dendo alla medesima esigenza della riduzione dialettica, essa ricalca le orme del naturalismo. Non riporta le distinte manifestazioni spirituali alla legge di sviluppo e al concetto dello spirito; non ricerca in eventuali principi o norme o ideali, che ne costituiscano la vita, l’origine di esse e la ragione della validità. La psicologia vuol essere scienza di fatti e basarsi su fatti.
Essa applica il medesimo criterio che permette la riduzione dei fatti fisici; il semplice spiega il composto, l’inferiore il superiore, il fatto l’idea, e mira a scoprire ciò che di comune vi è nelle distinte esperienze dei valori, per fissare quel che è considerabile come obbiettivo fondamento attraverso le dignità presenti al soggetto psicologico.
Qui là ragione teorizzante parte dal sospetto — qualche volta tenace come un proposito — che le differenze soggettive di valore non siano tali per una riflessione sistematica; e il suo problema non è già che cosa valgano e perchè il vero o il lecito o il bene o il bello o il divino, ma più tosto — sebbene non sempre in maniera esplicita —- a che cosa essi possano ridursi, in che cosa, valore o no, sia la causa e la giustificazione di quel che sembra al soggetto una distinta dignità. Ciò che per il soggetto è verità potrà così rivelarsi come interesse pratico o convenzione economica; il diritto come arbitraria coazione della forza trionfante; il bene come psicologica trasformazione dell’utile; il bello come giuoco cerebrale; il divino come abnorme espressione affettiva o conoscenza ingenua o ciurmeria sacerdotale; ma sempre in ultima analisi, qui spiegare un valore significherà trovare il fatto a cui questo può ridursi.
La distinta dignità di ciascuna esperienza, quale esiste nel soggetto e per il soggetto, si spiegherà subendo un inevitabile processo di degradazione, come formazione psicologica secondària, se non pure obbiettivamente illusoria. L’analisi esplicativa si assume il compito di spogliare il fatto obbiettivo dall’involucro sub-biettivo, che lo riveste di distinzioni e di significato, a cui il pensiero non sa riconoscere altra giustificazione che quella dei processi e delle leggi generali dei fatti di coscienza. Il diritto come tale, il bene come tale, il divino come tale, esisterebbero quali distinti valori per la coscienza, ma non in sè stessi. L'obbligatorietà delle norme etico-giuridiche sarebbe l’effetto d'un'interiorizzazione e d’un adattamento a comandi e divieti e sanzioni sociali; il senso del trascendente, proprio delle religioni, sarebbe una sopravvivenza dell’ingenuo animismo primitivo; i supremi principi della ragione sarebbero il ritmo segnato dal giuoco interno degli elementi psichichi, il fascino della bellezza sarebbe espansione dell’energia superflua. Cito esempi di riduzioni più comunemente note, in cui trova una facile e semplice soddisfazione il bisogno conoscitivo di molti; ma non sono essi nè i più caratteristici nè i più audaci. Per questo lato il compito della psicologia appare il necessario fondamento di ogni altra riduzione e quindi investito d'una funzione generale e decisiva nella tendenza scientifica dei nostri tempi. Le riduzioni sociologiche o biologiche e quelle parziali di un valóre a un valore diverso ànno in fatti significato, se un processo psichico, che è ufficio della psicologia scoprire e illustrare, dia ragione della
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origine e dell’esistenza soggettiva di quelle distinzioni e di quella dignità che sono razionalmente negate.
Non grava più sulle, responsabilità della psicologia quel cieco radicalismo naturalista, che pretendeva di ridurre, non che il valore delle fórme spirituali, la stessa vita cosciente a semplici fatti organici.
Esiste ancora qualche fatuo esploratore ritardatario, che si ostina a ricercare nell’abnorme funzione d’un organo la radice dell’attività religiosa o della creazione artistica, ma è un sopravvissuto; Tartarin che suda a scalare per sentieri perigliosi l’Alpe già vinta dai comodi vagoni ferroviari.
Non mette conto parlarne. La pretensione di ossequio allo spirito scientifico, che ispirava quell'ingenua riduzione, era invece grossolano e dogmatico asservimento a una metafisica materialistica, che la stessa scienza naturale oggi ripudia, dacché qualche autorevole biologo già cerca nella coscienza la ragione di alcune funzioni organiche.
Può essere esigenza metodica spiegare i fatti psicologici così come si spiegano i fatti fisiologici, non già di spiegare i fatti psicologici quali fatti fisiologici. Ma la psicologia à avuto questi strani natali: abbandonò il materno alveo della filosofia e mosse i suoi primi passi di scienza, negando la specificità del suo obbietto, e per conseguenza la specificità dei suoi metodi e delle sue conoscenze. Di tali aberrazioni non può oggi essere chiamata a rispondere. A pretensioni meno audaci si adeguano metodi più criticamente controllati e fecondi per una scienza che voglia intendere i fatti psichici, come fatti psichici.
Ma anche così rinnovata, senza le intemperanze della sua giovinezza, può assolvere l’ufficio di spiegare i valori con le leggi generali dell’attività psichica riducendoli a fatti elementari? Quel che è per la psicologia un presupposto metodologico -*a riducibilità dei valori — è per noi un problema.
I RISULTATI E LE ILLUSIONI DELLO PSICOLOGO
Un esame critico dei risultati raggiunti dalia psicologia nei suoi tentativi di riduzione non gioverebbe a risolvere definitivamente il nostro dubbio, nè potrebbe aspirare al consentimento generale.
Anche se si riuscisse a dimostrare l’insuccesso completo degli sforzi compiuti dalla psicologia, non si sarebbe autorizzati a concludere da un'impotenza di fatto a un’incapacità di diritto. Taluni valori non si è ancóra riusciti a ridurli a fatti psichici elementari: ecco tutto. Sono essi irriducibili? Là questione ritornerebbe ugualmente, insoluta. I magnificatoli dell'esperienza, gli idolatri del fatto non sa-sebbero in questo caso disposti ad acquietarsi al verdetto implicito nell’esperienza dell’insuccesso.
Il fallimento delle indagini fatte sin’ora — sul quale io non ò dubbio alcuno —- può tutto al più essere un’istanza indiretta o servire di riprova a una conclusione negativa raggiunta per altra via, ma non un argomento probatorio dell’irriducibilità dei valori.
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D'altra parte è difficile che le lacune delle riduzioni, dimostrate con l’esame particolare di questo o quel tentativo, siano per ciò scorte o riconosciute da chi segue il procedimento psicologico; e neppure che, scorgendole, egli rinunzi al suo tentativo. Secoli di discussioni non ànno nè persuaso nè scoraggiato l’empirista, che cerca negli elementi sensibili il valore del pensiero e il fondamento delle sue funzioni costituitive. Le riduzioni sociologiche della coscienza morale sopravvivono perfino alla decadenza della sociologia. Spento qui un focolare di riduzione, si accende altrove ineluttabilmente.
Mette conto di accennarne le ragioni, che sono poi quelle ih cui si riassumono alcuni argomenti critici contro i risultati si n’ora offertici dalla psicologia. Sono un caso di illusioni dello psicologo.
In primo luogo quasi sempre il valore, che si intende di trovare negli elementi psichici; è inconsapevolmente sottinteso in tutto il procedimento d’indagine. È come un peso morto che lo studióso si trascina dietro; ed egli ricostruisce il valore con gli elementi di fatto, solo perchè ve lo à riposto surrettiziamente. Lo ricostruisce, perchè è sempre stato presente alla sua umana coscienza, sebbene in apparènza eliminato dall'oggetto delle Sue iniziali riflessioni, perchè egli non à cessato di èssere coscienza valutativa che illumina con i suoi apprezzamenti i fatti elementari» i quali dovrebbero essere indifferenti, neutri, privi ancora di valore per ¡’intelletto astratto.
Il valore morale dell’obbligatorietà si è potuto scorgere nelle sanzioni sociali, perchè si sottintendeva la capacità di riconoscerne la dignità alla coscienza del singolo. Si è potuto indicarci l'origine del divino in illusioni animistiche e nell’idolatria, con una ricca letteratura di documenti aneddotici malamente interpretati, perchè si sottintendeva nell’atto di adorazione paurosa del selvaggio la coscienza del sacro, dimentichi, e insieme involontari testimoni del precetto bruniano: « Non furono mai adorati coccodrilli, galli, cipolle e rape, ma là Divinità in coccodrilli, galli cipolle e rape ».
In secondo luogo i fatti psichici, in cui la psicologia risolve l'attività cosciente - lè emozioni depressive o esaltative, il timore, la speranza, il dubbio, la fede, lo scrupolo, gli idoli fantastici, le tendenze, ecc. — e le leggi della loro sintesi per la genericità nella quale debbono essere colti dalla scienza, sono realmente rintracciabili in ogni creazione' spirituale. Ma, bene inteso, in questa loro genericità, in quel che ànno di comune, non costituiscono alcuna individuata attività dello spinto. Sì che ove si perda di mira, consapevolmente o no, la particolare determinazione con cui quelle astratte e generiche forme sono reali nell'esperienza concreta, la riduzione deve apparire legittima ed esauriente, in ogni caso deve apparire la sola via per una spiegazione positiva.
Astraete dal valore estetico: là creazione artistica si identificherà con il giuoco. Non considerate la particolàre dignità dell’immaginazione creatrice; il suo schema psicologico sarà un preciso calco della fantasticheria. Disconoscete ciò che di proprio à la coscienza del divino e il suo contenuto si esaurirà in illusioni e in
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emozioni di paura e di sottomissione, quali si trovano in molte altre esperienze psicologiche.
Sarebbe vano il far considerare alio psicologo che tali riduzioni sembrano esatte, perchè il proprio dell'esperienza è rimasto fuori delle sue analisi, inesplorato; che egli non à data così alcuna spiegazione determinata dell’arte, della creazione geniale, della religione, perchè à eliminato il valore che le caratterizza. Se non la cecità dell’illusione dianzi accennata, il volontario proposito di risolvere in altro ciò che à un obbiettivo valore per la coscienza del soggetto renderebbe vana tale considerazione. Egli non può scorgere l'assenza di quel che, in verità, a rigore non ricerca.
Queste illusioni d’altra parte spiegano come sorga e perduri nello psicologo la convinzióne del successo; non dànno la ragione dell’insuccesso, costante quanto è costante la tenacia della psicologia a ripetere e ad allargare i suoi tentativi, a malgrado le indomite resistenze della filosofia ad accettarne le conclusioni. Tutto al più dànno una particolar ragione per una particolare riduzione, e non quella comune e fondamentale.
È troppo poco qualificare la posizione che la psicologia assume di fronte ai valori come un errore, quasi ad essa estrinseco ed accidentale. Tutto fa sospettare che debba avere la sua giustificazione e forse essere un carattere intrinseco alla natura stessa delia psicologia inquanto scienza. Se così fosse, questa, pur fallendo nei suoi tentativi, non potrebbe e non dovrebbe rinunziare ad una analisi delle più complicate e nobili forme eli vita spirituale, ma ricercare se i suoi limiti conoscitivi non siano ancora più ristretti o diversi da quelli che si propone raggiungere, se l’esperienza valorizzata possa diventare suo obbietto, solo per qualche suo particolare aspetto e per particolari fini.
Ora, l’efficacia esplicativa delle riduzioni à in generale i suoi trionfi, sicuri, continui, ammirati, da parecchi secoli-nel campo delle scienze della natura.
Il fine supremo delle concezioni scientìfiche è ridurre possibilmente a una sola forma obbiettiva di attività o di elementi, di forza o di materia, semplice, indifferenziata, comune, la ricca molteplicità delle manifestazioni naturali. Un processo di riduzione è sempre il movimento interno d’ogni ricerca scientifica.
Il metodo psicologico è- l'espansione di questo procedimento dall’indagine dei fatti naturali all’indagine dei fatti spirituali: ragione non ultima del favore che esso gode nel pensiero scientifico contemporaneo. La psicologia, trasformandosi da disciplina filosofica in ¡scienza o meglio distinguendosi come scienza dalla filosofia dello spirito, doveva, dopo i giovanili traviamenti e le incertezze primitive, quali il fisiologismo e l’antropologismo, assumere di fronte allo spirito quel medesimo atteggiamento che le altre scienze già provette avevano assunto di fronte alla natura, con successo e, a quanto io penso, con coerenza alle intrinseche esigenze della conoscenza scientifica. Le riduzioni psicologiche sono un’applicazione del metodo naturalistico o genericamente scientifico; e per cip in esso è il segreto del destino della psicologia come scienza.
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Il nostro problema diventa così più complicato forse, ma anche più determinato. Può essere ora enunciato in questa forma: le esperienze valorizzate sono riducibili come i fatti naturali, sì che il processo di riduzione applicato al mondo dei valori raggiunga i fini conoscitivi come li raggiunge applicato al mondo della natura? E scandendo i nostri dubbi: Che cosa dei fatti naturali spiega veramente la scienza? Se la spiegazione è, in qualche senso, limitata e condizionata, il suo limite e la sua condizione persistono anche per la spiegazione dei fatti spirituali? In tal caso la spiegazione psicologica conserva l'efficienza che la spiegazione naturalistica à nella propria sfera, ovvero per i caratteri del suo obbietto diventa insufficiente e inadeguata? Quel limite e quella condizione cioè che, pur esistendo, soddisfano le esigenze conoscitive della scienza per il mondo della natura, soddisfano ugualmente le esigenze conoscitive per il mondo dello spirito?
Ciò condurrà, in fondo, a determinare, con quella precisione che è possibile, i limiti di competenza della psicologia nello studio dell'attività spirituale.
IL METODO SCIENTIFICO E LE RIDUZIONI NATURALISTICHE
Una completa riduzione, a cui non sfuggisse alcun fenomeno naturale, è stato insieme principio regolatore e meta auspicata della scienza sin dalle origini del nuovo orientamento.
Essa era resa possibile, infatti, anzi imposta al pensiero, da quando le qualità sensibili si assumevano come forme soggettive e nei fenomeni si intravedeva la ricca varietà di manifestazioni d’un'unica natura quantitativa. « Molte affezioni, sentenziava il nostro Galileo, che sono reputate qualità residenti nei soggetti esterni, non ànno veramente altra esistenza che in noi e fuori di noi non sono altro che nomi... (L'universo) è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangolari, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi non è possibile intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto». E quasi contemporaneamente con netta dichiarazione Cartesio indicava nel moto l’unità fondamentale di tutti i fenomeni. « Omnis materiae variatio sive omnium eius formarum diversitas pendei a motu».
Di poi il principio della riduzione .si afferma, si cimenta alla prova dell’esperimento, si consolida come un dogma. Ciò che era aspirazione finisce con il diventare un carattere della sciènza, storicamente fissato e legittimato da trionfali successi.
Il Kirchhoff dichiara che « lo scopo supremo a cui sono costrette di mirare le scienze naturali è... la riduzione di tutti i fenomeni dèlia natura alla meccanica». Il Maxwel: « Quando un fenomeno fisico può essere compiutamente descritto come un cambiamento nella configurazione e nel movimento di iin sistèma materiale, si dice che la spiegazione dinamica di questo fenomeno è completa. Non si può concepire che una spiegazione ulteriore sia necessaria o possibile ».
L'unico « solvente intellettuale » è il moto. Dove la riduzione non riesca, si
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scorge un difetto di capacità intellettiva, non la resistenza di qualche carattere dei fatti, opposto alla comune e unica natura del reale.
Dal secolo xvn ad oggi il metodo registra trionfi progressivi. La vecchia concezione, per poco abbandonata, che il calore è forma di energia cinetica, ritorna in onore. Recenti dottrine rinsaldano il secolare principio e l’estendono: la teoria cinetica degli stati della materia, la teoria meccanica dell’elettricità, la grandiosa concezione di W. Thomson, che riduce tutta la realtà ad un fluido universale omogeneo e all’azione meccanica di anelli-vortici prodottisi in esso in epoche primitive per forze originarie ornai sparite.
Non è esagerato il dire che spiegare scientificamente vale quanto ridurre secondo un principio meccanicistico. Per ciò le ostili opposizioni, di cui oggi vi è più di un segno nella scienza stessa, mi sembrano destinate a non aver fortuna, come, logicamente, sono vane, in rapporto allo intendimento scientifico, le opposizioni sistematiche della filosofìa, che persegue diverse finalità conoscitive e si riferisce ad una realtà; che non è quella a cui si riferisce lo scienziato.
I dubbi sulla legittimità delle riduzióni e sul valore teorico dei risultati conseguiti non derivano tanto, come potrebbe pensarsi, dal fallimento della concezione meccanica, quale teoria speculativa del reale, quanto dai progressi stessi delle riduzioni, che finiscono sempre, mercè l'approfondirsi delle analisi, con mettere in luce qualche residuo caratteristico o qualche proprietà prima trascurata o non scorta.
Qualcheduno già crede di poter salutare la risurrezione in foggio nuove di morti idoli, le vecchie virtù dell'ontologia classica.
Non solo nelle spiegazioni del mondo della natura organica — dove le riduzioni di tipo meccanico segnavano successi molto discutibili —- rinasce il vitalismo e presenta nuovi titoli di validità la teoria delle energie specifiche, ma nel seno stesso delle scienze fisiche sorgono dubbi autorevoli sul valore della riducibilità. La molteplicità degli elementi sensoriali o delle relazioni funzionali di elementi del Mach, le qualità fisiche distinte del Duchem, le irriducibili energie dell’Ostwald minacciano l'unitaria struttura meccanica del mondo della natura e quindi la legittimità d'una rigorosa riduzione. Qualche particolare teoria meccanica tramonta: la teoria ondulatoria della luce cede il posto alla teoria elettro-magnetica.
Sarebbe possibile battere questa via e giungere a una conclusione negativa per la validità del procedimento riduttore. Ma ciò significherebbe anche smarrire, per amore d’uria tesi, il Controllo critico sulle proprie riflessióni e servirsi di una cambiale come moneta contante.
Le opposizioni ànno per ora una scarsa importanza e pur essa limitata a un particolare carattere delle riduzioni. Sono tutto al più indizio d'un’insoddisfazione, che si va determinando nella coscienza degli studiosi, non so se nella loro qualità di scienziati o non piuttosto di pensatóri, desiderosi di costruirsi una metafisica. Esigenze filosofiche, più o meno esplicite, sono visibili nei concetti del Mach, dell’Ostwald, del Duhem. Il mio interessamento alla filosofìa non mi impedisce di'.
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vedere che esse son qui preoccupazioni estranee e per ciò turbatrici. Ripeto: non si tratta di opporre — e restando nella sfera della scienza — il concetto del reale costruibile filosoficamente o il metodo speculativo a quelli scientifici, ma di saggiare il principio di riduzione in rapporto alla scienza, al suo obbictto e ai suoi fini.
Più Che contro le riduzióni la critica si appunta contro l’elemento, il moto, a cui esse son riferite, forse con nessuna o con lieve influenza sulle singole teorie esplicative di determinati fenomeni. Le leggi singole non variano con il variare della concezione generale, in cui si inquadrano; perchè una conoscenza che, astraendo dalla natura delle cose, sì fondi sui rapporti quantitativi dei fatti — come avviene con le riduzioni scientifiche —: non muta con il mutare del concetto della natura delle cose. Il fallimento della concezione meccanica non turba la validità delle leggi naturali scientificamente accertate.
Ma perfino in questo senso ristretto sarebbe ardito parlare di una seria e fondata reazione, in seno alla scienza, contro le riduzioni meccanicistiche. Il caso della teoria elettro-magnetica della luce è sólo un’apparente interruzione della . continuità progressiva del meccanicismo, perchè i fenomeni elettrici sono alla loro volta ridotti a un'azione meccanica.
Le negazioni del resto sono temperate da molte riserve prudenti, e qualcuno dei critici è esso medesimo un implacabile riduttore. Se pure tramonta ¡1 vecchio « solvente intellettuale » uno nuovo ne spunta sull'orizzonte del pensiero scientifico con le ricerche intorno alla radio-attività e riduzioni più comprensive dei fatti fisici e dei fatti chimici si profilano, sebbene per ora con qualche aiuto della fantasia.
Possiamo chièderci quali ragioni giustifichino il procedimento riduttore e in che senso esso spieghi la natura, sicuri di intendere così un aspetto fondamentale delle scienze e di fissare un saldo punto di riferimento per controllare il valore delle riduzioni psicologiche, le quali su di esso si modellano.
CARATTERI DI RIDUCIBILITÀ DEI FATTI NATURALI
Un metodo di riduzione, che spieghi cioè un fatto riferendolo per la sua costituzione ad elementi semplici omogenei e per la sua esistenza ad antecedenti causali, può dirsi giustificato ed esauriente, se il fatto escluda l'azione di un partico-lar principio e una qualche intrinseca differenza qualitativa, che lo generino e lo individuino: se il fatto, in una parola, sia assoluta fenomenicità: estrinsecità di struttura e di processo, indifferenza di valore. Non luce o calore o suono per un soggetto cosciente, ma neutre vibrazioni obbiettive; non atti di una forza creatrice e individuatrice, ma effetti di circostanze date, differenti per variazioni quantitative. Sembra una tautologia. Riducibilità e naturalità dei fatti si identificano. I mezzi e i fini conoscitivi della scienza si adeguano a questo concetto della natura, come apparirà meglio da qualche chiarimento.
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II progresso scientifico è sicuramente segnato dalla possibilità fortunata di eliminare nella spiegazione un'eventuale attività di agenti distinti, intrinseci al-l’individuata natura del fatto: le virtù, le facoltà, i fluidi, le essenze, le energie specifiche, che la scienza considera mitologiche personificazioni dei nomi, con cui indichiamo le sintesi dei fattori della realtà. Sgorbi dèlia fantasia, li chiamava Bacone con l’esuberante espressione d'una sdegnosa certezza. Eliminarle dalla spiegazione significa insieme eliminarle dalla natura, così com’è presente allo scienziato in rapporto ai suoi fini teoretici.
Il mondo vivente, dalla cellula all'uomo, schiudeva per ciò anch’esso alla penetrazione del metodo naturalistico il mistero della sua ricchezza di forme, quando tramontava in biologia l'idea di specie fisse, insieme con il mito di atti propri di creazione, e il processo riduttore poteva abbattere quasi l'ultima barriera al suo completo trionfo.
