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BILYCIÌNI5
.RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
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Anno IV :: Fasc. 111.
MARZO 1915
Roma - Via Crescenzio. 2
ROMA - 31 MARZO . 1915
DAL SOMMARIO: Giuseppe Saitta: Il misticismo di Vincenzo Gioberti — « CATHOLICUS »: Che pensare del celibato ecclesiastico? — RAFFAELE VlGLEY: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) — MARIO ROSAZZA: La guerra, la religione e l’Italia — GIOVANNI PIOLI: Un concilio generale del Cristianesimo? — ERNESTO RUTILI: Vitalità e vita nel cattoli-cismo (Cronache) — TRA LIBRI E RIVISTE: Il pensiero religioso di D. M. Ausonio (C. Vitanza) — Cobden e Pio IX — Pio IX e l’Italia (F. Rubbiani). ~ La GUERRA (Notizie, Vóci, Documenti della Germania religiosa), ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi --------- Via Crescenzio, 2 - ROMA —
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l'Estero Via del Babuino, 107 - ROMA ——
AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
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RM5IÀDI SlVDI RELIGIOSI
EDITA CALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMA
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SOMMARIO:
Giuseppe Saitta: Il misticismo di Vincenzo Gioberti . . . . . pag. 181
< CATHOLICUS » : Che pensare del celibato ecclesiastico? . . . . »193
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Raffaele Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) . . >202
I CRISTIANI E LA GUERRA:
Mario Rosazza: La guerra, la religione e l’Italia . . . . . . » 211
Giovanni Pioli: Proposta di convocazione d’un Concilio Generale
del Cristianesimo . > . - .1 • • • • • • ■ ■ » 219
CRONACHE:
Ernesto Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo [Vili].......... » 224
TRA LIBRI E RIVISTE:
Le riviste: Il pensiero religioso di D. NI. Ausonio (C. Vitanza) - I misteri di Eieusi (C. Vitanza) - Cobden e Pio IX (F. Rubbiani) - Pio IX e l’Italia (F. Rubbiani) - Varia (S. Bridget)....................... » 233
LA GUÈRRA (Notìzie, Voci, Documenti):
Germania - Dio lo vuole ! - Scritti popolari dell’ « Alleanza Evangelica » (E il Cristianesimo ?-La Germania ha la cosciènza pura) -La guerra e gli amici della pace - La guerra mondiale e la religione universale - Nietzsche, Treisehke, Bernhard!-Il Dio tedesco (A. D.). » 241
Francia -Un discorso di Bergson (G. P.)......................... » 255
Pubblicazioni pervenute alla Redazione.......................... » 241
Notizie. . a ...... ....... ....... '. - - » 242
Cose nostre . .. . ; » 243
ILLUSTRAZIONI :
Ritratto del Rev. J. Campbell. Tavola tra le pagine 216 e 217.
La religione e la morale nella guerra. Tavola tra le pagine 248 e 249.
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IL MISTICISMO DI VINCENZO GIOBERTI(,)
Lx Gioberti, fin dall’inizio della sua vita speculativa, ha un senso profondo del divino. L’anima sua è esagitata dal dramma sempre antico ma sempre rinascente della teologia colla filosofia: dramma vivo in chi sollevandosi dal pensiero ingenuo entra nel vestibolo della filosofia. La quale ha sempre da fare con la sua genitrice, che è la religione. Giacché, secondo la profonda osservazione dello stesso Gioberti, non si può ben comprendere la ’ dottrina delle scuole laicali se non si risale a quella dei templi (i). Chi per pigrizia mentale non vuol riconoscere questa genitura della filosofia si può considerare perduto per essa, perchè la scienza, la vera scienza, non può cominciare col dubbio assiderante, spegnitoio d’ogni sana energia. La scienza può produrre frutti
fecondi a patto che s’identifichi colla fede, ma non colla fede mitica, irrazionale, bensì con quella fede razionale, che illumina e profonda nuovi veri. Nel Gioberti della Teorica del sovranaturale non c'è questa sicura coscienza: egli non ha potuto rinunziare alle scorie della sua educazione chiesastica. Anzi, il suo fervóre mistico
è così intenso, che gli fa [credere di potere apprestare, tenendo i piedi férmi sul piedistallo della fede, le sue batterie contro il gran nemico della religione, il razionalismo teologico, rappresentato da Kant, Fichte, Schelling, Hegel. Esso, difatti, benché ostenti un grande amore per la filosofia, e la metta in cima del sapere umano, subordinandole anche i dogmi rivelati, è forse non meno pregiudiziale alle scienze razionali che alla religione stessa (2). Il suo grande torto, che è poi il suo gran pregio. (*)
(*) Questo saggio fa parte d’una monografia sulla filosofia del Gioberti, che è in corso di stampa presso l’editore Principato di Messina, nella Collezione di studi storici e filosofici diretta da G. Gentile.
(1) Introduzione, I, 11. (Citiamo l'edizione di Losanna, S. Bonamici e C., 1845).
(2) Teorica del sovranaturale, Napoli, Stamperia del Vaglio, 1860, nota 69, p. 274.
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è di voler ridurre la religione alla filosofia, la quale non è in fondo, che « la religione nuda, spogliata del suo velo poetico, e ridotta alle sole idee razionali», laddove «la religióne è la filosofia addobbata di emblemi forti e piacenti, atti a scuotere gagliardamente, o a rallegrare l’immaginazione » (i). Il Gioberti vide che una tale concezione conduceva all'annullamento del sovrannaturale. Il quale, secondo lui, non è una verità razionale che può essere scoperta coll’intuito contemplativo, nè un fatto di coscienza che l’uomo trovi in se stesso, nè un vero deducibile o un fatto indu-cibile da altri fatti o da altri veri (2). La fede è una specie di sintesi a priori, che deve essere presupposta, perchè ci si dispieghi il progresso razionale; applicare ad essa il procedimento analitico è lo stesso che immergersi nel dubbio e precludersi ogni via alla verità.
L’analisi prima della sintesi può essere posta solo negativamente, vale a dire come il materiale grezzo, su cui si eleverà il vero rivelato. Come in filosofia non si può andare innanzi senza la fede nell’idea o nel pensiero, così nel dominio della religione. E sta bene. Ma la fede che non è razionale dove troverà la sua autorità o il suo valore? Il Gioberti non ha per ora piena coscienza dell’assurdità di una fede razionale accanto ad una fede sovrarazionale, nè, quindi, può intendere tutta la gravità del problema che implica codesta separazióne- E quando egli è costretto a ricercare la natura del sovrannaturale gira attorno al problema; che non è possibile guardarlo in faccia se non pensandolo e risolvendolo appunto in quella realtà naturale, da cui vuole torcere gli occhi. Per trovarlo bisogna appellarsi alla storia, concepita non come lo sviluppo intimo, necessario dello spirito, bensì come la vita esteriore del genere umano dalla sua origine fino a noi. In questa storia, così mortificata, pigliano il loro posto i miracoli e le leggende del mondo giudaico e del mondo cristiano con tutto il loro corteo di dogmi. Sì che le prove estrinseche, chiamate dai teologi i motivi di credibilità, sono assunte dal Gioberti, sotto un certo aspetto, come le sole valevoli a darei l’intelligenza del cristianesimo.
2° Le scritture sacre debbono essere interpretate ponendosi nella religione, cioè nella fede al sovrannaturale. L'interpretazione razionale della fede e della Bibbia, tentata prima dallo Spinoza nel suo Trattato teotogico-politico, dal Meyer nel proemio all’E/wa spinoziana e infine dal Lessing nell’operetta L’educazione del genere umano, riesce, secondo il Nostro, a snaturare la verità di fede. Nella critica biblica è un puro conservatore; e le poche divergenze che dimostra dalla teologia tradizionale come, p. es., la spiegazione molto ingegnosa delle pene eterne dell’inferno, non sono tali da porlo tra i dissolutoti della tradizione chiesastica. Egli è intimamente cattolico, ma il cattolicismo non è in lui una bella veste di cui vuole drappeggiarsi, sibbeneèvita e vita intensa, che è somma spiritualità. La Chiesa che sogna è la Chiesa ideale, esclusa da ogni ingerenza speciale della società civile, fornita di leggi proprie, di un reggimento proprio e della sua spirituale indipendenza. Come l'ordine sovrannaturale coesiste coll’ordine naturale, così la Chiesa dovrebbe coesistere coll’ordine civile (3).
(1) Teorica, II, CXLI, rio.
(2) Ivi, CXLVII. 118.
(3) Ivi, CLXXIV, 151 e segg.
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L’aspirazione a questa conciliazione fu una molla potente del suo spirito, anche nei primi anni della sua vita speculativa. Quando ebbe lette le Prigioni di Pellico, che gli destarono una profonda commozione, a Carlo Verga scriveva: « Il cristianesimo di Silvio non è quello dei gesuiti, non è quello dei nemici della filosofìa 6 della civiltà; non è anco quello dei teologi e del volgo dei credenti ai dì nostri. La religione di Silvio è la filosofia di Cristo, cioè la filosofia della ragione umana, della ragione universale, non dimezzata, non impiccolita, non corrotta» (14 nov. 1832) (1). E prima ancora, nel 1830, manifestava il suo profondo disgusto per «quella setta potente che, dopo corrotta la morale, corrotti i dogmi e la disciplina, vuol mescere il cielo colla terra, la società civile colla ecclesiastica, il regno spirituale col temporale, perpetuare gli abusi presenti, far rivivere quelli della bassa età, e, spenta ogni civiltà moderna, richiamare nella religione e nel mondo l’antica barbarie » (2). Prima, adunque, del 1833, il Gioberti ha un senso molto vivo della storicità del cattolicismo. Chè nel-l'Accademia teologica di Torino addestrò finemente il suo spirito alla trattazione dei problemi religiosi e speculativi.
Interessante è la lettura, da lui fatta- in una tornata accademica, dove si cerca di dimostrare come la religione cattolica si accordi coi progressi della società civile. Se la società civile, egli argomenta, armonizzando con tutte le qualità dell’uomo e le parti dell'universo, ha una base invaria bile, universale e perpetua, ma veste, d’altra parte, mille differenti maniere di .‘essere* perchè non dovremmo dire lo stesso della società religiosa? Anche in questa vi ha una parte immota che risponde alla essenza della nostra natura, e una parte variabile che consuona e si adatta al corso dell’umanità (3). Difatti, tutta la storia della Chiesa è una dimostrazione chiara della pieghevolezza di lei a ogni popolo, a ogni governo, a ogni maniera di leggi civiche e di politici istituti (4). La immutabilità, però, riguarda soltanto la parte disciplinare, non i precetti morali e i dogmi speculativi che sono immutabili e perenni (5). Tuttavia, questo era, certamente, un gran passo nelle condizioni della coltura chiesastica di quei tempi, volta a considerare la vita del cattolicismo come un che di bello e formato.
Più decisiva è la posizione giobertiana nella Teorica. La Chiesa non rappresenta l’assoluto della concezione mediovale, ma il primo momento della vera società, di cui lo Stato sarebbe il secondo momento. Nel Gioberti c'è l'esigenza di ridurre la dualità, ma la riduzione è una illusione, ove la Chiesa sia concepita come uno Stato fuori d'un altro Stato, vicino e parallelo, ma distinto ed estrinseco. Nè basta il dire che la sola unità conseguibile non solo tra lo Stato e la Chiesa, ma anche in ogni parte dell’esistente e dello scibile consiste non già nel confondere le sostanze è le proprietà distinte, ma nell’armonizzarle, non nel togliere di mezzo le dualità naturali, ma nel ridurle a concordia. La concordia può farsi in quanto si annullano
(1) Carteggio, I, 197.
(2) Ivi, 1,141; e anche Prolegomeni, Si e segg. e 170 (Napoli. 1-848) e Gesuita Moderno, passini.
(3) Ricordi, I, 153.
Ù) Ivi, 158.
(5) fvt, 165.
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le dualità o si pensano come elementi di una radice unica, che è l’unità. Quindi è che l’opposizione tra Chiesa e Stato, anziché sparire, si accentua maggiormente nel Gioberti, il cui spirito quasi annegato nel platonismo era volto a guardare più che alla Scolastica, la filosofia tradizionale della Chiesa, all’età dei Padri. I quali, al contrario degli scolastici che si erano impegolati nell'abuso e nella pedanteria delle forinole, nella mescolanza e confusione dei veri razionali coi veri sovrannaturali, della ragione colla rivelazione (1), fecero rifulgere di propria luce il vero rivelato. E se non si fosse interrotto il filo della tradizione patristica, forse non si sarebbero avute tutte quelle eresie del secolo xiv e xvi che funestarono la società: le quali non sono in gran parte che filiazione di quella Scolastica, che ebbe, secondo il Gioberti, «il capriccio di volere rispondere a ogni domanda che si offra alla mente umana e di tutto cercare, tutto decidere e tutto sapere » (2), e il torto « di seguire le orme di Aristotile anteponendolo a Platone » (3). Dal culto eccessivo della Scolastica per il Peripato si generò il nominalismo e il concettualismo, che sono i due sistemi principali, da cui, dopo, si originarono gli errori della filosofia moderna. Questo atteggiamento del Gioberti verso la Scolastica è un effetto della ardenza mistica del suo animo, comune alla coscienza cattolica dei suoi tempi, che tendeva alla svalutazione della ragione e al rinsaldamento dell’autorità estrinseca. Laddove Tomaso d’Aquino con un senso storico più profondo di tutti i tradizionalisti e gli ontofogisti pullulanti nella prima metà del secolo xix aveva minato il principio d’autorità con le famose parole: locus ab auctoritate infirmissimus.
Se l’autorità esteriore è la base granitica, su cui poggia la religione, il fondamento della Rivelazione è diverso dal fondamento della civiltà: l’uno estrinseco e l’altro intrinseco; e, quindi, ciò che è illogico e illegittimo nella prima è ragionevole e lecito nella seconda (4). Dal che sembra che il Gioberti concepisca la religione come al di fuori della storia vera, che è la storia ideale. Ma egli non era uomo da non comprendere che la religione avente un dominio nettamente separato dalla civiltà era qualche cosa di assiderato, di morto. Anzi, lo scopo vero della sua Teorica era appunto ne far vedere come la religione non si può pensare senza la civiltà: donde la proporzione tra il progresso religioso e il progresso civile (5). Fra la Rivelazione e l’incivilimento umano vi è corrispondenza. Giacché, se è vero, come egli stesso dice con frase bruniana, che la dualità è la legge universale nelle cose intelligibili e reali, non è men vero che non c’è dualità che non sia fondamentalmente unità. Potrà sì un tal concetto vero e profondo essere il risultato della impotenza mentale; ma il riconoscere che la nostra mente è conformata in tale maniera che noi dobbiamo pensare a un tempo Dio e il mondo (6) è un progresso considerevole nella via dell’umanizzazione di quel sovrannaturale, che sfugge quasi dalle morse della dialettica del Gioberti. Ed ecco perchè mentre egli cerca di salvare tutte le vecchie dualità con un colpo d'ala se
(1
(2
(3
(4
Teorica, II, CXCVII, 177 e 178.
Ivi.
Introduzione, II, 80.
Teorica, II, CLXXXVIII, 167.
Ivi, CVI, 73.
Ivi, VI e VII, 9.
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ne libera ad un tratto. Il pensiero suo, raffrenato a volte da determinate esigenze storiche, si divincola, rode le catene che l’avvincono e, sebbene non riesca a spezzarle, le rende quasi inutili.
3° La filosofia scolastica aveva intellettualizzati i rapporti fra Dio e l’uomo e ne aveva fatti due mondi, che non avevano fra di loro una compenetrazione intima.
Il Gioberti parte dalla definizione biblica comentata da S. Paolo: Io sono colui che sono, in cui viviamo, ci muoviamo e siamo, per stabilire che l’unione tra il creatore e la creatura è intima. Da questa unione deduce la presenzialità della natura divina nella esistenza universale; verità che anche gli scolastici posero in luce (1), ma che era una contraddizione nel tessuto logico del loro sistema essenzialmente dualistico.
Vedremo qual è il vero significato della presenzialità o immanenza della divinità nel pensiero giobertiano, assai diverso da quello scolastico. Per ora ci preme far avvertire la sua posizione mistica che può sembrare, ed è difatti, in opposizione allo spirito chiesastico, quale s’era venuto consolidando dal Concilio di Trento in poi.
Come tutti i veri mistici, il Gioberti riconosce da una parte che la ragione è insufficiente a condurci a ciò che è il fine ultimo dell’uomo, Dio: egli è necessario un aiuto sovrannaturale, che solo può darci quella carità di Dio incessante, fervida, signoreggiai rice, capace di domar l’impeto delle passioni e d’inspirare la virtù eroica (2). Ma, d’altra parte, il misticismo, così come è concepito dal Gioberti, non è quel misticismo inerte e solamente contemplativo, che pure è tanta parte di ogni religione positiva. Lo spirito suo, in cui pulsavano vigorosamente tutti i motivi e i bisogni ideali del romanticismo, aspira al misticismo attuoso, operativo; chè lo scopo supremo del Cristianesimo è di rendere la volontà potente, valida, operosa, padrona di se stessa, tetragona ai casi esteriori, .indomita all’impeto interno dei sensi, della fantasia e delle passioni (3). Vi ha, adunque, una vera e falsa misticità. Il misticismo falso si contenta della contemplazione e si può definire una passività assoluta, che tende all’annichi-lamento del sentimento e del pensiero. Esso non è diverso dal Nirvana buddistico, in cui il soggetto affoga se stesso nell’oggetto, e riesce alla negazione dell’individuo per afferrare un universale, che non essendo l’universale dell’individuale svapora nell’astrazione o nel nullismo. Tale non è, secondo il Gioberti, il vero misticismo cristiano, che cerca un temperamento armonico fra il soggetto ’e l’oggetto; ma questo temperamento non ci dà l’unità, perchè l'oggetto spiega la sua azióne prima del soggetto. Nè vale il dire che lo spirito in quanto riceve gl'influssi ideali ©l’azione creatrice è anch’esso operativo (4), perchè, una volta introdotta l’idea del tempo nel processo creativo, il soggetto rimane estraneo all’oggetto. Pure il Gioberti ha ragione di dire che la mistica cristiana importa una operosità viva, che è per sè capace di ringagliardire ogni virtù: nè parimenti gli si può dar torto quando solennemente afferma che la fede è la vera libertà dello spirito (5), come quella che rappresenta l'assoluto, Dio, l’idea; e tentare di sottrarsi al dominio di essa è lo stesso che entrare nel regno dell’arbitrio.
(1) Teorica, II, Vili, io.
(2) Ivi, LXXII, 46.
(3) Introduzione, III, 414.
(4) Ivi. 4’5(5) Ivi, 416.
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L’io come pura soggettività ha un limite eterno, Dio, in cui deve pur risolversi perchè attinga la vera realtà spirituale, che è l’aggettività; ma in questa risoluzione lo spirito nostro non diventa un altro spirito, ma lo spirito divino è il nostro spirito; e se il limite non è in funzione del soggetto, esso si presenterà nella sua pesantezza materiale precisamente come negazione di quella spiritualità che dovrebbe realizzarsi. Ma allora è distrutta, senza volerlo, la vita di Dio e la vita dell’uomo; il soggetto e l’oggetto resteranno immobilizzati, e qualsiasi passaggio o divenire si rende impossibile.
Non bisogna esautorare Dio per indiare la creatura, così come Protogora, il quale fece dell'individuo la misura dell’individuo, la misura del vero (i). Concetto giustissimo, ove si consideri l’individuo nella sua personalità o soggettività determinata. Ma ciò non autorizza ad affermare che bisogna « riconoscere e umilmente adorare i decreti divini, annullare l’umano intelletto dinanzi alla mente infinita» (2). Evidentemente, la formola ideale non ha ancora ricevuto il suo pieno significato speculativo; la subordinazione dell’esistente all’Ente, del raziocinio all’intuito, del soggetto all’oggetto, è presa strido sensu, e preclude la via alla retta intelligenza dello spirito, il quale nella sua attualità è indistinzione di soggetto ed oggetto. Il Gioberti si aggira nel mondo dell’analisi, e non si rende conto della necessità dialettica, per cui il pensiero umano risolve in sè la mente creatrice o animatrice, e l’armonia tra il soggetto e l’oggetto non è immobile, ma un farsi continuo, che ha immanente quell’anarchia, che è disgregamento, o dissoluzione, da cui sorge di nuovo la sintesi, o la vita. Il principio fecondo della speculazione giobertiana è lo spirito come eterna creazione, ma l’oscura intelligenza che ne ha lo riporta alla considerazione e accettazione del misticismo agostiniano, le cui tracce nella sua mente sono profonde. Come San-t’Agostino egli non sa per ora concepire Dio se non come l'assoluta perfezione realizzata. Si sa che pel grande d’Ippona non esiste alcuna cosa indipendente da Dio che possa limitarlo, e che Dio ha fatto il mondo, e il modo con cui l’ha fatto sono egualmente nascosti e incomprensibili all’uomo (3) E per modo, come risulta dal seguito del testo, non s’intende una storia estrinseca della creazione, ma l’atto creatore. Questo motivo^ che forma lo sfondo del misticismo agostiniano, che riesce alla famosa teoria della grazia e della predestinazione, è riprodotto dal Gioberti. Il quale lungi dal mettersi in mezzo al misticismo cristiano, giudicarlo, e, quindi, superarlo, ne rimane invescato, e, senza veli e senza enimmi, dirà che la fede verso la parola divina è come l'atro di sudditanza e di vassallaggio, con cui l’uomo riconosce ed adora la signoria assoluta. Dal che segue che Iddio non può essere giudicato, e il sarebbe se altri potesse sottoporre ad esame i decreti della Provvidenza (4). Ancora. Tutti i dogmi cattolici sono superiori alla capacità dell'intelletto umano (5) come, p. es., i misteri della Trinità, dell’incarnazione, della Grazia. E rinnegando tutta la storia della dogmatica cristiana afferma con non minore efficacia che la predestinazione è la
(1) Introduzione, ITI, 418.
(2) Ivi.
(3) De vera religione, CXI, n. 22, t. IH, col. 132.
(4) Introduzione, III, 417-1$.
(5) 4 >9-
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conseguenza apodittica del diritto assoluto, che appartiene a Dio, il quale, senza di esso, lascerebbe di essere Causa prima (1). Da questo lato, il pensiero del Gioberti si riattacca all’ontologismo cristiano che nella prima metà del secolo xix si affermava nella cultura ecclesiastica, che aveva smarrita la sua via: S. Agostino era anteposto a S. Tomaso, e quando sorse imperioso il bisognò di ritornare a quest’ultimo non mancarono tentativi inutili di accordare l’aristotelismo della Scolastica con il platonismo della scuola agostiniana. Il Gioberti, malgrado il suo senso ricchissimo delle esigenze della vita moderna, si lascia plasmare e fuorviare dal misticismo agostiniano: la cui influenza subisce non solo nel campo religioso, ma anche nel campo stretta-mente filosofico. Ma è doveroso notare, sin da ora, che nel grandioso tentativo che egli fa di accordare la tradizione religiosa, che è poi la tradizione filosofica, colla novità del pensiero, la fede colla scienza, vi è il filo conduttore che, attraverso oscillazioni, lo condurrà al riconoscimento pieno della potenza infinita della ragione: il suo onto-teismo si trasforma nello spiritualismo assoluto. Onde mentre da una parte sacrifica la ragione umana, dall’altra le eleva un trono più splendido, e imperituro.
40 La teoria dell’atto creativo e dell’infinito compie il sistema della premozione degli scolastici, così disconosciuta dai teologi del secolo xvi, che scavarono un abisso ancora più profondo per tentare di salvare quella larva di libertà, che, per una atroce ironia, si continuò a chiamare libero arbitrio. Difatti, se si pone una identità tra la premozione e l’efficacia creativa (2), la libertà dell’uomo è posta in una luce nuova. Il regno divino o dello spirito non è simile all’impero umano e materiale: nel secondo il potere assoluto del principe nuoce alla libertà dei sudditi, laddove nel primo la fonda e la perfeziona. Ma il regno divino non è che il regno dell’ Idea (3). La quale s’incarna nella Chiesa, che considerata nella sua assolutezza s’identifica col genere umano (4); ed ha un doppio principio, l’obbiettivo e il subiettivo, l’impersonale e il personale. L’uno è assoluto, necessario, universale e risiede nel tutto e nelle singole parti; l’altro è contingente, particolare, finito e varia secondo gl’individui. Ed applicando questi concetti alla società ecclesiastica afferma che in essa il principio obbiettivo è il capo invisibile, cioè l’idea umanata; laddove il principio subbiettivo è il capo visibile, cioè, il Papa (5). Ora, ognuno può vedere a che cosa si ridurrà in tal modo la gerarchia cattolica. La quale rappresenta sì l’organismo il più perfetto, ma un organismo che non ha in sè il vero rivelato come un che di formato, ma come qualche cosa Che si esplica e si amplia successivamente, cioè come germe che ha una storia.
Questo principio immanentistico è mescolato e talora soverchiato dalle scorie platoniche, che appesantiscono la speculazione giobertiana; ma di esse non bisogna preoccuparsi: il suo pensiero, pur tra le strette d’una concezione decisamente dualistica, assurge ad una visione più alta che lo ravvicina a quegli spiriti magni, che nel suo fervore mistico vuole detronizzare. Egli, è vero, anche nelle Postume, dirà con insistenza, che l’autonomia dell’uomo, l'impossibilità del sovrannaturale e del
(1) Ivi. 421.
(2) Teorica, 1, 34 (Discorso preliminare).
(3) Ivi. Cfr. pure Gesuita moderno, Losanna, Bonamici, 1846, t. I, 360-370.
(4) Introduzione, II, 36-37.
(5) Ivi, 38 e segg.
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sovrintelligibile sono pregiudizi filosofici e plebei, che formano la dotta barbarie intellettuale dei moderni (i); che la filosofìa umana è copia della divina, che ne è l’archetipo (2). Ma guai a soffermarsi a queste espressioni per rintracciare il nocciolo vivo della filosofia del Gioberti! La quale si presenta talora abbuiata, e pare che si perda tra le nebbie plumbee del platonismo. Chi cerca, però, rivivere tutto il processo che si distende con sempre maggiore precisione e ricchezza dalla pubblicazione della Teorica sino alle Postume, s’accorgerà che la posizione mistica, in cui egli sera attardato, si risolve col principio dell’ identità della idealità e della realtà in quel psicologismo trascendentale, contro cui aveva appuntato la sua forte dialettica.
La relazione tra YEnte e l’esistente è ancora estrinseca: la creazione come unità o sintesi non è dimostrata, ma affermata con un atto di fede: l’infinito e il finito, come nel Cusano che egli conobbe profondamente, non si risolvono in quella infinitas finita, che è lo Spirito, ma sono fissati come rappresentazione: il mondo non è l’eterna manifestazione di Dio, ma è l’altro da Dio, come semplice oggetto. Pure la sua critica spietata circa il contenuto religioso riesce alla risoluzione del trascendente in un principio superiore. Ed allora il misticismo che aveva carezzato e cullato, si presenterà alla sua mente come il nemico più implacabile che bisognava distrurre perchè sulle sue ruine s’adergesse in tutta la sua luminosità la natura, lo spirito.
La morale cristiana, che ora s’insegna nei catechismi, è tuttavia in gran parte fratesca, che è quanto dir mistica. Fondasi nel principio antisociale del disprezzo del mondo sostituendolo al principio veramente cristiano, che è il ravviamento e il perfezionamento del mondo, che fu il vero principio di Cristo... (3). Ma il disprezzo del mondo è uno degli aspetti deplorevoli del misticismo, ma non ne è il solo, perchè mentre da un lato introduce una falsa spiritualità in aria, che contraria i veri interessi della terra, e si oppone al fine assegnato all’uomo dalla natura, accarezza dall’altro lato un certo materialismo, che consiste nel dare importanza a cose accidentali, che non l’hanno in sè, con grave pregiudizio della spiritualità vera e della morale (4).
Contro questo misticismo materialistico, che consiste in alcune pratiche come il digiuno, la penitenza, i riti, le gerarchie, o in certi apparati sensibili come la trasfigurazione, gli angeli che cantano, la colomba che discende, l’ascensione e discesa del figlio dell’uomo dalle nubi, il fuoco del cenacolo, l’angelogia, la demonologia, la taumaturgia, ecc., si drizzano feroci i suoi strali. Nè si arresta qui. Mentre prima S. Agostino alla sua accesa fantasia era apparso come il restauratore della religiosità, ora cade sotto il piccone demolitore della sua più matura e nuova coscienza.
S. Agostino nei De moribus Ecclesiae catholicae aveva dedotto la divinità del cristianesimo dalla perfezione ascetica del monachiSmo.
Argomento falso, dice il Gioberti, perchè la perfezione, che è esagerazione mistica ed ascetica non è propria del cristianesimo, ma di altre religioni e non che essere un carattere di divinità, è un carattere di umanità e nasce da fantasia non da ragione.
(1 Protologia, Napoli, Stab. tip. dei Clàssici italiani, 1861, I, 26.
(2 Ivi, 28.
(3 Libertà cattolica, Torino, Bocca, 1910, pag. 321.
(4 Ivi. 232.
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ed è uno sforzo innaturale per preoccupar l’infinito (i). Senza dire chela morale ascetica da qualsiasi lato si voglia considerare è un suicidio, una distruzione della natura e dell’arte. Perchè: i° distrugge il corpo dell’individuo colla penitenza; 2° l’arbitrio e la ragione colla ubbidienza cieca; 30 la filosofia e la scienza coll’autorità assoluta di Roma; 40 la specie colla verginità e il celibato; 5° la civiltà, la società, ecc., colla povertà, l’ozio contemplativo, la vita eremitica, la misticità, il gesuitismo, ecc. ; 6° la libertà e razionalità politica col dominio temporale del papa, ecc.; 70 la famiglia colla disubbidienza e durezza verso i genitori, i parenti, ecc. ('2). Accuse, queste, formidabili, a cui la Chiesa facilmente si sottrae con quell’istinto di pieghevolezza, che fa circolare in essa un po’ di quella vita che teoricamente vorrebbe rinnegare. Ma ciò non toglie che la tendenza, immanente nel suo organismo, non sia il misticismo che è trascendenza della natura. Per questo appunto la Chiesa non può rappresentare se non un principio immobile pur nella sua apparente mobilità: il suo misticismo, come qualsiasi misticismo, è destituito del progresso, che è il carattere del naturale; ed è regressivo, che è la nota dell’innaturale e del prepostero (3). Tuttavia esso non è stato sempre un principio di regresso, perchè ha adempiuto ad una funzione storica importan-tisima. Nei primi secoli della Chiesa e nel medio evo, prima, contro la corrutela ec ccessiva del gentilesimo; poi, verso l’efferatezza dei barbari giovò grandemente, ma, esauritisi questi cicli storici, non è più conforme alla risorgente cultura il cui carattere è la maschiezza, che vuole il preciso, che non si trova se non nel finito, che è la vera esistenza, laddove l’infinito non rappresenta se non il vago, il perplesso, il confuso ed è proprio del genio femminile; che nella donna abbonda il sentimento, l’intuito i quali innalzano all'infinito che è la base della mistica (4). Dal che si scorge che il finito, l’esistente si rivela un principio superiore all’infinito come la riflessione rispetto all’intuito. La verità, che è razionalità, non si può fondare sull’infinito, che è indefinito, o Vapeiron degli antichi: essa è concretezza, esistenzialità assoluta. E se per concretezza s’intende in generale la natura, il misticismo staccando il mondo sovrasensibile dalla natura, lo pone in aria e in un mondo fantastico: tronca il mezzo (l'ilo) della cosmologia colla teologia, e così rende i dogmi di questa incredibili. Il sovrannaturale acquista valore se s’innesta nella natura, e così soltanto i concetti mimetici, che sono proprii della immaginazione, si risolvono nella scienza. Invece il misticismo riesce ad una religione isolata, solitaria, e per effettuare un’unione fantastica con Dio, sequestra l’uomo dalla natura (5). Donde un altro carattere del misticismo: l’egoismo. « I migliori, difatti, dei suoi seguaci sono quelli che attendono a virtù inutili, sterili, insociali e vengono mossi da spirituale egoismo di salvar l’anima propria, senza curarsi di quella degli altri. Il volgo dei mistici poi dà luogo a tutte le passioni ignobili e meschine. Sono i peggiori uomini e cittadini... » (6). Di qui derivano tutte quelle immagini religiose, che formano le esagerazioni della teologia volgare,
(1) Libertà cattolica, 325.