In quel mirabile programma della scienza — ben più profondo del pragmatismo baconiano — che è costituito dai libri immortali di Galileo è enunciato un canone fondamentale: « Noi vogliamo specolando tentar di penetrare l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali o noi vogliamo contentarci di venire in notizia di alcune loro affezioni. Il tentare l'essenza l’ho per impresa... impossibile e vana.. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da disperare di poter conseguirle ». Qui la fenomenicità non si considera ancora — come oggi non si considera più — quale unico carattere obbiettivo; essa è presentata quale un punto di vista, una volontaria limitazione della conoscenza scientifica. Le essenze non sono negate, ma solamente poste fuori l’ambito d'una ricerca naturalistica, in un mondo inconoscibile, con la speranza di poter « poi finalmente sollevandoci all’ultimo scopo delle nostre fatiche, cioè all’amore del divino Artefice... apprendere da lui, fonte di luce e di verità, ogni altro vero».
Le vittorie dovevano rendere meno cauto il pensiero scientifico: la natura si considererà poco appresso esaurita nel fenomeno e la scienza quindi spiegazione esauriente ed esclusiva.
Ma o limitazione conoscitiva od obbiettivo carattere il « fatto scientifico », ciò che si intende spiegare, è fenomenicità e Correlativamente riducibilità: un « dato » indipendente dal soggetto, un complesso di fattori elementari più semplici, un effetto di condizioni pur esse date. Tutti i caratteri della spiegazione scientifica, le sue categorie, possono considerarsi determinazioni del carattere così genericamente indicato.
Se la filosofia può dirsi transumanazione — in quanto i nostri umani interessi sono superati e compresi in un’unità obbiettiva di valore — la scienza può ben dirsi una disumanazione — in quanto i nostri umani interessi sono eliminati in una realtà indifferente. Quel che Galileo con arguto sorriso diceva delle figure, vale per tutto il mondo del naturalismo: « Quanto a me non avendo mai letto le cronache e le nobiltà particolari delle figure, non so quali di esse siano più o meno nobili, più o meno perfette».
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II fatto, il fatto per la scienza, nasce quando si recidono i vincoli tra il reale e noi, e le differenze qualitative, come esistono per la coscienza, assumono il significato di indici o sintomi di un cambiamento quantitativo in seno a una realtà omo genea. Lo scienziato è puro intelletto, perchè il suo mondo è puro fatto, senza pregi o allettamenti. Il numero basterà a indicare le differenze. In quel mondo è una vana eco il ritmo del nostro cuore. Quest’indipendenza dal soggetto è ciò che più legittimamente può chiamarsi obbiettività: uno tra i caratteri fondamentali del « fatto scientifico ».
Ma per una completa riduzione quantitativa la realtà naturale deve presentarsi con un’indipendenza più profonda. Se la frase non fosse paradossale, potrebbe dirsi che il fenomeno deve essere esterno a se medesimo, indipendente dalla propria individualità, avere fuori di sè la ragione che lo determina nel tempo e in se stesso. L’intervento d’un’attività sintetizzatrice tra i fattori elementari o insieme con le condizioni causali impedirebbe di cercare o di scoprire in questi un'esauriente spiegazióne;
Per la scienza quel che vi è di proprio è un prodotto, mai un produttore; una conclusione, mai un'azione. Non solo ciò che caratterizza un fatto non è la qualità sensibile, la luce o il suono; ma sia quel che si voglia non è certo la sua causa produttrice. Il fenomeno è soltanto un effetto: non è $ zótó. Nulla è in esso che alteri i componenti. È piuttosto unità Ira i fatti, che vera e propria unità dei fatti.
L’intelletto naturalistico potrebbe perfino non trovare alcun significato in questa nostra insistenza a notare l’assurdità di cercare nel mondo dei puri fatti altro, che non sia un componente già dato. Per esso è banale assioma. La « sua » realtà è distribuzione diversa di atomi in sè immutabili e di forze, che sono genericamente determinabili e si trovano nel composto come fuori e prima di esso, perchè la sintesi non à influenza alcuna, non è in nessun senso forza unificatrice.
Analogamente nulla è nel fenomeno che ne determini l’apparire. Non è xaO’ «ótó. La sua origine è tutta in certe condizioni preesistenti. Ogni determinazione è a rigore una predeterminazione. Nè solo nel senso che il presente si esaurisce nel passato, quel che è in quel che è stato, ma nel senso che nessun principio proprio del fenomeno è operoso al di fuori o insieme con le circostanze antecedenti; che non vi è nulla che si svolga o si realizzi tranne che i fatti costituenti una serie successiva nel tempo. Assoluta estrinsecità di processo, se pure ciò possa dirsi per avvenimenti che non ànno un dentro e un fuori; assoluta eliminazione di ogni vera e propria attività produttiva, sia pure veramente e realmente trasformatrice, se non creatrice. L’idea di forza produttrice non sarebbe il travestimento dinamico delle odiate qualità occulte, un asilo dell'ignoranza?
Per ciò ogni azione è modellata su l’urto e ogni cosa è in sè passività. La legge di inerzia caratterizza questa natura del fatto scientifico: afferma l'esclusione di ogni spontaneità creatrice.
Il concetto di causa non à nè può avere nella scienza un significato che sorpassi questo estrinseco nesso di successione necessaria. È un quomodo, non un cur.
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II naturalismo à fatto suo il precetto dantesco « state contente, umane genti, al quia ». La scienza non vuole aver da fare con oscure forze produttrici. Per essa il principio di causalità si riduce al principio di equivalenza e trasformazione delle forze. È concepimento del vincolo tra fatti. « Se si considera — dice il Mayer — il modo come dal movimento che sparisce nasce il calore e viceversa, si oltrepassano i limiti della ricerca scientifica». Al Mach il concetto di causa sembra equivoco per la possibilità che includa un residuo del mito animistico; preferirebbe Sostituirlo con il concetto di funzione. Il Mach fiuta l’insidia dell’idea d’attività produttrice.
Nessuno aveva mai veramente concepito una generazione dal nulla. Fino nei presocratici è agevole trovare proteste contro l’assurdità di tale concetto: è di Diogene d’Apollonia il motto oùfìèv sx toO jrn ovro; yévscOac. Quel che lo spirito scientifico porta di nuovo è l'eliminazione d’ogni vera e propria generazione dal piano delle conoscenze legittime e possibili per esso.
Per ciò può dirsi che, non superandosi l’ordine della successione, nelle scienze non esistono soluzioni definitive dei problemi circa l'origine delle cose. Quando il naturalismo, dando alla successione causale il senso d'una generazióne, presenta le sue spiegazióni come solutrici anche d'un’eventuale ricerca sulle origini, speculativamente intese, non è « arte, ma ruina »; non spiega, ma nega. Ciò non è manifesto con chiarezza per il mondo della natura; ma lo è per il mondo dello spirito. L'empirismo il più delle volte scambia le circostanze tra cui un principio si realizza in una determinata forma con ciò da cui nasce, l'inizio con il suo fondamento; e finisce con il negarne la validità.
La causa, come ordine necessario di successione di fatti, è valida dentro la serie dei- fatti, serie altresì « data » o considerabile come data, vale cioè per i fatti della serie, ma non per la serie. Applicata all’unità della serie conduce alle antinomie d’un processo all’infinito o d'una causa prima, contraddittoria con il principio stesso. Applicata a un divenire attuale, che sia veramente storia e per ciò non concluso, non fatto, non « dato », si scontra con il suo nemico, lo spettro metafisico della libertà, o per Io meno non appare sufficiente per la conoscenza.
La realtà del naturalista è senza vera storia. Il tempo del fisico è piuttosto un « quanto » che un « quando ». L'evoluzione è l'evoluto, risultato non azione, schema formale generico e indeterminato, indifferente a ogni processo di differenziazione qualitativa. Questa indifferenza giustifica tutte le ardite capane sul futuro. Il futuro dell’intellettualismo scientifico è la proiezione nel tempo di qualche cosa in un certo senso già « data ». Potremmo applicare la frase del Priestely senza ironia: nessuno sperimenta ciò che è futuro, ma ognuno à l’esperienza di ciò che fu futuro. Il naturalista à presente una storia già irrigidita; il suo divenire è il calco intellettuale del fatto; è racconto e non dramma. Anche così il fenomeno esclude ogni reale attività creatrice; e ogni innovamento si risolve in una trasformazione fenomenica.
Il proposito, davvero rivoluzionario, di sostituire a una concezione statica della realtà una concezione dinamica sorge tra il secolo xvui e xix. Ma il naturalismo
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traduce la storicità nell’astratto schematismo d’un’estrinseca successione causale, o peggio, cercando con Geoffroy Saint-Hilaire il piano unico incarnato nelle varietà delle forme, scopre la correlazione degli organi, cioè un piano morfologico, quasi spaziale, che à poco di dinamico.
Una formazione che è trasformazione, una generazione che è successione permettono, anzi richiedono, quel medesimo procedimento esplicativo, che in un composto, privo di valore distinto e di proprietà individuatrici, permette, anzi richiede di ricercare i componenti indifferenziati. La realtà è staticamente e dinamicamente riducibile, senza residui.
La misurabilità o in generale la quantificazione — che giustificano e insieme precisano le espressioni dei procedimenti riduttori — si adeguano ai caratteri del fatto scientifico ora chiariti, alla sua indifferenza di valore, alla mancanza in esso di ogni principio attivo intrinseco di determinazione.
Il rapporto quantitativo è relazione estrinseca tra le cose, che possono per ciò considerarsi quali punti, poiché nulla è nella loro natura che lo generi o lo costituisca. È la maniera più appropriata e chiara di pensare l'essere nella sua estrinsecità; e doveva presentarsi come un ideale conoscitivo, come l’unico lato intelliggibile del reale. Senza riserve il Moleschott poteva dire che sapere è misurare e che la bilancia è lo strumento di sicurezza della mente. Lo scienziato qui nega se stesso. Ma per lui l'oggetto è tutto ed il soggetto nulla.
La quantificazione del reale costituisce certo uno degli sforzi più gloriosi della scienza. La concretezza dell'esperienza, impensabile nella sua individuata molteplicità qualitativa e grave di oscuri problemi nel suo unitario essenziale valore, diveniva trasparente all’intelletto, che la riferiva ad una unità omogenea e, quel che è più, di tipo meccanico, ciò che rendeva possibile di fissarne la conoscenza in termini matematici.
Le relazioni quantitative, per la loro massima astrattezza e generalità, sono le più adatte ad una sistemazione scientifica, ma anche le meno empiricamente reali. Il suono o il colore o la temperatura ànno un rilievo realistico più pieno delle vibrazioni in un etere assai ipotetico. Non di meno per un’ingenua illusione qualche meccanicista, che nega ogni obbiettività ai rapporti qualitativi in base all'esperienza dei sensi, scorge nei rapporti quantitativi, anziché ur. felice surrogato o un'idea, la stessa trama obbiettiva del reale, quasi la rivelazione d’un in-sè. La sua « soda » realtà è la più astratta delle idee. È un metafisico suo malgrado, con l'aggravante che si affida alle astrazioni dell’intelletto pur di sfuggire alle spregiate attività dello spirito nella sua concreta potenza.
VALORE TEORETICO DELLA SCIENZA
La realtà che la scienza intende conoscere è sicuramente solo un aspetto del móndo naturale. Le caratteristiche dell'aspetto scelto, la loro perfetta adeguazione alle categorie dell’intelletto e i procedimenti dell’indagine giustificano i progressi del sapere scientifico.
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Sono oramai eccezionali le audaci pretese di alcuni naturalisti di «descrivere fondo a tutto l’universo » per mezzo della scienza. Essi fanno della pessima metafisica, negando l’esistenza di ciò che non è nel raggio della loro particolare visione ed elevando la conoscenza scientifica a dignità di unica legittima ed esauriente conoscenza. Il mondo non è certo un’equazione differenziale, come vorrebbe uno di loro. Il meccanicismo è un’arbitraria generalizzazione di metodi, di punti di vista, di conclusioni, validi in un senso, limitato e particolare.
Il Duhem giunge sino alla confessione che la realtà obbiettiva è al di fuori delle conoscenze scientifiche; H. Poincaré non discute neppure la questione se la scienza ci faccia conoscere la vera « natura » delle cose e si limita a chiedersi se essa ci faccia conoscere i veri « rapporti » tra le cose.
Contro gli arbitrari ardimenti dei pochi superstiti del materialismo una reazione — che conta tra i suoi fautori scienziati autorevoli — tende oggi a costruire una teoria della scienza, che ne nega del tutto il valore teoretico in base a un esame critico dei suoi procedimenti o dell'astrattezza dei suoi obbietti e anche addirittura fondandosi su un totale scetticismo circa l’efficacia del pensiero discorsivo. La scienza sarebbe un’espressione economica, un linguaggio utile, una convenzione; i suoi concetti sarebbero azioni o forme dell’attività pratica; l’attributo di verità non converrebbe alle sue conoscenze che secondariamente, se pure non le sia del tutto improprio.
Le filosofie anti-intellettualistiche oppongono alle esigenze conoscitive, che sono proprie del pensiero scientifico, le esigenze conoscitive dell’interesse specular tivo; controllano l’aspetto della realtà che la scienza à presente con il concetto della realtà costruibile filosoficamente o con la realtà genericamente concepita.
Non si può negare loro questo diritto, nè disconoscere che molte considerazioni critiche anno serio fondamento e che il fine conoscitivo, il quale serve di termine di confronto, à una profondità ed una compiutezza incomparabilmente superiori.
Ma le conclusioni sono d’ordinario estese oltre l'ambito in cui sono legittime.
La conoscenza scientifica non è sufficiente o, se volete, è del tutto impropria a darci un concetto del reale nella sua unità e concretezza; la verità scientifica è una frammentaria e speciale verità, non la verità: ciò e soltanto ciò può dirsi.
L'anti-intellettualismo dà più tosto conto di quel che la scienza non spiega che di quel che la scienza spiega, fa più tosto un bilancio dei suoi debiti che dei suoi crediti, e abuserebbe dei diritti di giudice inappellabile della verità, che spettano alla filosofia, chiedendo al pensiero scientifico quel che esso non si propone di dare e negandogli ogni valore teoretico — sia pure relativo, parziale, limitato — sol perchè non raggiunge quell’assoluto valore, che è un ideale speculativo.
Certo il « fatto scientifico » è un'astrazione e quindi astratta ne è la conoscenza: si conoscono le relazioni e non le cose, i rapporti quantitativi e non le qualità, la successione e non la generazione. Certo ciò autorizza a concludere che la conoscenza scientifica consiste in una verità parziale, soggetta a una rielaborazione integra-
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tiva e correttiva. Non mi sembra però che vi siano argomenti fondati per concludere anche che la scienza non abbia alcun valore teoretico.
Vi sono astrazioni che separano quel che è uno, per opportunità di indagine, come ad esempio la struttura anatomica d’un organo e la sua funzione fisiologica. Pure per queste è lecito chiedersi se il carattere di utilità, per cui si fanno, è senz’altro trasferibile ai risultati del processo conoscitivo. La critica alla scienza spesso confonde la convenzionalità e la praticità di certi espedienti strumentali con la natura della conoscenza che si ottiene mercè essi, ma non con essi soltanto nè molto monodia essi. La lènte è strumento pratico, utile; ma la visione che con esso si ottiene è Conoscenza. Molti vocaboli sono convenzioni e pure esprimono uh pensieri?;
Vi sono' d’altra parte astrazioni razionalmente legittime, che distinguono processi universali da .fenomeni particolari o aspetti distinti d’un fatto che la comune esperienza confonde o lati indifferenti e generici del reale, come ad esempio le relazioni quantitative e le forme geometriche. Per negare ad esse ogni valore conoscitivo bisognerebbe aver dimostrato che esiste un’antitesi tra astrazione e verità, che il processo astrattivo è un momento proprio ed esclusivo dello spirito pratico. Ma la dimostrazione manca, sebbene non manchino asserzioni autorevoli e ferme.
In conclusione: non ò commentato i procedimenti naturalistici con lo scopo di negare la validità teoretica dei loro risultati in rapporto ai fenomeni naturali, per poi negarla con maggiore ragione in rapporto all'attività dello spirito. Non sfrutto, per interesse d’alcuna tesi, le conclusioni della critica anti-intellettualistica, di cui riconosco insieme con i validi risultati le ingiustificate amplificazioni e le deficienze. Al contrario ritengo che la scienza è valida nella sua sfera, perchè interpreta con procedimenti rigorosi e perfettamente adeguati l’aspetto del reale, che essa à per obbietto.
Il mio intento era di mettere in luce le condizioni, che giustificano, determinano e limitano la potenza esplicativa del procedimento scientifico di riduzione, in quel campo dove esso à ottenuto piò stabili successi. In confronto a tali condizioni, quando avremo illustrato i caratteri dell’attività spirituale, potremo saggiare la validità delle riduzioni psicologiche e sapere se e che cosa la psicologia può spiegare.
(La fine al prossimo numero}.
Antonio Renda.
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LA POESIA
Sul fianco delle Alpi, i pascoli immensi; la roccia nuda se n’è rivestita come d’un mantello: il mantello lieve e grazioso buttato dalla poesia sugli spigoli angolosi della realtà. Per gli spiriti detti positivi, questa gloria diafana è vanità: il massiccio solo è reale; essi ridono della fantasia, chiamano follia il sogno di bellezza, sono sordi alla musica che vibra attraverso gli esseri.
Pei- le praterie soleggiate ove sorride la primavera, essi vanno come vanno i bovi pesanti, a capo chino, cercando il fieno. Tutto ciò che verdeggia, rosseggia, azzurreggia, tutto l’arcobaleno dei colori vivi che brilla nelle corolle, per essi è foraggio. Essi calpestano, pascolano, ruminano. Se vi provaste a parlar loro di miele; direbbero ch’è un mito, una illusione, magari un’impostura. Lo sciame diligente delle api, sa, invece, dove trovarlo e raccoglierlo; ve n’è dovunque; occorre soltanto essere allenati per prenderlo.
Miele sottile della poesia, l’anima degli nomini si nutre di te. Senza di te altro non saremmo che un nero branco di ruminanti col capo curvo verso la terra. Da tempo, sul Monte della Tentazione, Cristo ha detto: « L’uomo non vive di pane solamente ». Ei conosceva troppo bene gli uomini, la loro fatica per procacciarsi il pane, il carattere necessario e sacro di tale cibo, figlio del sole di Dio c dell’ostinata fatica sui solchi, rispettava troppo il pane per disprezzarlo; tanto sapeva ciò
ch'esso vale ch'egli ne ha fatto un simbolo eterno di tenerezza e di fraternità. Perchè dunque ha egli detto con una così profonda certezza: Vuomo non vive di pane solamente? Ei sapeva che la categoria del necessario oltrepassa quella dell’utile immediato. Assieme al pane del corpo, ed anche a quello dello spirito, occorre quel Sualcosa di delicato, d’imponderabile, di ¡vino senza il quale il pasto migliore è monotono, la scienza diventa uno scheletro, il dogma una pianta disseccata.
Ognuno, testimone di effetti ch’ei subiva senza penetrarne le cause, si è chiesto, forse, davanti a certi aspetti dottorati delle cose; perchè il loro incanto era svanito. Esiste un lavoro senza entusiasmo, un piacere sprovvisto di sorriso, una religione priva d'anima, una virtù senza grazia, una gioventù senza ingenuità, un amore senza mistero, un’arte senza irradiamento... perchè? È svaporato il loro profumo e questo profumo è la poesia intima, mescolata —- a guisa di principio vivificante — àgli atti, ai sentimenti, a tutto l’essere e a tutta l'esistenza.
Ciò ch’essa sia, non lo sapremo mai completamente. Le nostre dita sono troppo massicce per le sue ali delicate: afferrarla vuol dire avvizzirla; basta però ch’essa manchi in qualche punto, perchè si senta che manca l’essenziale.
A me pare che ogni giorno ne facciamo la desolante constatazione. Il realismo non merita il suo nome. Siamo poveri il-
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Itisi, auando pensiamo che sia lui a metterci in mano la maggior copia dei beni positivi. II realismo dichiara inesistente ciò che non pud prendersi colle mani, afferrarsi coi denti, consumarsi o portarsi addosso; il realismo ammette ancora, come facente parte della categoria del reale, ciò che può contenersi in un ragionamento. stabilirsi con una dimostrazione, sostenersi sopra una prova come una statua sul suo piedistallo. Tutto ciò che non è una merce, nè un valore quotato, nè un fatto concreto dimostrabile, è nulla. L’utilitarismo e la logica: ecco i due controllori ai quali «gli affida la cassa, onde esser ben certo di non mai incassare dei non valori. Agli occhi loro che diventa la Ìioesia? Essi la considerano una inuti-ità.
Ma l’umanità assomiglia alle bambine che hanno bisogno d’una bambola e vanno pazze per le storielline. Giammai si avrà ragione di ciò che alcuni chiamano la sua ■ infantilità », perchè in essa l’umanità trova il correttivo indispensabile della nostra miope saviezza.
Il suo istinto profondo, il suo amore della vita la spingono verso le fonti ove s’attingono la gioia, la forza, la speranza. Ciò che chiamate ■ inutilità » è un po' come l’aria che l’umanità respira. Per molto tempo non si è pensato all’esistenza c alla funzione dell’aria. Ciò non è nè abbastanza visibile nè abbastanza compatto, per cadere sotto ai sensi. A dire il vero non ci si potrebbe nutrire d’aria e di sole. Ma quando manca l'aria ci si rende conto che manca la cosa principale. Sopprimete la poesia dalla vita degli uomini, vi troverete tosto in presenza di fenomeni d’atonia, d’anemia, d’intossicazione, d’inanizione. La poesia conferisce il suo vero valore a tutto ciò che esiste. Toglietela, rimane una corda che non risuona. Il realismo compie questo miracolo; egli fa intiSichire le realtà. Applicando il suo regime, non solo ci cadono l’ali, ma i nostri colori svaniscono, i nostri canti tacciono, il nostro calore interiore cala, i nostri muscoli si struggono. Tutto l’albero della vita presenta fenomeni morbosi; l’oidio appare sulle foglie, la pcronospcra mangia le radici: il realismo è la mutilazione sistematica dell’umanità. Dopo aver abitato nelle sue pianure, incominciamo ad accorgerci che la montagna ha del buono e che s'impone un cambiamento d’aria.
Della poesia ce ne vorrà sempre, e ci vorrà sempre della bellezza. Perchè dunque abbiamo degli occhi e delle orecchie? La lezione dell’universo non ci dice nulla? Se l’Universo altro non fosse se non quella macchina che il realismo beota affetta di vedervi esclusivamente, perché dunque il fiore sarebbe bello? Perchè le stelle d’oro costellerebbero la notte? Perchè i riccioli sulle teste dei bimbi? Perchè tanta grazia diffusa in tutto il creato? Perchè quelle fantasticherie di luce prodotte dall’alba e dal tramonto? Perchè il dolore stesso sarebbe velato di grazia e la morte rivestita di maestà? La poesia! ma tutto il dramma ineffabile i cui attori sono gli esseri ed il cui scenario è il mondo, è uno smisurato poema. Non v’è goccia tremolante nei raggi mattutini che non vi abbia il suo posto, non v’è grido solitario delia foresta che non vi sia /iscritto al punto Siusto. I grilli cantano nell’erba, le allo-ole nelle nubi, gli alberi sulla montagna, le onde sulla rena, le foglie morte nella tempesta, il passato nelle nostre memorie e la speranza nei nostri cuori.
Fabbro, se non metti della poesia nella officina, essa non sarà che un antro nero; ma se ve ne metti, la tua incudine canterà sotto al martello e il tuo fuoco irradierà dei chiarori d’alba.
Maestro, se non metti della poesia nella tua scuola, essa non sarà che una prigione per i piccini, mentre sarai, tu, il pedante noioso, tagliatore d’ali e strozzatore di sogni.
Contadino, se non metti della poesia nei solchi, essi diventeranno infecondi, cesserai di amare la terra ed essa morrà del tuo abbandono.
Gioventù, se non metti della poesia, nella tua giovinezza, il tuo amore sarà simile ad un misero uccello che strascica nella polvere le sue ali infrante...
Della poesia ce ne vorrà sempre e dovunque, nella gioia come nel dolore, presso il focolare domestico c nella vita pubblica, nell’abbigliamento della persona e nello arredamento della casa, nel lavoro e nello svago, nei costumi, nelle dottrine e nelle istituzioni, in tutti i nostri pensieri e in tutte le nostre opere.
Non chiudiamo le Sue porte d’oro, perchè gli è per esse che abbiamo la vista aperta sui liberi spazi e gli è per esse ancora, che arrivano sino a noi il soffio puro e la riscaldante luminosità dell’infinito.
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IL SACRIFICIO
Una delle lezioni più impressionanti date alla logica umana dalla marcia formidabile delie cose, consiste nel fatto che il mondo si sostiene per mezzo di forze che ci appaiono contraddittorie. Non si tratta qui di quella incoerenza che cosi spesso ci affligge nella vita degli uomini. Le contraddizioni a cui alludo, sono tessute a tal punto nell'essenza medesima delle cose, che da esse ci viene l’oscuro presentimento d’una coesione supcriore.
I fili che ci appaiono separati e staccati gli uni dagli altri, a tal punto che sembrano correre in direzioni opposte, devono congiungersi più in alto, al disopra della regione dominata dai nostri sguardi. Ciò costituisce una umiliazione pei nostri mezzi di comprensione e per le nostre capacità creatricixJVfa da questo lieve inconveniente deriva un vantaggio immenso. Sapere che il mondo oltrepassa il concetto che di esso possiamo farci, lascia una immensa breccia azzurra aperta per la speranza. All’infuori dei nostri sistemi e delle nostre idee, rimangono, per la realizzazione dei nostri destini, inesauribili serbatoi di possibilità nuove. La ricchezza prodigiosa dell’essere oltrepassa i calcoli, straripa dai limiti ove muovonsi i nostri passi. Non v’è dunque motivo per disperare. Intanto, guardiamoci dall’escludere dal nostro campo le verità contraddittorie. Ciò sarebbe un voler costruire orologi dai quali sarebbe escluso o la molla o il regolatore, e. basare la meccanica universale sulla forza centrifuga o sulla forza, centripeta isolate l’una dall'altra.
Una di queste contraddizioni, che taglia nel vivo delle nostre carni e delle nostre midólla, è quella che passa tra l’amore di sè, legittimo, indispensabile, e il sacrificio necessario.
L’uomo è per se stesso il centro di tutto. S’ei nulla vale ai Suoi propri occhi, la base stessa di tutti gli altri valori scompare per lui. Amare se stesso, avere stima di se stesso, affermarsi, osare essere e attaccarsi alla vita con tutto il bene ch’essa comporta: ciò non solo è legittimo, ma è doveroso. Esiste un buon egoismo. Tutti i nostri sentimenti per gli altri vi si riferiscono. Il principio di solidarietà espresso
nell’antica legge, riassunto di tutte le relazioni umane, si formola in questo modo: Amerai il tuo simile come le stesso. Dunque l’amore di sè è il punto di partenza e la misura dell'amor del prossimo.
Chi non ama sè non può amare il prossimo; chi non capisce sè non può capire il prossimo; chi non rispetta sè non può rispettare il prossimo; chi non crede in sè non può credere nel prossimo. Son questi fatti d’esperienza, sono pietre angolari che sostengono l’edificio delle relazioni sociali. Una immensa serie di fenomeni inerenti al nostro sviluppo li giustificano e servon loro di commentario.
Osservate lo sviluppo umano. Dal germe primo dal quale sboccia una creatura umana, attraverso tutta la meravigliosa ascensione verso il suo fiorire, ogni passo tende verso la realizzazione della personalità. Faticosamente, con mille trovate del genio creatore, s'organizza e si costituisce quella maraviglia di centralizzazione ch’è un uomo. Una volta costituito, maturo come un frutto al quale hanno collaborato il cielo e la terra, la luce e l'acqua e tutte le forze occulte del suolo e degli astri, eccolo se stesso ed avvinto al suo io per mezzo della gioia e per mezzo del dolore. È stato trattato ed è organizzato come s’ei fosse il centro di tutto. Per forza di cose ei nulla può conoscere, misurare, odiare o ricercare fuorché in rapporto a se stesso.
Ma ecco la contraddizione, dolorosa e feconda. Se, spingendo agli estremi la logica, ei tutto vuole ricondurre a se stesso, tutto far contribuire alla sua felicità esclusiva, ei si distrugge e si perde. Egli è simile al frutto che mangerebbe se stesso, come una luce che non vorrebbe irradiare sotto pretesto che raggiare significa consumarsi. Il Cristo ha detto ed ha vissuto questa parola, e tutti coloro che hanno vissuto della vita profonda l’hanno sperimentata: Chi ama la propria vita la perderà; chi la dona la salverà. Questa verità forma un’aureola intorno al volto di tutti i martiri, noti ed ignoti, di tutti coloro che, in piccolo o in grande, sonosi offerti alla umanità, per amore, affinchè un po’ più di felicità, di giustizia, di libertà, regni
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sui loro sepolcri. Diventare se stessi, crescere in forza, costituirsi un carattere fermo, fiorire e poi offrirsi, ecco la verità contraddittoria la cui dolorosa assimilazione costituisce il più grande di tutti i problemi. Crescere pei servire, diventare una persona per raggiungere poi la regione dove si diventa impersonali; avere, per iscopo, durante tutta una lunga fase del proprio sviluppo, di realizzare la propria fisionomia individuale e la propria originalità; e poi fondere tutto ciò nell’armonia gcneiale come il suono d’una voce si fonde in un coro bene unificato, quale destino contraddittorio e sconvolgente!
Eppure bisogna passare di lì. Il concetto di sacrificio è un concetto vitale. L’umanità è debitrice di tutto quanto possiede a coloro che hanno saputo darsi. Dare c darsi, nella luce, nella buona volontà, nella gioia di poter darsi, ecco il fondo del sacrificio. In se stesso, del resto, è anch’esso contraddittorio. Rinunziamento, devozione, abnegazione dolorosa, annientamento sotto uno dei suoi aspetti, esso è conquista, espansione, allargamento sotto l'altro suo aspetto È una fame che nutrisce, una sete che. crea delle fonti; le sue ferite procurano la guarigione, quella notte partorisce il giorno, in quella morte germoglia la vita.
Il sacrificio non esiste soltanto in grande, allorquando l’uomo prende se stesso come un covone e si butta sotto la macina, perchè ne scaturisca del pane per l’avvenire. Il sacrificio esiste con tutta la sua bellezza e tutta la sua forza creatrice in ogni particolare ch’osso ispira. Ciò eh’esso non ispira non contribuisce* al bene generale. Non v’è possibilità d’inganno in questo campo. Per creare delia vita si
dev’essere viventi. Le esistenze esclusivamente personali sono dei pesi morti nella bilancia ove pesansi le realtà; sono colpite d’impotenza e di sterilità, in quanto concerne il vero progresso dei beni di cui tutti approfittano; sono parassitario. Non vi è alcun artificio per cui si potrà eliminare dall’evoluzióne umana l’insieme delle virtù, a cui ci riferiamo parlando di devozione, di spirito di sacrificio. ’ Immaginarsi che certe combinazioni sociali o certe trovate scientifiche potranno risparmiare ai migliori d’infra noi di bere quel calice, è un avviarsi per la cattiva strada e mormorare al soldato di rimanere sotto la tenda allorquando la tromba del dovere suona attraverso il campo.
Il sacrificio ‘è la forza del mondo. Bisógna insegnarlo a tutte le generazioni. Tutte hanno vissuto di esso, anche quelle che lo dimenticano. Che vale un uomo? Vale quanto offre di se stesso. Ei perde in valore esattamente nella misura in cui vuole serbarsi per se stesso. Un'ora viene sempre 'in cui. se deve valere il conto d'esser venuto, bisogna esser pronti a pagare di propria persona.
In che modo colmare i fossati nei quali esita e s’arresta la marcia del Progresso?
— Buttandovici déntro, onde far dei ponti ai vostri successori.
In che modo far vivere la libertà, la giustizia, la verità?
—- Dandosi per esse.
In che modo far gloriosa la patria e forte l'umanità?
— Accettando, per devozione verso di esse, d'esserne temporaneamente stralciato; solo e sovrano modo d'incorporar-visi per sempre nella sfera dell’incorruttibile.
GOVERNARE
Una vecchia discussione, mai esaurita, è quella che si riferisce alla migliore forma di governo. Viviamo in un paese in cui l’acredine degli antagonismi sembra del continuo rinnovarsi su tale irritante argomento. Eppure nessuna discussióne è di questa più vana; di tutte le inutili chiacchiere, quella è una delle più malefiche. Nessuna fa perdere più tempo; nessuna trasforma in passioni più sterili una maggior somma di buona volontà.
Il governo migliore è quello che produce un massimo d’ordine con un minimo di costrizione. È quello che agisce di più facendosi meno sentire; è latente, ma efficace. Latente non è sinonimo di occulto. Agire in piena luce è una delie qualità prime d’un buon governo.
Le leggi fondamentali d’una società umana saranno sempre le stesse. Nessuna forma di governo può esser buona senza di esse; nessuna merita la nostra disapprovazione
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o il nostro disprezzo se le rispetta. Di tutti i beni essenziali che un governo deve mantenere, il credito tanto materiale quanto spirituale è la pietra angolare.
11 credito riposa sulla mutua fiducia e sul reciproco rispetto; una volta assicurate tali cose, tutto il resto ne segue naturalmente. I cittadini possono fare assegnamento gli uni sopra gli altri. Togliete la fiducia e il rispètto, agite o lasciate agire in un senso che sia loro contrario: immediatamente il credito rimane scosso dovunque; nessuno può far più assegnamento sopra alcuno. Il credito può fiorire e deperire sotto le forme più varie di governo, e magari le più opposte. È puerile pensare che la forma di governo possa da sola compromettere o garantire i beni sociali essenziali. La pròva si manifesta ogni giorno sotto gli occhi nostri: la pratica di tale prova è in opposizione colla teoria di tutti i sistemi. I campioni di ciascuno dei sistemi concorrenti non muteranno per questo la loro teoria; ma i fatti non potranno far loro alcuna concessione.
È da supporsi che tutto quanto diranno a questo proposito gli uomini non ipnotizzati dalle apparenze, resterà lettera morta per coloro i quali considerano le istituzioni esterne come generatrici di vizio o di virtù. Si continuerà, come nel passato, a far dipendere tutte le irregolarità compiuto sotto un dato regime alla forma di governo in vigore in quel periodo di tempo. Nulla sarà più-facile che di destare, presso numerose categorie di persone, la convinzione che basterebbe cambiar governo per avere immediatamente un cambiamento in meglio, su tutta la linea.
Può dirsi esattamente la stessa cosa di tutti i quadri in cui si racchiude la vita. Le istituzioni sociali, le quali, certo, affondano le radici più in basso di quel che non succeda per le forme politiche, non hanno, però, virtù intrinsecche più ch’esse non abbiano. Nonostante tutto il bene che si dice di parecchie d'infra loro, assicurandoci che la fine delle nostre miserie saluterebbe il loro avvento, conviene fare qualche riserva.
Le istituzioni più perfette in se stesse non saprebbero dispensare gli uomini da certe qualità, nè rimediare alla loro assenza. Le assisi prime di ogni governo stanno nel governo di se stessi; il miglior regime sociale prende radice nella coscienza dei riguardi che ci dobbiamo gli uni agli altri. Può dunque dirsi, senza tema di sbagliarsi.
che non ci vorranno forse sempre delle repubbliche, delle monarchie o delle aristocrazie; e neppure che occorra necessariamente un dato regime sociale od economico per assicurare la nostia felicità. Ma quello che occorrerà sempre, qualunque sia il regime, sono uomini che pratichino il governo di se stessi e il controllo dei propri atti. Governanti e governati, sotto qualsiasi regime, sono squalificati dalle medesime debolezze. Potete stimare che, governando col sistema monarchico, si possa seguire un metodo diverso che governando coi sistema repubblicano. Le medesime pratiche non sono confacenti in ugual modo ai due sistemi. Ma, indipendentemente dal « modo », potete voi negare che le medesime qualità di tatto, di vigilanza, di equità, di conoscenza degli affari, non siano esigibili in ambedue i casi?
Un uomo dalla mano ferma riuscirà forse meglio in una monarchia che non in una repubblica . Ma secondo lo spirito eh’ci porrà nella sua fermezza, questa gli porterà fortuna o disgrazia. Se la sua fermezza non trova la sua giustificazione che in se stessa, se tale fermezza è al servizio dell’arbitrio e si scatena alla cieca, sarà ben presto screditata.
Un uomo di governo in una repubblica riuscirà meglio con una certa elasticità, con una preoccupazione più costante della pubblica opinione. Ma se di questa preoccupato, ei non serba il sentimento dell'autorità legittima, giustificata ed imposta dall’interesse di tutti; se questo sentimento nor gli conferisce il vigore necessario per tendere al suo scopo ed agire, sia egli o non sia immediatamente compreso ed approvato, egli sfibrerà nelle sue mani l’autorità repubblicana.
Il senso dei poteri pubblici, della responsabilità ch’ossi implicano, dell'ascendente ch’ossi conferiscono, è dunque l’essenziale così nel metodo forte più apprezzato in monarchia come nel metodo elastico più apprezzato in repubblica. In nessun caso chi detiene il potere può conservarlo benefico se v’introduce il suo capriccio o se lo pone al servizio dei suoi interessi personali. Un re pecca contro il potere regio pei medesimi vizi che fanno peccare un presidente o un ministro di repubblica conto il potere repubblicano.
Ogni uomo che sale al potere eserciterà dunque necessariamente questo potere colle qualità e coi vizi a lui propri; egli farà
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valere o svaluterà il potere per mezzo dello spirito col quale se ne servirà.
Se le conoscenze tecniche sono necessarie, se le capacità intellettuali hanno il loro giusto valore, se tutte le forme della previdenza, della saggezza, della ponderazione sono fattori operanti nello spirito d’un uomo di Stato, indipendentemente dalle forme costituzionali, esiste un fattore più importante ancora di quelli: è la padronanza di sè, la disciplina personale.
Nessuna scelta di sovrano, anche del migliore, nessun favore della folla meglio ispirata potrà mai dispensare un uomo salito al potere dal governare se stesso innanzi tutto. Giammài si voterà una costituzione democratica, giammai si concederà una charta, nelle quali, per grazia di Stato, gli uomini al potere siano sbarazzati da questa preoccupazione prima. È fatalità che simili fatti siano tanto misconosciuti quanto sono evidenti e che, sotto la loro apparenza di verità banali, si nasconda e sfugga ai nostri sguardi la loro eterna novità.
Se, dopo avere considerato coloro che maneggiano il potere e detengono l’autorità, noi consideriamo la massa del popolo, si imporranno a noi le medesime riflessioni.
1*. chiaro che se i guardiani non guardano se stessi, se le guide non sanno diriger se stesse, una nazione è ad un tempo mal guardata e mal guidata. Ma credete Voi che bastino i buoni quadri? Già in un esercito, dove i buoni quadri hanno una influenza preponderante, non si può fare astrazione dalla qualità dei soldati. L’elemento militare individuale non ha desso il suo valore? Quale genio strategico potrebbe esser sicuro di riuscire con qualsiasi genere di truppe? Perch’egli potesse considerare le cose con simile indifferenza, occorrerebbe ch’egli fosse persuaso che le qualità essenziali si ritrovano ugualmente in ogni individuo umano, qualunque egli sia, e sono anche perfettibili mediante un buon comandamento.
D'altronde, una simile opinione non modificherebbe la nostra tesi. Affermare, che un buon capo può ritrovare in ogni uomo le medesime qualità indispensabili, significa trascurare l’origine, là cultura del soldato, non le sue qualità fondamentali. I migliori quadri non possono creare
un esercito con dei non valori. Che la materia prima sia rude, difficile a sbozzarsi, può darsi; ma occorre della materia prima ed occorre eh’essa sia perfettibile.
La medesima cosa è vera per i quadri sociali e per gli elementi inquadrati. Controllare, sorvegliare, condurre degli uomini i quali non si controllano nè si sorvegliano nè si guidano da se stessi, non è cosa possibile. Non esiste un controllo efficace per chi non controlla se stesso. Considerevole è il numero d’ingegnosi apparecchi inventati per rimediare alla negligenza o all’errore umano. Il meccanismo controlla l’essere vivente. Tra il vetturino e il suo cliente s’introduce un meccanismo, il tassametro, per evitare ogni discussione. La guardia notturna controlla l’opificio in certe date ore; egli stesso è controllato dall’orologio dov’egli segna i vari suoi passaggi. Il corridore può controllare la sua marcia col podometro. Ma non si troverà mai un meccanismo per sostituire la coscienza. Nulla può far le veci della coscienza in coloro che non la posseggono. Vedo bene tutte le combinazioni colle quali si cercano dei surrogati allo scrupolo assente. Mai vi sono stati tanti controllori, ispettori, scrutatori, verificatori che da quando l'onestà c la dirittura passano per essere dei ferravecchi. Nulla di più tristemente umoristico di quei tentativi di far tenere in piedi mediante prodigi esterni ciò che non ha più alcun sostegno all’interno. In questo modo si galvanizzano dei cadaveri, si piantano degli animali impagliati in atteggiamenti risoluti, si sostituisce un fiore naturale con una pianta artificiale.
A seconda del momento e dello stato d’animo, proviamo, dinnanzi a tutto quel vuoto morale, un disgusto invincibile o una immensa nostalgia. Ma in ambedue questi sentimenti si manifesta la medesima convinzione: una questione di vita o di morte per la società è che il governo di se stesso venga insegnato c praticato sulla più vasta scala possibile. Senza quella molla essenziale di ogni decisione, di ogni fermezza, di ogni direzione, non v’è più consistenza di alcuna specie. Le istituzioni pubbliche disorientate e le volontà individuali sconvolte, «i riducono a miseri rottami.
Carlo Wagner.
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ICVMENTI
LA CRISI SPIRITUALE DI GIOVANNI PAPINI
on, per indiscrezione giornalistica, ma per quel sincero bisogno che accomuna idealmente quanti vivono le tragedie spirituali — le uniche che siano veramente tragedie — poiché non ci è concesso informare direttamente i lettori di quella crisi spirituale di Giovanni Papini, che altri chiamerà beotamente conversione, ci piace desumere da i giornali quotidiani quanto si sa per confessione dello stesso scrittore di questo momento tragico che egli attraversa.
Dal Resto del Carlino dell'8 corrente rileviamo questa parte della lettera pubblicata sul Tempo t la quale ci pare più interessante:
« Quello che io pensi del Cristianesimo o del Cattolicismó io lo dissi in due articoli del Carlino dell'anno passato che tu hai letto di certo. Dopo quel tempo ho seguitato a pensare, a studiare, a soffrire e di questi ulteriori sviluppi della mia crisi spirituale darò notizia, appena potrò, colla mia penna, senza bisogno d’interposte persone, poiché ho la fortuna di conoscere alla meglio, le parole della mia lingua c di usarle.
« Di vero c’è soltanto ch’io sto scrivendo, e sono agli ultimi capitoli, un libro su Cristo — che avrà cinquecento pagine o poco più e non mille — e ch’io son tornato, dopo l’esperienze del caos, a Cristo e che spero di non separarmene più. Io non ho bisogno di fare adesione particolàre alla Chiesa cattolica perchè in questa Chiesa fui battezzato e mi sono sposato ed allevo le mie figliuole. Ho soltanto il dovere, come cristiano, di migliorare la mia anima, che ne ha grandissimo''bisogno, e di confermare colla vita quotidiana le mie crescenti certezze. Ma questo è affar mio, privato, personale, intimo e non credo che abbiano il diritto di mettervi il naso o la bocca i novellisti e i menanti anonimi. So, d’altra parte, che vi sono stati cattolici, veri e grandi cattolici, i quali hanno scritto e combattuto per la loro fede senza sentir mai-il bisogno di sottoporre i loro libri alle Congregazioni romane. Tu che mi conosci bene hài indovinato quale sarebbe la mia strada.
« Ma ti ringrazio specialmente di credere nella mia sincerità. È un dono pericoloso, ma che mi è caro su tutti gli altri e nessun mutamento potrà farmelo perdere ».