(2) Ivi, 326 e 327-30.
(3) ivi. 327.
(4) ^i. 331.
(5)
(6) Ivi, 332.
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I90 come l’eternità delle pene, le visioni dei santi, la concezione di un Dio empio e immorale,, che è il Dio crudele del medio evo, quello del Battoli, del Segneri; concezione mostruosa ed empia, che è comune ai luterani, calvinisti, gomaristi, giansenisti, gesuiti.
Il Segneri che nella famosa predica sull’inferno afferma che come Dio esagera la propria bontà, nel retribuire i buoni, così dee esagerare la propria giustizia nel punire i rei, è un bestemmiatore del vero Dio che è essenzialmente bontà, amore. La troppa giustizia sarebbe ingiustizia (Summum jus stimma injuria)-, e quindi a fortiori l'eccedere il/ws è somma ingiuria; che dà luogo alla morale più nefanda (1).
Dalle conseguenti degenerazioni del misticismo il Gioberti si apre il varco a intendere quella religione razionale, che è una cosa sola colla filosofia.
5° Il mitologismo e l'utilitarismo che si rispecchia nell'egoismo più raffinato, sono le grandi ombre che aduggiano la religione così come è intesa dal Gioberti. Queste ombre egli cerca fugare come quelle che alimentano le consuetudini, i sentimenti, le passioni più malsane é producono la sterilità, l’infecondità in tutti i domini dello spirito. Ora che la creatura ha ripreso il suo imperio, tutti quei furori mistici, per cui sembrò il genere umano s’incamminasse per vie nuove non hanno più ragione di essere e sono difatti svaniti del tutto (2).
Alla sofistica, che è il fondamento del misticismo, è successa la dialettica che non è se non la pienezza dello Spirito, di cui Cristo è la grande personificazione. Come Copernico mise la terra in cielo, così fece Cristo; il cristianesimo, come egli dice bellamente, non è che la celificazione della terra. « Il miticismo del medio evo, invece considerò la terra (mondo) come l’opposto del cielo, e come semplice mezzo. Il cristianesimo primitivo considerò la terra o mondo antico come mezzo semplice, ma il nuovo come fine in quanto si connetteva col cielo » (3). In tal modo, il concetto del misticismo è profondamente trasformato; la terra, o il mondo, viene ad assumere il suo giusto valore: il Dio sopramondano diventa il Dio mondano; terra e cielo si confondono in un tutto inscindibile. La celificazione, ©deificazione della terra, guardata nella religione, essoterica, popolare, con occhi pavidi, è il nuovo misticismo che il Gioberti contrappone all’antico: nuovo misticismo, ma singolare misticismo, che fa tut-t’uno col razionalismo, a cui ormai egli s'era volto, e che rende possibile una filosofia della religione che è poi nient’altro che la religione come filosofia. Dal fondo di una tale visione panoramica si solleva al cristianesimo puro, [che è il cristianesimo speculativo, e sembra irridere a quel cristianesimo volgare che «simboleggia l’infinito dello spazio e del tempo colle immagini di cielo e di finimondo » (4). Ma egli è chiaro, soggiunge, che il concentrare in un sol luogo e in una sola epoca terminativa il lontano e l’avvenire, cioè i due estremi del cronotopo è cosa pratica. Perchè «il cielo e la palingenesia non sono uno spazio e un tempo determinato,non sono un ultimo discreto, ma il continuo e l'infinito. Lo spazio e il tempo come discreto si vanno allargando e contraendo infinitamente, e così si vanno accostando all’attuale infinità del continuo..
(1 Libertà cattolica, 335-36.
(2 Ivi, 337. .
(3 Filosofia della Rivelazione. Napoli, Stab. tip. dei Clàssici italiani, 1861, p. 34.
(4 Ivi, 29.
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In tale allargamento ed acceleramento consiste l’infinitazione successiva del cronotopo » (i). Lasciando da parte il significato preciso di queste parole, che sarà dichiarato altrove, contentiamoci di notare che per il Gioberti il cielo e la palingenesia non sono che una infinitazione successiva, la quale non sarà mai attuata. Onde il paradiso e il finimondo, come cose compiute, non avranno mai luogo in atto ma solo in potenza. Alla rappresentazione religiosa, che vede nel mitologismo la ragione della storia, con uno slancio vigoroso e sincero è sostituita una dottrina rigorosamente filosofica, in cui si celebra l’infinita possibilità dello spirito. Il Gioberti s’accorge che la verità universale postulata dalla religione riposa sopra un dato estrinseco: la Rivelazione, che non può essere addotta come prova se non in quanto si asside nell’atto del pensiero. In tal guisa, essa non è più una cosa arbitraria, ma, in quanto deve essere provata dal pensiero, il fatto contingente si muta nel fatto eterno, la religione si scioglie nella filosofia: l’inesplicabile, che è il sovrannaturale, nell’esplicabile. Onde egli darà ragione a « quelli che dicono il Cristianesimo non essere tutta la religione, ma solo parte di essa. La vera religione, onde il Cristianesimo è un aspetto, è la religione cosmica e universale di tutte le intelligenze create. Quindi il cristianesimo nella sua forma storica lungi dal costituire tutta la religione non ne è che una parte: esso rispetto alla religione cosmica è ciò che la terra rispetto all’universo. E come la terra è una sola parte, come rappresenta un aspetto unico e piccolissimo della poligonia universale, altrettanto si dee dire della religione tellurica rispetto all’universale.
E come la mimesi cresce nel corso del tempo e dello spazio perchè la sua virtualità infinita si va esplicando, altrettanto si dee dire della religione universale, la quale si va perciò propagando e ampliando d’intensione e di estensione col crescere dei mondi e dei soli... (2). Egli è che il cristianesimo è come la filosofia; anzi la sua dialettica non è che la dialettica della filosofia, la quale non permette che si sequestri una parte dall'altra, ma bisogna considerare ciascuna parte nel tutto e il tutto in ciascuna parte. Solo in questo senso, dichiara il Gioberti, noi possiamo dire che il cristianesimo è cattolico, cioè universale, non solo rispetto alla terra, ma all’universo. È universale come parte non come tutto; ma la parte è cattolica in quanto si connette col tutto e lo contrae in sè stesso, come una provincia è lo Stato, una parte d’Italia è l’Italia, Ma la parte, o il particolare, rappresenta il tutto, quando è concepito come dialettica, cioè come sintesi; al di fuori di questa è un membro scisso, una cosa. Bisogna, adunque, porsi nel dominio della dialettica, perchè la religione cristiana come sintesi del particolarismo e dell’universalismo apparisca lucida, trasparente.
La ragione di una tale dialettica consiste in ciò, « che il particolare si va ogni ora ampliando, finché divenga universale. È un particolare progressivo: e il progresso è infinito, onde l’universalità non sarà mai appieno attuata » (3). L’inesauribilità dell’universale pare un difetto e invece è un pregio. Se l'universale potesse per un momento esaurirsi non sarebbe più dinamico, ma statico: la sintesi come unità del
(1) Filosofia'jìella rivelazione, 29.
(2) Ivi, 30.
(3) ¡vi, 31.
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particolare c dell’universale non sarebbe più vita, ma morta gora, dove potrebbe adagiarsi il molteplice come molteplice: il finito (l’esistente) non avrebbe più storia, e l’infinito non sarebbe più la sua condizione necessaria.
Questo vide il Gioberti allorché affermò che l’universalismo assoluto e attuato è impossibile, perchè sarebbe una teosi: il particolarismo assoluto è pure impossibile, perchè sarebbe la stasi, la morte, il nulla (ogni esistenza, come forza, essendo concreatrice e progressiva) (1). Giusto concetto che,, ove non fosse ottenebrato dalla sfinge dell’infinito attuale come perfettamente realizzatosi, sarebbe il lievito più potente e disgregatore della vecchia trascendenza. Perchè per il Gioberti la scienza dell’infinito creata dal cristianesimo non è una scienza unica, ma duplice: la metafisica e la matematica infinitesimali; delle quali l’una tratta dell'infinito attuale, l’altra dell’infinito potenziale. Così si stacca il concetto della possibilità dal concetto dell'attualità dell’infinito, e l’uno e l’altro divengono estranei, e si rompe arbitraria mente quello sviluppo continuo, eterno, in cui consiste la vera spiritualità. L'infinito che è al di là dello sviluppo umano è rinfittito ideale, il supremo valore, ma siccome è concepito come stante per sè non può non svalutare quell’altro infinito, l’infinito potenziale insidente nell'uomo o nella natura.
Bisogna maritare l’uno all’altro in modo che il processo dell’uno sia il processo dell’altro. Di ciò avrebbe avuto una chiara coscienza lo stesso Gioberti, se avesse tenuto fede completa al suo grande principio, l’unità concreta. La quale, invece, è infranta nello stesso momento che è affermata, ed è per questo che egli girando e rigirando attorno al suo pensiero si 'trova nelle mani un infinito ischeletrito, meccanicistico, che diminuisce l'infinito possibile, e ne è diminuito. La vera infinità è nella unità della verità metafisica e della verità matematica, dell’infinito possibile e dell’infinito attuale. Non vi ha una perfezione divina e una perfezione creata, ma la perfezione divina è la perfezione creata, perfezione eternamente possibile trapassante in perfezione eternamente attuale. Ma il Gioberti si contraddice e nella contraddizione sta il suo grande merito. L’infinito attuale della religione, l’aclus purus di Aristotele e degli scolastici, si converte nell’infinito attuale che è la natura, ma la natura nella sua totalità (2). Nè poteva essere diversamente, se, come mostreremo a suo luogo, l’infinito giobertiano, non è solo idea, genere, ma idea, genere, che è individuo, e l’indi-vidio è l’io, non come parte, ma come soggetto assoluto, ci<?è individuo assoluto.
Giuseppe Saitta.
(1) rilosofiafclella Rivelazione, 32.
(2);7vz 33.
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO?
Omnia manda, mundis.
(S. Paolo).
PARTE I.
Modernismo e celibato ecclesiastico — Il «Referendum» dell’Avolio — I pretesi pericoli sociali del celibato ecclesiastico — Abolizione del celibato ecclesiastico e Riformismo cattolico — Il moderno concetto del sacerdozio e sue implicazioni — Origini storiche e giustificazioni teoriche del celibato ecclesiastico — I « preti-lavoratori » — Prete e libero sacerdozio-apostolato.
periodici risvegli di cultura nel clero cattolico sono stati sempre accompagnati da un vivo interessamento a questioni di riforma della vita ecclesiastica rispondenti alla preoccupazione di allargare il campo della missione sacerdotale al di là della impersonale e passiva funzione liturgica. Ma a questo insopprimibile orientamento verso la vita contemporanea dalla segregazione intellettuale e spirituale tradizionale della casta sacerdotale che si fa più manifesto nei movimenti riformatori,
ha risposto ogni volta un acutizzarsi di tendenze pseudo-riformatrici nel senso del rinvigorimento ideila concezione tradizionale della vita ecclesiastica, come del mezzo infallibile per una maggiore efficacia sociale del sacerdozio stesso.
Ciò si è ripetuto anche in quest’ultimo decennio, in occasione delle vive polemiche e delle critiche mosse all’ideale tradizionale del clero cattolico provocate dal movimento modernista, da una parte, e da quello democratico-riformista, dall’altra.
Questa volta, bisogna riconoscerlo, .il problema ecclesiastico è stato esaminato più a fondo, mettendo così a nudo la crisi profonda da cui è travagliato mortalmente il clero cattòlico (i).
A sua volta, il tentativo di restaurare integralmente il sistema ecclesiastico tradizionale per galvanizzare il clero, tentato su vasta scala da Pio X, con persecuzioni e con tenacia degne di miglior causa, è fallito completamente. Ciò forse è
(i) Ricordo qui, per chi avesse desiderio di conoscere meglio i dati del problema — questione che, nei paesi latini, in cui per tanti secoli il clero ha rappresentato il nucleo sociale più compatto, che ha informato di sè la mentalità, la politica, la morale del nostro popolo, assurge al significato di un vero problema sociale e storico — fra una bibliografia abbastanza ricca due notissime opere: P. Saintyves, La riforme intellectuelle dii clergé, e A. Houtin, La crise du clergé. (In vendita presso la Libreria Bilychnis).
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la miglior riprova che il problema è assai più grave di un volontario allontanamento dalla via della tradizione disciplinare e che posto non è possibile più nè evitarlo nè soffocarlo.
Il problema ecclesiastico è complesso; però una sóla delle.questioni che abbracciava ha avuto l’onore di richiamare a lungo l'attenzione dei profani, quella del celibato ecclesiastico, per quella mentalità clericale così largamente diffusa fra noi. I problemi di educazione del clero, dei suoi diritti personali inalienabili, quello dei limiti e della natura della obbedienza dei preti ai vescovi, quello della nomina popolare dei parroci e dei vescovi, quello dell’amministrazione dei beni ecclesiastici non sono neppure sospettati dalla maggioranza sì dei cattolici come dei liberi pensatori (?).
Non è pur sempre il rispetto superstizioso per i suoi poteri magici non disgiunto dall’irriverente e malizioso sospetto della sua onestà sessuale, come nelle novelle del Boccaccio, il sentimento che ispira l’attitudine generale verso il clero fra noi ? Ecco qui un volume pubblicato recentemente dall’Avolio di Napoli, raccolta di risposte al suo referendum sull'abolizione del celibato ecclesiastico, già comparse sulla rivista «Battaglie d’oggi» (1910-11). È un souvenir di un episodio dell’ultima illusione riformistica ed è interessante a leggersi quanto un indiscreto epistolario. L’anima del nostro clero, con i suoi dolori poco noti e con le sue illusioni, con la sua coltura e con la sua mentalità caratteristiche ci si dischiude meglio-che in un sottile trattato di psicologia ecclesiastica.
Però è bene toglier subito un pregiudizio che potrebbe affacciarsi facilmente alla mente del lettore. La questione dell’abolizione del celibato ecclesiastico non è stata mai una questione madernista ! La ragione è molta semplice. I modernisti, i veri ed autentici modernisti, non si sono mai occupati o, se volete, preoccupati di una questione di secondaria importanza ed insieme di natura così delicata, la quale avrebbe potuto dar occasione a svisare le loro intenzioni che miravano molto più in alto.
Essi, in fondo, non avevano alcun interesse a preoccuparsi di un programma qualsiasi di Riforma, di natura sua sempre superficiale ed inorganica; ma tendevano piuttosto ad un rinnovamento di tutta la mentalità cattolica — la dommatica compresa — a cui avrebbero dovuto seguire, come corollari, quelle riforme richieste da altri come le più urgenti e concepite cóme indipendenti dalla formulazione medioevale del domma o dalle prevalenti concezioni morali estrinseciste, o dalle linee tradizionali dello sviluppo gerarchico del cattolicismo.
I modernisti avevano compreso Chiaramente quanto fosse intimo il vincolò fra la teoria e la pratica, fra il fatto e l’idea e come non fosse modificabile il fallo se non in funzione di una corrispondente modificazione del sistema di idee che, come dicono i filosofi, lo sopporta. Anche i modernisti, prima che il loro programma acquistasse un valore a sè, non andarono probabilmente immuni da una loro illusione, diversa però da quella dei riformisti : la fiducia nella forza giovanile di adattabilità della vecchia Chiesa cattolica e nella possibilità di una reinterpretazione organica della millenaria tradizione cattolica. Bisogna pur confessare, oggi, che il loro modo di porre i problemi del cattolicismo moderno era l’unico soddi-
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO? 195
sfacente, quando si fosse voluto veramente fare del cattolicismo romano il centro rinnovatore e la spinta ad una nuova ed efficace forma di vita religiosa e sociale del mondo moderno, così profondamente diverso dal mondo antico e da quello medioevale.
♦ * *
Nel dossier dell’Avolio non tutte le risposte, favorevoli o contrarie all’abolizione del celibato, provengono da ecclesiastici ; vi si trovano anche dei giudizi più o meno seri, più o meno disinteressati inviati da laici.
L'Avoli© nella prefazione e nella conclusione che ha aggiunte al Referendum espone alcune considerazioni generali sulla questione del celibato, che sono ispirate ad un suo programma di riforma della Chiesa, idee che ritroviamo anche in molte delle risposte. L’Avoli©, che è un fervente cattolico imbevuto di idee democratiche, aveva cominciato una campagna contro l’immoralità pubblica da sulle pagine delle sue « Battaglie d'oggi ». La sua attenzione fu ben presto richiamata su di un fatto pur troppo penoso e grave, qual’era l’immoralità del clero, che a lui, dimorante in Napoli, si rivelava come una piaga dell'Italia meridionale, dove l’ambiente sociale è ancora medioevale e il clero è meno ipocrita che in altre parti. Egli denunciò quindi il celibato ecclesiastico come fonte d’immoralità pubblica, prospettando la questione da un punto di vista esteriore al soggetto. Da una questione fin allora strettamente disciplinare ed interna della Chiesa ed individuale per le vittime che conta fra il clero, egli ne ha voluto, per convinzione e per tattica, fare una questione d’interesse pubblico, una nuova questione morale da mettersi accanto a quella, per esempio, della tratta delle bianche o a quella dello sfruttamento industriale dei minorenni.
Va lealmente riconosciuto Che appunto pei- questa formulazione eminentemente laica egli è riuscito a richiamare l’attenzione. e a far discutere da molti il grave problema. Egli non si è contentato però di parlare come un riformatore sociale o come un presidente da Corte d’appello; le sue preoccupazioni di riforma religiosa l’han spinto a chiedere ingenuamente all’autorità ecclesiastica: « Poiché il vostro clero è condotto alla criminalità, con grave danno del prestigio della Chiesa, a causa di una legge di origine strettamente ecclesiastica, abolite il celibato obbligatorio ; ed allora il clero, risanato moralmente, riconquisterà la fiducia del popolo ».
Ma l’autorità ecclesiastica e buona parte del clero potevano a giusta ragione sentirsi offesi sia dalla soluzione come dalla premessa. Gl’inconvenienti del celibato ecclesiastico ci sono e talvolta sono anche gravi ; ma si riducono per lo più ad una intima piaga umiliante e ben raramente assurgono ad una colpa o ad un delitto. I clericali non han forse tutti i torti, quando osservano che la criminalità nella classe sacerdotale presenta l’indice più basso in confronto di tutte le altre classi sociali. Un battaglione di soldati o gli operai di una fabbrica in una città di provincia o i mille impiegati di un Grand Magasin ih una città provocano in pochi mesi più guasti morali che tutto il clero italiano, frati e monache comprese, in un ventennio. Ed allora, dov’è il pericolo pubblico?
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Ad ogni modo — esagerazioni a parte — il considerare gli effetti del celibato ecclesiastico sulla nostra vita sociale non è privo d’interesse e di ammaestramento. L’attesa però di un intervento legislativo 0 di un vivo interessamento dell’opinione pubblica provocati da queste considerazioni, la si può considerare oramai tramontata. col vento che soffia. Poi, di fatto, l’aspra campagna combattuta dal sociali smo contro il clero, materiata di scandali sessuali, è venuta meno. E ciò, mi sembra, per due ragioni: prima di tutto perchè la poco seria lotta socialista ha obbligato il clero meno che onesto e dalle abitudini feudatarie a comprendere che i tempi eran mutati e a mutare con essi; e poi perchè la laicizzazione progressiva della nazione ha portato con sè una più serena valutazione delle colpe degli ecclesiastici. L’anticlericalismo, infatti, per una di quelle numerose incongruenze che gli erano caratteristiche, sfruttava a suo vantaggio un criterio di origine strettamente clericale e che ha valore solo in una società in cui prevalga la mentalità clericale: lo scandalo. Siccome nessun male viene poi per nuocere, bisogna pur dire che la lotta socialista contro il clero a base di scandali, ha spinto quella parte di esso che era moralmente più sensibile a sentire l'onta che veniva dalle accuse e a poi-si nuovamente il problema del celibato ecclesiastico.
Oggi le condizioni generali in Italia sono molto mutate e la questione ha perduto quel senso di attualità che ebbe il suo culmine intorno al 1910. Le risposte al Referendum e il Referendum stesso risentono largamente delle preoccupazioni e delle lotte caratteristiche di quel breve periodo della vita italiana.
L’Avolio appoggia il suo programma riformatorio, di cui V abolizione del celibato obbligatorio per i preti e l’indipendenza economica del sacerdote dalla Chiesa (gerarchia o fedeli) sono due parti integrantes! a vicenda, sull’ ideale della purezza della Chiesa.
Che la Chiesa, nella sua espressione più alta e più ampia, debba essere — come società religiosa in cui la predicazione del Cristo diviene la norma e la spinta ad una vita religiosamente più elevata — nell' insieme dei suoi membri e soprattutto nella parte più rappresentativa, il clero, l'attuazione di un superiore ideale di vita religiosa e morale non ci può essere alcun dubbio, perchè i titoli della sua esistenza stanno appunto in quel suo voler essere la luce del mondo. Ma nella mente del-l'Avolio il principio della purezza della Chiesa significa in realtà tante altre cose ed ha l’estensione che ha avuto in tutti i programmi di riforma cattolica, ai quali l’Avolio s’ispira largamente. In una parola, è un criterio teologico, una variante della nozione (Nola) di santità, concepita come qualche cosa di magico ed inerente alla Chiesa stessa, anche contro la volontà dei suoi membri.
Nei programmi tradizionali di riforma cattolica continua inoltre a sopravvivere come un postulato quel concetto della funzione e dell’importanza del clero quale era stato formulato nel sistema teologico medioevale, espressione a sua volta dell’indiscussa influenza sociale ed intellettuale del clero medievale nell’Europa occidentale. Ma supporre, oggi, che il clero sia ancora la parte viva della nostra società
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO? 197
e che informi di sè tutta la massa fiddium; credere che nella nostra vita contemporanea in cui tante correnti di pensiero, tante influenze morali, così diversi ideali di coltura s’incontrano e vengono in conflitto: i° il livello morale del laicato (nei paesi cattolici, s’intende) dipenda dalla condotta e dall’influenza del clero; 2° che il clero possa ancor oggi ridivenire il condottiero, il cervello della società cattolica, è una vera ingenuità.
Per troppe ragioni storiche il clero è come avulso dalla massa fiddium, ed è divenuto una casta a sè, con idealità e mentalità proprie ed insieme una crisi internai *
Come poter credere quindi che una riforma del clero possa influire notevolmente sulla condotta della Chiesa? Evidentemente, attraverso i secoli, il centro della vita cattolica, la sorgente e l’esponente efficace della sua vita si sono spostati : il problema d’un rinnovamento della Chiesa, se fòsse possibile perseguire ancora un simile ideale, si porterebbe invece oggi sul principio (i) morale e dommatico da un lato e dall’altro sull’ importanza e sulla funzione attiva dei laici nel seno della Chiesa. Il sácerdotíSmo è tramontato definitivamente.
Non va, inoltre, dimenticato che a loro volta i difensori del celibato ecclesiastico si appoggiano anch’essi sullo stesso ideale di purezza della Chiesa e che fanno ugualmente del clero il centro vitale del cattolismo. Quindi è evidente che il problema dell'abolizione del celibato ecclesiastico non può esser posto efficacemente partendo da presupposti così poco solidi.
È sembrato ad alcuni che il problema intorno all’obbligatorietà o meno del celibato ecclesiastico acquistasse in serietà e in profondità col liberarlo da tutti i presupposti ^ecclesiastici e col trattarlo invece sub specie aelernitatis, come una questione astratta: «Quale, in teoria, risponde meglio alla funzione e alle finalità del clero cattolico, il celibato ecclesiastico obbligatorio o il matrimonio ? ». La questione posta così ha un significato ed uno svolgimento puramente accademico e non può condurre a risultati seri. E chiaro che i dati del problema sono proprio i termini stessi posti in questione, e che ciò che è accettato senza discussione da tutte e due le parti come l'ideale normale del sacerdozio cattolico non è altro che una sublimazione teoretica dell’attuale vita ecclesiastica celibalaria. La soluzione viene così ad essere già compromessa in un determinato senso, favorevole, a rigor di logica, ai soli difensori del celibato ecclesiastico, i quali hanno sempre così facilmente buon giuoco. Ed ecco perchè, malgrado sforzi d’ogni genere per trovare una base più larga per giustificare Y abolizione o, meglio, il superamento dell’istituto celibatario come termine indissolubile del concetto di sacerdozio cattolico, essa venga in fondo chiesta come una concessione illogica, come un favore umiliante. Pur troppo, molte delle risposte che leggiamo nel Referendum sono impostate intorno a questa questione astratta e stanno .a dimostrare le prevalenti tendenze intellettualistiche del nostro clero e la mancanza in esso di una profonda coltura storica.
(i) Cioè sul valore cristiano deWautorità della Chiesa e sull’unità interiore della morale cristiana, concepita piuttosto come ispirazione e idealità, che come diritto e casuística.
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Perchè, appunto, i dati del problema sono interamente storici. Quando indaghiamo l’origine di questo istituto ecclesiastico, il riportarci nell’ambiente storico che lo vide nascere ci fa comprendere subito come esso non sorgesse affatto come soluzione ad una ricerca per una maggiore garanzia ed elevamento di santità per il clero. Il problema che sta storicamente alla base dell’ istituto celibatario è meno un problema specificatamente ecclesiastico, che il residuo cristallizzatosi di un mo mento critico della lunga lotta nel cristianesimo antico dell'ideale ascetico, che, sotto l’influenza di dottrine dualistiche largamente diffuse, minacciava di travolgere verso il suicidio la società cristiana, la cui difesa a nome delle esigenze della vita sociale e del buon senso morale fu fatta dall’episcopato d’allora.
Non va dimenticato che proprio al iv secolo, nella Chiesa latina, risalgono contemporaneamente e la difesa dell’istituto matrimoniale che provoca a sua volta la sua concezione sacramentale, e l’origine del celibato ecclesiastico obbligatorio.
Come sono tramontate storicamente le cause che hanno favorito lo stabilirsi del celibato ecclesiastico, così è tramontato il concetto tradizionale del sacerdozio cattolico. La funzione sacerdotale (presbiterato e diaconato) era liturgica ed in intima relazione con la celebrazione dell’Eucaristia, come banchetto a cui presiedeva il vescovo assistito dal corpo presbiterale. Il concetto magico di una purezza materiale in chi tocca i vasi sacri ha favorito sensibilmente, oltre al movimento asce tico, la pratica del celibato ecclesiastico, che venne quindi ben presto esteso anche al suddiacono, perchè anche egli, sebbene indirettamente, prendeva parte al servizio eucaristico.
♦ * •
Oggi, invece di questi concetti e motivi realistici., a giustificazione della nostra comune concezione dei sacerdozio cattolico stanno motivi d’ordine più spirituale; però essi non sono di origine ecclesiastica, ma sono piuttosto una traduzione di concetti e di idealità laiche del tutto moderne. Il prete infatti vien considerato oggi principalmente come un illuminatore di coscienze, come il maestro e l’apostolo di una dottrina, come un fattore di progresso morale e sociale.
Invece, secondo la dottrina e la prassi ecclesiastica, egli è semplicemente ed unicamente un amministratore di sacramenti — là dove il vescovo non può giungere — ed un ufficiale liturgico, la cui personalità — se non si voglia confondere la missione del sacerdote cattolico con quella assai più personale del pastore nelle chiese evangeliche — è come sommersa nell’azione impersonale e misteriosa compiuta a nome e per autorità del suo vescovo. Il pontificato di Pio X volle èssere un richiamo energico a questo ideale tradizionale dell'ufficio del sacerdote cattolico, concezione che stava per esser travolta dalla nozione più moderna e forse più feconda di risultati, ma altrettanto pericolosa per il consolidamento dell’edificio gerarchico, che Leone XIII aveva favorita per un suo sogno di egemonia culturale del clero cattolico nel secolo xix, ad imitazione di quella esercitata già nel secolo xiii.
È curioso costatare nella lettura del Referendum che l’idea di sacerdozio, che è accettata come punto di partenza nella discussione sia dagli abolizionisti che
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CHÈ PESSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO?
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dagl’integralisti, è proprio quella moderna c laica: questo è un altro sintomo della contraddizione interna in cui si dibatte attualmente il clero cattolico fra la funzione e la figura esterna, fra il concetto e la pratica della sua missione!
Io penso che la diffusione del concetto moderno di sacerdozio farà da sola compiere più cammino all’istituto sacerdotale cattolico che mille piccole o grandi riforme cadute dall’alto, e risolverà, superandole, tutte quelle difficoltà morali in cui si dibatte il moderno sacerdozio per l’eredità delle due concezioni magico-sacra-mentale e dualistica.
L’Avolio, appoggiandosi in parte sul nuovo concetto di sacerdozio, sogna un esercito di preti-lavoratori. Dirò subito : l’Avolio ha ben compreso che il problema del celibato è collegato ad un problema economico ; però il suo punto di vista non si allontana dalle solite premesse di una riforma cattolica.
« Il prete■— egli dice — riacquisterà tutta la sua influenza quando sarà rispettato, e sarà rispettato quando non si potrà più sospettarlo nè un immorale, nè un estraneo alla vita, nè uno sfruttatore*.
L’ideale è bello, senza dubbio; ma un clero moralmente superiore ed indipendente non si può avere nè con la funzione che gli spetta attualmente nel sistema cattolico, nè con la coltura limitata e grettamente professionale che gli è caratteristica, nè, soprattutto, attraverso quella tutela morale da cui è circondato, come se fosse un eterno minorenne spirituale. Soprattutto l’indipendenza economica, che è la garanzia di ogni più seria libertà individuale, non potrebbe esser raggiunta dal clero prima che la Chiesa cattolica non rientri negli stati moderni nel diritto comune. Ebbene, proprio allora, io temo che il prete correrà un maggior rischio di diventare per necessità di cose un parassita, perchè privo di una paga che, come ora avviene per i parroci e per i canonici, lo mette allo stesso livello sociale di un impiegato dello Stato e lo rende economicamente indipendente da un gruppo di fedeli. Egli dovrebbe allora troppo spesso piegarsi davanti ai gusti alle idee, spesso grette, del suo gregge o scendere ad accomodamenti alle volte onerosi per una coscienza retta e nobile, per non perdere il pane offertogli dalla comunità. L’Avolio vorrebbe piuttosto che il prete esercitasse una professione o un mestiere, secondo i luoghi e le attitudini; Questa è una delle due soluzioni accarezzate dai riformisti di tutti i tempi. Secondo l’una, come abbiamo visto, il prete dovrebbe vivere delle offerte della comunità che regge (1), invece che di uno stipendio dato dall’amministrazione ecclesiastica. L’Avolio, invece, per le sue simpatie verso i nuovi criteri morali diffusi dal socialismo, preferisce la seconda soluzione, la via del lavoro che dovrebbe rendere il prete indipendente economicamente sia dall'autorità ecclesiastica che dalla comunità. La soluzione può sembrare seducente, ma uno sguardo gettato sulla realtà ci fa comprendere come sia del tutto inattuabile e vana. S’intende che parliamo
(1) Questo sistema è largamente diffuso nei paesi di lingua anglo-sassone, sia fra i cattolici che fra i protestanti. L'esperienza ne ha mostrato gl’ indiscutibili vantaggi, ma ne ha messo in luce anche tutti gl’inconvenienti.