La protesta contro la leggenda che il Papini avrebbe sottoposto le sue opere alla Congregazione dell’indice è stata fatta anche più violentemente a R. Mazzuc-coni che andò a trovarlo a Bulciano. Eccone le precise parole quale le riporta la Nazione del io corr.:
« — So che un giornale ha detto che io intendo sottoporre la mia opera alla Congregazione dell’indice; smentisco recisamente che ciò sia vero; molti grandi cattolici
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hanno scritto senza sentire il bisogno di chiedere V imprimatur all'autorità ecclesiastica e serbando la massima libertà di giudizio. Basti ricordare Manzoni, Tommaseo e Fogazzaro da noi e Bloy in Francia ».
Còme si vede da tutto il Papini vuole esser giudicato unicamente, dalla sua opera che è ormai compiuta e che sarà edita dal Vallecchi. Noi rispettiamo il silenzio dell'illustre scrittore ed attendiamo anelanti di conoscerne il pensiero ed il sentimento quali l’orientamento verso il Cristo glie l'ànno dettati nella sua nuova opera, di cui parleremo non appena sarà pubblicata. Intanto ecco quello che su di essa il Papini stesso à detto al Mazzucconi, secondo ciò che questi à riferito nella Nazione:
— Io sono stato mosso a scrivere questo libro da due considerazioni: l’una, suggerita dalla mia coscienza d’artista, era quella di raccogliermi in un’opera di lunga lena e di vasto disegno organico; l’altra, suggerita dalla mia coscienza d’uomo, era quella di riesaminare i valori dello spirito, facendo esperienza del fatto della guerra.
« L'idea del libro nacque, si può dire, d'improvviso e la mia crisi che era nel suo primo svolgimento, quando decisi di scrivere questa Storia di Cristo, si è maturata poi e compiuta nel fornimento dell’opera, la quale prima che a convincere altri, ha servito a convincere me medesimo, tanto che io l’ho vissuta con un sì profondo godimento, che basterebbe da solo a compensarmi della grande fatica.
« Ma prima di giungere a Cristo, sbigottito dalla immane tragedia di popoli, che si era abbattuta sull’umanità colla violenza cieca d’un flagello e nessuno vedeva, mentre durava, come e quando potesse finire, io mi sprofondai nello studio della storia; e guerre e trasmigrazioni di popoli, e fiorire e declinare di civiltà, e religioni, ordinamenti e costumi che hanno mutato di tempo in tempo le condizioni, il carattere c lo spirito delle genti, passarono sotto la mia paziente e minuta analisi e ne feci materia di meditazione raccolta.
« Infine, accertato che tutti i tentativi fatti dagli uomini, per instaurare una effimera felicità sulla terra, erano pietosamente falliti e non erano riusciti che a seminare lacrime e sangue, mi parve che l'unico scampo alla nostra miseria l’offrisse ancora la parola inascoltata del Cristo, e mi avvicinai agli Evangeli col cuore gonfio di speranza e d’amore.
« Nè la speranza fu delusa, chè negli Evangeli io trovai la certezza e la pace. Ma non volli che questo bene fosse riserbato a me solo. Chi gusta la gioia d’avvicinarsi a Gesù, sente subito il bisogno incoercibile di parteciparne agli altri, e mi accinsi a scrivere questo libro, che è ormai presso alla fine, e che se potrà essere utile ad una sola anima, non avrà certo fallito al suo scopo.
« Mi piace di dichiarare subito che io non ho inteso di fare, con questa mia Storia di Cristo, un'opera di filologia e di critica; lavori di tal genere ve ne sono fin troppi» e poi ciò non sarebbe stato consono alle mie intenzioni pratiche di avvicinare le masse al Vangelo, che è indubbiamente il libro più diffuso e più letto, ma meno capito e penetrato, poiché è accaduto per esso come per le preghiere che, a furia d’essere ripetute, restano dei meri scheletri formali da cui è fuggita l’anima.
« E per raggiungere meglio il mio scopo, ho creduto giovasse lavorare con coscienziosa disciplina d’arte, non per un vano lenocinio esteriore, ma perchè le cose scritte bene, sono lette più volentieri e durano di più. Credo anzi che nella freddezza'scolastica con cui sono scritti molti dei libri ufficiali della Chiesa, sia da ricercarsi la ragione del progressivo allontanamento delle masse dall’idea religiosa.
« Confesso che nel mio lavoro mi son valso di pochi libri, oltre al Vangelo che ho accettato in blocco, poiché penso che fare una incrinatura nel Vangelo, sia come ridurlo in frantumi. Le molte consultazioni non avrebbero potuto giovarmi gran che; Cristo è tutto nel testo dei quattro Evangelisti, ed io ho seguito fedélmente il testo con libertà d’interpretazione. Eppoi, ho inteso fare una cosa assolutamente diversa dalle vite di Gesù scritte sin qui; non esercitazione letteraria, non fredda anatomia scientifica, non' pedestre rifacimento da seminario, ma strumento vivo e pronto di bene fra gli uomini per farli pensosi dei problemi dell’anima, per convincerli che v’è una necessità ora poco sentita e che pure trascende tutte le altre: quella di ripiegarsi in noi stessi e di curare la nostra perfezione interiore». gg. <>
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NOTE E DOCUMENTI
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LA CHIESA ORTODOSSA IN RUSSIA SECONDO BIELINSKII
Sempre per offrire più estesamente ai lettori il mezzo di formarsi un’idea positiva delle condizioni religiose e politiche della Russia prospettandone anche storicamente lo stato delle cose che può lumeggiarci la situazione presente e quella del recentissimo passato, pubblichiamo, desumendolo da Russia, rivista di letteratura, storia e filosofia disetta da E. Lo Gatto, della quale diciamo più particolarmente nelle Letture ed appunti, una parte della lettera di Bielinskii a Gogol. Essa è datata col 15 luglio 1847, ma è la prima volta che appare in italiano: solamente nel 1904 venne stampata integralmente in Russia.
La lettera, celebre negli annali della redenzione russa non solo come documento, ma come programma della Russia progressista, perchè faceva andare in Siberia chi la leggeva ad alta voce (es. Dostoievskii), fu provocata dal volume di « Brani scelti dall’epistolario con gli amici» con cui Gogol facendo ammenda di tutto il suo passato di luce, diffuso con le sue opere artistiche, ne rinnegava i principi e proclamava quelli che allora gli si erano, secondo lui, rivelati: la religione e l’ordine statale, l’antico ordine governativo — giustificava perfino le crudeltà della servitù della gleba! e la religione ecclesiastica.
Bielinskii, amico di Gogol, critico fine e giornalista di valore, gli rispose con la lettera tradotta dal Lo Gatto e di cui noi riportiamo qui la parte che riguarda il movimento religioso in Russia sotto Nicola I. li*,'. •. - ‘ ‘ ’ • •
•fcal i .e --« E un tale libro poteva essere il risultato di un grave processo interiore, di un alto rasserenamento d’animo! Non è possibile! O voi siete malato e dovete affrettarvi a curarvi, o... non oso terminare il mio pensiero. Il predicatore dello knut, l'apostolo della ignoranza, il difensore dell'oscurantismo e della credenza nelle tenebre del diavolo, il panegirista dei costumi tartarici — che cosa fate! guardatevi sotto i piedi, voi siete sull’orlo dell'abisso!... Che una tale tesi voi l'appoggiate sulla Chiesa ortodossa questo lo capisco ancora: essa è stata sempre il punto d'appoggio dello knut e la compiacente serva del dispotismo: ma perchè avete mescolato qui Cristo? Che cosa trovate di comune tra Cristo e una qualunque Chiesa e soprattutto tra lui e la Chiesa ortodossa? Egli per il primo annunciò agli uomini la dottrina della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità e con il martirio suggellò, riaffermò la verità del suo insegnamento. Ed essa è stata la salvezza degli uomini soltanto fino a quando non fu organizzata in Chiesa e non prese come sua base il principio dell'ortodossia. La Chiesa invece apparve come gerarchia, cioè propagatrice d’ineguaglianza, adulatrice del potere, nemica e pcrsecutrice della fratellanza fra gli uomini, cosa che ha continuato ad essere fino ad oggi.
• Ma il senso della parola di Cristo è stato svelato dal movimento filosofico del secolo passato. Ed ecco perchè un qualunque Voltaire che per mezzo dello scherno spense in Europa i bracieri del fanatismo e dell’ignoranza, era certamente figlio di Cristo, carne della sua carne e ossa delle sue ossa, più che tutti i vostri papi, i vostri arcipreti, metropoliti e patriarchi! È mai possibile che voi non lo sappiate! Questa non è una novità neppure per uno scolaretto di ginnasio... E per ciò, è mai possibile che voi, l’autore del « Revisore » e di « Anime morte », è mai possibile che voi sinceramente, dal fondo dell'anima abbiate cantato l’inno all’odioso clero russo, sollevandolo ad un grado incommensurabilmente superiore a quello del clero cattolico? Supponiamo, che voi non sappiate, che il secondo è stato una volta qualche cosa mentre il primo non è mai stato niente, oltre che il servo della potenza temporale; è mai possibile che voi in realtà non sappiate, che il nostro clero è disprezzato dalla società russa e dal popolo russo? Di chi
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il popolo russo racconta storielle sconce? Del prete, di sua moglie, della figlia del prete e dell’operaio del prete. Non è il prete in Russia per tutti i Russi il rappresentante delia voracità dell'avarizia, della servilità, dell’impudenza? Fingete (di non sapere tutto ciò? Strano! Secondo voi il popolo russo è il popolo più religioso del mondo: menzogna! La base della religiosità è il pietismo, la venerazione, il timore di Dio. Ma il russo pronuncia il nome di Dio grattandosi in qualche posto. Egli dice dell’icona: se è buona — bisogna pregare, se non è buona — servirà per coprire le marmitte.
■ Guardate più attentamente e vedrete quale è la natura di un popolo profondamente ateo. In lui c’è ancora molta superstizione, ma non c’è traccia di religiosità. La superstizione passa con i progressi della civiltà; ma la religiosità spesso vive d’accordo anche con essi; un esempio vivo è dato dalla Francia, dove anche adesso ci sono molti cattolici sinceri fra le persone colte ed istruite e dove molti, pure essendosi separati da Cristo, tenacemente si attaccano ad un Dio. Il popolo russo non è tale; l’esaltazione mistica non è nella sua natura; egli ha troppo buon senso, chiarezza e positività nella sua mente, ed è proprio in questo forse che sta la grandezza del suo destino storico avvenire. La religiosità non ha preso neppure nel clero, perchè qualche separata eccezionale personalità che si distingue per una tale fredda ascetica contemplazione, non dimostra niente. La maggioranza invece del nostro clero si è sempre distinta soltanto per le sue grosse pance, per il pedantismo scolastico e per una ignoranza selvaggia. Sarebbe un peccato incolparlo d’intolleranza religiosa e di fanatismo; piuttòsto si può lodarlo per un indifferentismo esemplare in questioni di religione.
« La religiosità si è manifestata presso di noi soltanto fra i settari, così diversi, nel loro spirito, dalla massa del popolo e così nulli davanti ad essa numericamente (?)>. (i).
(i) Il punto interrogativo tra parentesi si trova nel testo da noi tenuto presente. (iV. d. T.)
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CONGRESSO DELL’ALLEANZA MONDIALE PER L’AMICIZIA INTERNAZIONALE PER MEZZO DELLE CHIESE
Sulle alture del S. Beatenberg, sorgente sulla riva settentrionale dell’azzurro lago di Thun, nel centro della libera Elvezia, nel cospetto della immane muraglia formata dai tre colossi alpini dell’Èiger, del Monch e della Jungfrau, convenne, nei giorni dal 25 al 28 agosto u. s., il Comitato internazionale della World Alliance for promoting International Friendship through the Churches (Alleanza Mondiale per promuovere l’amicizia Internazionale per mezzo delle Chiese).
Vi intervennero rappresentanti degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Francia, della Germania, dell’Italia, dell’Austria, della Danimarca, dell’olanda, del Belgio, della Svezia, della Norvegia, dell'Ungheria, dell’Estonia, della Finlandia, della Svizzera, della Lituania, della Grecia, della Czcco-Slovacchia, della Rumenia, della Jugoslavia, della Bulgaria, del Giappone, cioè i rappresentanti di 21 nazioni europee, di una nazione asiatica, e degli Stati Uniti, nonché un buon numero di invitati aderenti al movimento, formanti assieme ai delegati ufficiali un consesso di oltre cento persone in massima parte pastori evangelici e dignitari ecclesiastici.
Tutte le denominazioni della Chiesa evangelica vi erano rappresentate, e per la prima volta dalla fondazione della World Alliance anche la Chiesa ortodossa si univa alla Chiesa evangelica nell’opera di pacificazione e di affratellamento fra i popoli e le nazioni.
Non crediamo che sia nell'indole di Bilychnis di pubblicare una cronaca anche sommaria delle sedute.
Diremo solo che la Conferenza dopo aver proceduto alla elezione del suo presidente onorario nella persona dcll’Arci-vescovo di Canterbury, discusse e votò una serie di deliberazioni su quistioni vitali pel conseguimento della fratellanza fra i popoli e fra le nazioni e gli Stati, da presentarsi a suo tempo ai singoli governi ed al Congresso della Lega delle Nazioni quando nel prossimo mese di novembre si riunirà per la prima volta a Ginevra.
Chi ha’l'onore di scrivere questa bieve notizia ebbe il privilegio di assistere anche alla prima Conferenza del Comitato internazionale della World Alliance tenutosi dopo la fine della guerra all’Aja nell’ottobre del 1919.
Se grande era allora l’entusiasmo di pochi fra i convenuti da ben 19 nazioni diverse, grande era altresì il dubbio di molti e la diffidenza ed il rancore non sempre coperto neppure dal sentimento della carità cristiana di parecchi, che dai rispettivi paesi avevano portato seco l’ingombrante pericoloso bagaglio del loro risentimento nazionale. Meno di un anno è trascorso da quella data e l’idea della fratellanza internazionale ha camminato, ed il recente Congresso di S. Beatenberg si è aperto in condizioni assai migliorate di mentalità e di cuore.
Se ancora non possiamo dire, e la con-
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statazione fu per noi assai dolorosa, che il passato è, nell’ambiente delle chiese, come dovrebbe essere, tutto c da tutti dimenticato, e che tutte le forze spirituali e morali degli uomini di buona volontà colà convenuti fossero protese nello sforzo diretto ad affrettare l’avvento di quella fratellanza fra i popoli che precederà la fratellanza fra le nazioni e fra gli Stati, pur abbiamo constatato con emozione profonda che un soffio di maggiore effusione fra i delegati delle diverse chiese di paesi già nemici era sensibile. Più cordiali ed amichevoli erano i saluti, più calorose le strette di mano, più larghi i sorrisi, e alla tendenza che ancora qua e là fece capolino a trattare alla stregua di sentimenti umani, quistioni che dovevano essere considerate esclusivamente alia luce dell’Evangelo, prevalse lo spirito cristiano di pace e di solidarietà nel sentimento delle
colpe comuni, e solo su quistioni secondarie e di forma più che di sostanza le deliberazioni non vennero prese alla unanimità.
Fra queste, deliberazioni la più importante, la più comprensiva di risultati estesi, e la più radicalmente evangelica, fu quella esprimente il voto che gli Stati ispirassero le loro parole c le loro ¿.zioni nei rapporti internazionali a quegli stessi principi di morale cristiana che debbono ispirare le parole e le azioni nei rapporti fra individui.
Non mancò nella Conferenza chi accolse la formula di un voto così ardito e pur così naturalmente cristiano e cristianamente naturale, col sorriso dell’incredulità e mormorando la parola < utopia », ma il voto venne con calore e con fede sostenuto da delegati di diversi paesi e l’utopia venne alla unanimità consacrata.
Roberto Falchi.
CONVEGNO INTERNAZIONALE DELLA FEDERAZIONE STUDENTI PRO CULTURA RELIGIÓSA
La Federazione degli studenti per la cultura religiosa à tenuto a St Beatem-berg (Svizzera) dal 30 luglio al 7 agosto un convegno internazionale, che per numero d’intervenuti, per lo spirito che ne diresse le discussioni per le decisioni prese costituisce una tappa veramente notevole nel progresso dell’opera dell'Associazione. Dalle relazione pervenutaci ne riassumiamo i risultati certi di far cosa grata ai nostri lettori.
i° Comitato generale. Si può dire che la conferenza di St Beatemberg à creato veramente a nuovo l’organizzazione mondiale della Federazione. In seno al Comitato generale formato dei vari rappresentami delle diverse Federazioni, in pro-Srzione dei membri, è stata eletta una mmissione esecutiva alla quale è affidato d’ora innanzi l'incarico della direzione del lavoro mondiale. Essa è costi-tinta da un presidente (J. R. Mott), due vice presidenti, un tesoriere e nove membri. Sono state pertanto accolte le dimissióni del dott. Mott da segretario, del dr. Fries da presidente, di Miss
Rouse da segretaria itinerante, di Mr. Setoli da cassiere.
2° Carattere internazionale ed ecumenico della Federazione mondiale. La conferenza ha voluto che fosse messo ancora bene in chiaro il carattere internazionale ed ecumenico-della Federazione, accettando queste dichiarazioni dello Statuto: « La Federazione ammette come membri attivi studenti di qualsiasi nazione, e di qualsiasi chiesa cristiana » e: < La Federazione non è controllata nè organicamente connessa con nessun corpo ecclesiastico, solo richiedendo da parte di tutti i suoi membri attivi, facciano essi parte o no d’una chiesa, che essi abbiano una vitale fede personale cristiana ».
3° Modificazione allo Statuto. Si è riconosciuto che i cinque o sei movimenti, i quali hanno modificato lo Statuto, hanno fatto ciò in armonia con lo spirito della Federazione mondiale e si è riconosciuto che, nel considerare le basi delle singole federazioni, non si deve tener conto tanto delle parole quanto dello spirito, del carattere, delle particolari condizioni /dei
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NOTE E COMMENTI
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movimento in cui si svolge l’attività, e lo scopo preciso per cui le modificazioni sono state fatte. Così, per quanto riguarda l’Italia, si è approvata la modificazione apportata al Congresso di Roma, «ritenendo la base attuale una adeguata espressione, in vista delle condizioni prevalenti in Italia, agli scopi essenziali della Federazione. In generale nel considerare i singoli movimenti è prevalso un principio di libertà o d’indipendenza talché si è riconosciuto che i singoli movimenti debbono sentirsi liberi di scegliere forme, metodi, espressioni, eec., che meglio rispondano alla necessità della generazione studentesca attuale ».
Si è aggiunto all’art. 2 questo comma: ■ La Federazione deve raccogliere e distribuire informazioni circa gli studenti non solo dal punto di vista religioso, ma anche morale, sociale ed economico ». Si è aggiunto l’articolo seguente: « Portare gli studenti di tutte le nazioni ad una mutua comprensione e simpatia, aiutandoli a comprendere che i principi cristiani devono dirigere le relazioni internazionali e che gli studenti devono.sforzarsi, ciò facendo, di amicarsi le differenti nazioni ».
Ed il seguente: • La Federazione si propone di aiutare direttamente e indirettamente gli studenti per' migliorarli nel corpo, nella mente, nello spirito in armonia con lo spirito cristiano. •
4° Relazioni con l’Y. M. C. A. Nel riaffermare il carattere internazionale e assolutamente disinteressato dell’ Y. M. C. A. il Comitato generale ha stabilito
che i suoi operai onde possano meglio servire i paesi nei quali saranno chiamati a lavorare, dovranno conoscerne la lingua, i costumi, la storia politica ed ecclesiastica.
5° Funzione della Federazione mondiale verso le organizzazioni costituite. In relazione alle decisioni di cui al n. 3 la Federazione mondiale non eserciterà verso le altre organizzazioni costituite, come la M. C. A., la Y. W. C. A. ■he la funzione di coordinazione c di consiglio allo scopo di assicurare unità di lavoro e di intenti.
6° Campagna finanziaria. Si è stabilito di iniziare una campagna finanziaria, che dovrà fruttare parecchie migliaia di lire sterline.
I fondi per la Fede» azione mondiale verranno da ora innanzi raccolti a cura del Comitato generale: tutte le Federazioni dovranno contribuire con una somma annuale al fondo della Cassa centrale. Per l’Italia tale contributo è stato fissato in 1000 lire italiane.
La relazione aggiunge che gli sforzi di lavoro da essa spiegato sono stati grandemente apprezzati. Si guarda al nostro Paese con interesse crescente come a quello che essendo in un certo modo al centro geografico dell’Europa e del mondo cattolico è forse nelle condizioni più difficili per realizzare quell’ideale disunione che è il motto della Federazione. Tutto quello che si è fatto e si fa in Italia' è seguito con interesse dalle nazioni cattoliche o latine, alcune delle quali^ben volentieri vedrebbero fra i loro uno’dei segretari della Federazione.
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LA POLITICA ESTERA DEL VATICANO
LE ASSOCIAZIONI CULTURALI IN FRANCIA
Alla riapertura della Camera, il Parlamento francese dovrà nuovamente prendere in esame c risolvere definitivamente la questione della ripresa dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa. Tutti comprendono che tale risoluzione oramai non si può differire più oltre. Il problema principale che dovrà essere risolto è Snello dello statuto legale della Chiesa i Francia, nei riguardi della legge dì separazione.
Uno scritto che sul tema vien fuori nella Revue des deux mondes, permette di misurarne la complessità. È uno scritto, che merita di essere segnalato, non solo per l’argomento, c per la importanza del periodico che lo pubblica, ma ancora per la firma, tre asterischi, sotto i quali, a quanto si afferma, si cela uno dei prelati che contribuirono di più, negli anni passati, ad affrettare il ritornò d’un’atmo-sfera di pace tra il potere religioso e quello civile. Lasciamo stare il nome...