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del sacerdozio cattolico così com’è costituito oggi, inquadrato nel suo sistema geràrchico e con la sua funzione sacramentale.
Il sacerdozio cattolico è un prodotto di una concezione aristocratica della Chiesa; la sua funzione, concepita come superiore a quella dei laici per la sua stessa natura misteriosa e magica, lo ha separato spiritualmente e materialmente dalla maggioranza dei fedeli sotto la spinta di una mentalità religiosa di tipo inferiore all’elevata ispirazione profetica dei conduttori delle comunità primitive cristiane la quale ha trovato una forma concreta nelle Chiese storiche a struttura gerarchica. Quindi si comprende come sia stato precisamente il sentimento popolare a non volere più che il clero (i pecchioni dell’alveare della Chiesa!) vivesse del proprio lavoro, per una singolare abberrazione del concetto e della funzione del sacerdozio cristiano. Ciò non esclude che anche altre cause di carattere economico e morale sieno entrate in gioco. Oggi — osserva giustamente l’Avolio invece è proprio il popolo a meravigliarsi del parassitismo e dell'ozio del prete. « Se il clero spontaneamente non si decide a riabbracciare l'onesto lavoro per vivere, lo sforzerà a decidersi il popolo, il quale va già assottigliando al prete il poco pane, perchè va perdendo un giorno più dell’altro ogni fiducia in chi vede che ha materiale interèsse a predicare una dottrina su la quale deve vivere » (pag. 213). Ma dove potrebbe avvenire ciò? Solo là dove la propaganda socialista ha prodotto i suoi effetti!
Eppure, io dubito se, conservata intatta la funzione tradizionale del sacerdozio cattolico, il popolo vedrebbe di buon occhio un funzionario quasi pubblico entrare in concorrenza con lui nell’aspra lotta quotidiana. Una vita di lavoro manuale o d’insegnamento sufficienti a dare i mezzi per condurre una vita tranquilla e rispondente alla posizione sociale di un sacerdote — specialmente se questi, nel sogno riformista, sopporta il carico di una famiglia — assorbe troppo tempo e troppe energie e riduce notevolmente i mezzi per un progresso intellettuale e morale, perchè un sacerdote possa attendere contemporaneamente ogni giorno ad un’opera seria di missione ed organizzazione religiosa conforme allo schema cattolico. Sì, una vita di lavoro coronato dal sacrificio personale da una vivace propaganda d’idee e dall’umile servizio per i fratelli è un gran bell’ideale che eleva nella stima anche dei nemici e degl’indifferenti chi ad esso si consacra, ma è intieramente un ideale laico di sacerdozio ! (1) Il complesso edificio liturgico attuale dentro cui si svolge o si presume che si svolga la vita del prete (officio quotidiano, messa, amministrazione dei
(1) È evidente che questo nuovo ideale, che si va affermando, di. sacerdozio è in opposizione al tradizionale, ispirato alla concezione gerarchica e sacramentale del cat-tolicismo tradizionale. Il nuovo ideale è piuttosto ispirato ad una concezione individuali-stico-prof etica. "L'apostolo infatti si muove per un imperativo della sua coscienza, per l'influenza immediata dello Spirito su di lui, e non per un puro mandato professionale. La sua azione non è più quella di un mandatario, di un intermediario ufficiale ed indispensabile nei rapporti fra Dio e l’uomo, ma è sentita come personale, ed è fatta di persuasione e d’influenza spirituale. Il sacerdote-apostolo sopratutto non vuole più esser considerato come uno strumento passivo della dispensazione della grazia divina attraverso quei simboli complicati, che sono i sacramenti.
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CHE PENSARE DEL CELIBATO ECCLESIASTICO?
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sacramenti, cura pastorale, partecipazione alle recenti forme di culto d’origine popolare e che si sono sviluppate a latore del vecchio sistema liturgico, ecc.) è inconciliabile con la mobilità e l’adattabilità di quei « bersaglieri dello spirito », i sacerdoti di domani, incarnazione del nuovo ideale di libero sacerdozio-apostolato.
* • •
Mi sembra di poter concludere che caratteristica della nuova ripresa del problema del celibato ecclesiastico nell’ultimo fermento d’idee nel seno del cattolicismo è stata la tendenza a porre il problema come qualche cosa di più vasto di un «numero > del programma di Riforma esteriore, come era sempre avvenuto nel passato, anche là dove veniva presentato come tale. Si sente che non invano iì soffio di un nuovo ideale religioso, sprigionatosi dal caos modernista, ha rinnovato tutte le vecchie questioni del nostro mondo religioso. Ed il problema del celibato ecclesiastico ha guadagnato così in serietà, in chiarezza e profondità e da un ristretto problema ecclesiastico è divenuto un problema umano, e dalla ricerca di un rimedio ad un infelice sistema ecclesiastico del passato, il coronamento di un nuovo edificio spirituale.
Roma, marzo 1915. « Catholicus ».
Pubblicheremo nel prossimo fascicolo la Parte II dello studio:
Il celibato ecclesiastico e il a celibato dei più » — II celibato ecclesiastico e la questione sessuale — Il movimento per la moralità e la nuova difesa del celibato ecclesiastico — L'etica della castità — Società e celibato — I sacerdoti non emettono nessun voto di castità!— Vocazione ed eroismo sacerdotale in rapporto al celibato ecclesiastico — I seminari.
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PERI5G/EIVRA DELL'ANIMA
L’AUTORITÀ DEL CRISTO
PSICOLOGIA RELIGIOSA (i)
Di quale autorità fai tu queste cose? e chi ti dette questa autorità?
Watt., 2i, 23).
on mi propongo di fare l’esegesi della domanda rivolta a Gesù dai principali sacerdoti e dagli anziani, ma voglio semplice-mente prenderla come l’espressione approssimativa di ciò che può chiedersi, la coscienza moderna, quando considera l’opera della misteriosa, adorabile persona che è il principio e la ragione del Nuovo Testamento.
Quella coscienza che solo può chiamarsi moderna (la modernità è nel pensiero che ha veramente camminato e non nel pensiero contemporaneo che è rimasto stagnante, volgare sotto certe parvenze di novità) è dominata dall’idea di legge che immutabile, non posta dall’uomo, essa vede, e dove non vede intravvede, dappertutto; e non può più credere nei lusus naturae, anche se volesse; così non può più credere che la singolare biografia raccontataci dai quattro Evangeli e che ha determinati effetti così straordinari nella storia, non si connetta con le leggi fondamentali della vita; e vuol sapere quali sono e dove sono quelle leggi, per riporvi 1’ « autorità » del «Figliuol dell’uomo»», che patì sotto Ponzio Pilato e ci ha dato il Cristianesimo. Ah, non fu lusus naturae! L'umanità è anche natura e come lusus non è nella conchiglia fossile o nell'impronta della felce nella sostanza rocciosa (2), così non fu mai lusus nell’umanità nè nella sua storia.
(1) Dedico al mio Renato.
(2) I fossili furono pur giudicati una volta come scherzi della natura, nei suoi ozi
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l’autorità del cristo
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Altra caratteristica della coscienza più moderna è la critica che disfa le antiche costruzioni mentali per rifarle sulla base* dei fatti, e con questo una grande ripugnanza per le costruzioni in gran parte verbali, di cui si contentava generalmente la vecchia cultura e si contenta quella che è ancora superstite in tanti nostri con temporanei; e la ricerca indefessa, quasi esclusiva, del fatto.
Avemmo sul principio una specie di nuovo feticismo, e il feticcio era appunto il fatto, che toccava i cinque sensi; e si cacciava nelle tenebre di fuori tutto un mondo d'altri fatti assai più effettivi, perchè sono composti di dolore e di gioia, che prima indicano e poi ci fanno discoprire una realtà più grande,-quella che più importa all’uomo di conoscere. In altre parole, s’incominciò, con una inversione di valori collocando devotamente sull’altare ciò che valeva meno e gettando sotto l’altare, fra le smoccolature e le ceneri, quanto abbiamo di più prezioso e sappiamo di più vero: la felicità e il suo segreto. Il quale segreto sta indubitabilmente nell’attitudine più schiettamente umana dell’uomo dinanzi al miracolo della vita e del tutto. Ma, secondo la particolare Weltanschauung del nuovo feticismo, gli uomini erano stati le povere vittime d’una grande illusione, credendo che esistesse un segreto della felicità e che questo segreto fosse alla loro portata, e ciò fino al giorno, in cui il fatto-feticcio non ci ebbe aperti gli occhi.
Ma noi troviamo il culto dei feticci nel primissimo stadio dell’evoluzione religiosa, e lo si ritrova tra povere turbe selvaggio che non sanno, non comprendono altra forma che meglio convenga al loro istinto del divino; e il feticismo concorre a dimostrare oggettivamente, storicamente che la religione è parte integrante, necessaria dell’esser nostro, come la respirazione, l’alimentazione e il sonno. Nella stessa maniera il fatto-feticcio segna il principio d’una delle vie maestre della natura, alla cui cima possiamo intravvedere lo splendore del vero.
Ma, se non erro, è nello spirito e nella lettera del Nuovo Testamento anche una battaglia a tutta oltranza contro ogni costruzione verbale, ed un continuo richiamo alla natura, alla più avanzata natura, che si avanza di qua, per quel che noi ne sappiamo, soltanto nell'uomo. Nel quale è tutto un mondo di fatti che valgono bene il mondo fenomenico esteriore, non solo; ma sono fatti che più devono importarci, perchè è qui soltanto che possiamo sperare di risolvere il problema della felicità.
Il nuovo feticcio è stato apparentemente e temporaneamente un fiero colpo alla religione; ma era destinato, come si può vedere al presente, ad eccitare la nostra attenzione su altri fatti, che se non potevano descriversi con linee e colori, erano per altro contraddistinti mediante caratteri più profondi e, direi, più atti a stabilire che un fatto è un fatto, caratteri che sembrano emergere dalle stesse viscere della natura. Intendo parlare di gioie e dolori che implicano bellezze e bruttezze che si sottraggono ad ogni forma.
suppongo; e molti « liberi pensatori », anche qualche biografo di Gesù di Nazareth, hanno adoperato fino a ieri lo stesso vecchio stantio criterio, nel giudicare il fatto religioso. Idee fossili !
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IL
Ci sono bellezze invisibili, ehe possono coesistere con grandi bruttezze visibili, come lascia intravvedere l’antichissima profezia sul « servitore » che « si comporterà saviamente » (i): — « Egli non ha nè forma nè splendore; e quando lo vediamo non v’è bellezza, perchè noi lo desideriamo. Egli è stato sprezzato e rigettato dagli uomini, un uomo di dolori ed esperto in tristezze; e, come uno dal quale gli uomini nascondono la loro faccia, è stato sprezzato; e noi non ne abbiamo fatta alcuna stima ». (2)
E sono invisibili le bellezze più belle, cioè più degne della nostra ammirazione; perchè sono la sorgente di forti e grandi gioie che inondano le nostre facoltà più specialmente umane e ci conducono alla esperienza e alla conoscenza di ciò che non ha altro nome che « verità » ed è il valore massimo. E quando noi conosciamo la verità siamo come presi da una forza incontrastabile che ci tiene e non ci lascia più andare. In ogni caso, alla verità esperimentata una volta si fa sempre ritorno, come si ritorna sempre a ciò che già produsse in noi la gioia più grande.
Il Cristo ha detto, con quel suo stile che ritrae le cose dello spirito con tratti forti e scolpiti: « Il regno di Dio » (non è la speranza religiosa?) « viene in maniera che non si possa osservare; e non si dirà: — Eccolo qui o eccolo là — ; perciocché ecco il regno di Dio è dentro di voi ». (3).
È così definita la sede invisibile di tutto un regno invisibile che è infinitamente più poderoso d’ogni altro regno: tutto un impero di fatti intimi che conosciamo meglio del « non-io» in generale. « Il regno di Dio non è nè mangiare nè bere, ma giustizia, pace e letizia nello spirito santo » (4), commenta l’apostolo. Ed ecco definite le caratteristiche di questo regno.
« Giustizia » è la più bella azione, di cui siamo capaci e con la quale rispondiamo all’azione che ci viene di fuori; «pace» è l'assenza d’ogni ansietà e d’ogni spavento; la « gioia » non può definirsi altrimenti che come lo stato più desiderabile.
Se ci domandiamo come può il Cristo divenire autorevole, la risposta sta propriamente in questi fatti. Egli determina in noi il più bel modo di rispondere alla misteriosa chiamata che ci viene dal fondo della vita, e ci dà la più ampia e più bella idea della giustizia; di poi, guardando la vita e la morte con i suoi occhi, dileguasi in noi ogni ansietà e ogni spavento dinanzi all’infinito mistero; ed infine, sforzandoci d'inalzarci all'altezza del suo carattere «seguitandolo», secondo il suo invito, noi facciamo l’esperienza, sia pure imperfetta nelle nostre condizioni presenti, d’una gioia superiore ad ogni altra e che può farci immaginare, sia pure lontanamente, che cosa sarà, quando sarà perfetta.
(1) Isaia, 52. 13.
(2) Isaia, 53. 2,3.
(3) LUC., 17. 20,21.
(4) ROM., I4. 17.
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L’autorità del Cristo viene perciò dall’esperienza che noi facciamo della sua dottrina. È per l’esperienza che noi siamo fatti certi che è la verità.
Noi vediamo Ch’Egli risponde nella migliore maniera concepibile al nostro più naturale e più grande bisogno di vita e d’immortalità.
III.
Ah, questa autorità ha un dominio segréto su tutta la nostra coscienza e la nostra cultura occidentale! Non può uscirne neppur lo spirito anti-cristiano, se non è anche incolto e volgare; chè questo spirito non sa quante volte combatte il Cristianesimo, aiutandosi con idee e principi derivati dal Vangelo. Sempre l’autorità, anche se disconosciuta, del Cristo!
È perciò che ogni uomo nato in paese, dove il Vangelo in un modo o nell’altro è stato predicato, può esser preso da un brivido dell’anima, leggendo alcune pagine del « Siebenkaes » di Jean Paul Richter (1), che il grande Carlyle chiamava grande. Il Richter, in un tempo, in cui anche nelle classi colte della Germania era largamente diffuso il gelido deismo del Rousseau e del Voltaire, vedendo con orrore come la critica filosofica ponderava resistenza di Dio con la stessa apatìa e con lo stesso cuore freddo come se fosse una questione dell’esistenza del basilisco o dell’unicorno; e anche con l'intento d’atterrire se stesso, se mai il suo cuore fosse stato così infelice e si fosse così avvizzito che ogni sentimento che afferma l’esistenza di Dio fosse stato distrutto in lui, imagina un sogno, nel quale vede discendere sull’altare d’una fantastica chiesa una elevata e nobile figura, con l'espressione d’una tristezza incomparabile, che, domandato da tutti i morti se non v’era Dio, risponde: « Non v’è ». Egli aveva attraversato i mondi gridando: « Padre, dove sei tu? ». Ma non aveva udito nessuna risposta, fuorché l’eterna tempesta che non era governata da nessuno.
Vengono nel tempio i fanciulli che erano stati destati nel cimitero: « Gesù, non abbiamo Padre? ». Egli risponde con le lacrime che gli sgorgano dagli occhi: « Siamo tutti orfani, io e voi; siamo senza Padre ». « Fredda, muta Necessità! Fredda, eterna Necessità! Caso insano! Sapete voi che cosa sta sotto di voi? Quando distruggerete tutto l’edifizio e me stesso? ». « 0 Padre! o Padre! dov’è il tuo seno infinito, affinchè io possa trovar riposo?... ».
Un tempo anch’egli fu felice, perchè aveva ancora il suo Padre infinito e guardava ancora dai monti nello spazio infinito del cielo e premeva il suo cuore ferito sulla sua dolce imagine e diceva anche nell’amarezza della morte: « Padre, prendi il tuo figliuolo fuori del suo sanguinante involucro e inalzalo al tuo cuore! » «... nessuna mano curatrice e nessun Padre infinito! Mortale che stai vicino a me, se tu sei ancora vivente, adoralo o tu l'hai perduto per sempre!... ».
Ma l’autore si sveglia, e l’orribile sogno, che sembra una bestemmia, svanisce. « La mia anima pianse di gioia, che io potessi di nuovo adorare Iddio; e la gioia e le lacrime e la fede in Lui erano la preghiera ».
(1) 1763-1825.
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Questo sogno, che è anche una parabola singolare e bizzarra, sembra voler dire fra altro che c’è-tanta bellezza e grandezza umana nel carattere del Cristo che anche l’uomo, che crede nella sua missione divina, deve riconoscere che, se egli ritornasse sulla terra per dirci che Dio non esiste, tutti c’inchineremmo e relegheremmo la grande idea fra quelle che furono confutate definitivamente e son tramontate per sempre, come, per es., il sistema Tolemaico, perchè sarebbe la testimonianza della nostra più alta umanità.
IV.
Vi sono bruttezze invisibili che sono anche le più grandi e possono stare insieme con le più grandi bellezze visibili. Ma « che giova egli all’uomo se guadagna tutto il mondo e fa perdita della sua vita?, ovvero, che darà l’uomo in cambio della sua vita?» (i).
Non è la vita un valore assoluto, base d’ogni altro? E vita per eccellenza è la vita spirituale, come sa chi la conosce per esperienza e può compararla con le altre forme della vita; poiché quando è nata, è una vita sicura delle cose sperate e contiene in se stessa la dimostrazione sufficiente delle cose non vedute (2); e non teme nessuna delusione, perchè è certezza superiore ad ogni altra. Infatti la fede novera tra i suoi componenti il sentimento, ben definito e distinto, di vivere la nostra vita più ricca e più bella, dove si compie il ciclo della nostra umanità; ed è solo quando abbiam toccata quest’altezza che noi ci sentiamo interamente uomini; ed è soltanto allora, come può attestare ogni credente, che noi apprendiamo che la felicità non è una vana parola, ma un fatto effettivo che è pure alla nostra portata.
Noi possiamo vedere in tutto lo spirito del Vangelo quel criterio della verità che è certamente il più largo e il più conforme alla più antica tradizione: la felicità della nostra anima migliore. Infatti quest’anima ha sempre chiamato verità ciò che la fa felice, e che somiglia alle altre verità più comuni e più terrene; ma come la cosa imitata somiglia alle imitazioni che se ne fanno. Sono le altre verità che si modellano sopra questa, che è la più grande e la più luminosa, perchè illumina anche l’oscurità della morte.
V.
Non sono fatti conósciuti da tutti. Ma un fatto ha forse bisogno d’esser conosciuto da tutti per essere un fatto? Sappiamo bene che è più facile il consenso dei più sui fatti esteriori, sui fenomeni che tutti possono verificare; ma, se queste stesse cose visibili non sono vedute da tutti e contraddicono alle teorie thè sono in vigore, neanche su di esse è unanime il consenso. Ne seppe qualche cosa il grande Galileo Galilei, che vide fatti nella vòlta celeste che non erano veduti da tutti e che non si accordavano con le idee astronomiche ammesse dalla chiesa onnipotente; come ne sanno
(1) Mar., 8. 36, 37.
(2) Cfr. Ebrei, il. I.
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qualche cosa oggi tutti quelli che hanno veduto fenomeni meravigliosi che hanno tanto allargato il campo delle possibilità e sono generalmente negati da chi non li ha mai veduti e non si è dato mai la pena di vederli! Si ha un pregiudizio istintivo contro i nuovi fatti che turberebbero le convinzioni già formate e ci obbligherebbero a rivederle e correggerle. Si direbbe che gli uomini sono sempre pronti ad inalzare una croce anche per il fatto visibile. Ma quanto più per il fatto invisibile! « Tu dici che sai, che vedi. Io non vedo e non so. Dunque tu sei un'anima semplice, un illuso o un fanatico o un ipocrita; la tua testimonianza non è attendibile », oppure: « Di quale autorità fai tu queste cose? o chi ti dette questa autorità? »...
Non sappiamo intellettualmente donde viene, nè sappiamo dove va; ma la speranza religiosa irrompe un bel giorno nell’uomo interiore, senza nessun nesso con la nostra logica ordinaria come un’illuminazione solare che viene da fuori. È una altra logica, un altro modo di vedere; e vediamo anche questo: che la visione si accorda con quanto v’ha di meglio nell’uomo, non solo; ma anche che questo meglio è la condizione necessaria di quella seconda vista, che perciò nasce e cresce nelle condizioni meno vili e più nobili; e comprendiamo la « buona terra », di cui parla il Cristo nella parabola del seminatore, e quel « seme » della speranza, che cadendo dall’alto attcc? chisce qua e muore calpestato o soffocato più là, dove non trova la « buona terra », quel meglio che manca. Credo veramente che basti un accurato esame delle condizioni, in cui può nascere la speranza, per sentirci attratti verso la speranza. Ad ogni modo questo esame è della più vitale importanza, se vogliamo conoscere le grandi risorse della vita e ci è cara la nostra felicità migliore.
Il Nuovo Testamento è soprattutto una descrizione, illustrata da fatti di vita vissuta, delle condizioni della speranza.
VI.
Un'antica leggenda racconta che l'apostolo Giovanni, ridotto all'estrema vecchiaia nell’isola di Patmos. non poteva dire altro che queste parole: « Amatevi gli uni gli altri »; e la leggenda ha il pregio, di riunire in un concetto sintetico tutta la predicazione evangelica.
Ma che è amore?
È più facile sentirlo che definirlo. Tuttavia, se noi vogliamo cogliere un aspetto essenziale dell’amore, non sarà così difficile riconoscervi il sentimento della nostra unità col « non-io ». È come se noi allargassimo il nostro proprio « io » e vi comprendessimo 1’« altro », che è fuori di noi. Ma noi non possiamo veramente amare ciò che, per quanto noi possiam prevedere, dev’essere annientato. L’amore più vero vuole e deve credere nella incorruttibilità del suo oggetto; e dinanzi a questo amore più vero noi c’inchiniamo, come dinanzi alla più grande bellezza che si conosca in questa vita. È come il sole dell'anima; e c’illumina così certamente per la promessa che contiene e lo fa bello. E quando è nato un grande amore nel nostro cuore sarà difficile dubitare della sua promessa e sospettare l’inganno. Sarà invece, più facile che noi siamo indotti ad integrare e confermar la promessa.
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Può sussistere il dubbio d’una bellezza chimerica finché noi c’imaginiamo di far parte d’una natura composta dall'inconscio, fondata sull’inopinato. Ma può nascere con questa idea? Dall’altra parte: che potrebbe significare la promessa che è nell'amore più bello, se in questo amore e in ciò che promette non fosse un riflesso, un'eco dello stesso principio dell’essere? Ed è perciò che noi cerchiamo una Mente Infinita ed un Cuore Infinito, dove l'uomo e il tutto abbia l’essere. Abbiam bisogno di Dio che ci affidi che noi non possiamo soltanto dire, quando è sera: — Farà tempo sereno, perchè il cielo rosseggia; — e la mattina: — Oggi sarà tempesta, perchè il cielo rosseggia ed è torbido — (e la fenomenologia fisica è così fedele che ci permette di fare i più sicuri pronostici!); ma abbiam bisogno di Dio che ci assicuri che il cuore dell’uomo è altrettanto veridico quanto la faccia del cielo.
È evidènte che, senza la fede in Dio, noi non potremmo troppo credere nei nostri pronostici d’immortalità, come è certo, che non potremmo mai pervenire alla sicurezza delle cose sperate, senza un grande amore che prepari la « buona terra », sulla quale cadendo il « dono di Dio » fiorisce e fruttifica con rigoglio.
Oh, comprendiamo la parabola del « Buon Samaritano » come l’altra del « Fi-gliuol prodigo »! Carità e Speranza formano una stella doppia inseparabile. Tu che dubiti, fa per un momento la prova d’un’auto-suggestione e sforzati di credere, senza alcuna dubitazione, nella incorruttibilità della vita umana, e tu vedrai che puoi meglio amare tutti gli uomini, come se tu avessi scoperta la più intima somiglianza concepibile fra te stesso e gli altri, e vedrai come ogni dissomiglianza svanisce dinanzi a quest’unica capitale somiglianza. Il disamore, che si nutre di dissomiglianze, come l’amore di somiglianze, proviene in fondo dal non aver potuto ancora credere nell’Altra Vita. E noi comprendiamo come per la grande lezione di carità fino alla morte che è nel Vangelo, la miglior parte dell’umanità potè credere e sperare, come non si era mai creduto e sperato prima del Cristo; e possiamo anche comprendere come accrescendo la speranza religiosa il Cristo ha introdotto nel mondo un più grande amore.
VII.
L’idea di Dio quando non è una semplice idea o un’ipotesi di composizione intellettuale o una parola vana, ma la sublime realtà che è conosciuta in parte e in parte profetata dalla coscienza religiosa, è tale bellezza che getta nell’ombra ogni altra e rigetta l’uomo infinitamente lontano da se stesso e lo umilia, cioè lo pone nel suo vero posto, strappando da lui ogni bellezza che credeva di possedere, come attributo suo proprio. Ma è nato in noi il bisogno di sentirci in armonia con quella bellezza che abbiamo intravveduta, non sappiamo come nè dove; sappiamo solo il quando. E noi comprendiamo « il pubblicano » della parabola che « stando da lungi non ardiva neppure d’alzar gli occhi al cielo, anzi si batteva il petto dicendo: — 0 Dio, abbi pietà di me peccatore » —; e la lezione che il Cristo ne trae: « Chi s’umilia sarà esaltato ». (i)
(i) Lue., 18. 10-14.
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È questo un fatto che non può esser comparato ad alcun altro fatto conosciuto: un'esaltazione che è tanto più grande quanto è maggiore la nostra umiliazione; perchè l’esaltazione è nella conoscenza di quella bellezza che ha dato materia alla conoscenza di noi stessi, quindi alla nostra umiliazione. È cosi che il grado della nostra umiliazione segna il grado della nostra esaltazione. Insomma noi conseguiamo la nostra umanità più grande allora quando abbiam riconosciuta tutta la piccolezza e la bruttezza nostra.
È nato nello stesso tempo il bisogno di sentirci in armonia con l'altro uomo, anche con quello che ci fa il male. L'amore fraterno è divenuto una necessità. Perciò comprendiamo anche la preghiera: « Rimettici i nostri debiti come noi ancora li rimettiamo ai nostri debitori » (1); e la parabola del malvagio servitore, al quale il suo signore aveva rimesso un grosso debito, e non ebbe pietà del suo conservo, che gli doveva una piccola somma. « E il suo signore adiratosi lo diede in mano dei tormentatori... » (2), per insegnarci che non vi può essere speranza religiosa là dove l’anima non cerca la sua unità con l’altr’anima che le somiglia e non è nato ancora quell'amore fraterno che è mezzo e scala per giungere alla conoscenza di Dio.
Vili.
Per ritrovare la nostra vera natura dobbiamo spogliarci di tutte le incrostazioni deposte sopra noi dall’ambiente sociale, nel quale abbiamo vissuto, e saper dimenticare tutta la nostra cultura, ogni idea acquisita, ogni pregiudizio del nostro tempo o d’altri tempi. Troveremo un semplice fanciullo molto simile ai nostri piccoli, che non conosce nè il inale, nè la morte; ma conosce il bene e vede il bene in cielo, in terra ed in ogni luogo, e non si aspetta che il bene nel presente e nell’avvenire e non ricorda che il bene.
La nostra vera natura è proprio questa; e non è sua colpa se fa sorridere amaramente il pessimista e gli fa ripetere la formula ironica dell'ottimismo che trovasi nel « Candide » del Voltaire: « Tout va le mieux du monde dans le meilleur des mondes possiblesl ». E, se noi lasciamo crescere il piccolo fanciullo nascosto così com’è, indisturbato, egli potrà poi affrontare la cultura e la società nella quale si muove e tutte le bruttezze del mondo ch’egli attraverserà come l’angelo dantesco che
Passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aer grasso Menando la sinistra innanzi spesso: E sol di quell’angoscia parca lasso (3).
Ciò che sente e sa e non può non sentire e non sapere questo fanciullo, evocato dai morti dalla potenza combinata del dolore e dell’amore, è religione e non altro che religione che lo trasporta di là dal male e anche dal più consueto bene e di là dalla
(1) Mat., 6. 12.
(2) Mat., iS. 23-35.
(3) /«/•. 9- 81-84.
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morte in quel tempo Stesso che colloca l'uomo nel suo vero posto e gli dà l’attitudine più giusta e più naturale dinanzi al miracolo della vita. Ma come non sentirci fanciulli a fronte di Dio?...
Sappia ridiventare fanciullo anche l’uomo più maturo d’anni e di senno e si accorgerà ch'egli non dovrà rinunziare per questo alla sua esperienza o alla sua cultura; ma l’una e l’altra si adatteranno al fanciullo nascosto; ed egli potrà conoscere ogni cosa con occhio sereno e con la pace nel cuore alla luce della speranza religiosa. La vita avrà un grande significato e non sarà più confusione e disordine, col lenocinio di qualche piacere del senso e dell'immaginazione, di qualche godimento intellettuale, che non eccede i limiti del passato e del presente, o anche col lenocinio della fama.
Perciò comprendiamo la parola del Cristo: «Io vi dico in verità che, se voi non siete mutati e non divenite come i piccoli fanciulli, voi non entrerete punto nel regno de’ cieli ». (i) « Io vi dico in verità, che chiunque non avrà ricevuto il regno di Dio come piccolo fanciullo, non entrerà in esso »; (2) e comprendiamo il suo amore tutto particolare per i piccoli.
Oh, la bella semplicità dei grandi caratteri! È, e non è altro che quel fanciullo che non fu soffocato, ma potè vivere. E le cose più belle e più gloriose della storia son dovute a quel fanciullo che fu lasciato vivere... e illuminò il mondo. La luce che illumina ancora il mondo vien di là e non viene dall’adulto logorato e scettico, che ha per supremo canone del vivere il Nil admirari d’Orazio (3). Quel fanciullo è sempre capace d’ammirazione e perciò può anche amare e sperare.
Conosciamo dei vecchi che sono sempre giovani nell’anima e nell’esperienza, e conosciamo dei giovani che ci sembrano già vecchi d’una vecchiezza che non possiamo onorare. Si cerchi il segreto di questa discrepanza!...
(Continua). Raffaele Wigley.
(1) Mat., 18. 3.
(2) Mar., io. 15.
(3) Epislulae, lib. 1, ep. 6, v. 1.
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I CRISTIANI E LA GUERRA
LA GUERRA, LA RELIGIONE E L’ITALIA
All’amico carissimo G. B.
Io sono per la guerra (i). Per la patria; non « rinunzierò alla Patria », egregio e caro Paschetto. E sarò ancora cristiano; non « metterò da parte Cristo », amici miei.
Ah! dunque. Non senza turbamenti di coscienza, certo che no: ma non quelli cui accenna il prof. Paschetto nella sua lettera — che è una buona azione — al Falcili; ma con tremore di aspettazione religiosa e civile. Lo dichiaro subito: non so vedere un dissidio, una inconciliabilità tra la guerra e il cristianesimo; perciò non mi trovo ad alcun bivio angoscioso, non ho da scegliere fra i doveri della coscienza religiosa — del cristiano — e fra quelli del cittadino e cittadino italiano. Per me non c’è che un dovere ora, ed è proprio la sua ora; attendere la chiamata della patria alla guerra. E tutte le facoltà dell’anima debbono tendere e convergersi in questa volontà: e sento che anche il mio cristianesimo mi vi spinge. Guerra all'Austria o guerra alla Francia, come vorrà la patria e come vedrò da politico — ma guerra europea dell’Italia.
I. La guerra fattore religioso.
Scrivo oggi sotto l’impressione di diversi fatti, che poi esprimono l'istessa cosa: la lettera di un caro amico, cui dedico queste pagine, e la confessione del prof. Paschetto, e la acquisita conoscenza di uno stato d’animo diffuso e pari a quello di essi: come è possibile conciliare la volontà della partecipazione italiana alla grande guerra con il cristianesimo? Io nego, dissi, questa inconciliabilità, e pure mi spiego e comprendo questo stato d’animo pieno di dubbio e di tormentosa angoscia. Sarò pago, se, ragionandovi su, toglierò dalla perturbazione l’amico, e forse un altro ancora; perciò gli rispondo pubblicamente. Tre anni circa or sono scrivevo a G. B. una lunga lettera spiegandogli come io ritenessi prossima la guerra europea, e rafforzavo le mie ragioni con altri argomenti
(i) Se diamo libertà di parola al nostro amico e collaboratore M. Rosazza, non vuol dire che siamo d’accordo in tutto quel che dice ; in parecchi punti ci sentiamo anzi molto lontani da lui. Ma poiché egli parla come cristiano e con grande franchezza ha diritto all’ospitalità di Bilychnis che vuole raccogliere tutte le manifestazioni sincere dello stato d’animo dei cristiani in quest’ora tragica. (Red.).
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che non fossero contenuti in un articolo, sul medesimo téma, che non era piaciuto all’amico. E questi rispose a sua volta inviandomi i due versi d’Omero:
atei toi rà sgtì oiXa <pps<FÌ {/.avréusa^ai, ¿g3XÒv S’outs tc slzac S“0$ outs TsXsccas.
Il rimprovero era acerbissimo — cospetto, un’invettiva dell’avido Agamennone a Calcante — e mi colpiva tutto; ma l’amico, al sentire parlare di guerre ruzzava e fremeva, come l’on. Giretti. Bene: ora che non corro il rischio di passare per messo di sventura, posso rispondere, se non con maggior pacatezza (chè niuno è pacato oggi), con maggior forza, sì certo.
C’era adunque un pregiudizio pacifista, il quale astraeva dalla realtà e dalla storia e faceva parlare di guerra e non di guerre singole. Certo, se si tratta di enumerare tutti i danni, le ruine, le uccisioni, i lutti, le lacrime, le vedovanze, le desolazioni, e le ferocie anche, d’ogni guerra, si può considerare la guerra genericamente, ch’ognuna di esse addusse, adduce e addurrà cose simili orrende e funeste. Ed anche il filosofo — e lo storico — possono, come da ogni altro fatto umano, dalle guerre trarre alcuna considerazione universale, e mostrare in esse appunto l’umanità che si svela oltre e sopra l’animalità; insomma provare questa verità concreta che, cioè, la guerra come fatto umano obbedisce alla natura essenziale dell'uomo durum genus, sorto dalle pietre di Deucalione; il che non è astrazione. Ma non è di questo ch’io intendo discorrere oggi. Bisogna, per limitarci alle circostanze contemporanee, distinguere fra guerra e guerra, e dire (affermando in base a’ propri ragionati criterii di giustizia e d’amore cristiano) questa guerra è ingiusta e quella è giusta, questa ha raggiunto il tal fine di libertà nazionale e di progresso e questa è stata violenza bruta e cieca. Sacrificio e dolore: ma chi non sa che senza di essi non si progredisce, nè si avanza verso i fini ideali dell’umanità piena, della libertà individuale? Non occides! il quinto comandamento non ha valore riguardo alle guerre; ha valore assoluto nei rapporti individuali, e fra l’individuo e la società: non ne ha fra le collettività che si chiamano patrie, ma solo non ha valore allorquando le necessità improrogabili e storiche pongono di fronte le due collettività delle queli una abbia tutto da difendere: i focolari, le fedi, le libertà, i beni. La vita delle nazioni è cosa tremenda, e le ragioni della vita e della morte degli individui sono in talune ore solenni e gravissime subordinate alle ragioni della stessa vita nazionale, quando essa corra pericolo, quando essa obbedisce alla santa necessità di espanderei; e tale è appunto il caso odierno dell'Italia nostra. Perciò non fui mai pacifista, e sempre subordinai in me stesso le mie idee in proposito a questo principio: prima vivere e poi prosperare: e l’Italia deve oggi garantirsi le ragioni della propria esistenza e della propria iniziale espansione: dunque guerra e lotta per la vita, poi le prosperità operose della pace e della conquista come dianzi. Ma l’Italia con la sua guerra non otterrà soltanto il completamento della sua indipendenza: si solidizzerà nazionalmente all’interno. Il pericolo, il sacrificio, il dolore, ed ogni specie di pena e di travaglio, onde anche gli Italiani saranno colpiti li stringerà gli uni agli altri, li mostrerà figli di una istessa madre più che finora non sappiano, e sarà compiuta l’unità civile e spirituale. A questo dobbiamo tendere, chè possibile non è altrimenti: chè meglio è il ritrovarsi uniti dopo una guerra d’indipendenza e di
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espansione che dopo una guerra civile che non produrrebbe se non intolleranza e un gran seguito di odii cittadini. Ma che c’entra in tutto ciò la religione? Ecco: le società più unite, più solidaristiche, più intimamente forti sono le società religiose: questo anche ne’ tempi normali e pacifici. Certo è che la forza di coesione della società religiosa aumenterà enormemente nel maggiore pericolo obbedendo necessariamente alla propria natura: si rafforzerà con ciò la religiosità di essa, che di quella coesione è il principio e l’essenza. Non solo: ma i tepidi, gli inosservanti, gli obliosi ritorneranno commossi all’antica fede, al sentimento che in loro aumenterà i palpiti generosi e centuplicherà le forze a sopportare il travaglio sino a preferire il massimo sacrificio alla tranquilla inerzia vigliacca. E ancora: i dissidenti per pure ragioni pratiche od intellettuali ritorneranno alla società religiosa da cui s’erano corrucciati e divisi: dimenticheranno i dissensi, le avversioni personali, per ricordarsi solo della identità degli affetti, degli amori, e dei domandati sacrifici. E questo noi vediamo oggidì in Francia e in Germania ed altrove, ed è meraviglioso.
Quante crisi d'anime, quanti dubbi angosciosi, quanti estenuanti tentennamenti la guerra risolverà, togliendoli nettamente di mezzo: tutti allora saranno uguali di fronte al nemico; le madri, le spose, ed i figli verseranno identiche lacrime, e la volontà della vittoria sarà in tutti precisa ed ugualmente fervida e forte: si uniformerà perciò il modo di agire e si penserà soltanto al modo di operare il meglio possibile per strappare la vittoria, per terger le lacrime, per legittimare la guerra e renderla feconda di grandezza e di bene.
Ciò è ovvio, ma a ciò poco si pensa, oppure è da taluni negato; si dice: oh! allora si rafforzerà la Chiesa cattolica e questo noi non vogliamo. Rispondo: è vero, in Italia si rafforzerà il Cattolicismo: ma che colpa ce ne ho io se, religiosamente, la maggioranza italiana è cattolica? A me, come a tutti cui importa la religiosità dell’individuo, e in Italia questo deve importare, quello cha dà luogo a bene sperare è il rafforzamento della religiosità, dello spirito religioso, per la guerra. E ciò a tutto vantaggio del Cristianesimo, perchè il Cattolicismo è Chiesa cristiana come le altre: e le altre esistenti in Italia saranno rafforzate alla lor volta a seconda della loro intima coesione. Ma c’è di più: cesserà con la guerra, in parte, il caos religioso; le Chiese si disciplineranno maggiormente, ed io credo, si semplificheranno: i fermenti di modernità che in esse saranno stati diffusi nel pacifico autunno, pur restando apparentemente inerti nel periglioso inverno, germineranno nella primavera di pace. Fuor di metafora: la guerra arresterà le crisi delle fedi singole, ma i ritornanti alle fedi non oblieranno il patrimonio ideale che avranno dianzi acquisito, ed esso opererà in essi e nei ritrovati fratelli. Poiché i frutti del molto travaglio culturale saranno più facilmente vagliati ed assimilati: sarà la ricostruzione, il rinnovamento vero; passerà dall’aristocrazia dell’intelligenza e della critica quel tanto di vero che diverrà patrimonio di tutti. Ed il come non è dato a me, nè ad alcuno io credo, di prevedere e di descrivere. Ma io non dubito che ciò avverrà: e se è lecito avventurar previsioni, questo si può in certo grado affermare: che cementandosi viemmeglio la solidarietà della società religiosa (e quella nazionale), le Chiese si ricostruiranno, sia pur lentamente, sulle basi meno intellettualistiche ma più religiose e cristiane della libertà e della semplicità evangeliche, e concorreranno sempre più a formare l’ordine e la pace e la giustizia, che sono gli ideali pei quali e nei
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quali viviamo e troviamo la ragione di esistere nella civiltà europea, che malgrado la immensa guerra tremenda, continua ad esistere e ad operare nel profondo.
E più ancora: i giorni delle prove e delle tribolazioni non sono contati negli individui nè per le fedi e le Chiese. Orbene, giorni di prova e di tribolazione per la nostra fede, e per i fortunati membri di una chiesa, erano quelli passati, quando contro di essa movevano all’assalto con vilipendio e con ira i briachi di irreligiosità, i persecutori — e bisogna avere il santo coraggio di dirlo, anche dei cattolici — i materialisti, i fanatici del libero pensiero cui solo manca la norma della libertà di pensare, i blasfematori di Cristo, e i settari d’ogni specie e colore, e i monsignori romani non credenti e petulanti. E si comincerà a fare giustizia: se il popolo sentirà e vivrà la sua religione fraterna, ripresa e consaputa, nell’ora radiosa e terribile della guerra, si vedrà innegabilmente di quanto alto valore possa essere la consolazione e la forza sociale della religione: ed essa resisterà più concordemente al nemico Che la neghi, e al fratello che la prosterni a fini che non sieno i propri intimi di essa. Su queste basi sarà possibile, la nuova, la moderna, la più consona allo spirito nostro, apologia del cristianesimo. E come un giorno Mazzini parlò di Stati Uniti d’Europa e di Confederazione europea il che non è fuori di senno qualora si pensi alla necessaria — e più che mai ora — solidarietà degli Stati europei per il dominio civile nel mondo; così dopo la guerra, e ciò apparirà più chiaro e più attraente a chi ci avrà partecipato; assai meno utupistico e forse più degno d’essere perseguito con tenacia, apparirà l’ideale della riunione delle chiese cristiane. Per aspera ad astra.
Certo è che nelle ore sacre e terribili, durante le quali solo la morte pare imminente, quando più stretti intorno al cuore paiono gli affetti, e le azioni divengono più generose, e il sacrificarsi è il più bel dovere, e di morire non cale per la casa e la patria, che sole determinano i sentimenti, i pensieri e le opere nostre, pare supremamente stupendo e caro e confortevole il sentirci uniti da una fede comune e da un amore comune.
Certo è che dopo la lotta furibonda e strenua, se pur lunga e paziente, durante la quale l’istinto solo suggerì l’offesa e la difesa, e si studiò il modo per uccidere il nemico e più e meglio per salvar noi e Chi è con noi e dietro di noi, dopo tutto ciò, quanto torneranno graditi i doni spirituali della religione cristiana e come si vorrà renderne partecipi altrui ! La guerra sarà una Pentecoste di sangue: ne usciremo lordi di sangue e di fango, ma tanto più puri di cuore e di anima; sgrossati e percossi, ma riposati di mente, e più parati ad accogliere la verità e a diffonderla, da buoni e veraci discepoli.
Non è così amico mio, non è così caro prof. Paschetto? Non sarebbe in questo caso la guerra un fattore religioso? Io credo fermamente che sì; poiché questa non è l’apologià della guerra astratta dei pacifisti, sibbene l’espressione della necessità della guerra nostra nazionale.
II. La guerra d’Italia è per la civiltà, non è perciò contro il Cristianesimo.
Non basta aver prospettata la guerra da un punto di vista, da cui pochi osano di riguardarla; vediamola un poco più davvicino, un poco più da Italiani, anzi da Italiani pur essendo uomini di fede cristiana.
Io non ho il dubbio di Paschetto: non vedo la inconciliabilità sua, e penso di ac-
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contentarmi della spiegazione data a me stesso, come che al pari di Tolstoi, di molti cristiani eroici, penso alla provvidenzialità delle guerre. Niuna guerra è fine a se medesima, che sarebbe un assurdo; ma ognuna delle guerre ha in sè dell'universale — motivo di civiltà —, e del contingente: e l’universale sempre trascende il contingente.
La guerra alla Russia di Napoleone I fu un errore; ma l’errore di un genio, e aveva in sè un che di bene e di vero: la liberazione della Polonia. Non è riuscita; fallì, ma l’idea polacca non tramontò con essa e rigermogliò più possente nel genio poetico di Adamo Michkievitz e nel genio religioso di Andrea Tovianski. Dunque? La guerra va considerata sotto tutti gli aspetti della attività umana; ora ragioni politiche, intellettuali—cultura—, morali —disciplina, unità nazionale—impongono la necessità della guerra all’Italia. E si badi bene, io dico una guerra purchessia, anche una guerra alla Francia. Se non che la guerra alla Francia non è voluta dal popolo italiano. Non tanto per le simpatie politiche degli estremi e per quelle intellettuali degli intellettuali (contingenze che potranno essere superate, e dovranno); quanto per una ragione tutta nostra intima, profonda e preclara. Ragioni di sentimento; proprio. E il sentimento, si badi, è movimento iniziale, torbido; vulcanico, provvisorio. Il sentimento della propria rinascenza, del risorgimento. L’Italia non è risorta.
Riprendo a scrivere ora, dopo che i miei di casa sono andati a dormire: stanco e contento di tutto un giorno di lavori rudi ed agresti all’aperto. E tutto il giorno mi si ripeteva nella mente questa degnità vichiana letta stamane prima d’uscire: « gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura ». Quivi il processo della riflessione è tutto concluso nei suoi termini esatti; è tutto qui: e non solo dalle sentenze poetiche alle sentenze filosofiche (mente pura), sì bene anche delle sentenze politiche io dico — sentenze ed azioni o tutte è due insieme, io dico — che, come le poetiche, tanto «sono più certe quanto più s’appropriano a’ particolari». Nella repubblica di Platone — posta come perfezione raggiunta dell’umanità — come non ci sarebbero più sentenze poetiche, non più arte, poiché tutto si sarebbe fatto pensiero, mente pura poiché si sarebbe innalzato ogni particolare all’universale, così non ci sarebbe più politica, poiché il pensiero puro, o la mente pura, solo contemplerebbe sè perfettamente in sè coerente.
Ma la repubblica di Platone non esiste se non come mito; è remotissima e niuno sa quanti gradini di sistemi filosofici occorrano ancora per toccarne i confini e quanto sviluppo di umanità. Perciò ci è ancora l’attività estetica — espressione del particolare, liricità crociana — e l’attività politica. E politica vuol dire tante cose: arte di governo, vuol dire legislazione, vuol dire ordinamenti economici, e contrasti di Stati, di popoli, di nazioni. Contrasti: soprattutto, e perciò, orgoglio nazionale, amor di patria, di libertà civile ed economica, di espansione, ch’è volontà potenziale o in atto di uniformare il mondo a’ propri fini nazionali cattolicizzati. E la « riflessione pura » vichiana intorno alla politica, non può possederla se non lo storico che sia filosofo, ossia vero storico e non un Ferrerò Guglielmo. Chi può oggi riflettere puramente alla guerra europea? Quale italiano può riflettere puramente intorno alla politica della sua patria?
E pure ci deve essere un grado di riflessione politica, atta in un paese democra-
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tico come l’Italia (nel buon senso) a determinare presso i due elementi che lo compongono (il popolo e chi lo dirige), la migliore decisione — azione per la migliore politica. Ed essa sarà tanto più perfetta quanto più universali saranno gli effetti dell’azione politica che avrà generato; Se non che è ben vero che « gli uomini — le nazioni politicamente — prima (e poi, chè ciò succede anche alla decadenza) sentono senz’avvertire ». Ma « dappoi sentono con animo perturbato e commosso »; ossia prima la necessità del risorgimento, e poi quella più vasta di compierlo per dedicarsi con animo sgombro e più maturo a cómpiti pili vasti e complessi: che per l’Italia sono quelli mediterranei. Prima adunque il risorgimento per l’unità etnica, per acquistare — ed è ciò che importa di più — la coscienza di nazione, veramente di grande nazione, che abbia qualcosa da fare nel vasto mondo di più che non sia la propria conservazione e l’appagamento degli agi più grossi del popolo, che voglia essere invece centro di civiltà da diffondere, di ideali da universaleggiare: essere insomma principio necessario di una civiltà superiore a tutte le altre. Ora la religione è anche espressione dell’infinito; e questo ha comune con la filosofia: ma se non a tutti è dato di pensare filosoficamente, a tutti è dato per mezzo della religione di avere un concetto dell’infinito, in che è ogni ragione di vita ideale. Dunque il concetto religioso dell’universalità (sentimento) unito a quello di una politica universale, dirò meglio in questo appaiamento dei due concetti (che il filosofo dirà uno solo) sta proprio quella leva che dovrà trasformare la vita italiana e volgerla a più grandi fini. Per questo ci vuole il sacrificio e l'immolazione: la guerra. I popoli che non si prefiggono, non si arrogano direi meglio, una missione superiore alla propria integrità ed universale, trascendente cioè gli angusti confini materiali, decadono, muoiono, e tanto meno rinascono. Prima essere come nazione, poi vivere come nazione. E nazione è qualcosa di più che non ciò che esiste di materiale per entro i materiali confini della natura e della geografia.
Comunque voglia essere la guerra che ci attende, essa ci completerà come nazione, premessa necessaria a più grandi fini; sia adunque benedetta, per il sacrificio e per l’immolazione, se ci darà il modo di conseguire ragioni più vaste di vita; ragioni che, provvidenzialmente e per fortuna nostra, cominciano a formarsi in noi prima ancora del Risorgimento compiuto.
Per volontà di popolo sarà guerra all’Austria. Avrei preferito, se altra si fosse la maturità nostrana, e non è qui il luogo per dimostrarne i perchè, la guerra alla Francia. Altrove mostrerò come anche questa guerra sia necessaria all’Italia; e come mi spiego ch’essa non sia ora possibile per questa semplice verità, sentita non pensata dal popolo: prima essere come nazione, poi vivere come tale, prima risorgere poi operare. La guerra all’Austria terminerà il Risorgimento, la guerra alla Francia inizierà la missione mediterraneo-universale dell’Italia. Ma Jper tutto ciò, per sostenere e nutrire questa volontà di popolo, per purificare queste riflessioni nella mente’dei dirigenti, non basta la politica. La riflessione matura, pura, vichiana, non è per intanto del popolo, è dei pochi: ma è necessario che riflessione e ciò che è del popolo siano pari e collimanti nell’ora dell’azione; E del popolo è il sentimento: la religione: or dunque, ci è ancora una cosa oltre la politica, più universale della poli tica, è il sentimento-religione.
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REV. JOHN CAMPBELL
Pastore di ■ City Temple " in Londra
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E il popolo italiano che già possiede turbolenta, incomposta, turbinosa la bramosia profonda e non avvertita dai più, di una fede, uscirà dalla tremenda prova, ch'è una tremenda guerra, con la persuasione che una fede religiosa è pur necessaria. La guerra all’Austria, la nostra guerra all’Austria contribuirà ad abbattere il principale puntellò politico della Curia Romana; ossia ciò che di frustraneo e di contingente s’era superposto alla missione spirituale del Cattolicismo. Ma pure il Cattoli-cismo è la più diffusa religione degli Italiani. Dopo la guerra, il popolo italiano desideroso, famelico di fede, aderirà a quella elaborata dal Cattolicismo, o ad un’altra ch’esso si creerà? Quanti problemi contenuti in questa domanda a cui solo darà soluzione il periglioso avvenire. Ma intanto, sia che il popolo aderisca più diffusamente e più intimamente al Cattolicismo, sia che elabori per proprio conto una fede nuova, il trionfatore sarà il Cristianesimo, perchè anche la nuova fede dovrà ineluttabilmente essere cristiana. Io propendo per la prima ipotesi: ed anche essa è ricca di promesse consolatrici: poiché il Cattolicismo cui mancherà maggiormente il fine politico e terreno, sarà diventato, o ridiventato una religione spirituale sgombra di politica, ed evangelica densa di universalità: ossia sarà quella — o almeno vicina assai più a quella — della Pentecoste manzoniana, veramente divina.
L’Italia è il centro di una grande, di questa grande religione cristiana: e se la guerra riescirà a purificarla, a intensificarla, a estenderla, benedetta la guerra: la scuola di tutti i dolori, di tutti i sacrifizi, degli eroismi più fieri, avrà donato al popolo ima madre di consolazione, una fonte perenne di vita più bella e più intima. Poiché è inutile, amici, il negare questa verità: il cristianesimo vero non comincia col pacifismo, e la storia del cristianesimo è storia di guerre e di conquiste, per la civiltà e per le libertà: e l’umanità cristiana, pena la sconfitta, non può sottrarsi al suo dovére di lottare e di soffrire.
Ma non è tutto: chi può misurare le conseguenze dell’avvento di un cattolicismo purificato ed accresciuto, che guardi con amore l’umanità, e creda alla fratellanza delle altre Chiese cristiane? Certo innalzerà il genio italiano a vertici non conosciuti: i fini nazionali appariranno visti con fede e con ardore, diversi e più intensi. È l’ora questa non delle profezie, ma della grande aspettazione. Prevedere pajtitamente non ci è dato; ci è doveroso attendere e volere qualcosa di grande, che vinca le nostre stesse consuetudini mentali, le nostre preferenze, le stesse nostre antipatie: bisogna all'ora del sacrificio guardar più lontano, estendere l’orizzonte: tanto indietro non si torna, nè si può tornare.
Paura della guerra — dico paura astratta, non personale — di questa guerra, no: essa non è contro il cristianesimo, è una prova suscitatrice di esso. Il cristianesimo è proprio la Fenice e di essa bisogna oggi ripetere ciò che scrisse Carlyle.
Tituba oggi il cattolico per tema deH’anticlericalismo francese; ma si batterà bene.
Tituba il socialista; ma si batterà bene.
Tituba il cristiano pacifista; ma si batterà bene.
Perchè? Si batteranno bene alla chiamata della patria, perchè in essi è il sentimento di un dovere da compiere superiore a’ fini personali di ciascuno, perchè questo sentimento è religione manifesta ed oscura* che chiama e in ciascuno vive ed opera quando è necessario. E questo sentimento multiforme ed unico, chi sa non
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sia quello che unificherà più che non sia il popolo italiano, e gli dia il senso dell’universale più che oggi non abbia? Per questo io bramo ardentemente la guerra. È l'ora in cui ogni altra cura deve cedere a questa, e tutte le attività debbono concentrarsi nella volontà di vincere. Vincere per vivere come nazione che abbia fini universali e non dico solo politici. Questo io credo necessario: e ritengo essere questo sentimento e questa riflessione, se intensissimamente sentito e pensata lucidissimamente, le leve necessarie all’avvenire politico e religioso dell’Italia più alto e più vasto. Per questo la mia coscienza non è turbata dal dubbio atroce degli amici G. B. e Paschetto; e questo scrissi a loro conforto. Se non verrà meno in loro l’affetto che nutrono per me, mi saranno grati almeno della buona intenzione. Ma di questo potranno essere sicuri che non sarà l’ultima guerra che l’Italia dovrà sostenere la prossima, per la sua grandezza: e forse anche per la sua fede. Spero, siamo tanti a sperare, che sieno finiti i giorni dell'oscurità.
Mario Rosazza.
Nota. Correggendo le bozze debbo ricordarmi di una attuale polemica fra Stampa e Corriere della Sera. Secondo me il giornale torinese ha ragione: se le trattative diplomatiche ci daranno Trento e Trieste: bene. Con ciò l’Italia potrà fare la sua guerra nazionale senza la prefazione dell’irredentismo che per troppi è tutto il libro. Se non varranno a nulla quelle trattative sarà lo stesso; ma la guerra deve essere voluta per fini più vasti: la guerra europea non è per il principio di nazionalità, ma per la civiltà europea nel mondo; e l’Italia deve guardare al mondo per la sua fede e la sua civiltà. M. R.
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PROPOSTA DI CONVOCAZIONE
D’UN CONCILIO GENERALE DEL CRISTIANESIMO
A figura di J. Campbell, quale oratore sacro e quale tipo rappresentativo del Modernismo religioso, nel seno delle Chiese Nonconformiste Inglesi, è nota anche in Italia, ove giunse l’eco del suo movimento della «New Theology ».In Londra poi, ove la voce altamente spirituale e praticamente mistica di lui risuona tre volte la settimana sul pulpito di « City Tempie », raccolta da una folla complessa che gremisce il vasto tempio, la personalità del Campbell spicca come un fenomeno a sé, irri
ducibile a categorie speciali religiose e politiche.
Benché la sua « congregazione » ordinaria appartenga alla federazione dei « Con gregazionalisti », il suo uditorio è il più promiscuo, ed in gran parte, il più instabile che si possa immaginare. Non v’è visitatore di Londra che voglia formarsi un’idea dello spirito del cristianesimo liberale inglese, e di ciò che di meglio esso ha da dire intorno a tutte le questioni moderne, e agli eventi contemporanei non della nazione soltanto, ma dell’umanità intiera, che non senta il bisogno di sedersi almeno per una ora ai piedi della figura diafana e ispirata, sulla cui fronte risplende il genio e l’eloquenza, e dai cui occhi partono sguardi che continuamente ripetono il « Misereor super turbam », per quanto, non agevol cosa sia conquistarsi il diritto ad un posto in « City Tempie », quando la calca, già un’ora prima che il servizio religioso incominci, si assiepa agli ingressi del Tempio. Del resto, non è solo nella sua « Cappella » che il Campbell viene a contatto con lo spirito pubblico nazionale e internazionale, e pronunzia la sua parola cristiana e moderna. Oltre la « literary society » da lui fondata, la « debating society », ed altre associazioni e istituzioni connesse con la sua « Congregazione », tutte le più importanti manifestazioni sociali e religiose sollecitano la sua presenza, la sua cooperazione, e spesso la sua presidenza, ed egli si fa tutto a tutti, per guadagnare tutto e tutti a sensi di raffinata spiritualità, di esaltazione mistica, di una bontà feconda e operativa. Chi Io ha veduto sulla stessa piattaforma con Bernard Shaw — la « bète noire » delle Chiese Cristiani Inglesi, — con Monsignor Hugh Benson, il rigido, benché colto prelato cattolico (testé defunto), e con il Vescovo Anglicano di Londra, e a tutti volgere pubblicamente le sue critiche e indirizzare le sue lodi — accolte le une e le altre con deferente rispetto e cordiale simpatia — si è reso conto della posizione unica di quest'uomo, ascoltato con eguale rispetto' da socialisti e da conservatori, da modernisti e da ortodossi, da giovani e da adulti, e che riesce ad avvicinare i contrari e riunirli nelle più svariate forme di attività morale e sociale.
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Dallo scoppio della presente guerra, la sua voce non ha mancato di pronunziare la parola della moderazione, del coraggio, del conforto, della speranza, e di promuovere iniziative benefiche per soccorrere le vittime innocenti, che espiano nella miseria più cruda, colpe e delitti altrui. Ogni sua predica ha recato un raggio di luce, un balsamo a ferite sanguinanti, un messaggio di speranza, una visione più luminosa di un mondo più sano e più bello, che sopravvive a quello che sta consumandosi nella propria fiamma purificatrice. «City Tempie» è stato uno di quei fari luminosi che hanno costantemente indicato alla nazione la sua vocazione, han tenuto desta la sua coscienza, le hanno additato la via da seguire. Il Campbell è stato col Clifford, coi « Friends » e con altri, il profeta della suprema crisi nazionale. Sia che egli abbia cercato di scandagliare « Le profondità sconfinate » donde sorgono le forze della vita e della morte, o di condurre gli spiriti « Attraverso l’acqua e il fuoco » là sulle cime ove « Dio è nel suo Cielo, e tutto va bene sulla terra »; o che abbia richiesto alla « Conoscenza più alta » di rilevare 1’« Unità immortale degli Spiriti » che resta, nel macello dei poveri corpi dilacerati, o che abbia pronunziato 1’« Alba del Signore » e 1’« Invasione del Cielo», egli è stato l’angelo consolatore nell’ora tragica della tribolazione e delle tenebre orrende, per più migliaia di persone, a cui nel giorno della calma e della prosperità aveva additato il Calvario volontario quale vetta suprema. Per comprendere la potenza del suo Vangelo di fede e di speranza in questo frangente, bisognerebbe non solo dare una scorsa ai suoi discorsi ispirati e alle preghiere pubbliche in cui ha riassunto ed esalato i suoi sentimenti, ma leggere ancora alcuna delle tante lettere a lui spedite dalle trincee, e anche più ascoltare la lunga litania di voci, di pianti, di scongiuri, di ringraziamenti, di preghiere, in cui madri, figlioli, vedove, derelitti, vittime sacre delle più terribili tragedie, chiedono a lui di restituir loro, nella comunione più intima con la sua congregazione e con tutte le anime più affinate e pili drammatiche, il senso smarrito del valore della vita e della vita dei valori eterni. Quest’ultimo spettacolo commovente ha trasformato il «servizio religioso» del giovedì, da rassegna pietosa e dolorosa delle tragedie della vita, in una « stanza di compensazione» ove i valori più svalutati nella borsa della vita ricevono una preziosità nuova, dalla simpatia, dalla devozione, dall'amore: lì s’intende il « Beati qui lugent » e il « Life's worth in fellowship is known ».
Ed ora, dallo stesso pulpito di « City Tempie », la stessa voce si è levata, audace nella sua semplicità evangelica, a lanciare la proposta della convocazione di un Concilio generale delle Chiese Cristiane.
Dopo avere insistito sulla proposta di una lega per la pace fra tutte le nazioni, a base di governo democratico e di un tribunale internazionale; dopo avere eloquentemente stimmatizzato la follia di credere che sia possibile assicurare una pace definitiva senza sopprimere l’industria degli armamenti che fatalmente genera lo stato d'animo guerresco e poi la guerra, il Campbell ha proposto una federazione combinata di tutte le forze Cristiane di tutto il mondo « unite almeno in questo scopo, se non riescono a unirsi in tutto il resto».
« Spesso — egli disse — ci viene lanciato il rimprovero sarcastico, o almeno ci è mossa tristamente l'osservazione, che le chiese cristiane hanno pietosamente fallito, quando han mostrato la loro incapacità a prevenire la presente guerra. Questa
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critica non è del tutto giusta. Se il senso morale della cristianità, si sente offeso dal presente orribile spettacolo; se il popolo, in generale, è pervenuto al punto di sentire che la guerra si è resa sempre più intollerabile; se il desiderio di prestare ai feriti tutti i soccórsi e di diminuire al possibile le conseguenze atroci della guerra è evidentemente in aumento, la maggior parte di questo progresso morale compiuto devesi ascrivere all'influenza benefica del Cristianesimo. La sola, unica forza che si mostri ancora capace di soggiogare gli spiriti bellicosi è quella che deriva direttamente dalla fede in Cristo e nel suo Vangelo. Le divisioni della Cristianità sono deplorevoli, invero, ma per fermo, noi potremmo ben accordarci di porre a tacere le differenze dottrinali, quando si tratta di considerare quest’unico e grandioso scopo di porre un fine alla guerra. Come potrà questo attuarsi? Io esito quasi a proporlo; io povera voce che grido nel deserto. Ma la mia idea non è altra da quella, che occorrerebbe convocare un Concilio generale di tutte le Chiese Cristiane, per discutere e determinare questa grave questione della Pace».