Lo scrittore mira, e lo afferma francamente, a toglier valore ad una certa opposizione, che in alcuni circoli si tenta di mantener viva con la speranza d’impedire che da Roma parta ai cattolici francesi l’invito finale a sigillare il patto di concordia con l'accettazione del regime delle associazioni di culto, previsto nella legge di separazione del 1905, della quale Aristide Briand fu alla Camera relatore. Il prelato comincia con questa dichiarazione: «Sebbene l’infallibilità del Papa non sia impegnata nella discussione, malgrado che Benedetto XV abbia egli
stesso accolto ed esaminato, come fa di solito, con deferenza, le osservazioni rispettose di certi vescovi..., noi non possiamo ammettere che il Papa, ed un Papa così geloso, come Benedetto XV, dell’integrità dei principi, e così perspicace nel discernerli dai pregiudizi e dalle idee personali, con le quali parecchi talora li confondono, abbia avuto l’intenzione di accettare o anche di tollerare, per la Chiesa di Francia, le associazioni di culto, se veramente, malgrado tutte le garanzie offerte e ricevute, esse fossero essenzialmente ed irrimediabilmente contrarie alla nostra gerarchia ».
Il fulcro della controversia, rimasta accesa durante un così lungo periodo, consiste nel famoso articolo IV della legge di separazione dello Stato dalla Chiesa, nel quale, al trasferimento dei beni ecclesiastici valutati circa un miliardo, veniva messa come condizione la costituzione di associazioni di culto che li avrebbero ereditati.
La forma definitiva dell’articolo, così come venne votato dalla Camera, dispone che le associazioni previste debbano « confermarsi alle regole di organizzazione generale del culto, di cui, coi beni ad esse attribuiti, si propongono d’assicurare lo esercizio ». Tra il turbinare della battaglia questo articolo apparve insufficiente pel rispetto dei diritti della gerarchia cattolica di Francia, sembrò, anzi, incoraggiamento allo scisma. Ora, ricorda lo scrittore della Revue, sta il fatto che quel testo venne votato, a Palazzo Borbone, da tutti i deputati cattolici, salvo due o tre. mentre tutti i radico-socialisti e i massoni rifiutarono di accettarlo; e il giorno dopo, nxAVEcho de Paris, Alberto de Mun celebrò
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CRONACHE
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la sua approvazione, come una vittoria del’ liberalismo sullo spirito giacobino.
La condotta dei deputati cattolici si spiega benissimo con qualche cosa, che era rimasta ignota sinora. L’articolo quarto, presentato da Briand, era stato redatto in una riunione dove erano intervenuti dei cattolici ai quali un membro del Governo aveva chiesto di suggerire una formula capace di garantire nella costituzione delle associazioni di culto i diritti della gerarchia. I cattolici avevano chiesto, in un primo momento, che nell’articolo l'obbligo per l’associazione di trovarsi d’accordo col vescovo venisse espressamente menzionato. Ma, innanzi all’obbiezione che la formula dell’articolo doveva esser tale da potersi applicare a tutti i culti, c che non era possibile, d’altro canto, nominare espressamente il vescovo ed ottenere una maggioranza qualsiasi in una Camera dove prevaleva la fobia di tutto ciò che appariva come l’ombra d’una religione di Stato, gli astanti cedettero...
Peraltro, ad eliminare i dubbi possibili sul senso gerarchico della formula, pro-Sosta ed accettata, intervennero delle ichiarazioni di Briand, relative alla legge del ministro competente, Bienvcnu Matin, i quali entrambi, durante la discussione, trovarono modo di affermare che l’articolo voleva dire, come il solo modo per le associazioni di «conformarsi alle organizzazioni generali del culto, consistesse nell’ottcnere l’approvazione del vescovo ».
Però gli anticlericali tentarono di togliere valore al ’articolo stesso, facendone votare un altro, l’ottavo, che pei conflitti eventuali tra le associazioni di culto e la gerarchia ecclesiastica, prevedeva la giurisdizione di un tribunale eccezionale, il Consiglio di Stato, allora, ed oggi ancora, sospetto di docilità assoluta alle direttive dei governanti.
Ma lo scopo mancò. Lo scrittore anonimo lo constata. Seguendo la via, indicata da Briand in un discorso di commento all’art. Vili, il Consiglio di Stato, nei casi che, in quindici anni, sono stati proposti al suo giudizio, ha 'applicato la legge secondo lo spirito dell'art. 4. « In quindici anni, ogni volta che un’associazione scismatica gli venne deferita, esso la condannò per la sola ragione che non era riconosciuta dal vescovo, o non riconosceva la sua autorità ».
Durante le trattative per la ripresa dei rapporti franco-vaticani, l’incaricato di affari Doulcet, comunicando alla Segreteria di Stato le sentenze del Consiglio di Stato, confermate talora da quelle della Corte di cassazione, il Governo francese (come risulta dal rapporto Noblemaire sulla ripresa delle relazioni col Vaticano) ha tenuto a confermare alla Santa Sede, che quella giurisprudenza è concorde con le sue direttive, e che, a suo parere, la Santa Sede potrebbe oramai ritenere cessate le difficoltà antiche contro la formazione ed il funzionamento delle associazioni .
Questa comunicazione ufficiale mosse, pare, la Congregazione degli Affari Ecclesiastici straordinari a pronunciarsi in un modo che bisogna riferire secondo le parole stesse del Noblemaire nella relazione suaccennata: « La Congregazione ha dichiarato che Pio X, nella sua lettera ai vescovi francesi del 18 agosto 1906, aveva vietato l’uso delle associazioni, sino a quando non fosse stato accertato che la gerarchia sarebbe in piena sicurezza; ma che era necessario oggi constatare che questa condizione sospensiva'-era realizzata col fatto della giurisprudenza comunicata e che, quindi, le associazioni potrebbero essere tollerate ».
A questa decisione il Vaticano deve essere stato indotto sopratutto dalle difficoltà materiali gravissime in cui versa la Chiesa francese, specialmente nelle campagne e dal desiderio di regolarizzarne la situazione.
Ma, tuttavia, obbiettano i più tenaci asitori delle Culturali, tuttavia Detto XV non verrebbe a trovarsi, a malgrado di tutte le assicurazioni nuove del Governo francese, in contraddizione con Pio X? Nell’ultima parte del suo scritto il collaboratore della Reyue così risponde: • S'ignora, dopo quali lunghe esitazioni e con quali angoscio sotto l’ispirazione della sua coscienza. Pio X si decise a pronunziarsi contro la maggioranza dei vescovi e dei cardinali, di cui egli aveva sollecitato il parere. Egli sapeva, però, che la Chiesa di Francia non avrebbe potuto restare indefinitamente fuori della legge: mai gli venne in mente, che questa situazione anormale potesse prolungarsi indefinitamente, ed egli presentiva le rovine che il suo successore può contemplare. Perciò, quando più tardi la maggioranza dell’episcopato francese espresse
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l’opinione, che si dovesse rientrare nella legalità, trattando coi Consigli municipali per l’affitto delle chiese, il pontefice si affrettò a dare » suo consenso*.
E nello stesso decreto contro le associazioni di culto. Pio X lasciò la porta aperta al ritorno, quando espresse l’intenzione* di revocarlo il giorno, in cui « delle garanzie certe e legali ■ per la gerarchia gli fossero state offerte.
Questo giorno sembra venuto.
LA QUESTIONE DEL CENACOLO DI GERUSALEMME
Sotto questo titolo V Osservatore Romano dell'ii settembre ha pubblicato questa nota ufficiosa: « Leggiamo nel Temps: « Durante i negoziati di pace con la Turchia il Governo italiano aveva chiesto che il Cenacolo di Gerusalemme fosse ceduto all’Italia nell'interesse di tutti i cattolici. Il Sultano era favorevole a questa cessione. Nel momento in cui la questione sembrava essere risolta, si son prodotte delle difficoltà. Il governatore della Palestina sta studiando la questione. Non vi è dubbio che il Cenacolo debba essere restituito alla Chiesa cattolica. Oggi si annuncia che il governatore della Palestina sta studiando la questione; noi formuliamo l'augurio che, appianate quanto prima queste difficoltà, dovute ad alcune questioni formali, i francescani possano rientrare in possesso del celebre Santuario*.
Fin qui V Osservatore romano, dietro la nota del quale appaiono in modo abbastanza trasparente gli interessi politici che sono in giuoco dietro questa questione in sè stessa insignificante. Il Governo italiano aveva chiesto il Cenacolo di Gerusalemme in base ad antiche donazioni fatte dal Sultano al Re d'Italia.
Intanto il Times del 14 ottobre alludendo alle recenti notizie della stampa circa il Cenacolo, riferisce che il governo britannico a quanto pare non ha riconosciuto l’iradè emanato dal Sultano in sede di armistizio. Il giornale ritiene che la rivendicazione italiana dovrà essere sottomessa all’esame e alla decisione della
Commissione che dovrà decidere di tutte le questioni dei Santuari quando il mandato britannico sulla Palestina sarà entrato in vigore.
LA VERTENZA SERBO-VATICANA
Le relazioni tra il nuovo Stato jugoslavo e il Vaticano, delle quali ci siamo occupati molte volte in questa rassegna, sono in questo momento tutt’altro che cordiali.
Il giornale ufficioso Samouprava di Belgrado dell’8 ottobre, sotto il titolo La vertenza serbo-vaticana, scrive: a l’atteggiamento della Jugoslavia verso il Vaticano nella questione della chiesa nazionale jugoslava ha spinto la Curia di Roma ad effettuare un attacco contro l’autonomia statale ideila Jugoslavia. La richiesta del Governo jugoslavo per la istituzione di un arcivescovato jugoslavo con sede a Subotitza è stata respinta dal Vaticano. Pare che a questo atteggiamento della Santa Sede si debba attribuire- carattere di politica estera. Il Vaticano desidererebbe che lo Stato della corona di S. Stefano, disfatto dalla guerra, sopravvivesse nel campo ecclesiastico, e che le provincie distaccate dall’Austria, la Carriola, l’Istria e la Backa non fossero riconosciute come staccate. Quasi tutta la stampa, jugoslava si scaglia aspramente contro la politica del Vaticano. Essa chiede che il Governo intraprenda immediatamente energiche misure in proposito. Pare che in Vaticano abbiano influenza quelli che desiderano la restaurazione della monarchia austro-ungarica. La chiesa cattolica rinnega apertamente lo Stato jugoslavo e desidera di appoggiare l’irredentismo ungaro-cattolico in Backa e nel Banato. La Curia di Roma ci ha già fatto torto un'altra volta prendendo apertamente partito per l’Italia nella questione adriatica. L’eccesso del Vaticano va considerato come un attacco contro l’autonomia statale della Jugoslavia per cui si chiede l'immediata rottura delle relazioni diplomatiche tra la Jugoslavia e la Santa Sede ».
Quinto Tosatti.
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FILOSOFIA
IDEALISMO ATTUALE E RELIGIONE
Di questi Discorsi di religione di Giovanni Gentile (Vallecchi editore, Firenze, L. 5) nei quali per la prima volta il posto e il valore della religione nello idealismo attuale è sistematicamente esaminato ed essa chiamata ad aver parte degna in una dottrina idealistica di vita, dovremo occuparci più largamente in queste pagine. Ci limitiamo ora a segnalare il piccolo volume ed a richiamare su di esso l'attenzione di tutti gli studiosi di filosofia della religione.
Notiamo, intanto, come l’idealismo di G. Gentile che, nei lavori precedenti, poteva »parere a taluni fredda traduzione in un concettualismo universalistico della esuberante e incoercibile realtà concreta della vita, dello spirito e del mondo dei valori spirituali, qui, nel calore di uno slancio, intimamente religioso, si rivela intuizione viva e feconda, comprensione Siena e posizione fervidamente creatrice ell’atto spirituale e mostra così, non la sua aderenza alla vita, che sarebbe dir poco, ma la sua efficacia rinnovatrice della vita storica, suscitatrice di più intensa e ricca esperienza interiore.
Per G. Gentile,, come è noto, il pensiero, che è a un tempo volontà, spirito, piena realtà, non presuppone a sè e al suo intendere e fare nessuna cosa data, oggetto o natura — e natura è anche l’atto puro, l'idea platonica, il primo motore aristotelico, se inteso come pienamente costituito in sè, all’infuori della attuale vita del pensiero, del mio pensiero e di ogni pensiero; ma esso pone ad ogni istante con sè il suo mondo, che è il mondo, cioè
RELIGIOSA
l’universa realtà; e per questo è davvero trascendente, perchè il tempo e lo spazio ed ogni altra categoria e forme di concreta esperienza sono da esso ed in esso, contenuto e non contenente; e assoluto. poiché il processo vivente della realtà spirituale non presuppone ma pone tutte le ragioni immanenti ed eterne del suo essere e divenire; e attuale, perchè l’atto è omnicomprensivo e passato e futuro, quello che è stato e quello che sarà, non sono che momenti interiori della sua attualità, la quale è processo ed implica nella sua vita il da questo ed a questo, c ogni suo momento è passato che si infutura.
E di qui, secondo il Gentile, la vera libertà; poiché lo spirito non è condizionato da realtà o norma o idea di bene che sia già, senza di esso o fuori di esso, ed alla quale il suo attuale agire non aggiunga nulla, e di qui anche la vera moralità. Scrchè il bene è volontà e atto e posizione elio spirito, superamento del suo precedente dialettico, il male, illuminazione e creazione di spiritualità, di universalità, di valore.
In questa concezione della realtà, come atto spirituale, ha luogo la religione; in quanto lo spirito, che nell’arte si attua e si pone come soggetto, afferma ed esprime l’universalità emergente, come concreto momento spirituale, dall’immediata presenza di tutto il reale, nell’artista, nella religione, invece, pone l’oggetto, l'infinita realtà che pur essendo il suo atto presente, è insieme infinita ricchezza* di storia e infinita postulazione di vita; sicché, nell’atto religioso lo spirito, come concreta individualità, si umilia e si annulla e riunisce l’universale che è in lui
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come dovei essere dal quale discende una rude legge di disciplina interiore, come sua norma e suo innnito anelito di ascensione e di purificazione e suo Dio.
E quésto è momento necessario della vita dello spirito; purché sia inteso e vissuto come momento, e non si fermi ad esso, e l’atto religioso non faccia capo, come colto da sterilità, ad uno dei suoi due eterni pericolosi: o l’annullarsi della volontà e della attività in quella dedizione totale e negazione del soggetto e 3nasi sradicamento da esso del vero c el bene, posti come un inaccessibile mondo in una divinità che « s’è beata e ciò non ode »; o il trasformarsi della legge interiore vivente in norma esterna, in formula e comando c mito e autorità estrinseca e istituzione immobile.
L’infinito essere e valore che l'atto religioso afferma deve circolarmente conchiudersi dalla affermazione del soggetto (arte) e dalla affermazione dell’oggetto (misticismo o eteronomia) nella vivente affermazione del soggetto-oggetto, dell’universale nell'individuo, nella attività per la quale il bene è attuale posizione e creazione di valore. « La religione, da questo punto di vista, anzi che la negazione, è, in verità, la scuola e il tirocinio della volontà morale. Scuola, da cui non si crederà mai licenziato lo spirito che non crederà finita la sua giornata, e sentirà la sua vita come progresso incessante nell’apprendere, che è fare la propria personalità ».
Questa dottrina può esser discussa; ma non può, oramai, essere ignorata da chiunque si occupi, filosofando, di religione.
IL SEGRETO DELLA FELICITÀ
È interessante leggere, dopo questo del Gentile, il volume di un inglese, Ed-mond Holmes: The secret of happiness, or salvation through growlh (London, Constale, and Co., 1919)- Lo stile è totalmente divergo. Mentre il lavoro del filosofo italiano vuol essere analisi di un concetto e di un processo dialettico, i quali poi accolgono in sé la massima sintesi comprensiva dell’essere, il moralista* inglese, invece, usa largamente dei concetti correnti, li veste delle più varie immagini, abbonda in analogie, parla di Natura e di Dio. adotta tutto un linguaggio dualistico c pluralistico. E tuttavia, la ispirazione etica fondamentale e la vi
sione del mondo, dal punto di vista pratico c volitivo, è la stessa.
Troppo lungo sarebbe analizzare l’ingegnosa e faticosa costruzione dello Holmes. Tutto il suo libro è volto a combattere « thè Iure of finality »; l’illusione e le allettative del finalismo: la tendenza spontanea dello spirito, incarcerato nella materia ed assoggettato alla esteriorità dei sensi, a sottrarsi alla legge interiore di un perenne ed ineluttabile svolgimento, la cui origine e il cui termine si perdono egualmente nell’infinito, e che non dànno requie alla coscienza, spinta a comprendere in sé il mondo, ad adeguate se stèssa alla infinita ed‘assoluta realtà; tendenza a possedere, o illudersi di possedere, una verità definita e definitiva, ad avere delle norme concrete e precise, a proporsi dei fini ultimi, oltre i quali il desiderio non vada, a chiudere insomma intorno a sé la cerchia del reale, arrestandone l’infinito movimento, facendone come una casa ferma e solida per un’anima che ami la sua quiete e le sue comodità. Lo H. analizza molto acutamente le origini, il vastissimo impero e gli effetti rovinosi di questa tendenza; c le oppone il senso del divenire, che non é in lui una vaga nozione trascendentale, ma un’intima persuasione, la visione lucida e lirica della fluidità dell’essere e della intercomunicazione degli esseri e della unità profonda degli spiriti nello spirito ; di un perenne fluire, che non è esteriorità e contingenza, abbandono di una coscienza che si sente mossa e travolta da una grande corrente, ma è invece intima realtà dello spirito stesso, legge del formarsi della personalità, presa dì possesso e dominio del mondo.
E il libro dello Holmes é volto sopratutto a creare in questa filosofia del divenire una legge morale; formale, certo, poiché quando si è giunti ad intendere che il bene è la volontà buona, il precetto non può essere che formale, ma tuttavia, così fatto da poter chiaramente suggerire ad ogni istante una linea precisa di condotta.
E questa sua è la legge dell’ accrescimento: vita che chiede di essere più vita, coscienza che si svolge facendosi autocoscienza, cioè conoscenza che è a un tempo posizione di essere, personalità la cui più «•rotonda ragione ed esigenza è una unità ondamentale, una universalità da tradurre sempre meglio in atto, l’uomo opera bene e trova nella stessa azione buona il
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suo -prèmio quando di molti impulsi e tendenze che sono atto in lui egli segue quello che, a ciascun momento, gli promette una più larga comunione col tutto, maggiore ricchezza di vita spirituale, l’accrescimento della propria personalità, la quale è unità di esperienza singolare insieme e infinita; e tanto più singolare quanto più vastamente comprensiva ed universalizzante. E la libertà non è, ma si fa con questo cre-z scere dello spirito: necessità interioie che, seguita, diviene consapevolezza, autoposizione.
Non ho bisogno di insistere nel mostrare la coincidenza sostanziale di questa morale con quella dell’idealismo attuale: l’una e l’altra procedono del resto dalla stessa fonte.
E la lettura del volume dello Holmes se spesso, per quel suo stile che dicevo, imbarazza il lettore, per la frequenza dei termini e dei concetti tolti al linguaggio comune e delle analogie, e lo costringe a una revisione critica e traduzione del pensiero dcll’a. in termini più filosofici, spesso, in compenso, ha vedute e spunti molto suggestivi.
Un esempio: a pag. 227. « Il desiderio di pienezza di vita, quindi, è il solo desiderio di possesso che sia radicalmente non egoistico. Poiché esso è desiderio di divenire non egoisti, di uscire dal sè in una più larga vita. Se la parola possesso suggerisce, come troppo spesso fa, inclusione nell’to e circoscrizione nell’io, allora il desiderio di espandere la* vita è desiderio di qualche cosa di più che il possesso. Esso è anche, e soprattutto, desiderio di esser posseduti. Nessuno può reclamare diritto di proprietà sull’infinito. Il desiderio di Sossedere la vita nella sua pienezza è un esiderio di perdersi nella vita, di essere rapiti ed assorti. Nei più alti livelli dell’attività umana, attività c passività nel possesso, sono, in ultima analisi, la stessa cosa ».
LA RINASCITA DELL’ANIMA
Poco prima della guerra europea, sulla fine del 1913, Paolo Orano pubblicava questo volume nel quale il contrasto spirituale profondo fra due principii di civiltà, quello che pretende di muovere dalla materia e vuol sopprimere l’anima e quello che muove dall’anima e vuol costruire su di essa, è così vivacemente sentito ed espresso con tanto fervore lirico che par vi prema
dentro il presentimento di una catarsi tragica.
L’Orano investe con la sua polemica, non condotta, certo, con metodo filosofico, dialetticamente, ma fondata su di una chiara e precisa valutazione filosofica degli opposti, il positivismo, il materialismo, lo scientismo, ogni forma di dom-matismo pretenzioso che nella natura, al-l'infuori dello spirito, dell’io, vede la realtà assoluta, per sè stante, governata da leggi deterministiche; e che poi, necessariamente, ad essa assoggetta lo spirito, che non può essere eliminato, e diminuisce la libertà a necessità, i valori ideali a secrezioni biolo-gico-chimiche, la vita sociale a un aggregato quantitativo che la forza e l’istinto e la lotta per la vita tiranneggiano.
Lunga e rovinosa illusione, che data da secoli, “dagli inizi stessi del nuovo metodo sperimentale. L’anima, e il pensiero, intravide sè un istante, con Cartesio, e poi si smarrì. « Se sono perchè penso; se debbo riconoscere prima l’io penso, per poter arrivare all’io sono; come mai quel che io veggo dopo, il mondo, la realtà, può contenere le leggi dell'io medesimo? Eppure Descartes, Bacone e Galileo in fondo avevano questo criterio di cui si è imbevuta, rimateriata la storia di una civiltà trisecolare». Di fronte a quel piincipio sta l'altro che <■ l’io... è annullato se non prende atteggiamento di creatore. Le lagioni dell'obbiettivo, dell'esperimento, della real-t à non sono ragioni sue ».
Si può chiedere a P. Orano in nome di quale nuova filosofia egli combatta questa pseudo-filosofia, su quali titoli razionali egli stabilisca e fondi le ragioni dell’io. Egli maneggia promiscuamente tutti i luoghi tradizionali della rivendicazione dell’anima o dello spinto: le esigenze morali della vita, l’esperienza mistica, le insopprimibili affermazioni, nell'arte e nella storia, della sovranità geniale dell’io, la critica kantiana della conoscenza, le confessioni stesse della scienza che, quando si affaccia all’esame dei suoi supremi principii e delle certezze fondamentali, vede il suo mondo ' che pareva così solido, così matematicamente incatenato al reale, reggersi tutto su di un atto di fede, o di volontà, dello spirito.