« Dal giórno in cui la Chiesa d’Oriente si divise da quella d’Occidente, non vi è stato più un Concilio generale della cristianità: tutti i Concili posteriori non hanno rappresentato che una frazione di essa. Perchè non tentare con tutte le forze di adunarne ora uno in cui ogni chiesa cristiana sia rappresentata? Chi potrebbe convocare un tale concilio? Una sola persona lo potrebbe con qualche probabilità di successo, benché forse non vi pensi neppure per sogno: e questa sarebbe il Pontefice di Roma, purché egli lo volesse. L'Arcivescovo di Canterbury non lo potrebbe, perchè Roma non gli darebbe ascolto: e neppure il Metropolitano di una grande parte del Cristianesimo orientale lo potrebbe. Roma ha la chiave della situazione. Che essa lo tenti, ed il Protestantesimo si formerà di essa un’opinione migliore di quella che abbia per lei nutrito da 400 anni in qua. Vi sarebbe un precedente: quello, che il Concilio di Trento invitò i Protestanti ad intervenire, benché questi si rifiutassero. Se fossero intervenuti, chi sa che lo scandalo di una scissione della Cristianità non avrebbe potuto evitarsi? Il mio punto di vista è, che quello che è stato fatto una volta, si potrebbe fare di nuovo: e certo, nulla potrebbe armonizzare meglio con lo spirito del grande capo della Chiesa, del nostro Maestro e Signore, che questa unione del Cielo e della terra nel testimoniare che il desiderio di tutte le nazioni è per realizzarsi, e nell’intonare il « Gloria a Dio nelle altezze supreme: pace alla terra : buona volontà fra gli uomini ». Che Dio affretti, nella sua misericordia, quel giorno! Amen ».
* « •
L’audace proposta del Campbell non poteva a meno di scuotere le fibre più sensibili del cuore dei cristiani inglesi, pei quali l’ideale degli ideali è sempre la riunione e la cooperazione di tutte le chiese cristiane, — pur conservando inalterate le peculiarità caratteristiche di ognuna — nell’opera di costruzione del « Regno di Dio ». E si può osservare, che qualunque possa essere il risultato pratico dell’ appello del Campbell, il risultato già ottenuto nel suscitare tante voci che implorano una unione fra Chiese, quale preludio e inizio della unione fra le nazioni, è un successo magnifico in se stesso. In un momento in cui tante personalità nobili e sincere esprimono la loro convinzione che il presente sfacelo della civiltà europea sia dovuto al fatto che il Cristia-
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nesimo stesso non ha ancora ricostruito il suo edificio nell’umanità, ed è travagliato esso stesso da guerre intestine, il risveglio del movimento di unione delle Chiese ci fa domandare se il sangue che scorre a fiumi nell'est e nell’ovest dell’Europa, divenuta testimone del più grande macello umano, non sia il prezzo di riscatto dell’unità religiosa e Sociale. Tante e sì potenti sono le forze scatenate dagli abissi del bene e del male, che una nuova «parousia» potrebbe ben essere imminente, all’invito dello « spirito e della sposa » che dicono « vieni! ».
Ecco un saggio di alcune delle voci che hanno fatto eco all’appello del Campbell.
Il vescovo di Birmingham, aderendo pienamente alla proposta di una « Lega per la Pace », esprime la sua opinione, che al termine della guerra vi sarà un insurrezione spirituale nelle nazioni cristiane, per chiedere che le diverse Chiese cooperino nel rendere praticamente impossibile, che uomini sforniti di qualunque motivo di ostilità reciproca debbano esser posti nella necessità di scannarsi a vicenda. Égli conviene anche col Campbell, che se i maestri e le guide religiose fossero state veramente il « lievito » della società, probabilmente la guerra non avrebbe avuto luogo. Ma quanto all'attuazione della proposta, per quel che riguarda l’appello, da essere rivolto dal Papa a tutte le Chiese cristiane, egli scorge le due grandi difficoltà, del primato di autorità a cui il Vescovo di Roma non vorrebbe rinunciare nel Concilio Ecumenico delle Chiese, e della riluttanza che molte sezioni del Cristianesimo proverebbero nel-l’intervenire ad un Concilio presieduto da colui che esse ritengono rappresentare il principio della disunione e l’ostacolo alla cooperazione. Ma egli soggiunge: «Se il Campbell riuscirà con la sua influenza a riconciliare queste posizioni ostili, egli renderà un gran servizio non solo alla causa della pace, ma anche a quella pili generale dell’influenza del Cristianesimo nella vita delle nazioni ».
Il Clifford, il noto « leader » Battista, considera la proposta dal punto di vista dell’influenza che un Concilio Ecumenico cristiano potrebbe esercitare, se convocato sollecitamente, sulla conclusione della pace: e scrive: « Ma certo, l’unica cosa da fare è di ottenere che tutte le forze buone siano volte ad influire sulla cessazione dell'orribile e odiata lotta: e che queste forze raggiungano coloro appunto che vollero la guerra, vi si prepararono, e contemplarono il caso di una lunga durata di essa su larga scala. Sono essi che hanno in mano la decisione della pace o della guerra ad oltranza: ed il compito di tutti gli uomini di buona volontà deve essere di trovare il modo pratico di giungere fino ad essi... ».
Il Meyer, segretario della federazione nazionale delle Chiese libere Evangeliche, scrive, alla sua volta: « Se la Chiesa dì Cristo in Europa e nel Mondo, fosse unita, essa potrebbe por termine alla presente guerra in una settimana. Se la Chiesa Greco-Russa, la Cattolica-Romana, la Luterana, l’Anglicana, e le Chiese Libere, agissero di conserva, la loro azione sarebbe irresistibile. A me non importa chi sia a fare l'appello per questa unità, fino a che l’autorità che lo muove agisca per motivi nobili e sinceri. Io sarei orgoglioso di ritrovarmi al lato di un Cardinal Mercier in tale tentativo. Se il giorno di Natale ci mostrò come i ricordi di famiglia e l’amore umano siano forti abbastanza per imporre una tregua di 24 ore, non potrà l'amore di Dio imporre una pace duratura? Ma la Chiesa dovrebbe chiedere una riconciliazione sulla base dèlia
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giustizia: cioè chiedere che riparazione fosse fatta al Belgio e alle Fiandre. Ha essa una tal forza? L'avrebbe se sapesse fare uso dello Spirito di Dio. Ma qui è il punto cruciale... ».
Il Rev. Lloyd Thomas diede la sua adesione solennemente prendendo la proposta del Campbell a soggetto della sua predica nella domenica seguente in una principale Chiesa di Birmingham. Egli si rallegrò che i « leaders » delle Chiese Cristiane mostrassero di possedere sì chiara la visione e sì vivo il senso della Cattolicità del Cristianesimo. Quanto al suggerimento del Campiteli, per quanto a molti possa sembrare troppo utopistico per esser preso sul serio, egli non vi scorgeva nessuna difficoltà insormontabile, considerato che i Cattolici, gli Anglani, i Dissenzienti e i Liberi Cristiani in Inghilterra cooperano di già in materia di Studi e di attività sociali; e che un Concilio adunato per effettuare la pace sarebbe un terreno neutro. « Però, prima che l'idea del Campbell sia matura è forse necessario un risveglio di cattolicismo religioso in tutte le Chiese: dell’oriente e dell’Occidente, Romana e Protestante. I predicatori debbono proclamare il Vangelo di Cristo senza limitazione di nazionalità: non una Chiesa di Roma ed una d’Inghilterra, ma una sola Chiesa Cattolica di Cristo. Essi debbono proclamare un Cristianesimo capace di ispirare una vita internazionale nel cuore di ogni nazione, una vita che sollevi e spiritualizzi il patriottismo, e gli conferisca una visione ultra nazionale... ».
Naturalmente, non sono mancate le critiche aperte alla proposta del Campbell: esempio sia la lettera del Rev. James Foster: « ... Io credo che il Campbell ha commesso un grave errore nel suggerire l'appello del Papa di Roma. Egli non è il capo della Chiesa...: meglio che nessun capo di Chiese si assuma l’ufficio di convocare la Chiesa a concilio. I membri del tribunale dell’Ajà non sono forse membri di Chiese Cristiane? Che sorgano essi a volgere l’appello a tutti noi, e credo che la risposta sarà favorevole. D’altra parte si può tenere per certo, che nè il clero delle libere Chiese Cristiane, nè quello Evangelico, nè quello delle Chiese di Stato vorrebbe prendere parte ad un Concilio presieduto dal Papa ».
In curioso contrasto con queste parole, sta invece la risposta del Rev. Thomson, collega del precedente nel pastorato. « Se il Papa riesce a fare quello che gli vien suggerito, ma che faccia pure! E che Dio lo benedica! ».
Come si vede, anche solo da queste poche risposte, l’appello del Campbell ha suscitato una larga eco nel clero inglese di tutte le Chiese. Resta a vedere se una simile accoglienza gli verrà fatta dalle Chiese Evangeliche, dalle Chiese Orientali, e sopratutto dalla Chiesa di Roma. « La chiave della situazione è a Roma » ha detto il Campbell. È vero: ma forse, l’illustre oratore e il fervente idealista, egli stesso non si rende abbastanza conto di quanto le « chiavi di Pietro » abbiano, nel lungo uso di « legare » perso l’abitudine di « sciogliere ».
Egli intanto, affidando il suo seme alla fecondazione della coscienza cristiana, si è recato a portare conforto ai combattenti sul suolo di Francia. A lui ben si addicono i versi del « Salmo della vita »:
Let us, then, be up and doing, With a heart for any fate;
Stili achieving, stili pursuing, Learn to labour and to watt.
Giovanni Pioli.
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vitalità e vita nel Gattolicismo.
voi.
LA RELIGIONE DELLA GUERRA: UNA MISSIONE DI BENEDETTO XV - NAZIONE E CHIESA -LE PREGHIERE DEI VESCOVI DI FRANCIA E DI GERMANIA - I « DEI LARI » - ERMENEUTICA VANA - IL « RENOUVEAU CATHOLIQUE » IN FRANCIA IL CLERICALISMO ITALIANO DI FRONTE ALLA GUERRA*. SOTTINTESI, RISERVE, PAURE - NAZIONALISTI CONTRO CLERICALI IL TERREMOTO INTELLETTUALE: CRISTO O MOLOCH?
Benedetto XV, lo abbiamo detto più volte, è un uomo abbastanza avveduto e che, pertanto, non giudica le cose troppo semplicisticamente e non confida troppo ciecamente nello spirito religioso. Egli, malgrado i panegiristi e gli apologeti da strapazzo, comprese che sarebbe stato facile che lo spirito nazionalistico della patria avesse preso in molti casi il sopravvento sullo spirito universalistico della religione, anche in chi avrebbe dovuto essere maestro e guida agli altri. E volle, per quanto gli era possibile, provvedere in tempo, mettendo sull’avviso gli interessati. Non si poteva, d’altronde, conclamare tale diffidenza pontificia, con atti pubblici: ciò è evidente. Per questo. Benedetto XV ha voluto servirsi del mezzo di una missione particolare presso i vescovi di Francia e d’Inghilterra, affidandola ad un prelato francese, monsignore de Vanneufville, corrispondente romano della Croix. Questi aveva l'incarico di comunicare confidenzialmente ai vescovi delle due nazioni sunnominate (i) che era desiderio del papa che nei loro pubblici dei vescovi e del clero e in tutte l’esplica-zioni del loro ufficio, non dovessero lasciarsi trasportare dalla infatuazione patriottica e venir meno alla carità anche verso i nemici.
L’effetto non corrispose all'aspettativa del papa. Come abbiamo accennato altra volta, i vescovi, particolarmente i francesi, furono i primi a sofisticare intorno alla
(r) Qualche cosa di simile deve essere stato praticato anche verso i vescovi della Germania c dell’Austria pel tramite delle nunziature apostoliche di Monaco di Baviera c di Vienna.
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preghiera Che lo stesso Benedetto XV aveva composto per implorare da Dio la pace ed a darle senso nazionalistico, come vi furono di quelli con lo stesso intento si provarono a far dell'ermeneutica sulle parole e sugli atti affermanti la neutralità pontificia. Questo loro spirito era. del resto, diffusissimo e notorio.
Il New York Herald giungeva a chiedersi — dopo posto a raffronto lo spirito che anima il clero francese e quello che consiglia la neutralità assoluta del Vaticano —: « C'è forse pericolo che il contegno del Vaticano abbia a risuscitare in Francia il gallicanesimo? ».
Certo, gli atti dei vescovi francesi stavano a mostrare che essi anteponevano la nazione alla chiesa. I commenti da essi fatti alla preghiera di Benedetto XV, in pubblici discorsi o in documenti scritti lo provano a sovrabbondanza. La preghiera per la pace, diveniva, pej essi la preghiera della vittoria. Così il cardinale Amette, prima di leggere la preghiera pontificia, parlando ai cattolici di Parigi nella chiesa di Notre-Daine, diceva:
« Miei carissimi fratelli, è co» viva e profonda commozione che contemplo stasera questa immensa basilica piena di una folla convenuta per rispondere all’invito del sovrano pontefice e per pregare con lui e come lui.
« Il papa ci invita a supplicare l’Ente supremo di darci la pace, ponendo fine ad una guerra che la Francia non ha voluto, che le è stata imposta e che da 44 anni essa ha fatto tutto per evitare ». Il cardinale arcivescovo si è scagliato quindi contro le atrocità delle truppe nemiche e ha proseguito:
« Il papa, dicendo che nessun individuo, nessun popolo, nessun imperatore ore può violare la giustizia e il diritto, non fa che conformarsi alla giustizia di Dio. Il sovrano pontefice riprova così la ingiustizia, la violazione di tutti i diritti; e la riparazione completa di questi diritti sarà la condizione essenziale della pace. E chi dunque ha violato tutti i diritti? Chi dunque ha invaso l’innocente e pacifico Belgio? Chi dunque si è gettato sulla nostra bella Francia, che non voleva la guerra? Chi dunque ha moltiplicato più di quanto era necessario le depredazioni delle regioni invase? Chi dunque ha martirizzato le donne e i fanciulli e i preti? Chi dunque ha distrutto le cattedrali? Tutte queste cose il papa le sa e anche Dio le sa. La pace che il papa desidera non sarà firmata che quando tutte queste ingiustizie saranno state riparate. E ciò non può essere che con la vittoria delle nostre armi e di quelle dei nostri valorosi alleati. Miei fratelli, ecco perchè noi siamo venuti a pregare oggi ».
L’arcivescovo di Rennes, mons. Dubourg, nella Semaine Religieuse della sua diocesi, scriveva:
Il papa, commosso dai mali della guerra, chiede a Dio che cessi questo flagello e, padre della grande famiglia di cui tutti i membri sono suoi figli, il suo voto — quali possano essere le sue simpatie particolari — deve limitarsi, nell’esercizio del suo supremo magistero, all’espressione di questo augurio: restituzione e raffermamento della pace, basata, nel suo pensiero, sulla verità e la giustizia.
Ma, come vescovo francese, amante appassionatamente del nostro paese, io posso e debbo completare in proposito, per sentimento patriottico, il pensiero del Santo Padre, e per ciò che mi spetta, dichiaro altamente che noi pure chiediamo dal canto nostro questa pace così desiderabile, ma soltanto quando avremo ottenuta la vittoria, quando col trionfo della, nostra causa avremo fatto trionfare la causa del diritto, e quando avremo cosi assicurato definitivamente la salvezza della Francia.
Il vescovo di Versailles, mons. Gibier, ricordava nel foglio ufficiale della sua diocesi che pubblicando il decreto di Benedetto XV lo faceva seguire da queste linee, che — così egli si esprime — « ci sembrano esprimere chiaramente il pensiero di tutti »:
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La Chiesa è la custode della morale cristiana. Che cosa essa pensa delle atrocità commesse dalla Germania nella Francia e nel Belgio?
Pensa che il militarismo prussiano è un disordine che deve sparire dal mondo.
Pensa che la violazione della neutralità belga è un delitto che nulla può giustificare.
Pensa che le atrocità tedesche in Belgio ed in Francia costituiscono tale un cumulo di disordini e di delitti che meritano la vendetta di Dio e gli anatemi di tutti i popoli civili.
L’imperatore Guglielmo II può pure appellarsi continuamente alla divinità. Questo impudente sfruttamento dell’idea religiosa non fa che aggravare la sua colpevolezza.
E, per citarne ancora uno — poiché le dichiarazioni di tulli i vescovi francesi si somigliano —, mons. Tissier, vescovo di Chalons indiceva una/o«rw& de prióre pour les enjanls, precisandone ai giovanetti suoi diocesani il significato, coi seguenti termini:
È perchè siate felici' più tardi, in una Francia tranquilla ed ingrandita, che si combattono oggi contro la superba Germania tutte queste grandiose battaglie, affinchè voi non abbiate ad essere, come lo siamo stati troppo a lungo noi, alla balia delle bravate tedesche, ma, divenuti più forti per quel che i vostri padri avranno fatto per voi, possiate compiere, senza guardar sempre con inquietudine alle frontiere, i lavori fecondi della pace.
Ma questa pace, bambini, non si deve concludere che con la totale vittoria del diritto e con la completa revanche delle ingiustizie accumulate. Questo è lo scopo delle nostre preghiere! Esse non chieggono al Cielo che lutto abbia a finir domani, ma che tutto sia domani vittoriosamente riparato e garantito.
I vescovi tedeschi, dal loro canto, davano anch’essi, sebbene meno rumorosamente che quelli di Francia, un significato nazionalistico alla preghiera per la pace. Così il cardinale Hartmann dichiarava in una sua allocuzione, cogliendo l’occasione dalla detta preghiera:
Abbiamo fiducia nella nostra giusta causa, nelle nostre valorose truppe e nel nostro nobile imperatore che riunisce tutte le virtù dei suoi antenati della famiglia di Hohenzol-lern, ma prima di tutto in Dio Signore delle nostre battaglie che preghiamo fedelmente e instancabilmente.
Di modo che tutti pregavano e pregano con fervore, non ripetendo la rassegnata parola di Gesù al Padre: « Sia fatta la tua volontà », nè dicendo a Dio, come nelle preghiere cristiane: «Fa ciò che ritieni opportuno e conveniente pel nostro bene»,' ma imponendogli senz’altro una linea di condotta nettamente segnata, all’infuori della quale Dio si renderebbe complice dell’ingiustizia e cooperatore all’iniquità. E siccome sono in parecchi a pregare, ad implorare, o, meglio a comandare a Dio, così per i vinti almeno, e anche per i vincitori se il trionfo non sarà completo, Dio ne porterà la colpa. Il patriottismo ha soffocato il senso universalistico religioso.
Il cardinale Amette — scriveva a ragione Rastignac nella Tribuna del 15 febbraio______
aveva pregato per la pace dopo la vittoria delle armi francesi, il cardinale Hartmann prega Èer la pace dopo la vittoria delle armi tedesche. Duemila anni sono così in un'ora, aboliti, senza accorgersi, noi ci troviamo oggi allo stesso punto in cui eravamo alla vigilia dei cristianesimo. Quale, la grande rivoluzione del cristianesimo nel mondo antico? La sostituzione del concetto religioso, e del relativo sentimento di pietà, al concetto patriottico, e al relativo sentimento eroico, e, come punto di concentrazione, la Chiesa invéce della città, e come segno di riconoscimento la fede invece della legge. Tulli fatti a sembianza d'un solo —figli tulli d’un solo riscatto: non più diversità di lingua, di aspirazioni, di confine: tutti in uno, ed uno in tutti.
E no» sia gente nè tribù che neghi
Lieta cantar con noi.
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Ma ecco il francese nega oggi di cantare col tedesco — come avrebbe negato un cittadino della città antica, contro un amico di un’estranea terra che avesse iddìi diversi o culti diversi dal suo. La città antica aveva i suoi iddìi particolari, i suoi iddìi privati: gli iddìi politici, che la difendevano da quelli avversari, e i cittadini potevano pure disprezzare o odiare Giove o Giunone, ma non potevano non adorare i loro iddii politici, dei quali portavano le imagini, in tempo di guerra, dalla casa al campo, dalla famiglia nell’esercito, qualche volta incatenate anche, perchè rimanessero più saldamente legate alle loro fortune. E ogni preghiera cominciava e finiva con l'invocazione al dio del focolare — come appunto oggi la preghiera del cardinale Amette in Francia, dal cardinale Hartmann in Germania, Cuna diretta al dio dei Franchi, l’altra al dio del Kaiser. La storia può apparire diversa nei secoli, ma l’uomo è sempre lo stesso — diceva Volfangó Goethe. E oggi, dopo duemila anni, da Roma a Parigi, da Atene a Berlino, dopo il lungo errare e il lungo fantasticare, non v’ha ancora per l’uomo che un luogo sacro: la casa, c la siepe che la circonda. E tutto il resto è filosofia!
La preghiera di pace, che Benedetto XV mandò in giro per il mondo, non è tornata, e non poteva tornare, oggi, come la colomba dell'arca, con un ramo di olivo: è tornata con una tromba di guerra nel becco. Tanto il cardinale Amette, che il cardinale Hartmann ripeterono quella preghiera, in mezzo ai loro fedeli, come i personaggi della tragedia di Eschilo e d’Euripide, le loro sfide: da nemico a nemico: nel nome non di un iddio comune, ma di iddii avversi. L’uno non teme il dio dell’altro; e l'altro è sicuro che il suo dio è più forte di quello nemico; e tutti e due non fanno voti che per la vittoria dei loro rispettivi paesi — che non si può ottenere che col mezzo delle armi La preghiera della pace diventa così la preghiera della guerra, della guerra a oltranza, fino alla distruzione dell’uno degli eserciti contendenti, per il raggiungimento degli ideali dell’uno degli eserciti, cioè dell’uno dei paesi in lotta. Fedele alla sua dottrina, il papa mandò la sua preghiera a tutti i fedeli, ch’egli considera sub specie aeternitatis, come fedeli della sua Chiesa, senza diversità di lingua e di legge, di confini; ma non senza accorgimento, dopo le discussioni che la preghiera ha suscitato in Francia, un giornale cattolico autorizzato metteva a quella preghiera la condizionale delle parole di Gesù nell’orto di Getsemani: Si possibile est. La pace — se possibile! Ciò che significa: la pace rimessa ancora una volta alla volontà — o non meglio alla forza? — degli uomini.
. .Quando la casa è minacciata, quando la siepe è mitragliata, non vi è tempo per adorare gli iddìi universali, gli iddìi che hanno in cura l'umanità, è appena il tempo di adorare gli iddii particolari, gli iddii gelosi che vivono del sangue della razza; gli iddii misteriosi delle origini, che il solo sguardo degli stranieri offende e corrompe.
Così gli Dei Lari risorgono dalle ceneri, non ancora fredde, del focolare domestico.
I vescovi, dunque, dei paesi belligeranti cercavano e cercano trarre Dìo ognuno dalla sua parte — dato che s’illudano ancora di credere in un Dio unico — e di trarvi anche la volontà di Benedetto XV. Se non fosse troppo spiegabile in molti il volere accordare ad ogni costo il loro patriottismo con la loro fede tradizionale, gli sforzi di ermeneutica che essi fanno per trovare nelle parole e negli atti del papa qualche cosa che suffraghi e conforti il loro nazionalismo sarebbero in verità ridicoli. Il vescovo di Nizza, mons. Chapon, ad esempio, in una intervista accordata ad un giornale della sua città, poteva in buona fede affermare che « coloro che fanno rimprovero a Benedétto XV di non avere abbastanza nettamente denunziato e condannato la barbarie tedesca, sono vittime di un doppio malinteso. Innanzi tutto essi si aspettano dal papa delle parole che, per ora almeno, egli non può dire; in secondo luogo, nelle parole che il papa ha pronunziato non veggono tutto ciò che vi si trova ». E il buon vescovo continuava interpretando a suo modo l'allocuzione di Benedetto XV nell’ultimo concistoro affermando che il papa aveva parlato male della Germania e chiarissimamente riprovata la condotta dei tedeschi. Evidentemente mons. Chapon e quanti altri si affannano come lui, hanno tempo da perdere dietro fantasmi vani. Uno sguardo solo ai
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giornali clericali italiani, anche quelli più vicini al Vaticano, ne farebbe passar loro la voglia. Sembra, del resto, che essi abbiano dimenticato affatto un articolo «ufficioso» de\ì'Osservatore Romano dell’8 ottobre 1914, articolo che qualche altro giornale cattolico si è fatto un dovere di riprodurre in questi ultimi giorni, sembrandogli «adatto nell’ora attuale del conflitto europeo, e di Jronle a certi jalti e mosse recenti » (Unità Cattolica del 25 marzo). Quell’articolo diceva:
Che se a tutti indistintamente i figli della chiesa si impone questo riguardoso contegno (di moderazione e rigorosa correttezza del linguaggio) anche in mezzo alle più fortunose vicende, é superfluo l'aggiungere come ciò si convenga in modo speciale a coloro che, avendo avuto la sorte di consacrare la loro vita al ministero sacerdotale, debbono sentire in modo più vivo, ed essere gli interpetri più fedeli e gli esecutori più efficaci dello spirito e della missione pacifica della Chiesa. Anche fra il fragore delle armi e fra gli orrori della guerra, essi non potranno mai perdere di vista le gravi responsabilità che pesano sopra di loro; non dimenticheranno mai che, al disopra delle aspirazioni anche legittime del sentimento patriottico, è da porsi costantemente ^interesse generale della Chiesa e dell’umanità, ricordando sempre di essere Ministri di Colui, che anche, in mezzo agli spasimi della sua acerba passione, non aveva parole di amarezza e di odio pei suoi carnefici, e moriva perdonando ai propri nemici.
E se questo debbono tener presente nella loro vita privata, non possono sopratutto obliarlo nell'esercizio del loro sacro ministero e in modo particolare in quell’altissima loro missione di parlare al popolo la parola divina, anteponendo anche al voto, per se stesso legittimo, della vittoria del proprio paese, quello tanto più umanitario e cristiano della pace universale e adoperando sempre anche verso gli stessi nemici, non parole di disprezzo e di odio, ma il linguaggio inspirato dalla carità.
I sacri recinti destinati al culto, le Chiese, non si dimentichi mai, sono asili di pace: sulle sacre soglie dei tempii debbono tacere le umane passioni, i rancori e gli odi; fra le sacre pareti della Casa del Signore anche i nemici trovarono sempre sicuro ricetto, asilo e protezione poiché altro linguaggio non deve risuonare in essa che non sia quello della pace, del perdono e dell’amore.
Prima di chiudere questo paragrafo è bene rilevare come anche i più fanatici tra i francesi che sognavano un «renouveau catholique», come diretta conseguenza della guerra, comincino a disilludersi ed a riconoscere che le apparenze, su cui avevano fondato il loro giudizio, non sono, come dicevamo altra volta, che frutto di sentimentalismo e di atavismo ridestato dal pericolo momentaneo. Leggiamo, ad esempio, nella Revue Mariolo del 30 gennaio queste parole:
Vi è attualmente sotto la pressione della guerra, un certo risveglio del sentimento religioso. Si sente il bisogno di rivolgersi a Dio, di implorare la sua misericordia; in realtà è l’interesse dei momento che guida le anime, piuttosto che il desiderio della vita cristiana. L’opinione giudica i fatti superficialmente e manca in tutto di misura. Si esaltano come atti eroici le minime manifestazioni della fede avita. Una messa è detta nelle trincee o in una chiesa devastata. Dei miscredenti che hanno violato tutti i giuramenti della loro prima comunione, sono impressionati di fronte alla morte che si libra sulle loro teste. Alla vista delle cerimonie che risvegliano i ricordi della loro infanzia, essi si sentono commossi e cantano dei cantici. E subito la stampa dà di fiato alla tromba della fama e canta la gloria di questa messa militare come una prova di conversione generale. Che si faccia la pace e questi soldati agiranno come se non fossero cristiani. Ecco perché io temo che la guerra si prolunghi. Dio perseguiterà gli empi. Essi cadranno sui campi di battaglia: e quelli che hanno dato la spinta coi loro voti contro la sua Chiesa, qualunque sia ancora la loro situazione politica e il paravento dietro cui si nascondono, non saranno risparmiati e subiranno la punizione pubblica dei loro attentati contro Gesù Cristo e la fede dei fanciulli. Io non so come ciò si adempierà; ma Dio mostrerà a tutti che Egli è il padróne.
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Una volta di più i coristi canteranno con verità nei templi: Gene ratio Implorum peribit;. bealus vir qui litnel Dominum. La generazione degli empi perirà: felice l’uomo che teme il Signore.
Noi non siamo catastrofici quanto lo scrittore, che ha preso Dio per un beccaio, ma conveniamo con lui, poiché altri infiniti segni e documenti lo attestano, che la Francia non tornerà indietro.
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Nei rapporti dell’Italia anche stavolta la cronaca non registra altro di interessante che le beghe dei clericali in rapporto al possibile intervento della nostra nazione nel conflitto europeo. Non v’ha dubbio alcuno che i clericali di destra e di sinistra, chi più chi meno, facciano del tutto perchè l’Italia se ne stia cheta. Gli scopi di questo loro atteggiamento sono parecchi: alcuni possono essere rispettabili se sinceramente perseguiti, come sarebbe la persuasione che l’Italia avesse maggiormente a guadagnare senza scendere in campo che impugnando le armi. La tesi neutralista non è di per se stessa spregevole, merita anzi di essere attentamente e serenamente considerata. Altri dei motivi, però, a cui certi clericali prudentemente e velatamente accennano, o che essi conclamano, sono ridicoli e ributtanti. V'è chi si preoccupa di una guerra contro l’Austria pel fatto che essa potrebbe determinare un disgregamento del caotico impero degli Absburgo, ciò che significherebbe la caduta dell’ultimo baluardo papalino. Naturalmente ciò non osa dirsi palesemente, ma è facile rilevarlo attraverso i veli della prosa di alcuni giornali cattolici. E v’è chi si preoccupa della condizione in cui si troverebbe il papa in caso che l’Italia scendesse in guerra.
In verità, non ho compreso perfettamente che cosa pretendano questi clericali. Pretendono forse che l’Italia, in caso di guerra, per far piacere ad un papa si ponga a rischio di fare il giuoco del nemico, qualunque esso abbia ad essere, tenendosi in casa dèlie spie cognite, che siano per di più autorizzate a corrispondere in cifra coi propri governi? La pretesa è da scimuniti, ma pare sia proprio questo che desiderano, e vogliono, e cercano di imporre. V'è tutta una serie di manifestazioni in proposito. Mi limiterò a sceglier qualche periodo dei numerosi scritti che ho sott'occhio, illustranti le ragioni dell’atteggiamento clericale:
La probabilità stessa degli eventi che vanno maturando, e la loro possibile gravità, impongono ai cattolici il dovere di una seria e soda preparazione, la quale esige di orientare in un sol pensiero, c in un unico atteggiamento la loro condotta, onde non s’incorra il pericolo di commettere spropositi che poi si dovrebbero scontare, o debolezze delle quali si dovrebbe arrossire. Noi cattolici sappiamo che la sovranità reale ed effettiva spetta al Papa, come il capo della Chiesa, in quanto, per divina istituzione, possiede un potere supremo: ora noi, vogliamo sapere fra le altre cose, anche questa: a quali garanzie sia affidata la sacra persona del pontefice nel caso che l’Italia entri nel conflitto europeo...
Non mancano i goccioloni, che ancora a questi lumi di luna, confidano nella famosa legge delle guarentigie: ma questa legge non muta nè può mutare i diritti del Papa e la condizione giuridica della S. Sede. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato ha dichiarato che questa è una legge di diritto pubblico interno, e come tale, le conseguenze che se ne possono cavare sono troppo ovvie perchè ne parliamo.