E questi vari motivi polemici egli maneggia con molta efficacia. Caccia i profanatori dall’atrio del tempio della filosofia, dove fanno tanto strepito. E, nel compimento del suo ufficio, egli volge all’anima e
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a Dio un atto di adorazione mistica, di entusiasmo lirico. « L’anima vive nella sua certezza 1 misteri misteriosamente. La scienza vuol rendere esteriore lo spirituale, la sua obbiettivazione vuole appunto spogliare il mistero da quello che crede sia l'involucro, mentre è l’essenza. Noi siamo fatti di mistero, e la sincerità è nel mistero interno... Tutte le volte che ci obbietti-viamo, alteriamo, se non annulliamo addirittura, l'io. Ciascuno è certo nei confini, direi così, dcll’Essere, confini di potenza c di efficienza, non confini spaziali e temporali. Ecco perché due-ani me si capiscono meglio nel canto, nell’immagine lirica, nell’espressione, nella preghiera, nel silenzio vigile e comunicante, che attraverso una analisi. L'analisi è frantumazione ».
Questo che O. condanna è l’obbietti- ' varsi nella natura, nell’esterno, nel frammento. Il mistico si obbiettiva in Dio; ponendo l’infinito, la realtà piena fuori di sé, rischia di annullare, per un altro verso, l’anima.
Potremmo, dalle pagine dell’O., raccogliere parecchi luoghi nei ovali è chiaramente affermata l’esigenza di una filosofia idealistica, negazione in radice del naturalismo e dell'empirismo. Ma non è il caso di farlo. Perchè il volume ha il suo pregio nella vivacità e nell’efficacia polemica, come scuotitore di dormienti e suscitatore di dubbi. E l’attenzione va richiamata in ^»articolar modo sull’ultimo capitolo, nel quale egli analizza le profonde miserie'di una,società civile costruita sulla negazione dell'anima, e quindi sulla umiliazione di tutti i valori dello spirito e su di un dom-matismo che andava divenendo peggiore dell’antico.
Auguriamo alla nuova edizione del lavoro dell’O. (presso la Fionda, in Roma, 1920) un largo successo.
POLEMICHE CATTOLICHE
La figura di un grande polemista cattolico, Louis Veuillot, rivive tutta in questo volume nel quale il canonico G. Bontoux ha raccolto i giudizi di lui su taluni tnauvais matlres dei secoli xvi-xvni, q fondatori dell’empietà contemporanea, da Lutero agli enciclopedisti. (G. B.: Veuillot, Paris, Pcrrin et C., 1919).
E lo spirito e il metodo del V. sono poi mirabilmente riassunti in una cràne professi™ defoi, che è del 1859 e che vai la pena di riprodurre.
«Ci sono due razze in questo mondo.
dopo Abele c Caino, due razze avverse e nemiche. L’una è fatta per credere, per rispettare, per amare, per adorare, per portare umilmente e valorosamente il giogo del dovere. L’altra incredula odiatrice, empia, bestemmia e schernisce, e non si sottomette che alla forza, verso la quale sente meno odio che verso ii dovere; razza che è in rivolta contro la società umana così come entro Dio. I libri nati di questa razza non possono piacermi, perchè io sono dell’altra.
Nella razza alla quale io appartengo, ci sono delle tribù militari: d’una di esse sono io. Perchè tutto il mio sangue freme contro la menzogna, mi hanno chiamato rivoluzionario; perchè ho rifiutato ogni omaggio agli idoli, m’hanno oltraggiosamente paragonato al ciarlatano sinistro che.si è fatto un talento e una nomea d’andar ne’ trivi ad urlare contro Dio.
Grazie all’educazione che la società infligge ai figli del popolo e che questo disgraziato ed io abbiamo egualmente ricevuto, io avrei certo potuto diventare un rivoluzionario, ma non come lui. Non siamo della stessa razza... Ma io non sono rivoluzionario perchè sono cattolico. Da venti anni posso sperimentare la dolcezza e la facilità dell’intiera sottomissione; l’obbedienza non domanda nulla di troppo alla fierezza umana. La fede cattolica non è una legge di asservimento. Appunto perchè incatena la passione, la legge affranca lo spirito ».
Tale l’uomo il quale proclamò: «noi cattolici chiediamo a voi (liberali) la libertà in nome dei vostri principii, ve la neghiamo in nome dei nostri ». Ma questa divisióne del mondo in due razze è essenzialmente antistorica. Poiché l’una non riesce mai a schiacciare l’altra—anche la razza di Abele perseguita, tormenta, uccide, e con che gioia, spesso! — le cose starebbero sempre allo stesso punto. La realtà è diversa. E Veuillot potè, per tanti anni, detestare tutto quello che non era della sua razza, schernire e ingiuriare tutti quelli i quali non seguivano la sua verità e la sua chiesa, morti e vivi, perchè la nuova dottrina aveva riconciliato le due razze nell'unità di un solo processo storico in cui dal bene nasce il male e la verità di ieri, distaccata dallo spirito, diventa menzogna, e dall’errore, che è inquietudine e ricerca, nasce la nuova verità.
La prosa veemente di V. ci interessa quindi oggi benché non ci persuada; spesso
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la critica di lui coglie nel segno, quanto ai particolari. Ma la verità che egli rivendica rientra nel piano di una sintesi comprensiva ed unificatrice delle due razze opposte; mentre a carico della dottrina de) V. restano l’unilateralità c l’intolleranza e la passione settaria con cui questo « figlio di Abele » fece della sua penna uno stilo e trincerò la sua fede di cadaveri « ideali » dei tanti nemici che con la penna volle uccidere.
IL PENSIERO DI NEWMANN
U no studioso francese, Floris Delattre laico, insegnante di inglese all’università di Lilla ci dà, in un elegante volumetto, La pensée de I. H. Newman', cioè gli « estratti i più caratteristici della sua opera, scelti e tradotti, con una introduzione, una bibliografia, un indice e il testo inglese corrispondente >. Un lavoro, dunque, di filologia, non di teologia o di polemica modernistica. Ma pur sempie un iavoio su New-man; su di una delle più grandi anime religiose del secolo scorso c uno dei più acuti, eloquenti e fecondi scrittori di cose religiose.
E, anche come documento della vita e della polemica religiosa dell’oratoriano inglese, il libro non è privo di importanza. Newman ha avuto biografi affettuosi c studiosissimi, come Bremond e Di m net; ma, data la complessità della sua figura e del suo pensiero, la multiforme ricchezza della sua vita interiore, la novità di taluni accenni e spunti della sua filosofia religiosa, i quali si prestavano a svolgimenti molto diversi ed opposti, di lui si è sempre parlato, da cattolici, con timidezza e con molte riserve. Il Delattre non ha pregiudiziali, altre phe l’indole del suo lavoro; c già in questa breve raccolta e nei sobri commenti la figura del N. guadagna in freschezza ed originalità.
Di questo che è il più insigne e il più, celebre dei grandi convertiti del secolo scorso e che qualcuno ha chiamato l’ultimo. Padre della Chiesa, converrà dire un giorno che quei cattolici i quali l'ebbero in diffidenza e in sospetto, a cominciare dal card. Manning, c lo ritenevano pur sempre non nell’animo sincero, ma nel fondo del pensiero, un eretico e uno scettico, non ebbero tutti i torti; e che la sua dottrina ha portato nel seno della vecchia ortodossia cattolica elementi di scepsi e di dissoluzione.
Nonostante il suo culto per l’autorità.
in materia ecclesiastica e dommatica, noi troviamo diffusi nella sua opera di scrittore, ed evidenti sopratutto nella Grammatica dell’assenso, motivi filosofici che si ricollegano più o meno direttamente all’idealismo immanentistico, lo seguono e lo precedono. Scrive il Delattre: «L'originalità distintiva di N. (?) il realismo sincero ed audace del suo pensiero.' Le formule logiche, delle quali diffida 'apertamente, gli sembrano incapaci di rappresentare il lavorio dello spirito, e, quando l'uomo ra-E'ona, egli lo fa non solo con il suo intel-tto, ma ancora con la sua immaginazione e la sua coscienza, i suoi amori e i suoi odii, i suoi sogni, le sue speranze, i suoi ricordi, con tutto il suo essere morale. Il senso illativo è una espressione che N. impiega per designare questa inferenza spontanea, questa capacità istintiva che possiede lo spirito di condensare su di un punto preciso tutte le sue facoltà, di andar diritto a una conclusione che l’analisi non saprebbe spiegare ». Questa affermazione, che muove da tutto l’essere, è l’assenso reale.qucllo che conta in religione; non giustificabile mai a pieno con ragioni tecniche, esso è, in sostanza, irrazionale. Esso ha la sua giustificazione in se stesso; è la voce della coscienza e, in ultima analisi, la voce di Dio, intimo alla coscienza. « Che cosa ci resta se non prender le cose come sono e rassegnarci a quel che troviamo? E cioè in luogo di foggiarci quel che non può essere, una qualche soddisfacente scienza del ragionamento che possa imporre la certezza di date èonclusioni, confessare che non c’è. un criterio definitivo di verità aH'infuori della testimonianza resa alla verità dallo spirito stesso e che questo fatto, per quanto possa essere imbarazzante, è la caratteristica normale ed inevitabile di una costituzione mentale come l’umana in uno stadio dell’essere Ìualc è il mondo ». (Grammar oj assoni IX, 1).
eco un criterio di verità Che i teologi della Pascendi non accetteranno mai. Questo intuizionismo fideistico doveva condurre a Tyrrell, come ad uno stadio ulteriore.
L’antinomia posta da Newman: la verità religiosa è quella che ha in suo favore il massimo di testimonianza storica, di tradizione e di autorità; e: la verità, religiosa non può esserti data che dal tuo più intimo io, con un processo personalissimo di convincimento, attende ancora la sua soluzione. I teologi cattolici la temono, e N. è messo da parte.
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LA CHIESA E LA LIBERTÀ
Nel volume di un gesuita francese, in cui si tratta del governo della Chiesa cattolica, con intento apologetico c con particolare riferimento alla storia ed alla letteratura del cattolicismo francese nella seconda metà del secolo xix (R. P. Gustave Ney-ron, S. I.: Le Gouvernement de l'Eglise, Paris, Beauchesnc, 1919)» si tratta anche difesamente (cap. V e app. II), una questione che in Italia, con il vigoroso affermarsi dei cattolici sul terreno politico, torna ed essere d’attualità: quale è il pensiero vero dei cattolici in materia di libertà e soprattutto di libertà di pensiero; come si regolerebbero essi verso i loro avversari il giorno in cui tornassero a conquistare il potere.
Il terreno è scottante e mobile, per ain gesuita il quale non ama di scandalizzare la gente e vuol tener cento delle condizioni attuali degli animi. Il principio tuttavia è chiaro. Dottrinalmente, la Chiesa possiede la verità certa, infallibile, divina, il possesso di questa verità è il più gran bene dell’uomo e cercar di rapirgliela è un « delitto di opinione » che la' Chiesa — per quanto dipende da essa — non può lasciar commere. Noi, scriveva il Vcuillot, citato dal P. Neyron, « accettando provvisoriamente questo principio di dccandenza sociale, che non è altro che la negazione della verità assoluta, contiamo di farne un mezzo di conquista per la verità che esso permette di contraddire. Noi lavoriamo per tornare, con la persuasione, con la scienza e con le opere, alla perfezione dell'unità promessa al mondo: unus poster, unum ovile ». Ristabilito che sia quest'ordine, converrà difenderlo. È quel che la Chiesa faceva ne) medio evo: ■ Quando, presso i nostri avi, regnava l’unità di credenza nella vera religione, era dovere della Chiesa cercar di mantenere questo gran bene, il primo di tutti i beni per i popoli come per gli individui, ed era quindi logico che essa implorasse il soccorso dello Stato contro i faziosi che minacciavano di distruggere questa armonia ».
D’altra parte, ciò è nell’interesse della stessa ragione e civiltà umana. Il N. cita Oliò Laprune. L’intelletto umano, per non smarrirsi nell'anarchia, ha bisogno di una • regola esteriore ». « Ma nè la legge degli antichi greci nè l’opinione pubblica dei moderni può soddisfare a questo bisogno di regola esteriore che si unisce nell’uomo
al bisogno della libertà. Questa regola, il cristianesimo solo, e nel cristianesimo la Chiesa cattolica sola, l’ha data al mondo... Sola, la Chiesa cattolica, reclamando da ciascuno una adesione al vero propria, personale, pone al disopra di tutto una regola costante, invariabile, che trionfa dei dissensi e mantiene la più meravigliosa unità che sia dato concepire ». Ma come si può reclamare una adesione personale? Il consenso personale a una dottrina non è necessariamente libero? Si, ma anche, osserva il p. gesuita, «la testimonianza intcriore della coscienza, se bene interpretata, corrisponde necessariamente alla parola della Chiesa: fra rivelazione naturale c rivelazione soprannaturale non può esservi contraddizione. La Chiesa, c lo prova anche l’enciclica Pascendi contro il modernismo, è la più salda c vigile alleata della ragione ».
Riconosciamo che questa è la dottrina cattolica: e quelli che se ne distaccano non sono buoni cattolici. Ma la dottrina è anche imbarazzante: e il p. N. vuol rassicurarci. Egli dice, con le parole di un suo confratello, il P. Vcrmeersch: « Se l’unità religiosa rinasce essa si rispecchierà nelle leggi, ma lo spirito dell’epoca non vi si rifletterà meno ». Confesso di non capire. Questo spirito dell’epoca, che è poi il liberalismo, non è in disaccordo sostanziale con lo spirito della Chiesa? E quale dei due dovrà vincere?
Più solida, ma provvisoria, è un’altra garanzia che il p. N. ci dà: Egli, citando molti apologisti, ed anche il terribile Veuil-lot, dichiara che i cattolici non intendono riconquistare con la forza il predominio. Ma è una garanzia per modo di dire. È ovvio che sinché questi cattolici della verità integrale sono una minoranza, e piccola minoranza, non possono usare la forza. Il paradosso è che essi sieno minoranza, mentre, ad es„ in Italia, su 36 milioni di abitanti, 34, almeno, sono cattolici.
Il mondo sta facendo l’esperimento delia libertà. I cattolici sostengono che, se esso lo farà sino in fondo, vi si perderà.
E noi potremmo essere della loro opinione se pensassimo, come essi, che la libertà umana non può essere infrenata che da una regola esteriore, fissa, immobile. Il vero è che l’immobilità è sparita, non dalla storia, dove in fondo non c’è mai stata, ma dallo stesso pensiero degli uomini. Il cattolicismo, anche esso, si muove e come; e la verità dei teologi e dei cano-
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nisti fluttua, ombra vana, su di una cor-rente*che essa non può arrestare. La libertà è un pericolo, ma gli uomini cercano, attraverso ad essa, una regola interiore, che si muova con la corrente, per dirigerla.
ANTIDOGMATISMO
Giuseppe Rensi. professore di filosofia all'università di Genova, si è fatto banditore di una filosofia scettica, (Lineamenti di filosofia scettica. Bologna, Zanichelli, 1918. La scepsi estetica, Id., ibid. 1919). che egli ama affermare sopratutto in contradditorio con B. Croce, G. Gentile ed i loro ammiratori e seguaci. E dalla sua filosofia egli trae atteggiamenti pratici che illustrava già in lunghi articoli acW Azione e del Secolo, e che, confessava testé in un articolo pubblicato nell’Italia del popolo, lo avvicinano molto al cattolicismo politico del P. P. e al giolittismo.
La sua polemica è spesso verbalmente vivace. In queste «polemiche antidogmatiche » (Bologna, Zanichelli, s. d., ma 1920), una metà sono pagine di stizzoso dispetto, che, filosoficamente, non contano. Ed anche i ravvicinamenti che egli fa della filosofia della pratica di B. Croce a certe interpretazioni della filosofia morale e del diritto di E. Kant suscitano la nostra curiosità, ma la lasciano inappagata; ed egli stesso, in fondo, lo sente, poiché parla dubitativamente, come chi non ha studiato la materia con sufficiente ampiezza, ma espone giudizi e impressioni sommarie.
A parte le indagini e le discussioni, sempre legittime e sempre aperte, sulla filosofia di Croce e di Gentile, discussioni alle quali invita lo stesso dissenso, talora grave, fra i due filosofi, ci stupisce che il R. non riconosca il benefico effetto dell’opera dei due scrittori nella disciplina di pensiero degli italiani; c che egli non vegga come il suo scetticismo, il quale ama affermarsi specialmente nel campo di questioni morali, non potrebbe invece avere che un effetto opposto,^se esso fosse largamente
seguito; l’effetto di ricondurci alla faciloneria intellettuale e ad un pernicioso lati-tudinarismo morale.
Nel suo furore anticrociano, il R. se la Srende anche contro alcuni scrittori della '¿vista di filosofia neo-scolastica e in particolare contro il Chiocchetti, che ha tentato in La Filosofia di B. Croce (Firenze, Libreria Ed. Fiorentina, 1915) una esposizione sistematica della filosofia dello spirito. « In due soli punti il Chiocchetti esprime il suo dissenso dal crocismo: riguardo all’immanenza, cui egli vuol sosti tuita la trascendenza divina; e riguardosa! problema della libertà morale, che il Croce, in realtà, toglie via, pur, anche qui, con antipatica equivocità, mantenendo la parola ». Ma che cosa può restare della filosofia del Croce quando alla immanenza si sostituisce la trascendenza? Null’altro che dei dibattiti di logica formale, intorno al concetto dell’universale concreto ed alla funzione dei concetti in generale.
Il R. aggiunge che la filosofia del C. è « sostanzialmente atea ». E questo il C. nega recisamente; e solo il R. e pochi anti-idealisti con lui possono vedere, nelle parole testé dette alla Camera dall'attuale ministro della P. I. contro la concezione atea dell’insegnamento, un saggio di opportunismo politico. Poiché ateismo è negazione totale delio spirito e dei suoi attributi — assolutezza, eternità, libertà, valore morale — che invece l’idealismo, a suo modo, certo, ma vigorosamente, rivendica. Esso ha quindi pienamente ragione di affermare Dio, contro il naturalismo materialistico e il positivismo. Del resto, la storia della teologia cattolica è piena di accuse similmente gravi che i teologi romani si lanciavano l’un contro l’altro: basti ricordare, come esempio recentissimo, la polemica antirosminiana.
E dunque una maggiore serenità di giudizio sarebbe desiderabile, specialmente da parte di un antidogmatico.
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Chi sente la libertà dell’insegnamento come fondamento di ogni progresso umano, ha sommo interesse di conoscere tutto il movimento di idee e di azione che si va svolgendo intorno al costruendo Goethe anum di Dornach (Svizzera).
Questo grandioso monumento artistico destinato a servire come Lìbera Scuòla Superiore di Scienza Spirituale Antroposo-flca, come viene insegnata da Rudolf Steiner, fu cominciato all’incirca un anno prima dello scoppio della guerra mondiale c continuato negli anni seguenti attraverso a difficoltà incalcolabili, per opera dello Steiner stesso e di persone d’ogni paese.
L’intento dello Steiner era • di erigere un centro di energie vivificatrici in mezzo al nostro mondo occidentale, gravido di forze di distruzione, di opporre, agli effetti di un materialismo alieno dallo spirito e di uno spiritualismo perdente-presa sul mondo,’ una vera Scienza dello Spirilo. Una Scienza dello Spirito che non vuol soltanto esplorare intellettualmente, o intuire misticamente, o devotamente adorare lo spirito come un’astrazione lontana dalla realtà, ma vuole per mezzo di una «veggenza del giudizio» severamente e metodicamente disciplinata, afferrarlo nei singoli fenomeni della natura e nelle manifestazioni dell’anima umana, come una realtà concreta e organica dalla quale si possano sprigionare forze propulsive morali per la ricostruzione sociale ».
Dal 26 settembre al 16 ottobre p. v. si tennero al Goetheanum dei corsi di conferenze antroposofiche che mostrano veramente tutta la serietà di questa nuova corrente da molti ancora ignorata. È una córrente che, con metodi scientifico-spi-rituaìi, intraprende la trasformazione di tutte le scienze speciali, dando una nuova
impronta-al pensiero e all’azione, sia nel campo degli ordinamenti sociali economici e tecnici, sia nel campo scientifico e artistico e dimostrando coi fatti la possibilità della tanto sospirata riconciliazione tra la Religione, l'Arte e la Scienza. 11 corso fu inaugurato il 26 settembre con una conferenza preliminare di Rudolf Steiner - Scienza, Arte e Religione » seguita da saggi artistici di musica, recitazione c euritmia. Si sono poi seguite delle lezioni su diversi temi: ne diamo una scelta per notizia.
Dr. Rudolf Steiner, Lìmiti della conoscenza della natura.
Hermann von Bara valle. Problemi fóndamentali di Fisica alla luce della conoscenza antropo-sofica.
Dr. W. J. Stein, Rappresentazione, Concetto e Giudizio nella dottrina di Rudolf Steiner.
Dr. med. F. Huseman, Questioni della psichiatria odierna da! punto di vista dell’Antroposofia.
Dr. Oskar Schmiedel, Luce e colore secondo la Scienza dello Spirito.
Emil Molt, Direttore di fabbrica. L'Industriale nel passato e nel futuro, dal punto di vista della Scienza dello Spirito.
Rudolf Meyer, Problemi storico-filosofici del Cristianesimo alla luce dell’indagine antroposo-fica.
Prof. Dr. P. Beckh, Indologia e Scienza Spirituale. Adolf Arenson, Fondamenti di metodica scienti-fico-spirituale.
Dr. Ernst Blumel, Problemi principali della matematica moderna nei loro rapporti con la filosofia, la fisica e l’antroposofia.
Rudolf Meyer, La dottrina di Herbart sull’educazione umana dal punto di vista dell’Antroposofia.
Emil Leinhas, Luci ed ombre del Capitalismo moderno.
Karl Ballmer, Volizione artistica e Antroposofia;
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LETTURE ED APPUNTI
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Arnold Ith, Il fenomeno bancario e la formazione dei prezzi, nella loro importanza attuale e futura, per la vita economica.