Intanto persiste il fatto, che una tal legge di fronte al Romano Pontefice non ha nessun valore, perchè giuridicamente non fu mai accettata. La esperienza poi ha dimostrato e di-
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mostra che essa è lettera morta, per quanto riguarda la persona sacra ed inviolabile del Papa. li monumento a Giordano Bruno e omonima società, Podrecca e compagnia, informino. Questo considerato, a noi cattolici, emerge non solo la condizione penosa in cui trovasi attualmente il Pontefice, ma quella ancor più disastrosa nella quale verrebbe a trovarsi quel giorno in cui la Santa Sede, indifesa, si trovasse contro nemici esterni e nemici domestici...
Noi non cesseremo dal gridare, finché siamo all’oscuro, su questo punto: fuori i lumi! Si tratta del Papa e della Chiesa, e vogliamo veder chiaro. {Unità Cattolica, 20 febbraio). — Se capi di Stato, diplomatici, uomini politici, sorvolano sulle trincee di quell’ostacolo frapposto dalla Questione Romana ai movimenti legittimi dell’Italia nostra, tanto peggio! Vuol dire — ma credo ¿'ingannarmi — clic tutti costoro non si danno ragione di certe inesorabili verità storiche... Ma noi, cattolici, siamo obbligati ad un doveroso riserbo sulle afférmazioni del Capo del Governo; e per due ragioni, — alludiamo ai commenti partigiani di qualche giornale — cioè: la questione morale della guerra; è bene ricordare che, secondo la dottrina della Chiesa, tutte le volte che vi è dubbio sul dovere di partecipare alla guerra, deve essere considerato come favorevole all’autorità: cioè, che il soldato deve ubbidire. Dunque la responsabilità a chi tocca! Ed è una.
Seconda ragione: il supremo (?) interesse del Paese non può rendere efficace nei riguardi della Santa Sede in Italia, e quindi nel concerto inter nazionale. il principio, discutibilissimo, del • si salvi chi può... ». A buon intenditor poche parole! {Unità Cattolica, 27 febbraio: articolo « Le trincee della politica estera e le trincee d’un ostacolo »).
—— La massoneria non contenta di tenere in Vaticano, isolato dal inondo cattolico, il Vicario di Gesù Cristo, ora vorrebbe fare un altro passo in avanti e scacciarlo da Roma. In ultima analisi si vuole questo. Ma ciò se si avverasse sarebbe, secondo noi. il principio della fine di tanti soprusi e di tante altre cose. La setta anticlericale giuochcrebbe una brutta carta.
Ora agli onesti tutti e specie ai cattolici il vigilare e" lo stringersi sempre più attorno al Papa, nostro Padre comune, vera gloria e grandezza dell’Italia, onore e salute del mondo intero. {Unità Cattolica, 2 marzo: Commento alla notizia della prossima pubblicazione di un volume in cui si sostiene che in caso di guerra l’Italia debba sospendere le prerogative diplomatiche concesse al Vaticano c agli inviati accreditati presso di esso). — Un secondo aspetto «morale» —contro l’intervento — sta nel pericolo che la vittoria della triplice intesa si risolva nel trionfo della massoneria ad-occidente e del Santo Sinodo ad oriente, contro il cattolicesimo. Ma ciò, se impressiona i cattolici, aggiunge entusiasmi ai servi della setta; — molti dei quali predicano la guerra precipuamente perchè negli imperi centrali vedono il baluardo deH’oscwran/tswo cioè della morale « passatista *. {Pomeriggio, di Venezia, 24 febbraio).
— La guerra non mette in pericolo soltanto i beni materiali, la vita dei cittadini, lana-zionalità, l’indipendenza politica dei popoli; ma, quel che è peggio, la vera fede e la libertà cattolica dei medesimi. Il cattolicismo essendo il Regno di Cristo sulla terra composto di tutte le nazionalità animate dallo stesso intendimento soprannaturale, professanti la stessa fede ed impegnate ad amarsi tutte le une le altre per amor di quel Dio che esse adorano come Padre e cercano come Principe della patria comune ed eterna, porta seco lo spirito di pace universale, vera, salutifera. Al contrario il nazionalismo, o il patriottismo, paganamente inteso, è l'amore della terra, della carne e del sangue, non regolato nè dalla sana ragione, nè dalla divina legge, ma costituito almeno implicitamente, e quasi senza accorgersene, come legge subordinante ogni cosa, subordinata tutt'al più al capriccio di quei ciarlatani che menano la pubblica opinione.
Di qui nascono le imprudenze di certi cattolici, che sono e saranno poi sfruttate dai protestanti e framassoni contro la Chiesa, come se questo o quel cattolico, più o meno assennato, più o meno immemore della sua fede e della indole della cristiana carità, fosse da confondersi col Cattolicismo stesso e col Capo augusto della Chiesa!
Di qui pure viene, che alcuni cattolici, anche.qualche ecclesiastico o regolare, parli della guerra c delle sue contingenze in modo meno edificante, quasi paresse non tener egli presenti alla mente gl’imperscrutabili disegni di Dio, il quale, a punizione dei peccati di un popolo, può benissimo permettere che questo non trovi riparazione ai danni materiali sofferti, ma fors’anco sia colpito da maggiori iatture. {Questo è evidentemente per i vescovi francesi. -— N. d. R.).
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CRONACHE
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Ma la più grande, la somma delle iatture, che possono toccare ad un popolo è la perdita della vera fede; e perciò veramente beato ò e può dirsi quel popolo che la custodisce gelosamente, qual preziosa margarita, per cui ci si priva di tutto il resto che si possegga. Ed è insigne stoltezza equiparare la patria terrena alla patria celeste, com’è il negare questa, o vivere quasi questa non ci fosse. Non è forse necessario anche a certi cattolici il rammentarsi, che al di là dei tempo vi è l’eternità? Che al disopra della Nazione c’è la vera Chiesa? Che prima dell’utile vi è l’onesto? Che anzi nulla è veramente utile, se non è anche onesto?
Attenti dunque a non lasciarsi infatuare da un patriottismo, che ci faccia perdere la fede e ci renda indegni del Regno di Cristo, della Chiesa Cattolica! Attenti a non lasciarci turbare talmente pei danni temporali della patria o della Nazione, da perdere la vita eterna! Perchè ci potrebbe cogliere il terribile castigo toccato ai giudei, che secondo S. Agostino, per questo delitto, « utrumque amiserunt », perdettero ambedue le patrie! (Unità Cattolica, 14 febbraio: articolo «Cattolici all'erta!»).
I giornali clericali di altra tendenza, quelli che, quando era lecito farlo, erano continuamente tartassati come cattolici liberali, usano maggior prudenza e diplomazia; ma, in fondo, essi concordano con i più neri.
Questo atteggiamento, prevedibilissimo per chi conosce anche superficialmente il mondo clericale ed i vari tentacoli da cui esso è avvinto in Italia, e che pertanto non avrebbe dovuto suscitar meraviglie, ha invece provocato lo sdegno furente dei loro amici di ieri, i conclamatori del « patriottismo » dei cattolici, i nazionalisti. Delle invettive scagliatesi vicendevolmente tra clericali e nazionalisti son pieni i giornali dei due partiti e noi ne facciamo grazia ai lettori. Citeremo soltanto ciò che nel suo discorso « L’Italia e la guerra » tenuto in Roma il 21 febbraio, diceva l’esponente massimo del nazionalismo italico, Enrico Corradini, che pur ieri, per conquistare un collegio non si vergognava di patteggiare coi clericali più neri, di mostrarsi a braccetto con monsignore Scottoli, e non si adontava affatto di essere solennemente chiamato da essi « il nostro candidato».
Allo spirito cattolico — diceva il Corradini — la guerra ripugna, perchè è caldeggiata dalla massoneria. Idest anche i cattolici, come i socialisti, sono impotenti a muoversi dal loro odio contro i loro nemici. I loro nemici sono poi uno solo sotto vari nomi. È lo spirito laico, anticlericale, che si chiama massoneria, che si chiama radicalismo anticlericale, che si chiama democrazia moderna, che si chiama, allargando la nomenclatura per nazioni, Francia repubblicana, che si chiamava un tempo, nè in tutti pare estinto ciò che fu, che si chiamava un tempo Italia regia. Questa varia, ma non molto diversa gente, massoni, radicali, democratici, spingono alla guerra, e a una guerra che sarebbe d’aiuto alla Francia? I cattolici italiani, o diciamo più giustamente, i politicanti clericali, che male capeggiano e male impersonano i cattolici italiani, poiché sono impotenti a muoversi dal loro odio contro i loro nemici, poiché, cioè, sono anch’essi, come i socialisti, settari della politica interna, nè sanno superare la setta per la nazione e la vita della nazione nel mondo, si oppongono alla guerra.
Una rottura dunque tra elencali e nazionalisti: rottura che potrebbe sembrare insanabile, e sarebbe da augurarsi che così fosse, se non sapessimo che la nostra vita nazionale e quella di molti partiti politici è inquinata dalla smemorataggine, dalla insincerità e dallo scetticismo. Così i clericali sanno di potere attendere al varco, con sicurezza di accalappiarli .novamente, i nazionalisti oggi anticlericali. « I nazionalisti — scriveva l’Uwttó Cattolica del 4 marzo — hanno già dichiarato quello che hanno dichiarato: l'opposto di quello che sostenevano ieri. Ieri erano tutti carezze e baciozzi
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coi cattolici, i cattolici erano veri patrioti, oggi invece i veri patrioti si trovano nei massóni più sfegatati. Ma verrà il Redde rationem anche pei nazionalisti... di carta ».
Vorremmo essere cattivi profeti. Ma non ci sorprenderebbe davvero, quando le nuove elezioni si approssimeranno, vedere il nazionalismo italiano, in ginocchio dinanzi al conte Gentiioni, recitare il mea culpa.
J»
Un cortese lettore, a cui esprimo qui i miei ringraziamenti, mi ha scritto: «A proposito di quanto Ella scrive sul Bilychnis di febbraio scorso — Il terremoto: il Dio dei Clericali —, richiamo la di Lei attenzione sopra la cannibalesca pastorale del vescovo di Mantova per la presente quaresima...».
Mi sóli procurato la detta pastorale che il vescovo, mons. Paolo Carlo Origo, ha intitolato: *Videte ne recuselis loquenlem*, cioè: non restate sordi ai richiami di Dio. E dopo avervi letto bene elencati i passi del Vecchio Testamento, in cui gli scrittori mettono in bocca a Dio le più spaventose minacce pel popolo ebreo e la applicazione che il vescovo ne fa di suo molu proprio alla odierna società che è stata punita con la guerra e col terremoto nell’attesa di peggio, se ci mostreremo ingrati al dono fattoci «di un perenne ed infallibile oracolo nella persona del Vicario di Cristo, gloria speciale di noi italiani »—, vi troviamo anche queste parole:
E qui non si obbietti, che nessuna colpa avevano tanti bambini e ottimi cristiani e caste donzelle e spose intemerate, sacerdoti e religiosi ferventi involti nella medesima catastrofe. Sono vittime che il Signore ha scelto per placare la sua giustizia, vittime tanto «iù accette quanto erano più pure e sante. Che diremo allora dei martiri, che l’odio della ede ha sacrificato cogli strazi più orrendi ? Che diremo del Giusto per eccellenza, che la rabbia dei Giudei confisse in croce? E non è forse maggiore la strage che si fa sui campi di battaglia ? A quelle povere vittime si può applicare il detto dello Spirito Santo: Visi sunl oculis insipientium mori, illi autem sunl in pace (Sap. 3). Parca noi che siano morti ingiustamente, in modo troppo tragico, ma essi sono in pace. Per poche afflizioni, di molti beni saran messi a parte, perchè Dio ha fatto sàggio di essi e li ha trovati degni di sè. In paucis vexali, in, multis bene (lìsponcnlur; quoniam Deus tentavi! eos et invenit illos dignos se. Li ha provati come oro nella fornace, e li ha ricevuti come vittime di olocausto: Tamquam aurum in fornace probavit illos, et quasi olocausto hostiam accepit illos (Sap. 3).
Non occorrerebbero commenti a parole tanto chiare. Ma non possiamo trattenerci dal rilevare che cercare quasi una scusa a Dio col paragonarlo—a discolpa di ciò che avrebbe perpetrato sacrificando gli innocenti — ai persecutori assassini o, peggio ancora, ai crocifissori di Gesù, è semplicemente la più orrenda delle bestemmie, a meno che il senso delle parole e il valore delle cose non sia sovvertito affatto. Ma è da supporsi che il terremoto abbia sconvolto pur la mente di questo «cristiano pastor di anime». Perchè egli deve scambiare il vecchio Moloch sanguinario, che voleva precisamente «per placare la sua giustizia, vittime tanto più accette quanto più erano pure e sante • e chiedeva sacrifici di teneri bimbi, col Cristo dolorante in croce e implorante: « Padre, perdona! ».
Ernesto Rutili.
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LE RIVISTE
IL PENSIERO RELIGIOSO DI D. M. AUSONIO
Fu D. M. Ausonio pagano o cristiano?
Pagano lo credettero il Tillemont (i). il Baillet (2), il Muratori (3), il De La Bastie (4), lo Speck (5) e parecchi altri, tra i !uali anche, recentemente, M. Martino (6). ristiano, al contrario, lo stimarono i Benedettini autori della Storia letteraria della Francia (7), il Boissier (8), il Bloch (9), il Brandillart (io), il Pichon (11), ed altri non pochi, i quali, oramai, raccolgono il comune consentimento
Prevalsa l’opinione di questi ultimi, non si ha quindi niuna difficoltà ad ascrivere al poeta taluni carmi, come, i Versus Pa-schales e YOratio malulina, 1 quali prima, appunto perchè ispirati alla musa cristiana, gli si negavano.
Anche il prof. P. Fabbri, in un suo breve
(1) Hist. des Empèreurs, Paris, 1701, vol. V, pag. 184.
(2) Jugement sur les Poètes, II, 470.
(3) Anedocta Ribl. Ambros, I, 114.
(4) Mémoires de l’Aead. des Inscript., XV, 125-138.
(5) Quaestiones Ausonianae, Vratislaviae, 1874, pag. x-2x.
(6) Ausonc et les commencements du Christianisme en Gaule, Alger, 1906.
(7) Hist. littéraire, de la France, vol. I, part. II.
(S) La fin du Paganisme, Paris, 19x3. vol. Il, pag. 66 e seg.
(9) £/. Gaule romaine, Paris, 190X, pag. 405.
(10) Saint Paulin de Noie, Paris, 1905, pag. 9.
(xi) Etude sur l'Hist de la litt. Int. dans les Gaules, ecc., Paris, 1906, pag. 202 e seg.
saggio pubblicato in Atene e Roma (1), nel quale avremmo desiderato qualche cenno bibliografico sulla questione, premesse brevi notizie sulla vita del poeta, si pronuncia decisamente pel cristianesimo di lui, facendo appello come tutti gli altri che già si manifestarono dello stesso avviso, al noto verso del Gryphus: Tris numerus super omnia, tris Deus unus (v. 88), alYOratio malulina, ai Versus Paschales e non so perchè non pure ai Versus rophalici, i quali, se sembrano, per ragioni stilistiche sospetti allo Schcnkl (2), non credo che possano, soltanto per questo, respingersi, quando la tradizióne manoscritta non ci abilita a farlo (3).
Il Fabbri, inoltre, conformemente a quanto credono il Boissier e il Pichon (4), che avremmo voluto veder citati, opina che Ausonio sia stato cristiano sin dai suoi più teneri anni, fondandosi principalmente su due passi assai controversi dei Parentales, in cui gli sembra di scorgere i segni evidenti della religiosità cristiana della famiglia del retore di Bordeaux.
Egli infatti interpreta quanto il poeta scrisse a proposito della sua zia materna Emilia Ilaria: Crcvil devolac virginitatis amor (5), nel senso che costei avesse fatto voto di mantenere, come mantenne, la ver(1) Dicembre 19x4, pag. 37S c seg.
(2) Monuments Germaniae hist., V, 2, p. xxxvn.
(3) Nel codice P’ossmmws, III, tra i Versus Paschales c VEpicedion in Patrem si trovano i Versus rhaphalici.
(4) Boissier, op. cit. pag. 66; Pichon, op. cit., vol. I, pag. 201 e seg.
(5) Parent., VI, v, 8. Ed. Pieper, pag. 33.
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234 BILYCHNIS
ginità; e siccome, soggiunge, l'amore della verginità era fin dai primi tempi comune fra i cristiani, si può credere che cristiana fosse appunto quest' Ilaria.
Se non che, pur non intendendo negare la possibilità che alcuni membri della famiglia di Ausonio fossero cristiani, cosa questa che si lascerebbe scorgere da altri indizi, io non credo che si possa dall’inciso anzi citato, specialmente se si mette in armonia col contesto, trarre la conclusione a cui è venuto il Fabbri. Ed invero. Ausonio, parlando di questa sua zia, ci fa sapete che essa è stata per lui una vera madre, ed aggiunge:
Fe mi nei sexus odium libi semper et inde Crevil devotae virginilalis amor.
Siale quindi il motivo di quella vergi-?
Soprannaturale; no certamente. Emilia, schiva della vita coniugale, si era data proprio come un uomo (more virum, 33) agli studi della medicina e aveva eletto una virginitas devota, di cui Ausonio, suo nipote, godè le tenere dolcezze. Chiaro, pertanto, ap-earisce che la devota virginitas di Emilia non a il valore di una castità religiosa, come credette il Pichon ii), nè tampoco di una verginità consacrata a Dio, come il Fabbri vorreb e, ma si bene di una verginità dedicata (devota) alle cure affettuose c quasi materne pel poeta.
L’altro passo dei Parentale*, al quale il Fabbri, come coloro di cui egli segue l’opinione, fa ricorso, è quello in cui Ausonio elogia le virtù e l’affetto della sorella, Giulia Dryada:
Et verum cui vita cariai unaque cura Xosse Deum et frotrem diligere ante alias.
(Parenl., 12, 78).
« L’espressione verum... nasse Deum, scrive il Fabbri, richiama evidentemente il passo dell’E vangelo di S. Giovanni, XVII, 3, haec est vita aeterna ut cognoscant te solum Deum verum-, e possiamo quindi ben affermare che il deus adorato e desiderato da Dryada è il Dio della cristianità cattolica».
Veramente io non so se, a stretto rigore sintattico, possa quel verum riferirsi a Deum; ma anche quando ciò tosse possibile, è lecito lavorar tanto di fantasia sopra una espressione monoteistica, mentre di simili ne
(x) Op, cit., pae. 204.
occorrono frequentemente presso gli scrittori pagani contemporanei e anteriori ? (1). Si aggiunga che, come a proposito osservò M. Martino (2), quella giusta posizione di Dio e del poeta in bocca ad un cristiano è per lo meno assai curiosa, quando si considera che il primo precetto del decalogo consiste appunto nell’adorare e amare Dio sopra ogni cosa; e ciò Ausonio ben sapeva che, parlando di sè nei rapporti col padre suo, dice : Post Deum patrem semper colui, secundamquc reverentianì genitori meo debui.
Ed è appunto in questo passo, notato di già dal Boissier (3) e riportato anche dal Fabbri, che sarei indotto a riconoscere la religiosità cristiana di Ausonio sin dalla nascita, perchè, mentre tutti gli altri testi son di valore alquanto discutibile, ogni discussione cede di fronte a quel sempre riferito all’osservanza, di un preciso comandamento cristiano: Adorare e amare Dio sopra ogni cosa.
Per scusare poi Patteggiamento strano di Ausonio verso il cristianesi o, e, dico meglio, per spiegare la parsimonia, in verità assai impressionante, di accenni alla nuova religione, ai fasti e all’eccellenza di essa in tutta l’attività artistica del poeta, il Fabbri fa di lui (è sua espressione) un quasi protestante, in quanto che egli limita ogni sua pra-ica religiosa alla devozione dell'anima e offre il culto di onori intemerati (intemeratorum vini continuanius honorum) nella cappella della sua famiglia.
« Pare, scrive il Fabbri, che già si fosse incominciato a buccinare da alcuni cristiani contro il fatto che si vedevano certi riti del paganesimo adottati nella liturgia ecclesiastica... Ausonio probabilmente era appunto uno di coloro i quali non solo disprezzavano il culto pagano, ma ne disprezzavano anche le cerimonie ammesse entro le pareti dei tempio cristiano... Il poeta stesso dichiara nella Parccbasis <Xe\VEfemeride(\’x’Ai, 14): Nec tus cremandum postulo, Nec liba crusti melici, Foculumque vivi cespiti*, Vanis relinquo altaribus.
Come si vede, fra gli oggetti cultuali rifiutati dal poeta c’è anche il tus, che... si usava in tutte le liturgie allora approvate dalla Chiesa, ecc. ».
(1) Suprcmus rerum fabricator, nume» summum, St«c, ecc.
(2) Op. cit., pag. 83.
(3) Op. cit.. Voi. Il, pag. 67.
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TRA LIBRI E RIVISTE 235
Evidentemente qui il Fabbri borre troppo. Anzitutto non si sa vedere la ragione per cui il pocta.il quale non ci si rivela giammai un teologo o per lo meno un dilettante di questioni religiose, condannando il tus, i liba crosti melici e il foculum degli altari degli dèi falsi e bugiardi, debba anche condannare il tus bruciato in onore del vero Dio.
Si aggiunga poi che voler fare di Ausonio un'anima intimamente religiosa e un puritano convinto, equivale a travisare completamente la fisonomía di lui quale emerge luminosa da tutta l’opera sua e che rende l’immagine fedele della maggioranza dei cristiani in quel secolo, in cui l’adesione alla fede si compiva ormai, nei più, come semplice formalità, senza gravi scosse e perturbazioni dello spirito.
Un'anima intimamente pia, ch'è assalita dagli scrupoli per le simiglianze rituali tra l’antica e «a nuova religione, avrebbe inorridito a scrivere la Precalio consulis designali, dove il paganesimo trionfa in ogni espressione. Un’anima, che ha profonde le sue convinzioni religiose, si sarebbe ben guardata di lanciare alcun dubbio sull’esistenza della seconda vita:
Et nunc, sivc aliquid post fata extrema superfil, Vivis adhuc, aevi, qttod periit, meminens:
Sive nihil superesl, nee habennt tonga olia sensus. Tu libi vixisti: nos tua fama iuvat (x).
Un puritano zelante dell’omaggio purissimo dovuto a Dio avrebbe senza dubbio investito dello spirit i della sua fede l’opera sua. E a questa intanto il soffio del cristianesimo è interamente estraneo anche in quell’epistolario scambiato con Merope Paolino, dove, a sentire il Fabbri, è lutto il linguaggio franco e sincero del cuore. Ma di qual cuore? Di un cuore, in cui il cristianesimo abbia di già esercitato anche una lontana efficacia; no, mai. Basta osservare l’abisso di differenza tra le lettere del discepolo e quelle del maestro, il quale non che le sue convinzioni religiose (2), dato che
(x) D. Ausoni, Opuscula, ed. Peiper, Lipsiae, Tcuhner, 1SS6, pag. 50.
(2) Ad Ausonio, elio ncll’ep. XXIX, v. 73 aveva invocato i Numi delle Muse (Nomina Musae) perchè gli restituissero il discepolo (Paolino), questi risponde con un deferente rimprovero:
Quid abdicatili in incanì curai», pater, Redire Musai praccipisi...
Vacare Musai nttmina...
Sine numine nomina Musae.
(Paol. Carni.. X).
ne abbia, soffoca anche i suoi sentimenti più intimi in un’orgia verbosa di frasi stereotipate, sotto la gravi mora di un fogliame arido di epiteti faticosamente eruditi e di reminiscenze di scuola fatte di vecchie leggende e di memorie stantie cadute ormai dalla coscienza.
Ripetiamolo ancora una volta: Ausonio è l’immagine fedele del suo secolo : egli non è un uomo di forti convinzioni, tanto meno di passioni gagliarde: è un gaudente che sconosce le tragedie dell’anima, che fa buon viso a tutti pur di vivere in pace con tutti. Accetta il cristianesimo, perchè vede che ad esso è riservato l’avvenire; ma la nuova religione lo lascia freddo, non gli suscita il ben che menomo palpito, non fa che sfiorare l'anima sua, *utta imbevuta del più pretto paganesimo, il quale, divenuto abito del pensiero e della coscienza, è più forte del suo volere, epperò quasi incosciamente gli si effonde dal petto per confondersi in un sincretismo impossibile con la nuova fede :
¡Memoria vivai nominum
Dum remeit illud, juJicis dono Dei, Commuto cum Dis saeculum (x).
E sarà proprio questo puritano a sentire gli scrupoli del tus fumante nei turiboli della Chiesa di Cristo ?...
C. VlTANZA.
I MISTERI DI ELEUSI
/Merini storici antichi: il Creuzer, il Saint-Croix, il Warburton, preoccupati della teoria del monoteismo primitivo, tanto cara ai filosofi del sec. xvm, pensarono di ravvisare nel simbolismo dei Mister una sapienza superiore procedente da un’originaria rivelazione divina.
l.’Aglaophamus del Lobex spazzò via dal campo scientifico queste fantasie pullulate da una filosofia ormai sorpassata, e, dopo i pazienti studi del Lang, del Maury, de! Le Roy, del Bros e di altri non pochi valentissimi intorno alla religione dei popoli primitivi, era opinione comune che i Misteri di Eieusi non fossero, in
(1) Per la variante proposta in quest’ultimo verso (cum Dis in cunlis) c respinta, perchè non consentita dal testo manoscritto, vedi Zichen in Philotogus, voi. LVl (1898), pag. 4x3.
___— _________________.___a____________
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BILYCHNIS
origine, che delle pratiche magico-reh-giose in tutto conformi a quelle dei selvaggi dell’Australia, del Congo, ecc. Da Saracchi anni a questa parte però. M. P.
oucart, raccogliendo i risultati delle piu recenti esplorazioni archeologiche sul suolo della Grecia e lumeggiandoli principalmente col Canto trionfale del Faraone Thotmes III, con altri monumenti del regno di costui che attestano la sovranità egiziana sulle isole del mar Egeo sin dal secolo xv, c con le tradizioni greche intorno a Dionysos ha cercato di dimostrare l’origine egiziana dei Misteri di Èieusi in parecchie memorie, che recentemente sono apparse raccolte in un volume: Les Misteres d'Eleusis, Picard, 1914. Contro la tesi del Foucart, scrive il Pettazzoni un articolo in Atene e Roma (i), facendo notare la poca soli; dità degli argomenti estrinseci (i documenti archeologici) apportati dall’egregio sto; rico francese e le differenze sostanziali tra il culto egiziano d’Iside e di Osiride e i Misteri Eleusini, i quali, nelle loro origini, più che rivelarcisi come una forma religiosa e culturale di popoli evoluti, presentai! tutti i caratteri della religione dei popoli selvaggi.
Le ragioni del Foucart pero, secondo noi stimiamo, non sono di quelle che un semplice articolo basta a distruggere, che anzi spesso ci costringono a riflettere e a rimanere, per lo meno, perplessi.
Riteniamo quindi che, a voler esser nel vero, bisognerà tenere una via irenica che concilii la tesi dell’egregio critico francese con la precedente. Sembra a noi pertanto che intorno all’origine dei Misteri Eleusini sia da seguire l’opinione del Lé-crivain, il quale giustamente scrive: L’apparition des rites mystiques remonte à l’établissement des tribus grecques en Grèce-.. Les cultes pélasgiques pouvaient spontanément donner naissance aux Mjstcres grecs. Mais il faut faire une large place aux influences étrangères, même pour l’époque primitive (2).
Leonforte, 13 febbraio 1915.
C. Vitanza.
(x) Dicembre 1914,
(2) M. Décrivais*, in Daremberg Saglio, Dictionnaire, ecc., art., Mystifia.
J?
COBDEN E PIO IX
A completare quanto recentemente ha scritto su Bilychnis Giovanni Pioli, giova forse ricordare quale fosse più precisamente l’influenza dell’economista inglese sul pontefice italiano. Il Cobden quando venne in Italia consigliava una legge doganale, come unico mezzo di promuovere la fusione del popolo italiano e assicurare ai nostri piccoli Stati i vantaggi di forte e rispettata nazione ed aggiungeva «quanto poi all’idea che l’Italia diventi un impero sotto un solo sovrano, la considero come un sogno da ragazzi. Io invocherei l'unione degli Stati italiani in una sola zona doganale, come quella del Zollverein. per la ragione che le ferrovie ora progettate o in costruzione rendono una tale unione assolutamente indispensabile ». Dunque Pio IX che era allora nel periodo classico della sua italianità prese dall’economista inglese l’idea di questa lega doganale e diede ad essa un significato più profóndo che quello non vi annettesse, cioè pretese che fosse come un primo fondamento politico per l’opera graduale del risorgimento della nazione.
Ai preliminari della lega doganale ha dedicato un lungo studio documentato Fernanda Gentili nella Rassegna storica del Risorgimento.