Ernst Uehli, La Mitologia nordico-germanica come storia dell’evoluzione.
Dr. Karl Unger, L’opera di Rudolf Steiner.
Dr. Hans Wohlbold, La dottrina delle Meta* * mortosi di Goethe e la Scienza dello Spirito.
E. Vreede phil. doct. Giustificazione della matematica neirastrcnomia e suoi limiti.
Dr. Karl He ver, Considerazioni Antroposofie he sulla Scienza della Storia, tratte dalla Storia.
Dr. J. Hugentobler, Antroposofia e Scienza del Linguaggio.
Herbert Hahn, Idea e pratica deH'educazione operaia richiesta dai tempi, su basi scientifico-spirituali.
Walter Kuhne, Le tappe nella vita di Tolstoi. Albert Steffen, La crisi nella vita dell’artista e la Scienza dello Spirito.
Come ben si vede una grande opera positiva di poderoso lavoro umano rinnovatore, si presenta qui al mondo — semplice e severa — in un momento tragico di generale dissoluzione. Nel campo della Scienza, da fonti che i suoi rappresentanti ignorano, sono sorte le forze-di distruzione che stanno rapidamente ed inesorabilmente spingendoci alla rovina e nel medesimo campo va anzitutto intrapresa la lotta e conquistata la vittoria.
Auguriamoci che almeno uno degli studiosi italiani sia andato vedere coi propri occhi il mondo nuovo Che sta sorgendo in questo remoto angolo nord-occidentale della Svizzera, dal quale nuove forze ricostruttrici potrebbero — purché in tempo — venire inoculate nella nostra boccheggiante civiltà, asfissiata dal materialismo.
[Lina Schwarz].
N.B. Sullo Steiner si veda il fascicolo di agosto di B. a pag. 155.
* • *
La sezione di Napoli della Federazione studenti per la cultura religiosa avendo ampiamente discusso intorno ai mezzi con i quali realizzare un programma di coltura religiosa e cristiana, quale si esige dalla più recente fase spirituale del movimento, ha trovato che due sono le forme di attività sociali maggiormente rispondenti allo scopo. La prima consisterebbe in conversazioni liberissime esenti da ogni vincolo programmatico.
determinate non da una opportunità sociale, ma da intimo bisogno dello spirito di coloro che intendono parteciparvi. Queste conversazioni, guidate e dirette da chi si sia, studente o professore, purché capace di farlo, per propria esperienza religiosa, avrebbero lo scopo di approfondire la conoscenza del fenomeno religioso in generale e della fede cristiana in particolare. Ma poiché è evidente che queste conversazioni potrebbero riuscire alquanto difacili e affaticanti per coloro che sono meno atti al pensamento filosòfico, si è ceicata un’altra forma di concezione e di elevazione spirituale la quale avesse più carattere estetico ed emotivo, alla quale il gruppo potesse più agevolmente partecipare. E questa forma fu trovata nella lettura, in forma di conferenze letterarie, di poesie o anche prose religiose di ogni età atte a elevare lo spirito. Queste letture, accompagnate da commenti e introduzioni, servirebbero a far conoscere lo spirito religioso di tutti i tempi attraverso taluni capolavori letterari che già come tali meritano di essere conosciuti: tali p. es., nelle letterature straniere, gli Inni Vedici, i Salmi, taluni frammenti di Eschilo, di Pindaro, il Paradiso Perduto di Milton, taluni poeti inglesi e, tra i poeti nostrani, p. es. il Rossetti, Carcano e via dicendo.
Con queste letture la sezione di Napoli pensa di poter contribuire potentemente, attraverso l’emozione estetica, alla formazione di una simpatia religiosa che nelle conversazioni suddette potrebber trovare la sua sistemazione o la piena consapevolezza.
La sezione di Napoli espone queste idee a tutti gli studiosi nell’intento di conoscerne il pensiero e, ove il suo esempio sia seguito, il risultato, da comunicarsi al segretario nazionale della Federazione stessa avvocato Cesare Gay (via Roma, 373), il quale ha lanciato a questo proposito una recente circolare, invitando tutti i soci ed amici a riprendere ¡'attività, sospesa durante le vacanze estive.
La Lega popolare Rettet die Ehre d’accordo col Comitato della Chiesa evangelica tedesca, quale rappresentante di tutte le Chiese evangeliche tedesche, ci manda il seguente proclama nel quale si rivolge al sentimento cristiano di fratellanza in tutti i paesi di cultura cristiana, in particolare alle comunità di ugual fede per
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protestare contro quello che il popolo tedesco chiama l’obbrobrio nero.
a La Francia — dice il proclama — ha giudicato conveniente d’impiegare nelle regioni occupate truppe di colore, anzi nere.
« Chi conosce la storia della Missione evangelica tedesca in paesi d'oltremare, sa che nelle nostre sfere ecclesiastiche non v’è pregiudizio alcuno contro i popoli e le razze di quei paesi. Ma sono appunto i vizi di quei popoli allo stato di natura K>co colti, che noi nel nostro lavoro di issione cercavamo di vincere colle armi dell’amore e della carità di Gesù; sono appunto questi vizi che adesso vengono lanciati senza ogni freno sul nostro disgraziato popolo. Oppresso dalla fame e dalla povertà, senza alcuna possibilità di difendersi, il nostro popolo coll’angoscia nel cuore è costretto a vedere violare le sue donne, le sue fanciulle c i suoi ragazzi.
• Nessuna disciplina militare, se fosse pur applicata il più severamente possibile, è capace di frenare gli istinti selvaggi di questi soldati che si contano a circa diecimila, che vivono da anni lontani dalia patria, e che non hanno mai avuto un’educazione cristiana. E un obbrobrio infame, quello che si fa soffrire al nostro popolo. Donne pure c bambini innocenti vengono contagiati e resi malati di corpo e d’anima; si fa cadere le deboli. Le labbra e la penna rifiutano di descrivere tutti questi orrori, i quali sorpassano ogni atrocità delia guerra.
• Nei giornali francesi e inglesi le misure suddette e le loro conseguenze vengono indicate qual politica francese. Noi non diciamo parola. Noi non vogliamo giudicare. Vorremmo soltanto implorare tutti i Cristiani dei popoli non-tedeschi: Svegliate- la coscienza del vostro popolo! Nessun vincitore ha il diritto, quasi due anni dopo la conclusione della pace, di violare non solo i corpi ma anche» le anime del nostro popolo. Ogni Cristiano deve ricordare le parole di Nostro Signore (San Matteo Capo i8 V. 6) in cui con sacro sdegno difende le anime dei deboli dallo scandalo, e ognuno deve sentire- Coll’Apostolo S. Paolo: <; Se un membro patisce, Stiscono insieme tutti i membri • (I. Ai
rinti 12. V. 26).
• Abbiamo avuto soccorso dall'Estero per molti bambini affamati e ne siamo riconoscenti. Ma vorremmo piuttosto soffrir la fame che perdere la nostra anima. Perciò, o Cristiani del mondo intiero, alzate la voce e protestate contro l’obbrobrio della devastazione!
« Per il Gomitato della Chiesa evangelica tedesca, firmato: Dott. Mobller, Eisenach.
« Per la lega popolare *Rettet die Ehre», firmato: Pastoie Hartwich, Bremen ».
• * *
Il dott. G. Vidoni ci manda alcuni suoi appunti sulla delinquenza in tempo di guerra pubblicati dalla rivista Cesalpino di Arezzo e scritti già nel 1918 con molta acutezza di vedute. Dalle osservazioni del V. risulta evidente ciò ch’egli non vuol dire a chiare parole, ma che sarebbe bene ora si sostenesse apertamente, che la guerra non è se non un orribile e terribile sciagura che si abbatte sull’umanità apportando non solo morti e sventure, ma, quel che è forse più, un peggioramento delle condizioni morali della società che controbilancia sfavorevolmente il piccolo miglioramento che può apportare in altro senso. Le statistiche dei delitti, l’abbassamento dell’età dei delinquenti, le osservazioni degli spiriti più sereni constatano ciò che già la considerazione più superficiale aveva il campo di statuire, non essere la guerra per le abitudini che fa contrarre, per lo stato d’inerzia morale cui sottopone, per le forme di bisogni che crea ed imprime una « sorgente di virtù ». Quanto ai principi per le cui attuazioni si combatte oggi certo non possiamo fare le riserve che nel 1918 il V; doveva fare. È meglio anzi non parlarne!
Il nostro chiaro collaboratore prof. Aristide Calderini, così benemerito della cultura storica grazie all'opera indefessamente prestata per la papirologia — di lui siamo lieti di annunziare l'imminente pubblicazione nella nostra rivista di un saggio sui « sacerdozi e sacerdoti nell'Egitto degli Antonini » — ci manda l’estratto d’un suo interessante articolo edito dalla Nuova Antologia su la bibliografia pubblicata nel voi. Ili degli studi della scuola papirologica milanese, da lui iniziati e curati. Mentre su tale volume richiamiamo l’attenzione di lettori in una nota e parte, rammentiamo qui tale articolo che riassume la suddetta bibliografia in poche pagine, ricavando la storia de! notevole contributo italiano a questa scienza, da cui ànno trattò tanto utile la storia, la giurisprudenza, l’archeologia, l’economia, ecc.
Il C. fa notare fra quali difficoltà proceda il lento, ma sicuro progresso di questi studi in Italia, dove si stanno addestrando
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LETTURE ED APPUNTI
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sopratutto, diciamo il vero, per l'opera sua c della scuola di Firenze, dei giovani egregi che dànno affidamento di sicura Riuscita. Tanto maggior merito per gli studiosi che vi ci cimentano e tanto maggior disdoro per coloro che potendo non; li aiutano!
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Si è costituito in Roma un Cìrcolo universitario di studi storico-religiosi (via Manin, 53). Scopo del Circolò è di promuovere e d’incoraggiare in Italia gli studi storico-religiosi condotti con rigido metodo scientifico, ma nello stesso tempo con un senso vivo dell’importanza che ha la cultura religiosa come mèzzo di elevazione individuale e collettiva. Il Circolo si propone di raggiungere i suoi fini: o) organizzando ira soci ed eventualmente fra non soci lavori individuali e collettivi nel campo delle scienze storico-religiose; b) preparando cicli di conferenze di carattere prevalentemente divulgativo; c) promuovendo relazioni con enti che si propongano le medesime finalità.
I soci appartengono di regola al mondo universitario; in via eccezionale si possono ammettere anche altri cultori di discipline religiose. Devono tutti essere presentati da due soci. La quota d’associazione è di lire 3 mensili. I soci riceveranno gratuitamente la rivista Relieio.
Il circolo sarà aconfessionale e apolitico. Auguriamo a questa iniziativa giovanile un lieto e fecondo? successo.
-* • «
P II Circolo universitario di studi stòrico-religiosi di Roma, à bandito un concorso ad un premio di lire 600 per un lavoro di argomento scelto dal candidato, attinente alle scienze storlcO-religiose. Al concorso potranno partecipare tutti i soci del Circolo inscritti almeno fin dal i° marzo 1921; termine di presentazione i° luglio 1921 in due copie o stampate dopo il i° gennaio »920 o dattilografate. La Commissione giudicatrice sarà formata di tre membri designati dal Consiglio direttivo e di cui almeno uno deve essere un professore di U Diversità. Il lavoro, se inedito, sarà pubblicato possibilmente nella rivista Religio.
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Lo Studio Editoriale Campano di Caserta pubblicherà tra giorni: Domenico Di Rubba, La disfatta del cattolicisxno. Elegante volume di circa 2cò pàgine con
copertina a colori di Giove Toppi (lire quattro). Prevedendosi che il lavoro sarà ih breve esaurito l’editore prega di prenotarsi.
La libreria di cultura di. Furio Lonzi (Via Firenze 37) si ù fatta promotrice d’una collezione di scrittori cristiani antichi, con la quale intende offrire un ordinato materiale di studio a quanti mirano a risalire spiritualmente a quella età eroica del cristianesimo, a cui debbono rifarsi quanti si propongano di cogliere l’essenza dei messaggio cristiano, nella prima trionfale esplosione' della sua virtù diffusiva.
Prendendo le mosse dalle prime manifestazioni letterarie cristiane extracano-niche, la raccolta comprenderà i principali rappresentanti del pensiero c della propaganda cristiani nei primi secoli, arrestandosi per gli scrittori greci e latini all’alba del iv secolo, e scendendo per gli orientali agli inizi del vi.
Degli scrittori greci e latini sarà dato il testo e la versione. Degli orientali la sola versione.
La cura dei singoli volumetti sarà affidata a studiosi in grado di offrire, le più serie garanzie.
Sono in corso di stampa La lettera a Dio-gneto a cura di Ernesto Suonatati; La Passione di S. Perpetua e S. Felicita a cura di Giuseppe Sola; Bardesane. Il dialogo delle leggi dei paesi a cura di Giorgie (.evi Della Vida.
Tranne per questo di cui si farà. uu‘edizione unica con traduzione e introduzione (L. 3) per le altre due opere si faranno tre edizioni: una Completa (L. 3); una senza testo (L. 2); una, col solo testo (L. 1.50).
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Israel riceve da Berlino delle interessanti notizie su una grande organizzazione ebraica del Hbro, che diverrà il centro della vita spirituale ebraica della Diaspora, e l'intermediaria della cultura per la Palestina e la Dispersióne, fra ¡'Oriente e l’Occidente. La suprema Direzione letteraria è stata affidata ad un uomo di grande ingegno e di alta fama: al Dr. Martin Bubcr; la sezione ebraica al Dr. Jacob Klatzkin. Un organismo finanziario di grande ampiezza e solidità darà alla Casa editrice i mezzi per attuare il suo vasto programma
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di ¿cultura nazionale. Il Welt-Verlag si fonde col Jüdischer Verlag; e nella sua nuova attività mirerà a iar conoscere ai lettori della Diaspora eli autori ebrei, a trattare i massimi problemi sociali, a fornire ai lettori d’ebraico e di Jiddish le manifestazioni più notevoli della letteratura universale.
Una nuova organizzazione vien poi creata colla Enver Gesellschaft für BtiCh-und Kunsthandel la quale provveder» alla diffusione materiale del libro, ad allargare c curare il mercato librario ed artistico fra gli Ebrei: uno speciale ufficio di messaggeria sotto la direzione di abili uomini di affari, di conoscitori del libro e di organizzatori, sarà creata a Lipsia ed avrà filiali c rappresentanze in tutto il mondò. Essa servirà a procùrare ai suoi clienti ogni specie di libro. In Germania si creerà tutt'una serie di Librerie per la vendita (di cui la prima è intanto già aperta a Berlino Enver-Buchhandlung für allgemeine jüdische Literatur w. Kunst. Berlino W, 15 Knesebeckstrasse 54-55).
Per dirigere metodicamente e di continuo la clientela sopra ogni campo di letteratura ebraica e generale verrà pubblicata poi col primo dicembre prossimo una Rivista bibliografica mensile (Enver-Zeitschrifl) che sarà distribuita gratuitamente. Chi la desidera può inviare fin d'ora il suo indirizzo. Essa conterrà, oltre, la parte puramente bibliografica, saggi, note letterarie c articoli di notissimi autori.
Dall'/sraeZ del 23 settembre rileviamo che è stata fatta presso Tibcriade un interessante scoperta: quella d’un’antica Sinagoga di magnifica arte. Essa è posta nel villaggio di Nahum o Tanhum spesso ricordata nel Talmud e nell’Evangelo: è al nord-est di Tiberiade. L’edifizio è in marmo con colonnati imponenti. Alcune piotic hanno impresso il Maghe n David con una specie di fiore nel contro. Contiamo di tenere informati i nostri lettori.
' 11 nostro amico G. E. Meille à ricevuto dà Raoul Allier, presidente fino all’anno scorso della Federazione Francese degli studenti Cristiani, la seguènte lettera che ci piace pubblicare:
Villa les Aiguilles.
Argentìères (Haute Savoie), 8 sept. 1920.
Monsieur,
J’ai hi dans Bilychnis la nouvelle série d'études que vous avez publiée sur les combattants chrétiens. Elle m’a donné la même émotion que la première. Il étaii impossible de tirer un parti plus bienfaisant des documents que vous aviez sous les yeux et que vous avez traités vraiment comme des reliques d'ordre spirituel. Votre étude a été très appréciée par tous ceux de mes amis qui Pont vue. Puis - je vous demander — je crois déjà l’avoir fait à propos de la première série — si vous ne rassemblerez pas ce travail en un volume qui rendrait bien des services? (x).
Je vous prie,- Monsieur, de me croire votre respectueusement reconnaissant et dévoué.
Raoul Allier.
(x) L’estratto è in preparazione sotto gli auspici della Federazione italiana degli studenti per la cultura religiosa. (N. rf. D.).
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LE “ CONFESSIONI ”
Giosuè Borsi è morto da eroe, è morto facendo testimonio di quella fede che sempre è stata nell'intimo dell’animo suo, tanto che il parlare di « conversione • per lui è assolutamente improprio. Si diviene ciò che si ò ed egli era indubbiamente un uomo di fede e di azione, onde vivendo come visse negli ultimi anni di sua vita e morendo come morì non fece che ritrovar sè stesso... Non si converti, rimase quello elle era, credente ed operante quale la natura l’aveva fatto. Noi ci inchiniamo quindi riverenti dinanzi alla tomba di un uomo che seppe — e questo fu il suo maggiore se non unico merito — estiinsecare l’energia del suo spirito e renderla compiuta e vitale.
Dispiace perciò che l’ammirazione di cui lo circondano i vivi che con lui ebbero comunanza di fede, vada ricercando le traccio di questo suo compimento spirituale nella sua vita intima, anteriore al momento culminante della sua manifestazione. Dispiace perchè nel temperamento dell’uomo gli elementi caduchi erano tali e tanti che anziché lumeggiale di calda luce la sua opera spirituale essi vi gettano ombre e chiaroscuri che non piacciono.
Ecco perchè se la donna che egli amò fosse stata ben consigliata non avrebbe permesso che le confessioni a lei fossero date al pasto del pubblico, non solo per un sentimento intimo che è facile a comprendersi, ma pei un alto apprezzamento dì quella fama che essa dovrebbe contribuire ad elevare', non a deprimere.
Ora le « confessioni • non sono nè una opera sincera, nè un’opera umana, sono »n’opera retorica e letteraria, voluta
(>) Lz confessioni a Giulia con introduzione <i P. Misciattelli, Roma, L. Buffetti, 1920.
DI GIOSUÈ BORSI
dall’A. nella forma in cui -fu data sol per un capriccio di dantologo. Esse sono la moderna Vita nova ¡come la vagheggiata opera su La Gentile (chi non ricorda tanto gentile e tanto onesta pare ! la donna mia...?) non sarebbe stata che « l’immensa epopea della razza italiana» (p. .139) e avrebbe fatto macro per tanti anni il B. (dai io ai 30 secondo lui) c vi avrebbero posto mano c cielo e terra (v. nella p. citata tutto quello che avrebbe dovuto contenervi) sol per contrapporsi alia Divina Commedia. Lo dimostrano la. struttura dell’operetta, (che è spesso affrettata nello stile e forzata nell'espressione dell’individualità dei diari tutt’altro che logicamente disuniti, p. 126 c segg.). perfino alcune allusioni all'influsso de’ numeri (p. 169-70), la tri-partizione in quaderni, ed altre simili futilità, le frequenti citazioni di Dante, il linguaggio non da amore umano, ma teologale usato verso l'Eletta, la stessa sua identificazione fin dalle prime pagine (pagina io) con V Anima della stirpe, la non felice trovata delle estasi (p. 134).
1 sentimenti espressivi poi non sono umani che in parte: purtroppo il B. non doveva essere nè umile nè modesto e le sue frequenti allusioni alla sua certa fortuna avvenire, il suo facile ricordo degli amori e della vita passata, il suo sensualismo ed intellettualismo costituiscono la parte più manifesta, più esposta, ma non più sincera delle sue prose. Più che sentirsi véramente colpévole, come pur dice, e confessare a Giulia tutto il ribrezzo, il pentimento e l'orrore che gli destano i suoi anni giovanili trascorsi, egli si compiace di manifestarli per un malinteso amor proprie che 10 porta a considerarsi un Don Giovanni, a malgrado, tutto amato (p. 142), uno spirito eccezionale che pos-
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sederà il mondo dei suoi contemporanei citrulli (p. Si), un nemico dichiarato e temibile perfino dal diavolo* (p. 178).
Ora se ncH’uiniliazionc egli avesse svelatole sue colpe c si fosse prosternato a terra, coperto il capo di cenere, e avesse realmente. sentito l’orrore dei suoi falli, non solo non avrebbe parlato come parlò, ma avrebbe veduto nell'umanità fragile che lo accompagnò nelle peregrinazioni • che egli riteneva colpevoli attraverso la crapula, un senso di carità che l’avrebbe mosso ad esagerare di fronte ad esse la sua c non la loro colpa (p. 135). Nulla di tutto ciò, purtroppo.
Ma quel che è più il suo non è amore umano, è letteratura. L'Eletta donna che l’ispirò parve ben accorgersi di questo suo falso sentimento e più volte di esso e dei suoi difetti lo riprese. Se non che il B. nella foga di ' conquistarla la investì con prose che umanamente parlando non avrebbero dovuto far presa sul suo amore, ma tutt'al più sul suo orgoglio* e, se Ella l’avesse avuto, sul suo sentimento di vanità femminile. L'amore per Giulia non è amore, è esplicita tendenza all’assoluto voluta, affermata, confessata (1), tendenza quindi, come dicevo, a divenir quel che si è, desiderio folle di indiarsi, senza passare per l'umanità dolorante e sofferente. Ora questa attitudine per l’appunto dimostra il carattere pagano del suo temperamento.
Ónde errano i cattolici ' — a menò che non siano nei vero, ma in tal caso contro l'asserto loro medesimo che cattolicismo non è paganesimo — quando vedono in questo amore la tendenza a Dio. il mezzo della salvezza, la tavola della conversione nella tempesta del male. La forma letteraria della mente del B. gli suggerisce questo transumanarsi nell’anima della stirpe già quando egli è a Dio (si confessa e si comunica), onde la via per andare a Dio o per essere in lui non è l'amore, ma la volontà dell'assoluto, sola ed unica. E ciò è tanto vero che di tanto in tanto, anche attraverso i freni letterari del la(x) La Giulia esisteva già prima in lui c per lui: v. p. 5, p. 52, cfr. p. x8x. Egli attribuisce a lei tutte lo virtù,' ma senza conoscerne alcuna: do penso che la tua bellezza sia l’espressione pura c impeccabile d'un’anima altrettanto ammirabile e adorabile « (p. 45). Essa fu già amata da Leopardi, fu la perfezione vagheggiata da tutti i poeti, sarà la regina di tutti (p. 99-100) c rosi via.
voro, scatta la passióne sensuale dell'A. e si sente il bisogno umano della creatura vagheggiata come perfetta, ma non sentita tale realmente che pei un giuoco letterario (v. p. 16, p. 82, p. 92, p. 157).
Non sembri, per carità; irriverente ciò che dico nè alla memoria dell’uòmo che cadde nella luce della gloria c della fede, nè alle pie donne che io imagino vigilino la sua ricordanza nel!’intimo dei loro cuori e delle loro case. Io non dubito nè della sincerità, nè della forma sana con cui lo spirito del B. accolse negìi ultimi anni quella che per lui era sin dalle origini la verità, fino alla morte con rinnovata forma, e con profonda convinzione affermata.
Non credo però che il M. abbia, bea fatto col dare alla luce questo lavoro letterario che avrebbe dovuto lumeggiarci gl’inizi della «conversione» bor-siana, mentre non ci ha svelato che il B. traduttore dei contes drolaiiques, innamorato di Dante e desideroso di eccellere letterariamente con un’opera che la baldanza- giovanile gli faceva sperare eguale al suo idolo letterario. Il M. avrebbe dovuto limitarsi a studiare il diàrio che la altrùi benevolenza, gli dava nelle mani, trarne le sue conclusioni, ma lasciarlo nell'intimo della casa ove si trovava perchè fosse dimenticato da tutti, perfino da chi può vivere indubbiamente di altri ricordi che non siano questi che mostrano un carattere ben diverso da quello che il B. volle avere (p. 62).
. Giovanni Costa.
NB. Per abbondanza di materia siamo costretti a rimandare al prossimo numero le 0 recensioni ” ed una lettera di R. Murri, pervenutaci all'ultimo momento, in risposta alle critiche del Tosatti.
RELIGIONE DELLA CINA
In The Princeton l teologica! Revie w H. Fenn pubblica un interessante studio sulla religione della Cina moderna. Ne riassumiamo la maggior parte che ci sembra importante. L’A. promette che per ben comprendere la religione attuale della Cina è necessàrio distinguerla dalle religioni dei secoli passati che, in gran parte, non sono ormai che un fatto storico. Egli distingue quindi cinque religioni, anziché tre, e cioè: Pre-confuciana, confuciana, taoista, buddista e moderna.
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TRA LIBRI E RIVISTE
delle quali la prima è cronologicamente distinta, la seconda, e la terza contemporanee, la quarta aggiunta dopo circa cinquecento anni, la quinta un amalgama di buoni e cattivi elementi delle prime quattro insieme con elementi che tutte e quattro sconfesserebbero.
Divisa l’antichità cinese in 3 periodi', dei. quali il primo va dal 2500 a. C. al 1200 a. C. il secondo dal, 1200 al 600 a. C., il-terzo dal 600 a. C. al 300 d. C., l’A. trova che il primo è caratterizzato dal monoteismo proprio dell’antica religione preconfuciana, che presenta alcuni punti di contatto con l’antico monoteismo di Israele, il secondo c dualista con tendenze al materialismo, il terzo, in cui sorgono le due grandi religioni di Confucio e di Lao-tze, è fortemente materialistico con tendenze all’agnosticismo, ma presenta incoercibili aspirazioni verso la spiritualità. Già in questo periodo si trova il culto degli antenati e l’adorazione di quei poteri soprannaturali che venivano considerati come gli esecutori della volontà dèli'Essere Supremo.
Nel secondo periodo, verso il 1200 a. C., si trova una nuova concezione di Dio e dell’universo, rappresentata dal concetto che tutto nella creazione è soggetto ad azione e reazione, flusso e riflusso, determinati dai due principi che produssero tutte le cose, cioè l’attivo e il passivo, il maschile e il femminile. Da ciò si sviluppò una filosofia dualistica c materialistica che poi degenerò nelle grossolane superstizioni del buddismo e specialmente del taoismo.
Passa poi ad esaminare il confucianesimo dicendo che molto di quanto vi è di razionale e di puro nella moderna vita cinése è dovuto a questa religione, il cui insegnamento si può riassumere in due parole « lealtà » e « magnanimità », ma essa tace circa l’avvenire dell'uomo dopo la morte e, quantunque gli abbia svelato il suo senso morale, non può soddisfare ai bisogni dell’anima umana.
Il taoismo sorge come una filosofia c gradualmente diviene una religione per la morte di Lao-tze. Il suo insegnamento si ritrova specialmente tre secoli dopo la sua morte in Chwang-tze, il quale però più che istituzioni religiose ci presenta abbondanza di grottesche superstizioni.
Nè la religióne originaria della Cina nè il confucianesimo sono mai state religioni di idolatria. Questa invece comincia con
l’introduzione di un’imaginc di Budda dall’india c da allora, tanto il buddismo, quanto il taoismo ànno moltiplicato i 'loro idoli indefinitamente,.
Il buddismo si è introdotto in Cina verso il 252 dell’Era volgare nella fórma datagli da Aswagosha, e quantunque abbia spesso sofferto persecuzioni, si c fortemente affermato.
L’A. passa quindi ad esaminare la religione moderna, ancora basata sull’antico monoteismo. La Cina’ sente il bisogno di un’idea religiosa che la vivifichi poiché l'attuale religione, amàlgama, di buoni e cattivi elementi delle religióni precedenti insieme con clementi estranei, non corrisponde ormai più ai suoi bisogni spirituali.
Con l’avvento della Repubblica che à riconosciuto la libertà religiosa e con la abolizione degli antichi sistemi di esame, il confucianesimo, sul quale era basata principalmente la vita nazionale, à subito un gran colpo. Le altre religioni delia Cina sono anch’essc in decadenza, perchè non avendo più vita ih sè, non possono nemmeno darne.
Questo anno compreso le menti più illuminate della Cina che richiedono qualche cosa che sia più adeguato ai tempi; anzi, considerando lo sviluppo preso dalla Chiesa cristiana, sempre più si viene diffondendo in loro la convinzione che soltanto la Cristianità, qualora non rigetti ciò che vi può essere di buono nelle antiche religioni, ma se lo incorpori aggiungendovi il divino concetto animatore della redenzione e della rigenerazione, può salvare la Cina e darle la forza di adempiere anch’essa al suo compito.
STUDI DI PAPIROLOGIA
Il terzo volume teste uscito (Milano, Hoepli, 1920. in-8®. pp. 352. legato, L. 25) degli Studi della Scuoia Papirologica di Milano, diretta dal prof. Aristide Calde-rini, va segnalato ai lettori di Bilychnis anzitutto come una nuova affermazione della vitalità delle nostre istituzioni universitarie, quando siano intese, .come preparazione seria e fattiva, di studi proficui. Fra il contenuto richiameranno in particolare l’attenzione per l’interesse assai largo, delia materia le ricerche etnografiche sui ■papiri greco-egìzi-, dove il prof. Cal-derini, col signor M. Untersteiner c le signorine Accòrdi e Volani ha raccolto Juanto i papiri ci dicono circa l’etuico elle persone di cui è menzione nei papiri;
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BILYCHNXS
fra coleste persone i sacerdoti e le sacerdotesse sono pure qua c là rappresentati. Interesse non minore può suscitare lo studio della signorina Grassi su Musica, •mimica e danza secondo i documenti papiracei greco-egizi, dove è esaminato con cura tutto quanto sappiamo circa questa materia, così direttamente collegata ai rili religiosi orientali. Contributi alla nomenclatura dei vasi secondo.ì papiri porta poi la signorina dott. Anna Castiglioni, mentre il dott. Ayno presenta alcune note a Timoteo, la dott. Maria Calderini Mon-dini studia un papiro di Eraclia Lembo, c il prof. Vitelli propone alcune correzioni a papiri della Società italiana. Occupa poi circa metà del volume una bibliografia metodica degli studi italiani di Egittologia e di Papirologia dal 1800 circa ad oggi, che è assai importante perchè è la prima raccolta sistematica di tutto un immenso materiale, che così disposto, fa evidentemente onore aila attività più che secolare degli studiosi italiani anche in questo campo dello scibile. Notiamo che la Sezione XIV è intieramente dedicata alla Mitologia e alle antichità religiose e contiene ben 216 numeri (dei 2442 di tutta la bibliografia) cos} suddivisi: «) Epoca faraonica: «. mitologia; storia della religione; v, oltretomba; 8, Iside e Scrapide; t, amuleti e magia, b) Religione greca, c) Giudaismo. d) Cristianesimo: «. storia della chiesa egiziaca; fi, papiri biblici; y, patristica e letteratura cristiana; 8, gnosi; s, culto cristiano; <» archeologia cristiana; «, chiesa copta.
* • •
Sotto nuova forma appare edita dallo Zanichelli la Rivista di filosofìa, organo della Società filosofica italiana, nel suo primo fascicolo dell’anno corrente c promette di riprendere regolarmente la sua attività più intensa. Essa si propone di non essere una raccolta di studi tecnici, ma soprattutto culturali. • Vorrà esser organo vivo d'indagine, e di critica delle correnti spirituali contemporanee; voce fedele ed eccitamento vigile della cultura superiore. Cercherà di ridurre alla luce del pensiero filosofico i problemi, gli accadimenti, il dramma che viviamo nei diversi comuni aspetti, psicologico, etico, estetico, politico, sociale, tentando di prospettarne e rilevarne le intime significazioni ».
Questo fascicolo, oltre che numerose note critiche c bibliografie, contiene « Unità e molteplicità » di B. Varisco; « La teoria democritea della scienza nei dialoghi di Platone» di F. Enriques; «Lo sviluppo spirituale e il progresso » di M. Losacco.
Auguriamo alla rinnovata rivista di riprendere la sua via con successo pari alla volontà di bene che la anima.
Ci giunge una nuova rivista che potrà fare molto bene se esplicherà il programma che si è proposta. Russia, diretta da E. Lo Gatto, si propone difatti di far conoscere con traduzioni da fonti dirette la Russia nelle sue manifestazioni letterarie, storiche e filosofiche recenti e passate in modo da offrire ai volonterosi il modo di farsi un concetto quanto è più possibile chiaro ed esatto della condizione spirituale del popolo russo e comprenderne le sue condizioni sociali c politiche.
ft^Noi che plaudiamo di cuore a tutte le nobili iniziative e specialmente a questa, contribuiamo subito alla conoscenza della rivista pubblicando in questo stesso numero (v. sopra a pag. 307) una parte dei documenti da essa presentati nel I fascicolo. In esso i lettori potranno trovare un breve saggio sul Bielinskii, autore della lettera da cui abbiamo desunto il passo per noi più interessante. Accanto a questi articoli troveranno un racconto di Cecof, dei versi di A. Blok. e un racconto di Màmin Si-beriàk, il descrittore degli Urali e della Siberia.
Al Lo Gatto mandiamo le nostre congratulazioni per la buona idea e gli auguri perchè essa trovi il più ampio successo. L'abbonamento ài 6 fascicoli annui costa L. T5 (Nàpoli, piazza Amedeo. 179).
• * *
e Ci si annuncia la imminente pubblicazione d'una nuova rivista che si propone di essere assolutamente sincera e di contribuire ad un movimento d'epurazione nell’arte e nella vita. Conterrà romanzi, novelle, poesie, grafologia, occultismo' il qual ultimo sarà in modo speciale diretto da un filosofo indiano Shavanah. La rivista che sarà diretta da G. Cornelio Necchi porterà il nome di Rivista senza veli ed uscirà a Milano. Attendiamo di conoscerla per giudicarla.
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NUOVE PUBBLICAZIONI
M. Heindèl, Freemasonry and Catho-¿icisnt. London, L. N. Fowler e C., 1920, p. 98 (pubbl. della Rosicrucian Feilowship di Oceanside-California).
G. Borsi, Confessioni a Giulia, a cura e con introduzione di Piero Misciattelli. Roma, L. Buffetti, 1920, p. 181 fcV. sopra a p. 327].
G. Prezzolini. Uomini 22 e città 3. Firenze, Vallecchi, 1920, p. 315. L. 7.
Questa raccolta di 26 saggi biografici e topografici non è che la riedizione di scritti dal P. già pubblicati, alcuni dei quali certamente meritano di restare, mentre altri a dir il vero potrebbero rimaner nell'ombra, per es. quelli delle 3 città che non dicono veramente nulla; i due sul Bergson che dicono anche meno c via dicendo. Ma in compenso dei buoni, se non degli ottimi, accettiamo anche questi che ci dimostrano la forma mentis di un A. che à senza alcun dubbio i suoi meriti accanto ai suoi numerosi difetti.
A. Buoso, Il Machiavelli nei concetto del Fichte, con in appendice la traduzione del saggio fichi iano « su Machiavèlli scrittore ». Portogruaro, Tip. già ditta Castion, 1920, p. 72-XLii.
È nota l’importanza che nella storia della fortuna del Machiavelli ha il celebre saggio che su questo scrisse il Fichte nel 1806, nel quale per la prima volta il pensiero del Machiavelli s'incontra con uno spìrito spoglio dei pregiudizi che offuscavano la netta comprensione del grande fiorentino. Il prof. Buoso ora ci dà una eccellente traduzione di quel saggio famoso, premettendovi un pregevole studio sui rapporti fra Fichte e Machiavelli. Egli fa notare l'importanza che lo studio di Machiavelli ha avuto nel far meglio comprendere al Fichte il vaiore spirituale della nazione,' nell'acuire in lui il senso vivo e concreto della storia. Dal Machiavelli Fichte apprende ad insistere sul valore fondamentale della volontà umana, che tutto fa per sè stessa e nulla s’attende dal fato o dal caso o dalla provvidenza. Dal Machiavelli deriva l’importanza che il Fichte dà allo Stato politico, fondato sulla conoscenza dei fatti antichi e moderni e sulla realtà delle cose e degli uomini. Come Machiavelli, cosi Fichte, per sentimento e principio repubblicano, si fa, in considerazione delle tragiche condizioni della patria sua, monarchico. Entrambi muovono dalla realtà della pàtria schiava ed oppressa, ma l’uno per levarsi all'ideale di una patria libera, l’altro a quello di una patria prepotente ed egemone. Mancò però al Machiavelli quel senso religioso della vita politica e della storia che e
proprio invece del Fichte, il quale fa dello Stalo come vita terrena l’inizio della vita eterna c vede nella nazione l’involucro dell’Eterno.
t.).
G. Pasquali, Orazio lirico. Firenze, F. Le Mounier, 1920, p. 792, !.. 25.
Ì’. Warns, Russlqnd und das Evaugelium, de/ aus der evangelischen Bewegung des sogenannten Slujtdismus. CiìSseì. Oncktu Nacht, 1920. M. 8.
A. De Hoyos y Vinent, / sonàgli di Madama Follia. Firenze, L. Bat listelli, 1920, p. 242. L. 5.
Fummo dei primi in Italia a richiamar l’attenzione dei lettori sull'A. di questi bozzetti e non ci sembra di aver fatto male, perchè il pensiero di questo scrittore spagnuolo e il suo sentimento di preoccupazione costante del mistero ci paiono meritar attenzione. Questi racconti «straordinàri • non sono tutti indubbiamente delle perle, ma sono spesso interessanti e notevoli, anche se talvolta un po’ esagerati. Nel fondo di essi vi è un bisogno di spiritualità, un'ansia di « ficcar lo viso al fondo • che piace. Le bizzarrie innegabili che falsano qualche bozzetto non debbono Stancare il lettore, ma animarlo a interrogare questo spirito che ricerca l'intimità delie cose sotto la loro superficialità. «Tutti i piaceri non valgono un minuto di dolore — com'egli dice — quando questo dolore è la chiave della vita dell’anima ».
'K.
Ezio M. Gray, ''Come Lenin conquistò la Russia. Firenze, R. Bemporad. 1920, P- 96, L. 3.
M. Sioni m. Spartaco e Bela Kun. Firenze, R. Bemporad. 1920, p. 90. L. 3.
C. Paladini, Lenin. Firenze, R. Beropo-rad, 1920, p. 100. L. 3.
Questi 3 volumetti fanno parte di una collezione che à intenti meritevoli d'incoraggiamento: studio obbiettivo del movimento rivoluzionario contemporaneo c sua critica. Ed io auguro all'editore di riuscirvi, sebbene sia scettico sul raggiungimento d’un tale fine per la ragione che in genero questi pretesi studi sono fatti da persone che si credono spregiudicate, mentre non lo sono e Su documenti ridevoli, giornali c .chiacchiere. Inoltre gli autori dèi vari numeri delle collezioni del genere sono di differente... statura ed allora la visione generale è quella di chi volesse farsi un’idea d» ua affollamento ascoltando i giudizi dei nani, dei giganti e de' medi... che stanno tra la folla.
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Cosi dei 3 volumetti in esame l'unico veramente serio e ben fatto è quello del Paladini che si dimostra tale da poter-darci una visione serena dei fenomeni che studierà se gli si offriranno documenti e visione delle cose. Gli altri due valgono poco; su per giù raccolta di notizie di giornali, uniti a giudizi affrettati e fóndati su vecchie concezioni liberaloidi. Sopratutto quello dello Sioni m mi pare inutile: quello del Gray migliore, ma non certo ottimo come quello del Paladini. Attendiamo il seguito con auguri di riuscita, chè di simili lavori vi sarebbe bisogno davvero in Italia.
M. Bierbaum, Bettelorden und Weltgeisl-lichheit an der Universität Paris. Texte u. Untersuchungen zum Literarischen Ar-muts- u. < xecutionsstrcit des 13 Jahrhunderts (1255-1272). Münster in W., Aschen-dorflschcVerlagsbuchandlung, 1920 (Franziskanische Studien, beiheft 2), p.. 406, Nk. 22.
O. Rauk, Psychoanalytische Beiträge zur Miikcnforschung, Leipzig, Internat. I’sychoanalyt. Verlag., 1919, p. 420 (Internationale Psychoanalyt. Bibliothek, n. 4).
Th. Rcik, Probleme der Religione Psychologie, 1 Teil. Leipzig, Internat. Psychoa-nalyt. Verlag. 1919, p. 311 (Internationale Psychoanalyt. Bibliothek, n. 5).
E. Carpita. Educazione e Religione in Maurice Blondel. Firenze, Vallecchi, 1920, p. 83. L. 3.
G. W. F. Hegel. Einführung in die Phänomenologie des Geistes. Leipzig, Insel -Verlag, p. 72.
È una ristampa a parte — in elegante volumetto — della celebre Vorrede della Fenomenologia dello Spirilo, che provocò la clamorosa rottura fra Schelling ed Hegel. È nota l’importanza di questa Vorrede, che contiene in lucida sintesi la critica di Hegel alla file-sofia di Schelling ed i principi fondamentali del suo sistema. Si'potrebbe chiamarla la chiave di volta dell’edificio della filosofia hegeliana. Essa può stare perfettamente a se, e bene pertanto ha fatto il Blaschke a ristamparla a parte. Al testo di Hegel il Blaschke fa seguire alcune sue pagine, in cui — senza alcuna novità di concetti, ma con molta perspicuità di esposizione. — ha caratterizzato il posto del grande filosofo nella storia dell'idealismo postkantiano.
(*»• /.).
F. Cavaliere, Thesaurus doclrinae ca-tholicae ex docnmentis magisteri i eccle
siastici. Paris, G. Beauchesnc, 1920, pagine 794. frs. 35.
11 dòtto lavoro del Cavallera, professore alla facoltà teologica di Tolosa, à intenti precipuamente scolastici, ma può servire non solo per gli studiosi ormai fuori delle scuole, ma pur a quanti vogliano* conoscere su quali documenti la dottrina cattolica si fondi per imporre i suoi principi di fede e di' condotta. Il lavoro, che conserva il piano dei trattati scolastici di teologia, si compone di fi-parti (della rivelazione, della Chiesa, della trinità, della natura di Dio c della creazione, del Cristo, della giustificazione, dei sacramenti, dei novissimi), ciascuna delle quali, suddivisa in capitoli e paragrafi, contiene numerati con ordine progressivo generale i capisaldi della relativa dottrina, decisioni conciliari, testimonianze dei padri della Chiesa, lettere pontificie, risoluzioni di autorità ecclesiastiche collegiali, codici, decreti e via dicendo. Da un esame del lavoro, fatto come può farsi di simili corpus in cui una gran massa di erudizione è raccolta in spàzio relativamente breve e • con molta pazienza, sembra rilevare accuratezza e precisione nell’esposizione, acutezza nella scelta delle fonti. L’opera è completata da una tavola cronologica (per papi) dei documenti e da un copiosissimo indice alfabetico dèi soggetti trattati, nonché da concordanze utili se non necessarie. In complesso un ottimo lavoro che può rendere buoni servizi a tutti gli studiosi e per il quale va data ampia lode all’A. ed al benemerito editore.
Th. Roberts Slicer, Meditation*. A menage for all souls. New-York, Women’s Alliànce, 1920, p. 221.
G. De Lorenzo, Morale buddista. Bologna, N. Zanichelli, 1920, p. 6r, L. 3.
F. Morabito, Il misticismo di Giovanni Pascoli. Milano, F.lli Treves, 1920, p. 263, L. 7.
P. Hilarin Felder, Jesus Christus, apologie seiner Messianität u. Gottheit gegenüber der neuesten vnglaübigen Jesus-Forschung. Paderborn, F. Schöningh, 1920, voi. I, p. 522, Mk. 42.
F. Kleinwacchter, Der Untergang der Oesterreichisch-ungarischen Monarchie.Leipzig . K. F. Rochier, 1920, p. 331.
G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Ri ■nascimento. Firenze, Vallecchi, 1920,. p. 293, I.. 14.
Il Lettore.
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