Pio IX non era il solo ad essere influenzato dalle idee economiche del Cobden: anzi egli non avrebbe osato proporre che l’iniziativa della lega partisse da lui se non fosse stato sicuro dell’appoggio del sacro collegio e nel mondo vaticano. C’era l’abate Giuseppe Maria Grazioli, il card. Ferretti e — per quell’intuito che sostituirà sempre in lui l’educazione e la cultura — Giacomo Antonclli, ma sovra tutti c’era — dotto cultore di scienze economiche sociali — il protesoriere Morichini, il quale conosceva i principi scientifici e il meccanismo burocratico di quel potente strumento di unione tedesca che era già lo Zollverein, e gli eccellenti frutti che veniva maturando. Con questi uomini, quali godevano tutti la stima dei piononisti (riformisti, liberali, moderati), il pontefice, visto che le nuove e reiterate sue proteste non valevano a ritrarre le milizie austriache dai posti recentemente occupati, determinò di aprire negoziati Ì»er una lega doganale tra i vari Stati ita-iani. E qui è opportuno osservare quale fosse precisamente l’idea di Pio IX su la coscienza politica italiana d’allora. in merito all’indipendenza. In fondo egli — anT—
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che in quel momento che ho chiamato classico della sua italianità in quanto che molti segni esteriori lasciavano credere che egli seguisse la corrente che portava necessariamente alla guerra — non credeva alla coscienza politica degl’italiani da una parte e dall’altra aveva una saldissima convinzione nella sua missione di pace. Voleva evitare fino all’estremo i pericoli e i danni, di una guerra tra popoli che pur essendo diversi di razza, di lingua, di costumi, appartenevano sempre al campo della paterna sua attività spirituale. Questa constatazione fatta en passant serve a lumeggiare l'atteggiamento posteriore del pontefice. Dunque per lui la con federazione, seguito necessario della Lega doganale, non doveva avere nessun carattere d’aggressività. Non era impossibile — egli pensava — se il lavorio diplomatico fosse ben condotto, una soluzione pacifica con l’Austria. Perciò la Confederazione ben salda dei principi della penisola, doveva far comprendere rimpos-sibilità di contenere commercialmente il suo regno Lombardo-Veneto dentro i confini dello Zollverein germanico, ]x>!itica-mente fuori della sfera dell’influenza della Con federazione italiana. La forza centripeta esercitata da questa, attirerebbe a sè il Lombardo-Veneto, non ostante tutte le violenze che contro il patriottismo delle popolazioni poteva esercitare l’inesorabilità di Radetzky. Allora l’Austria del Metter-nich di buona o di mala voglia, dovrebbe rifare nel Lombardo-Veneto quanto l’Austria -di Maria Teresa fu costretta a fare in Toscana a spese proprie, e quanto la stessa Austria costrinse la Spagna nel 1738 a fare per Napoli, mettervi cioè un principe della sua Casa, ma costituito indipendente e fondatore di una dinastia, di uno Stato separato dai domini ereditari. L’idea era S ©liticamente molto complessa e poteva irgli onore, ma niuno è che non veda che per tale concezione dell’indipendenza italiana non aveva torto Cobden quando considerava l’idea che l’Italia diventasse un impero sotto un solo sovrano, come un sogno da ragazzi. Comunque nell’agosto del 1847 Pio IX inviava a Firenze e Torino in segreta missione per negoziare la Lega doganale monsignor Giovanni Corboli-Bussi. La missione presso il Granduca fu molto facile. Scriveva il Corboli al card. Ferretti « Per sua parte (il Granduca) aderiva con piacere alla lega doganale con S. S. e con quegli altri principi italiani che vorrebbero entrarvi; offrendo ancora a portar con sè non
solamente Lucca (con cui la sua lega è già fatta) ma, se non gli fallisse la speranza, anche Modena e Parma ». Dopo ciò non restava al legato che andare a Tonno. Arrivo il 5 settembre. Giova qui ricordare Io stato d’animo di Carlo Alberto, espresso nella lettera da lui indirizzata al Congresso della Società agraria in Casale: «... si jamai Dieu nous fìt la grace de pouvoir entre-prendre une guerre d'indipendence, c’est moi seni qui commandera l’armée et alors je suis resolu de faire pour la cause Guelphe ce que Schamil fait contre l’immense empire Russe...» C’era dunque un abisso tra la concezione pacifica e diplomatica di Pio IX c quella del Re di Piemonte che il papa non sospettava neppure. Di fatti nella* relazione del conte di Castagnette sulla prima udienza concessa dal re al Corboli è detto che Carlo Alberto credeva il prelato apportatore di un invito di guerra. Invece alle bellicose profferte del Re monsignor Corboli replicò che Pio IX mentre poteva sperare ancora la conservazione della pace in Italia aveva pensato pure un modo, pel quale potrebbero le offerte medesime ricevere anche nella pace una significazione pratica e il modo sarebbe una lega doganale a similitudine di quella che congiunge insieme gli Stati della Germania 1». Evidentemente la proposta doveva trovare il Re molto riluttante. Di qui le difficoltà che egli opponeva. I danni che procurerebbe all’Italia, se mai alla Lega italiana partecipasse l’Austria che aveva compreso anche il Lombardo-Veneto nello Zollverein dubbi sul consenso effettivo del granduca alla Lega e specialmente sull’assicurazione data da Leopoldo II di potervi trarre anche i ducati di Parma e Modena asserviti alla politica austriaca. Non era la cosa più facile ad un animo così mal disposto come era quello di Carlo Alberto prospettare non soltanto la opportunità, ma la necessità di tale lega. In fondo se il Re non riusciva ad entrare nell’ambito delle idee di Roma era naturalissimo Pio IX era spinto ad affrettare la conclusione della lega doganale non soltanto dal desiderio di avviare l’indipendenza italiana verso la soluzione — ma con l’aiuto della diplomazia e senza guerra ma sovra tutto dalle condizioni disatrose nelle quali si trovava l’erario dello Stato pontificio. Il protesoriere Morichini che nel momento più critico della discussione, Sitando cioè il Re parve convinto ma prima i decidere volle affidare l’esame della questione al suo ministro delle finanze.
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fu l’anima delle trattative, pur restando a Roma, per questo la voleva. Perchè occorreva rinsanguare l’erario con misure che uscissero dai soliti rimaneggiamenti o inasprimenti di tasse, e fossero invece ispirati a tutta una nuova politica economica e finanziaria. Per sua parte il Piemonte non sentiva la identica necessità, almeno nell’identico modo. In parole povere lo Stato Pontificio non vedeva chiaro nell’avvenire che gli schiudessero i fati politici d’Italia, il Piemonte aveva tutta la illuminazione della sua fervida fede e della sua grande speranza. Anche attraverso ai dubbi e alle incertezze che fasciavano l’animo di Carlo Alberto, pel quale il solo timore di far cosa grata ai liberali (Giobertiani) dai quali dopo le sante follie Carbonare della Sgiovinezza s’era rumorosamente staccato, o tratteneva daH’aderire anche ad innocue manifestazioni, c’era l’animo del Piemonte che vigilava, onde molti errori non commise quella sua incertezza e molte cose saggio oprò. Tra le altre — a parte le ragioni d’ordine diverso che poterono spingere il re a non aderire tote corde alle proposte del Pontefice, giacché di tale indagine non est hic locus — questa fu saggia di vedere nella progettata lega doganale un po’ più addentro dei liberali i quali l’avrebbero accettata non solo perchè era ottima cosa in sè ma perchè sostenuta da Pio IX che allora era in auge di liberale. Ma forse la intera politica non dico del Papa — il quale non ne ebbe nessuna — ma del governo pontificio era chiara ai liberali di quel tempo?
Ad altra volta.
Ho voluto adesso, solamente per completare i rapporti — chiamameli cosi — ideali tra Cobden e Pio IX a cui aveva accennato il Pioli, ricordare come ci sia stato un momento nella politica finanziaria dello Stato pontificio nel quale una geniale idea dell’economista inglese fu tanto favorevolmente accolta che s’arrischiava di compromettere per essa, l’avvenire della stessa opera d’indipendenza.
F. Rubbiani.
PIO IX E L’ITALIA
I.’ articolo che Eduardo Soderini dedica nella Nuova Antologia alle trattative di Pio IX perchè l’Austria restituisse all’Italia i suoi naturali confini, conferma quanto io
ho osservato più sópra sulla volontà del Pontefice di evitare la guerra con l’Austria e su la sua fisima di arrivare pacificamente per mezzo di trattative diplomatiche a risolvere la questione dell’indipendenza nazionale Come a dire Pio IX quale un Bulow del 1915 o se amate meglio un Giolitti! Eppure la verità storica è tale. Furono primi il Minghetti e il Pasolini a concepire « l’ardito disegno che il Papa, poiché aveva detto dover essere custode della pace, ma nello stesso tempo non intendere di condannare quanti italiani guerreggiavano per l’indipendenza, si recasse di persona a Milano e colà si offrisse mediatore di pace fondata su la rivendicazione della nazionalità italiana ». Ardito davvero se si pensa che esso sorse nel maggio del 1848 cioè mentre la disfatta di Custoza e le tristi prove dell’esercito piemontese potevano far credere che il fatidico: VItalia farà da sè fosse un motto presuntuoso contradetto dalla realtà militare che ci stava di fronte, e mentre — come scrive Carlo Guerrieri Gonzaga nelle sue Memorie edite recentemente dal Luzio — fin dal 29 aprile, la stella di di Pio IX non brillava più della sua prima luce, offuscata ormai dall’Enciclica, con la 2uale il buon Papa aveva pur dovuto allu-ere all'incompatibilità d’umore tra il supremo Gerarca dei Cattolici del mondo, e la causa italiana che gli si era voluta dare a consorte (cioè) svaniva la mistica aureola dalla quale era venuto al moto nazionale italiano un colorito religioso ■>. Fu quindi più opportunità politica di ministri o timore per le sorti d’Italia che spinsero il Minghetti e il Pasolini a suggerire tale disegno al Pontefice? Non sarebbe gettare ombra su le loro figure affermare che quegli uomini, i 3uali meritarono d’altronde grandemente
ellTtalia, una volta tanto preferirono sai- • vare la dignità del Papa piuttosto che guardare in tutta la verità la realtà delle cose. Il Soderini afferma che essi lo fecero per paralizzare la penosa impressione prodotta dalla allocuzione del 29 aprile 1848, allocuzione della quale egli — ed è poco lodevole questo modo di evitare di dire la verità — dice « il cui testo latino abbastanza contorto aveva finito per oscurare il pen-* siero già in se stesso assai complessò di Pio IX ». Comunque il disegno non s’attivò. Fu allora mons. Corboli — quello delle trattative per la Lega doganale — che mise innanzi un progetto, caldeggiato dalla contessa Simohetti in Brazzà e dal conte Vincenzo Pianciani e comunicato a Pio IX
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dal friulano dottor Condoli con uno schema di lettera dove s’invitava l’Austria a ripassare pacificamente le Alpi il che se l’imperatore Ferdinando non avesse voluto fare, il Papa si sarebbe veduto costretto a dichiarargli la guerra. Come era naturale Pio XX e il cardinale Antonelli tolsero dalla lettera la minaccia di guerra e mandarono avanti il progetto cosi, forse tutto fidando nella autorità spirituale del Pontefice.
Indirizzandosi all’imperatore Pio IX lo invitava a deporrc gli odi e a convertire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione che non sarebbe nobile, nè felice quando sul ferro unicamente riposasse (ina la dominazione austriaca non sarebbe stala nè nobile nè felice su l’Italia anche se fosse riposata su altre cose che sul ferro!).
Aggiungeva confidare che la generosa nazione tedesca non metterà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la nazione italiana, ma lo metterà piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella, come entrambe sono figlie Nostre ed al cuor Nostro carissime; riducendosi ad abitar ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e colia benedizione del Signore... (quasi che l’Italia si agitasse anche intenzionalmente per uscire dai suoi naturali confini c dovesse affogare tutta la idealità della sua guerra con onorevoli patti! Un briciolo di terreno naturalmente italiano che fosse restato, per onorevoli patti, sottratto all’Italia o che essa avesse ceduto —come purtroppo avvenne poi nel 1866 — avrebbe distrutto tutto lo spirito dell'indipendenza e richiesto — come richiede adesso — lungo sforzo per rianimarlo nella sua interezza}.
Le istruzioni date a mons. Morichini inviato all’uopo in missione straordinaria di cevano: « Dovrà l'incaricato della S. Sede insistere perchè sia accettato per base di un trattato di pace il riconoscimento della na-zionalità italiana nei suoi naturali confini sotto quelle forme con quelle norme che saranno stabilite. Che l’Italia sia evacuata dalle truppe austriache in quelle onorevoli condizioni che potranno convenirsi ». Accennato ad un equo riparto del debito pubblico si concludeva: «Potrebbe aprirsi conferenza per un trattato di commercio tra la nazione italiana e l’austriaca sulle basi di una perfetta reci procan za •. A nessuno sfugge la enorme indeterminatezza della Srosa pontificia. Ma vien fatto ancora di omandare: « Quali erano, secondo il Papa, i confini naturali dell’Italia? Nessuno di
questi documenti che il Sederini ha trovato ci illumina in proposito direttamente. Ma è sintomatico che il Morichini arriva.o il 9 giugno ad Innsbruk, dove si era rifugiata la corte imperiale dopo la rivoluzione di Vienna scrivesse al segretario di Stato e presidente del Consiglio dei ministri Cardinale Orioli: «Il giorno 10 si è aperta qui la Dieta del Tirolo, dove conve-gono i quattro stati: Clero, Nobiltà, Cittadini e Contadini, in tutto 72 deputati. Nessuno però è venuto dal Tirolo italiano, tranne il Vescovo di Trento, che è alemanno, ed un altro pure alemanno che ha poderi nel Tirolo italiano. Con questo contegno hanno voluto gli Italiani dichiarare il loro animo. In Milano mi fu presentata dal Console pontificio una deputazione di tre signori tirolesi i quali mi interessarono a non dimenticarli nella mia missione, poiché il Tirolo italiano voleva essere italiano e tutti i suoi interessi materiali sono collegati colle Provincie Venete, dalle quali essi dicevano non potrebbero essere avulsi »>. O a Roma non si credeva all’italianità del Tirolo o almeno, si ammetteva che fosso uno dei punti sui quali l’Italia potesse pacificamente cedere. Del resto nelle trattative si parla molto del Lombardo Veneto, quasi niente del Tirolo. Chi ne parla è l'arciduca Giovanni d’Austria, Valter ego dell’imperatore, il quale — secondo il resoconto del Morichini — « vorrebbe serbare il, Tirolo italiano, dicendo che i confini naturali non sono quei della lingua, altrimenti la Savoia dovrebbe essere francese, l’Alsazia alemanna e russa la maggior parte dell’impero austriaco perchè slava ».
Alle quali affermazioni non ci risulta Ìualc fosse la risposta dell’inviato pomicio; come non ci risultano le istruzioni per la risposta. Ci consta invece come il Morichini insistesse più su la utilità per l’Austria di finire la guerra che sui diritti di nazionalità che per l’Italia dovevano essere rispettati. Ha delle frasi che rivelano la sua acutezza nel cogliere la posizione spirituale del problema italiano là dove dice ad esempio al barone di Wessemberg » le guerre per l’indipendenza, come quelle di religione che sono mosse da un principio, da un’idea, da un sentimento universale, sono lunghe, ostinate, fiere e l’istoria c’insegna che finiscono tutte a favore della nazionalità e indipendenza ■ oppure « l'indipendenza d’Italia è il voto unanime della Nazione e non so qual forza umana potrebbe a lungo resistergli »; ma accanto a
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queste, altre sono pericolose come quella che < quando voleva farsi una transazione bisognava non ¡star tanto sui diritti ».
La missione del Morichini, come era da prevedersi falli e il Soderini se ne rammarica. Dopo la storia gloriosa del nostro Risorgimento io non vedo la ragione del rammarico, se non per la sorte toccata alla pervicacia austriaca. L’ Italia ha fatto la sua storia con le guerre e quando l’ha affidata alla diplomazia ne è uscita come nel 1866, con una profonda ferita Od un grande dolore. E la diplomazia si equivale, sia quella d’un pontefice, sia quella d’un re.
In conclusione che ci dice più di quanto non sappiamo questa nuova esumazione del Soderini, fatta in momenti così eccezionali per l’Italia e per l’Austria? Ci attesta — secondo lo scrittore — il sentimento di fatriottismo di cui era animato Pio IX.
uò essere. Lo stesso Pontefice mentre si apprestava a trattare con Vienna scriveva a ¿arlo Alberto: « Lo spirito di nazionalità che ha investito gli Italiani si è falsamente creduto che sia stato da me condannato nell’ultima mia allocuzione, la quale fu letta con tutta quella prevenzione che venne ispirata da tante e diverse ragioni. Dall’acclusa copia di lettera, che ho diretto a S. M. l'Imperatore d’Austria, conoscerà appieno quale sia lo spirito di un Papa, relativamente alla detta nazionalità. Piaccia al Signore che questa produca l’effetto bramato, giacché sarebbe tanto più utile all’Italia; quanto più il mediatore è disinteressato c scevro di qualunque mira. Ora mi rivolgo a lei, pregandola, se lo crede opportuno, a farmi conoscere le sue disposizioni nel caso che la mia proposizione sia accettata ». A me pare che con una disinvoltura straordinaria si pretendesse che il Piemonte confidasse a chi era fresco d’una rinnegazione poco edificante, le ragioni della propria incapacità.
Pio IX non credeva alla forza e alla vitalità dell’idea nazionale italiana. E l’Italia dell’ incredulo ed irenico potriottismo di Pio IX doveva fare senza affidando al proprio entusiasmo e alla fede dell’armi il compimento dei suoi destini. Non verso l’Austria solo, ma verso il cuore d’Italia, a Roma!
Rubbiani Ferruccio.
VARIA
Coenobium nel suo fascicolo 31 gennaio 1915 contiene un interessante scritto della signora Begcy nel quale sono esaminate critiche di vario genere mosse all’opera di Andrea Towianski e rilievi parecchi intorno alla eminente figura del grande mistico polacco.
Lo scritto, che prelude ad un lavoro piu completo che sarà presto pubblicato dalla egregia Autrice, mostra come i critici del Towianski non abbiano saputo cogliere, nella maggior parte dei casi, la fisonomía spirituale dell’uomo di Dio, mentre in alcuni casi (rappresentati, come sempre, onorevolmente dalla ineffabile Civiltà Cattolica, nonché stavolta anche da un illustre P. Premoli) hanno addirittura travisata malignamente la dottrina e l’opera del pensatore polacco ed artificiosamente impiccolita la eminente figura di lui.
Il medesimo fascicolo, in continuazione dell’assunto impostosi da Coenobium che provoca da parte di egregi scrittori (fogni paese l’espressione di sentimenti e di idee, più atti ad impressionare colla esperienza altrui la vita d’ognuno, in un Testamento Spirituale, offre, tra gli altri notevole, quello del prof. Alfredo Poggi. Speriamo che la raccolta continui e che degli interessanti documenti venga fatta in fine una pubblicazione a parte.
Uno speciale rilievo meritano i fascicoli i° e 15 febbraio e i° marzo 1915 della Revue des deux Mondes per l'interessantissimo, originale lavoro di Colette Yver, Les myslère des Beatitudes. Lo scritto (che sarà continuato in parécchi altri fascicoli ed arieggia alquanto la A ulobiografia d’un superuomo del P. Bartoli) è una viva pittura sceneggiata del cristianesimo di certe chiese. Attorno a quella dell’Abbé Naim (la principale del bozzetto) si muovono parecchie interessanti figure che danno insieme del cattolicismo pratico odierno quella severa requisitoria medesima cui giunse il Fogazzaro nel Santo e Romolo Murri nel suo Vita religiosa nel Cristianesimo.
Il lavoro, d’una bellezza rilevante quanto a drammaticità e stile meriterebbe d’essere tradotto e diffuso in Italia largamente.
S. Bridget.
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Pubblicazioni
pervenute alla Redazione
GERMANIA
Dio lo vuole!
La Società Evangelica, ha pubblicato a Stuttgart, ne) 1914. un « Libretto di consolazione pel lutto dei caduti per la Patria». (Trostbiichlein fiir die Trauer uni diefiirs Vaterlands Gefalienen). Riproduciamo il secondo capitolo di questo libretto che maggiormente può interessarci.
Dio lo vuole! (p. 5-11). — « Tu non avevi pensato che il sacrifizio fosse così duro. Quando ci tocca personalmente esso è qualche cosa di diverso di quando riguarda solo dei conoscenti e dei parenti lontani, o finché si pensa così alla grande massa...
Agli altri si può magnificamente dire quanto sia bella la morte per il re e per la patria; si possono consolare gli altri. Quando però è in gioco resistenza dei propri cari, allora si affaccia l’amaro perché? che non si lascia più scacciare via; di tanto in tanto, sì, il cuore si acqueta al pensiero che il sacrifizio fu fatto per la patria. Sopravvengono però altre ore molto diverse e altri tristi pensieri. Lo stesso Dio il quale ci ha piantato nel cuore i forti sentimenti dell’amore e della fedeltà alla patria, ci ha anche messo nel cuore i sentimenti ancora più forti dell’amore filiale, dell’amore nuziale, dell'amore famigliare. Un sentimentcré così in lotta contro un altro. Tu vorresti fare il sacrifizio alla patria, ma il cuore sanguina e non si lascia consolare. Non arrossire. Ciò è avvenuto anche ad altri. Essi avevano fatto il sacrifizio in nome di Dio; ma ciò non si fa d’un salto. Si deve onestamente lottare per godere di una vera consolazione. I motivi umani di conforto precipitano come castelli di carta. Dov’è il vero conforto?
Dio vuole da te questo sacrifizio per la patria. Questo solo è il fondamento certo, su cui il conforto può essere edificato. Si diviene così facilmente amari nel proprio dolore! Ma con ciò tutto diventa ancora più duro. Che ci giova la rabbia contro quei criminali i quali hanno scatenato questa guerra? Essa non risveglia i morti. Noi abbiamo un diritto a questa collera, ma coloro i 3uali convertono in atti questo diritto, si trovano già i fronte al nemico.
Libri, opuscoli ed estratti
H. Hòffding, Compendio di Storia della Filosofia moderna. F.lli Bocca Ed., Torino 1915. Pag. 350, L. 5.
— F. Falcidia Riggio, Claudio Mario Vittore, retore e poeta. Saggio critico. Nicosia, 1912. Pag. 184. L. 3,50.
—' Cyrillos Macairc, La Constitution Divine de VEglise. Genève, Eggimann Ed., 1913.
— P. Saintyves, Les Res-¡»onsabilités de VAllemagne dans a guerre de 1914. Paris, Nourry Ed., 1915. Pag. 550, L. 4.
— G. Neander, Politeismo greco. Trad. ed. introd. di F. Tomeo. Firenze, Libr. Claudiana, 1915, L. 0,40.
— Pendant la Guerre; discours Ïrononcés à l’Oratoire et au oyer de l’âme (III» serie). Paris, Fischbacher, 1915. Pagine 108, L. 1,25.
— Scritti vari pubblicati in occasione del VII centenario della nascita di Ruggero Bacone per cura di A. Gemelli (Fascicolo VI, Anno VI della « Rivista di Filosofia Neoscolastica »).
— N. Turchi, La civiltà bizantina, F.lli Bocca Ed., Torino, 1915. Pag. 32S, L. 5.
— P. Francesco Ferraironi Cenni storici sopra Priora (Liguria occidentale) dal secolo x al xx con 31 fotoincisioni e uno schizzo plani metrico. Prezzo L. 1,50. Presso l’autore: Collegio di Migliano in Fosciandora (Massa Carrara).
— Gaetano Consigiò, Per la verità e per la giustizia (Sul presente conflitto europeo). Centesimi 20.
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NOTIZIE
L’Opera Pia Elisa Crema amministrata dalla Congregazione di Carità del Comune di Firenze, ha bandito un concorso per un premio di lire cinquemila da darsi all’autore di un libro diretto a migliorare la condizione materiale e morale della classe povera in Italia.
L’Opera sarà inedita, di autore italiano, scritta in buona lingua italiana. All’autore del libro premiato ne è riservata la proprietà letteraria. Esso, purché abbia conseguito l’intero premio, avrà l'obbligo di pubblicare il suo lavoro entro un anno dall’aggiudicazione del premio stesso, in edizione economica e di facile diffusione. I principi di morale, a cui l’opera sarà informata, dovranno riuscire applicabili a qualunque Società civile, senza distinzione di culto. Saranno esclusici libri di morale sotto forma di manuali e catechismi, e saranno preferiti i libri popo-ari, che dimostrino la morale in azione, ed in modo facile e dilettevole ammaestrino i fanciulli ed i giovani nell’esercizio dei loro dovéri di qualunque specie, in tutte le condizioni della vita.
I lavori dovranno esser presentatici Segretario della Congregazione di Carità di Firenze entro il mese di ¡febbraio 1916.
Le altre condizioni del concorso resultano da apposito bando pubblicato in tutto il Regno, e di cui si potrà aver copia,’frivolgendosi alla Congregazione di Carità di Firenze.
— L’editore Sandron di Palermo ha pubblicato la traduzione ital. del i° voi. dell’E/f-ctclopedia delle Scienze filosòfiche diretta dal Windelband e da Arnold Rüge.
j»w— L’editore Zanichelli ha Subblicato il discorso che R. iondolfo tenne nel febbraio dell’anno passato all’università di Bologna su Francesco Acri e il suo pensiero.
A. nulla giovano anche lé lagrime e le imprecazioni. Quelli che stanno laggiù si difendono con probo, eroico, tedesco coraggio c con la buona coscienza, ^che è la migliore armatura che possa avere un esercito. E volontà di Dio che voi perdiate la vostra vita in questa lotta: a lui obbediscono c danno il loro sangue coloro che tu rimpiangi. Vuoi tu essere meno coraggioso di loro nel; l’obbedire? Vuoi tu essere degno del morto? Compi allora il tuo sacrifizio nel nome di Dio. E dóminati cosi che tu possa compierlo senza amarezza, semplicemente perchè così dev’essere.
Può anche darsi che il sacrifizio di coloro 1 quali rimangono a casa sia maggiore e appena ci sia da rimpiangere un morto. Laggiù, soffrono alcune settimane, forse alcuni giorni, poi entrano con eroismo nella mischia e cadono; qui invece è un lungo lutto, una lotta di anni, un dolore di tutta la vita!
Ma così vuole Dio! Questo è il tuo destino. « Non sottrarti alla correzione dell’onnipotente »(Giobbe, 5,17)« Tuttavia, è stata veramente la volontà di Dio che scoppiasse una simile guerra mondiale? Come si concilia ciò con la fede nell’amore, nella misericordia, nell’onnipotenza di Dio, con tutto ciò che noi abbiamo appreso di lui, e che è cosi bello a dire e a credere, prima che sopravvenga la grande necessità e la grande amarezza. Come si concilia con questo, tutto ciò che deve succedere in una guerra? Può Dio contemplare tranquillamente gli uomini mentre piombano a migliaia ?li uni adosso agli altri, decisi a ferire o a uccidere avversario? ».
L’autore risponde che tutto, anche le cose cattive come la tempesta o il terremoto, e le cose incomprensibili, come la morte di Gesù, servono a Dio per governare e per condurre il mondo ai suoi destini. Noi dobbiamo tacere e aver fiducia in lui. Poi continua: « La vita deve essere data nella morte, perchè essa possa ridiventare vita. Il grano di frumento deve essere introdotto nella terra e morire; cosi soltanto può dare molti frutti.
Lo stesso metodo Dio segue anche col nostro popolo e con te in particolare. Molto deve essere sacrificato, e il migliore viene dal cuore. Denaro e beni, forza e felicità..., non si può più contare quanto di tutto ciò in poche settimane sia andato perduto. Ma il più grande sacrifizio è quello del sangue. Noi dobbiamo compierlo, affinchè possiamo conservare la nostra vita come popolo, e per raggiungere anzi un grado più elevato della nostra storia. Se Dio non avesse in mente di fare con te qualche cosa di buono, egli non ti avrebbe chiesto il grave sacrifizio. Egli ti vuole nella maggiore profondità per poterti portare nella maggiore altezza. Come avverrà ciò? Questo lascialo fare a lui. Sta zitto e non parlare di ciò; obbedisci come Gesù obbedì quando per il nostro amore e per il nostro bene sacrificò la sua vita ».
Scritti popolari dell’« Alleanza Evangelica».
1/Alleanza Evangelica (Ber evangelische Bund) di Berlino è venuta pubblicando una serie di scritti popolari dedicati alla grande guerra (Volksschriflen zum
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LA GUERRA
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grosse)/ Krieg). Tra questi sono da segnalare, una raccolta di « Canzoni tedesche per il soldato » (n. i), fatta dal parroco Kremers di Bonn; una raccolta di - Preghiere per il tempo della guerra », fatta dal professore Martin Schian, di Giessen (n. 3, 4 c io), nonché una « Predica per la guerra >• di Lutero edita dal D. Al-brecht, di Naumburg a. S. (n. 6).
11 prof. Schian ha anche pubblicato: « Pensieri all’ospedale » (n. 9), specie di soliloqui edificanti di un ferito, reduce dalla guerra.
Da questo scritto riproduciamo i due capitoletti seguenti:
E il Cristianesimo? (pag. 4). — Cosa sarà a Natale? Dovranno le campane annunziare: pace sulla terra! mentre infuria la guerra?
• Da 19 secoli il Cristianesimo predica: pace, pace, amore. E gli uomini vivono invece di dispiaceri, di guerre, di-odio. Dovrà essere sempre cosi? Non dovrebbe la Cristianità unirsi, fondare una grande alleanza di popoli, costituire un tribunale che decida di tutte le dispute, e introdurre una polizia che tenga a bada i popoli irrequieti? Non dovrebbe essa aver cura, per parte sua, perché un simile incendio di popoli non possa verificarsi. Non dovrebbe essa contribuire perchè la oace. regni infine realmente sulla terra?
Certo, essa lo dovrebbe. Essa lo tenta anche. Si erano stabiliti già degli accordi, per evitare le guerre o per lo meno per mitigare i loro orrori. Il successo non pare sia stato tanto piccolo, sino al 1914. Allora tutto il lavoro fatto in questo campo ùi annientato. E si disse: questa è la bancarotta del Cristianesimo.
Chi seriamente riflette, può affermare questo non senza qualche ragione. La Cristianità non è effettivamente tale quale dovrebbe essere. Altrimenti simili guerre sarebbero impossibili. Ma chi vorrà essere giusto, dovrà anche considerare che la pace tra i popoli costituisce il più grande, il più prezioso compito che sia su tutta la terra. Ci possono essere quindi molti pacifici tra i popoli; i non pacifici s’inferociscono nella lotta. Per cui, un intiero popolo, come il tedesco, può volere la pace e nient’altro che la pace, e pure non potrà vivere in pace, perchè ciò non piace ai suoi cattivi vicini. Per cui, un imperatore, come il nostro, può aver cura della pace per più di un quarto di secolo, e deve infine metter mano alla spada, se non vuole abbandonare senza difesa il suo popolo agli attacchi nemici. Non dob biamo essere quindi ingiusti verso la Cristianità. C’è in essa molta seria volontà di pace, e molta ardente nostalgia della pace. Soltanto, certo, una tale volontà non esiste ancora da pertutto e non domina ancora ogni altra cosa.
Non è quindi giusto parlare di bancarotta della Cristianità. Sarebbe poi certamente falso parlare di bancarotta del Cristianesimo. Il Cristianesimo lavora.'Esso ammonisce: pace sulla terra! Esso lotta contro l’odio e l’invidia. Esso tenta di istillare l’amore nei cuori. Ed esso ha già, in questo campo, da registrare parecchi
Nel fascicolo precedente abbiamo riprodotto in questo cantuccio (pag. 165) un brano d’una lettera d’un sacerdote fedele amico di Bilychnis, il quale vorrebbe avvenisse « una intesa tra quanti lavorano per la purificazione del sentimento religioso »... ecc. Noi lo invitavamo a sviluppare il suo pensiero, ed egli così ci risponde:
« Egregio Professore,
« Elia mi chiede « che cosa io intenda per purificazione del sentimento religioso » e « come possano lavorare insieme per essa uomini d’ogni confessione ed anche di nessuna confessione ■ poiché io ho rilevata la necessità di un lavoro comune e concorde inteso a promuoverla efficacemente.
■ Da anni parecchi io scrivo in Riviste che s’occupano di studi religiosi e che agitano il »roblema o i complessi pro->lemi a cui il fatto religioso dà uogo, e credo che da quanto io »0 scritto sia pubblicando lavori miei, sia recensendo scritti o libri d’altri sia stato facile a chi abbia seguito il mio lavoro in qualche modo rilevare il mio pensiero.
« Per compiacere a lei non mi resta che riassumerlo.
« 1. Presa la voce religione nel suo significato nativo: «raccoglimento, attenzione delicata scrupolosa (da relegere), essa sarebbe data all’uomo da uno
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specialissimo senso che gli permette di cogliere le vibrazioni delicatissime d’una voce che è portata sopra l’oceano della vita. Squisitissima facoltà dell’anima essa sarebbe ben distinta dalle religioni o teologie formate dagli uomini speculando ossia costruendo sui dati semplicissimi del senso religioso.
« 2. Chiamato sentimento religioso il «lato più semplice del senso religioso più o meno sviluppato nelle anime è chiaro come, al formarsi ed al rinsaldarsi di esso siano estranee e la teologia e la filosofia egualmente. La natura lo dà alle anime, a certe anime; l’uomo, lo creda necessario a molte (la parola necessario è ad ogni modo da pronunciarsi con riserva e da riferirsi ad uno speciale, transitorio stato dell’umanità) oppure utile può e'deve lavorare a purificarlo, liberando il suono genuino che gli dà la natura — il mandato di Dio — dalle creazioni artificiali — le ingombranti tradizioni degli uomini —. Per questo ideale noi cristiani sappiamo che ha lavorato Gesù.
«3. Codesto lavoro si può compiere in molti modi e molti uomini possono cospirare ciascuno per una parte a compierlo.
» a) Proclamando (e dimostrando) la impotenza d’o-gni filosofìa a fare religiosa una anima.
« b) Ammettendo che nessuna rivelazione Dio ha fatto di sè a noi presa la voce nel suo significato tecnico, teologico. E concedendo invece che tutte le, rivelazioni sono rivelazioni di Dio in senso lato cioè che esse diedero alla umanità il miglior senso di Dio di cui o per progresso di cultura o per migliore attitudine d’una speciale stirpe a riceverla essa era capace.
« c) Ritenendo che conoscere e amare Iddio non è se non
bei successi. Il fatto che oggi regna la guerra, desta in noi il desiderio che il Cristianesimo possa avere un successo maggiore. In tutti i popoli, in tutti i cuori, deve esso portare più amore, perchè l’avidità, rinvidia, l’odio spariscano, e dimori cosi la pace. Questo è vero: il Cristianesimo non ci ha potuto preservare dalla guerra mondiale. Che ne consegue? Che il Cristianesimo non vai più nulla? No; ma che il mondo, noi tutti abbiamo maggiormente bisogno di Cristianesimo ».
La Germania ha la coscienza pura (pag. 6). — « Quando l’imperatore, al principio della guerra, inaugurò, il 4 agosto, il parlamento tedesco, come ognuno sa, pronunziò le parole seguenti: « Nella necessità più assoluta di difenderci, con la coscienza pura, noi mettiamo mano alla spada ». A molti può sembrare un delitto, qualora si ponga la questione, se egli avesse avuto ragione. Ma un esame serio non può far male. La nostra convinzione lo rende necessario.
Se l'imperatore avesse pensato, che noi tedeschi nell’insieme e in particolare fossimo eccellenti individui, i quali mai abbiamo menomamente turbato le acque, egli avrebbe avuto torto. Noi siamo gente onesta. Noi non vogliamo durante questa guerra apparire come se fossimo senza macchia. Anche durante la pace, più d’uno aveva sinceramente pronunziato assai severi giudizi riguardo parecchi mali del popolo. E non si trattava di bigotti e di pessimisti! Ci andava tutto bene, troppo bene. E che tutto ci andasse bene, sembrava a molti la cosa principale. Cosi le qualità più onorevoli e la semplice modestia cominciarono a soffrirne. Più tutto ci andava bene e più noi consideravamo Dio come un eccellente uomo nel cielo, a cui più d’uno ancora badava appena. Tutto ciò però chiamava vendetta; gli antichi buoni costumi degeneravano. Non dapertutto nè presso tutti. Non intieramente. Ma ciò si poteva osservare molto chiaramente; specialmente nelle grandi città, ma anche nella campagna. Però l’imperatore non volle assolutamente dire che a noi tedeschi nulla si potesse rimproverare. Egli volle solamente dire che noi, in questa guerra, non avevamo nessuna colpa. E in ciò egli ebbe certamente ragione. Tutti i fanciulli, da noi, sanno come sia scoppiata la guerra. La Serbia, per le sue annose provocazioni contro l’Austria doveva essere punita, ma la Russia la protesse contro queste punizioni. Essa armò rapidamente anche contro di noi; cosi che noi dovemmo pure armare. In questo modo la guerra è scoppiata; le sue cause però sono molto più profonde. Intorno a noi, i popoli si erano collegati, per abbattere il nostro impero tedesco. Antiche e nuove inimicizie, a cui noi non avevamo fornito altro pretesto se non quello della nostra esistenza e della nostra prosperità, hanno provocato l’enorme incendio. Di ciò noi siamo realmente innocenti, assolutamente innocenti. Ecco perchè abbiamo effettivamente una coscienza pura.
E ora è necessario vedere, come e quanto questa pura coscienza valga per noi tedeschi. Grazie a Dio noi
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non siamo un popolo senza coscienza: in noi parla chiaramente la nostra coscienza; noi non oseremmo intraprendere cosa alcuna se la nostra coscienza ci dicesse di no. Noi possiamo a buon diritto condurre questa guerra con buona coscienza. Noi dobbiamo essere lieti: la Germania ha una coscienza pura. Dio sarà quindi con noi ».
La guerra e gli amici della pace.
Questo scritto postumo d’un parroco protestante che fu attivo pacifista, lo Zurhellcn, stampato nella Frankfurter Zcitung, n. 310. 1* edizione del mattino, fu composto « sotto le prime impressioni della guerra » c spedito alla tipografia per mezzo di una lettera da campo poco prima della sua morte.
« La guerra mondiale rappresenta naturalmente per i pacifisti una speciale amarezza. Essa appare come la più forte confutazione della loro fede in un grande ideale di una comunità di popoli e l’annientamento della loro lunga attività. Ciò che essi avevano costruito, collo svolgersi delle cose si riduce in un mucchio di rovine, se pure non viene dimostrata falsa l’idea stessa e lo scopo dei loro sforzi. Insieme a quest’idea, anche i principi del Cristianesimo sono messi in questione, poiché essi annunziavano un amore del prossimo che non si arrestava alle fron tiere del paese, ma che includeva anche il nemico. Questa contraddizione tra l’ideale e la realtà sarà per lungo tempo dolorosamente sentita. Mentre uno di questi giorni, parlavo della guerra ai fanciulli della sesta classe, uno di essi mi osservò: • Eppure è detto: beati i pacifici ! » Ed aveva ragione. La guerra non ha nulla mutato o non deve mutare nulla a questa convinzione. Certo, ciò che nell’attività per la pace era sentimentalismo è caduto giù, come pure ciò che era un calcolo prudente d’interesse economico. Oggi è apparso chiaro a molti che sarebbe stato follia il trascurare i nostri armamenti per spirito di pacifismo, e molti rappresentanti del partito operaio internazionale debbono esser contenti di non aver potuto imporre le loro idee di disarmo e che contro il loro volere si siano fabbricati cannoni e navi. Ora tacciono anche i mormorii por il peso insopportabile dell’imposta di guerra e parecchi si vergognano di non aver fatto volontieri questo sacrificio, ora che gli avvenimenti dimostrano come esso fosse necessario.
Ora non è più il tempo dei sentimentalismi. Ogni amore di pace adesso può impedire sia il giusto entusiasmo per la guerra, sia l’energia per la sua esecuzione. Una volta che la spada deve essere tratta fuori, deve essere maneggiata con tutta la forza! Sarebbe stolto pretendere adesso che noi, come nazione pacifica, si debba limitare il nostro armamento al necessario ed evitare l’attacco. Come se tutto ciò fosse nell’interesse della pace! Appunto colui che vuole la pace, deve adesso desiderare l’energia tagliente dell’attacco, perchè la lotta venga decisa presto. Noi dobbiamo ora mostrare al mondo, che nessuno può impunemente spingere alla guerra noi.
avere della vita un senso sacro, e vedere in ogni atto di essa un sacramento e nei rapporti tra uomo e uomo dati dalla convivenza sociale un rapporto fraterno.
« d) liberando l’uomo da ogni concetto terroristico che abbia potuto pervadere la religione.
« e) Adoperandosi a restituire all’impulso religioso tutta la sua naturale spontaneità ed allontanandolo così dal pericolo dell’inquinamento farisaico della ipocrisia d'ogni genere. A tal fine chi non ha confessione e chiesa non dovrebbe cercarne altra che quella del bene e del vero. Chi può rimanere in una Chiesa lavorerebbe ad aiutare con ogni possa le anime con una cura minuta, sottile, latente, paziente a svincolarsi dalla tutela di lei, a fare da sè sforzi personali verso il bene sostituendoli adagio adagio, a gradi, all’osservanza delle leggi e delle tradizioni ecclesiastiche. Codesto lavoro è importantissimo ed io reputo sia quello compiuto da Gesù e da Paolo e quindi il più completamente e intensamente cristiano.
« f} Lavorando ad isolare il pensiero di Gesù e di Paolo dai sacri libri cristiani (Nuovo Testamento) come ad isolare il cristianesimo del Nuovo Testamento dalle dottrine delle chiese gerarchiche, come (ancora più in subordino) a ridare ai cattolici traditi dalla Volgata il testo genuino dei Nuovo Testamento.
E, per chi rimane ancora tra questi, aiutando i cattolici italiani a liberarsi intanto e subito dalle molteplici degenerazioni che ebbe a subire il catto-licismo dei Padri della Chiesa.
• g) Educando i cattolici d’ogni paese a comprendere la vergogna umana e cristiana, dell’assolutismo romano.
« Esposto questo, mi rimarrebbe a rispondere al quesito da Lei postomi per secondo.
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« Mi par chiaro che uomini d’ogni confessione possano compiere insieme codesto lavoro od una parte di esso. Gli Israeliti stessi (parlo s’intende delle a-nime religiose che indubbiamente appartengono a codesta confessione) perchè non saprebbero cooperare come noi cristiani a parecchi punti di codesto programma? lo non vedo come potrebbe ripugnare ad essi compiere il lavoro di cui ho detto al n. 2 ed al n. 3, lettere a, b, c, e. Quanto ai propositi di cui alla lettera /, io penso anzi che noi dovremmo ritenerli alleati preziosissimi nell'opera di ricostruire il genuino, autentico pensiero di Gesù e di Paolo, noi figliuoli spirituali dell’ebraismo. Ed a loro stessi non dovrebbe dare gioia intensa per lo spirito lo staccare l’opera di Gesù e di Paolo da quella della Chiesa ed avvicinarla all’ideale profetico onde fu grande di spirituale grandezza la loro stirpe?
« Non parlo d’altre confessioni (nel senso stretto) nel nostro mondo occidentale e tocco solo di passata i Teosofi coi quali sarebbe possibile intenderci su parecchi punti di questo programma: (n. 2. n. 3, lett. a, b, c. d). E poiché mi è stato chiesto non da Lei, caro Professore, ma da un altro egregio amico se per avventura l’idea Massonica non potesse per nulla cooperare in qualche modo agli sforzi cui vorrei chiamare molti e molti operai nel mondo, sento di poter confessare sinceramente da quel poco che conosco di essa, della tdea, dico (ed alludo particolarmente ad uno scritto apparso recentemente in Coenobtum e dovuto al prof. Alfredo Poggi) che anche dei Massoni sinceri potrebbero onestamente lavorare con noi. Prevedo in molti che mi leggeranno (forse in Lei stesso lo scandalo) ma io sono avvezzo dall'ora in cui ho cominciato a formarlo a
che vogliamo la pace, e perciò noi desideriamo sopratutto che le nostre palle e i nostri colpi arrivino al segno. Noi vogliamo adesso dire chiaramente, così chiaramente che non sia possibile più dimenticarlo: *« Giù le mani! ». Alla buon’ora, voi potete mettere in berlina il tedesco Michele (1), che è cosi ben disposto o così stupido da lasciarsi fare molte cose, ma si badi a non minacciarlo effettivamente perchè è pericoloso. E se voi non volete conservare la pace, perchè non volete riconoscere il nostro lavoro, la diligenza tedesca, il pensiero tedesco, voi dovete per lo meno conservare la pace, pel timore dei colpi tedeschi.
Con tutto ciò noi non dobbiamo perdere per un istante di vista che noi combattiamo per la pace, per una vitale comunità dei popoli. Noi non dobbiamo dimenticare, che questa comunità era nata e cresciuta specialmente tra i popoli dell’Europa occidentale. Esistono già, qua e là, molti fdi che ci legano: amicizia, parentela, solidarietà dell’economia e della scienza, e anche dell’ideale morale. Ciò che è nato da tutto questo si trova ora in pericolo di essere annientato, ma non deve essere annientato. Noi dobbiamo fare quanto è in nostro potere per salvare questa comunione per un migliore avvenire, e dobbiamo perciò impedire, che questa guerra apra delle ferite morali, che non si cicatrizzano, Eoichè scavano abissi che non possono più chiudersi, iò che laggiù fanno i nostri soldati, non è un nostro affare personale. Noi abbiamo buona fiducia che essi eviteranno tutto ciò che potrebbe aumentare gli orrori della guerra, che. saranno severi, dove la necessità lo richiede, ma mai inumani e prepotenti, anche quando fossero provocati. Ciò è difficile c noi non vorremo giudicare affrettatamente, qualora fosse annunziato che le nostre truppe non abbiano sempre rispettato questi confini. Ma noi vogliamo anche d’altra bar te, in ogni lettera che noi mandiamo al campo, rafforzare la loro volontà di essere umani e disciplinati. In paese noi non vediamo il nemico che quasi unicamente per mezzo dei prigionieri, che vengono portati qui. È comprensibile che la vista di soldati francesi possa suscitare in qualcuno quasi un odio personale; questo sentimento non è però giustificato e molto meno deve essere permesso di esplicitarlo. Anche i nemici, i quali come figli della loro patria hanno sparato sui nostri, debbono essere sicuri tra noi di un’accoglienza amichevole. Questa cortesia non ha nulla a vedere con queirindegno entusiamo, di cui si è parlato, di donne e di fanciulle verso i soldati stranieri. Questo trasporto ha poco a che fare coll’amore del nemico, che è il risultato di un dominio morale su se stessi. Esso si riferisce molto meno al nemico, che all’uomo. Tutte le donne oneste si ribelleranno a questo sentimento, egualmente dobbiamo però astenerci da scortesie e da escandescenze che abbiamo qua e là mostrato di fronte ai prigionieri. La polizia non dovrebbe aver bisogno di proteggere, tra noi, gli inermi. Nè si
(1) Corrisponde al nostro Pantalone.
[Red.].
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deve fare per ciò appello al fatto che, secondo tutte le notizie, i nostri concittadini in paese nemico hanno molto da soffrire a causa delle odiosità e delle prepotenze dei popoli francese e russo. L’attitudine del popolo straniero non è una regola morale che noi dobbiamo adottare, nè noi dobbiamo anche nelle mutate contingenze di quest’epoca di ferro, ritornare a uno stadio di morale, da noi già superato. Non vige da noi la legge del taglione: occhio per occhio, dente per «lente. Peggior danno non potrebbe arrecarci la guerra che questo scatenamento in noi della natura animale con tanta difficoltà addomesticata. La più brillante vittoria non potrebbe compensarci di questo danno. Noi crediamo alla nostra vittoria, perchè crediamo alla bontà della nostra causa. Noi perderemo il diritto morale alla vittoria, se non affermiamo adesso la nostra altezza morale, e se realmente desideriamo la pace futura, dobbiamo aver cura che tutti i nemici, che, durante questo periodo, vivono tra noi, ricevano l’impressione, che il diritto sta dalla parte nostra, perchè noi stiamo dalla parte di una cultura veramente umana. A me pare che il modo, con cui si manifesta l’odio contro tutto ciò che è francese, inglese e russo non sia meno insensato e indegno dello scimmiottare senza discernimento gli altri. È certamente un bene, che noi abbiamo aperto di nuovo gli occhi al fatto come molti tra noi diventino ridicoli quando fanno mostra di nomi e di forme straniere. Ciò costituisce. una irfenzogna che serve a<l acchiappare gli ingenui, un’indegnità se esso dà l’impressione che noi siamo convinti che solo gli altri sono e fanno qualche cosa di buono. È già un bene appiccicare delle insegne, ma è vergognoso che se ne siano dovute appiccicare tante, e che ci siano stati molti i quali credono che il prodotto del lavoro tedesco debba aver maggior valore qualora esso porti un nome francese o inglese.
È bene che la guerra ci abbia di nuovo insegnato ad apprezzare il nostro proprio valore, cosi che noi osiamo di nuovo essere e dirci tedeschi, perchè noi lo siamo. È puerile però la maniera con cui oggi tutto quello che ricorda il nemico viene combattuto e disprezzato. Secondo taluni anche ciò che è realmente il risultato del lavoro e della cultura straniera non dovrebbe più essere riconosciuto come tale: non si deve più parlare e non devono più esistere pizzi di Bruxelles, stoffe inglesi e pelliccio russe: ci saranno soltanto «lei tappeti turchi, perchè i turchi stanno dalla nostra parte. Forse presto non bisognerà più leggere Shakespeare o interessarsi di Tolstoi. Tutto questo non è soltanto puerile, ma è anche odio cieco e certamente non apre nessuna via ad una pace futura. È stato da lungo tempo un privilegio del nostro popolo quello di possedere un ampio sguardo e il senso della giustizia. Noi riconosciamo il bene dovunque esso si trovi, e lo prendiamo, poiché possiamo sopportare benissimo quello che è straniero, «»sedendo noi abbastanza forza per assimilarcelo.
er noi Shakespeare, Molière e Ibsen sono poeti tedeschi. La nostra letteratura tedesca è in. buona parte una letdire chiaro il mio pensiero ed ascrivo lo scandalo (se mai) al fatto di non visare diretta-mente loro la idea ma le possibili corruzioni di un corpo che la incarna e la attua. E per questo non temo di esprimere alta e chiara la mia tesi io che so di quali odii anticristiani sia responsabile la mia Chiesa, quella che pretende di incarnare a preferenza d’ogni altra tra le sorelle cristiane l’idea di Gesù.
« Il quale potrebbe bene, io penso chiudendo, essere davvero per quanti uomini lavorano per un puro ideale da porsi al disopra delle volgarità e delle asprezze «Iella vita e per il senso della fraternità umana più stretto ed intimo in esso, essere, ridivenire. Signore: Signor Nostro!
< E perchè escludere dal cooperare con noi c con Lui anche uomini che non hanno confessione religiosa e che fuori d’ogni chiesa e d’ogni società religiosa o mistica o idealistica quando ad essi non manchino uniti — è impossibile disgiungerli praticamente — codesti «lue ideali che sono dei cristiani, dei positivisti, dei monisti idealisti. perchè ?
« Ah non vogliate chiamarli, fratelli miei cristiani o comunque credenti, degli atei'. Non ci sono senza Iddio se non gli uomini che hanno chiusa la mente ad un’idea cui informare la vita, che sono dei puri gaudenti, che non amano nulla al mondo fuori dell’interesse cieco cui servono, nè il bene, nè il vero, nè il giusto: che vivono accanto ai fratelli senza sentire il vincolo sacro che ci lega tutti uno ad uno e tutti in un corpo solo, soltanto questi e forse sono pochi, tra gli uomini colti, speriamolo almeno! Ma come qualunque anima religiosa è cristiana anche senza il battesimo cosi ogni anima buona ha una « religione » che può essere migliore della nostra se sa
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convertirsi più che la nostra in noi in calore, in vigore di vita ed ogni « religione » ha un Iddio cioè tutte hanno un solo, un’unico Iddio che conviene a noi piccoli uomini avvolti nel mistero non cercare, ahimè, proiettando nell’ infinità dello spazio e del tempo qualche cosa della personalità nostra ma adorare, piccoli esseri immersi nell’oceano della vita, meschine intelligenze smarrite tra le menzogne che in Suo nome si sono accumulate pel mondo, adorare nell» spirilo e nella verità.
« Mi compatisca dove lo merito, caro amico, e mi creda
« Suo sempre aflmo ».
Il nostro ch.mo abbonato prof. Mario Puglisi ha tenuto Sresso la Biblioteca Filosofica i Firenze, il 14 e il 21 marzo corr., due lezioni sul tema: Il Problema Morale nelle Religioni Primitive. Per sua cortese concessione, di cui lo ringraziamo vivamente, verranno pubblicate in Bilychnis.
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Il dr. Delio, noto ai nostri lettori per i suoi scritti fatti di franchezza cristiana, ha ripreso l’interrotta collaborazione inviandoci alcune belle e buone pagine su L’autonomia della religione.
a a A
Nel prossimo numero pubblicheremo uno scritto del prof. Felice Momigliano su La guerra c gli Ebrei Russi. Secondo la nostra promessa diamo nel foglio rosa questa volta una parte del materiale tedesco riguardante la guerra e la religione. Nel numero di aprile toccherà alla Francia. Da due nostri collaboratori abbiamo ricevuto raccolte molto interessanti di Preghiere della guerra che pubblicheremo presto. Da
teratura mondiale e noi non vogliamo lasciare strappare questo privilegio a causa dell'odio appassionato contro lo straniero, che si è sprigionato dalla guerra mondiale. Noi crediamo alla possibilità della comunione della cultura tra i popoli, e sappiamo che solo su questa comunione della cultura può essere edificata una pace mondiale. Niente è perciò più pazzo e più dannoso dcl-l’insistere su questo orrore per tutto ciò che viene dallo straniero.
Incomprensibile mi appare quello che è stato detto sopra la necessità e la santità dell’odio. Per quanto sia santa la passione dell’entusiasmo nazionale, per quanto sia giusta la collera dei nostri soldati e di tutto il nostro popolo, pure l’odio mi sembra, come esso ci è stato trasmesso da parecchie poesie di cento anni fa, nè santo nè necessario. Certo esso è comprensibile dopo tutto ciò che noi abbiamo udito sui precedenti di questa guerra e su tutto ciò che ne è derivato. Ci è apparso, in una maniera spaventosamente significativa quanto poco profondamente sia penetrata la cultura morale a est e ad ovest, ed al pensiero che il nostro popolo potesse cadere sotto le barbarie russa e la menzogna francese, ci prendeva certamente una veemente collera. Ma l’odio, che si esplica in desideri che vanno più in là del desiderio di una pronta vittoria delle nostre armi, quest’odio è il veleno che rende eterna la guerra dei popoli, e da questo dobbiamo noi guardarci. - No-blesse oblige », e come noi ora come mai siamo fieri di essere tedeschi, fieri, perchè la nostra superiorità morale ci si mostra anche più chiaramente di quel che sperassimo, così dobbiamo anche esigere da noi stessi d’essere capaci di erigere una solida diga contro la passione. Noi abbiamo qui soltanto il compito di tenere in ordine la casa c i beni dei soldati che ritornano, ma più importante di questi beni materiali è l’eredità spirituale e morale, che noi vogliamo difendere, in modo che non possano subire pregiudizio c danno. Io penso che è questa l’occasione per un pacifista di mostrare che egli non è solo capace di entusiasmarsi per una bella idea, ma che è anche pronto a risponderne anche personalmente. Questa guerra non ha nulla mutato nell’idea della pace: essa però offre agli amici della pace compiti intieramente diversi ».
La guerra mondiale e la religione universale.
Sotto questo titolo Teodoro Holmberg di Stoccolma, rinomato scrittore svedese, pubblicò un notevole saggio di cui traduciamo alcuni frammenti, riprodotti dal periodico tedesco Die Christliche Wcll (Il Mondo Cristiano) uno degli organi più autorevoli della Chiesa Evangelica (numero del 17 die. 1914, pag. 1 no-mi). L’Holmbcrg scrive:
«La fede cristiana festeggia in questo momento la sua rinascita, che ringiovanirà e feconderà certamente l'umanità e la cultura. Non si tratta di un esercito di soldati mercenari che combattono al di fuori, mentre il popolo sta da lontano a guardare: è tutto il popolo
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Un servizio religioso al campo degli Scozzesi.
Un libro di preghiere che ha salvato la vita ad un sottufficiale tedesco.
La Morale della guerra. - È questo il titolo d'una serie di cartoline illustrate edite dal Sig. V. Marroni (Via Simmachi. 6. Roma). Le prime sei. disegnate con maestria dal prof. Arnaldo Carnevali, vengono spedite franco raccomandate contro vaglia di L. 0.50 diretto all'Editore. Diamo qui la riproduzione in piccolo di tre di esse.
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[1915-1111 nmg|
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in armi, che combatte, sanguina e soffre, e la conseguenza di ciò è una prova generale del poplo, una purificazione generale, una concezione ancora più elevata e più seria della vita. Dopo la guerra i confini del regno di Dio si allargheranno e a suo tempo le razze della terra in più largo ambito sentiranno di formare una sola umanità.
La Francia e la Germania ci offrono numerose testimonianze, le quali mostrano come, nel sentimento dei giovani e dei vecchi, sia cresciuta la forza della religione. In Francia, la patria del libero pensiero e dell’ironia. il popolo, che più a nulla credeva, comincia di nuovo a cercare un conforto nella religione. Migliaia di preti cattolici soddisfano il loro dovere militare nelle fila dei combattenti e compiono sotto le spoglie del soldato la loro missione sacerdotale. Centinaia di cappellani militari sono inviati e mantenuti dalla Chiesa Cattolica; poiché lo Stato francese, il quale nel 1905 si separò dalla Chiesa, non si è affatto curato dei cappellani militari. Fra i soldati francesi malati, feriti o moribondi, molto grande è il bisogno di un’assistenza e di un conforto spirituale. Questi servi della Chiesa, che si sacrificano spontaneamente, si trovano sulla linea di battaglia, ed accanto al letto dei malati. I monaci espulsi ritornarono, appena la patria ebbe bisogno di loro, e gii uomini politici, i quali erano saliti al potere a causa della loro ostilità di fronte alla fede e alla Chiesa cristiana, non osano ostacolare i monaci e i fedeli nel loro compito consolatore presso i giovani combattenti. In più largo ambito, si riconosce la verità delle parole episcopali: « Certamente, la Francia ha meritato la punizione, di cui essa ora soffre, a causa della sua indifferenza religiosa sempre crescente, per la sua smisurata tendenza alla dissipazione, per la sua avidità di piaceri e di divertimenti, per il suo ateismo ».
I critici del radicalismo annunziavano pochi anni or sono che « la scienza aveva smorzate tutte le luci del cielo », e ora si vede con stupore che esse ardono ancora più intensamente e che la Chiesa di Francia ha ripreso con nuovo splendore la sua attività. Meglio sarebbe se, dopo la guerra, questo lavoro potesse essere concepito e esercitato nel dominio della pura religiosità, curando cioè la diffusione del Regno di Dio tra il popolo e non nel terreno politico-ecclesiastico come spesso e come per lungo tempo è avvenuto prima. La tentazione e il pericolo della Chiesa Cattolica è quello di diventare un regno potente di questo mondo. Anche la Chiesa fa le sue esperienze e impara molto alla severa educazione della guerra.
Da parecchi secoli, la religione è penetrata, in Germania, più fortemente e più profondamente, nel cuore del popolo. Ivi perciò il terreno religioso è meglio preparato e quindi più fecondo che in altri paesi. Il popolo tedesco vive adesso un veemente sentimento di crociata. Da questo scaturisce la forza inaudita, il coraggio, la volontà di sacrificio, la fiducia in Dio, che hanno elevato il popolo tedesco al disopra di tutte le miserie della vita cotidiana, di tutte le contese di partito c le avidità materiali. Una possente onda religiosa pervade
varie parti ci giungono buone parole di approvazione e compiacimento per il nostro sforzo di far conoscere ai nostri lettori lo stato d’animo, di coscienza, di mente dell’idealismo e del cristianesimo di fronte alla attuale tremenda crisi.
Continueremo e cercheremo di fare meglio.
A & &
Ringraziamo sentitamente i giovani deH’Associazione Studenti per gli studi religiosi di Napoli i quali, rispondendo premurosamente al nostro appello, ci hanno mandato due pacchi di riviste illustrate da distribuirsi negli Ospedali di Roma. Ringraziamo anche gli amici che ci hanno scritto promettendo, e attendiamo.
A A A
Avvertiamo che per avere il Nuovo Testamento della Fides el Amor al prezzo ridotto di 1 lira occorre inviare alla nostra amministrazione la lira insieme con l'importo dell’abbonamento alla Rivista. — Ed avvertiamo inoltre che il diritto alla riduzione è soltanto per una copia. Chi desidera copie in più, deve pagarle L. 1,50.
Ringraziamo sentitamente gli amici della Rivista che hanno fatto il loro dovere verso la nostra Amministrazione ed in special modo coloro che hanno voluto accompagnare l’importo con parole di apprezzamento e di augurio per il nostro lavoro.
Ad altri domandiamo... che facciano il loro dovere, versandoci l’importo di quanto ci debbono; per lo scorso anno 1914. Noi prestammo fede alla loro promessa ed inviammo loro regolarmente la Rivista. Li abbiamo sollecitati ed abbiamo atteso che si facessero
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vivi. Ancora un appello, l’ultimo e poi provvederemo.
A tutti gli altri in regola pel 1914 una preghiera perchè non tardino ad inviarci l’importo pel 1915.
Ricordino che l’abbonamento è anticipato.
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Siamo disposti ad accordare speciali facilitazioni nel pagamento ai nostri vecchi abbonati che desiderano fare ac-Ìuisti di libri presso la nostra ibreria.
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Ci giungono talvolta ordinazioni non accompagnale da relativo imporlo da parte di Eersone che ci indicano come »ro indirizzo il « Fermo in Posla ». — Avvertiamo che in Ìuesto caso non rispondiamo.
hi vuol ricevere Fermo in Posta, mandi anticipatamente l’importo dell’ordinazione.
LIBRERIA EDITRICE “ BILYCHUIS ”
Via Crcsèenzlo 2, ROMA
Richiamiamo l'attenzione dei nostri lettori sulle seguenti o-pere recentissime e di grande valore:
A Grommar of thè Greek New Testamenti in thè Light of historical Research. By Prof. A. T. Robertson, D. D. Grosso voi. in 8® di pag. 1500. Rilegato in tela. In Italia, L. 30.
Quest’opera — lodata senza riserve dai massimi rappresentanti della scienza neotestamentaria, quali il Moffattd’Ox-ford ed il Radermacher di Vienna — rappresenta il risultato di venticinque anni di studio e lavoro ininterrotti compiuti da uno dei più dotti conoscitori del greco del N. T. ! Vedi intorno a quest’opera Bilychnis, febbraio 1915, pagina 150.
in questo momento la Germania. Ciò che Bismark scriveva, durante la guerra austriaca, a sua moglie: ■ Ci deve essere assolutamente un fondo di timor di Dio, tra noi, in ogni uomo comune », ciò si verifica oggi al più alto grado. Il timor di Dio del soldato tedesco è la causa essenziale della sua forza e della sua resistenza, che egli mostra nella terribile lotta, quando sta di fronte a masse di nemici, —- egli, la cui patria, sotto il pacifico imperatore Guglielmo, ha cercato il più lungamente possibile di conservare la pace.
La morte, che bisogna guardare ogni giorno in faccia sulla linea di battaglia, ha perduto i suoi orrori. La si guarda con tranquilla attitudine. Un giovane soldato scriveva recentemente a sua madre: « Ah madre, che povera cosa è una vita umana nella tempesta di questo tempo, in cui muggiscono sopra di noi i boati dei cannoni. Colui che potè sentire, come un intiero popolo di quasi 70 milioni si sia fuso nell’ardore c nella forza di un solo e stesso deciso entusiasmo, costui ebbe dalla vita abbastanza felicità. Una cosa così meravigliosamente grande nessuno potrà più rivivere ».
Coloro che pensano più profondamente sperano che dopo questa guerra cesseranno tutte le miserevoli distinzioni di rango e di ricchezza, cesseranno le aspre contese tra materiali interessi, le dispute tra l’alto e il basso. Dall’avvenire si aspetta una vera democrazia sopra una base evangelica, serietà morale e intima concordia. Molti tedeschi si rallegrano già dell’irrompere di energie religiose e morali, che ancora dormono. Adesso, il meraviglioso si realizza: un’alta marea religiosa. Dio ha parlato e il popolo tedesco ha compreso dagli avvenimenti la sua parola severa. Chi è vissuto sinora senza Dio nei suoi traviamenti cotidiani, riflette quietamente sul Meraviglioso, che appare nella nascente e promettente primavera della vita spirituale.
Così la religione è diventata di nuovo un grande affare del popolo e dal castello e dalla capanna risuona il canto in lode di Dio e di preghiera per il suo aiuto. Si crede e si sente che il popolo tedesco è uno strumento eletto in mano dell’onnipotente ».
Nietzsche, Treitschke, Bernhard!.
« Nel n. 48 (scrive Die Chrislliche Wellh, n. 50, io die. 1914) abbiamo riprodotto da una lettera di un amico dell’America del Nord ciò ch’egli ci diceva riguardo alla disposizione di spirito delle persone colte di là: « La Germania è pervasa da una filosofia della conquista. Nietzsche è il suo profeta. Treitschke e Bernhard! ne hanno fatto l’applicazione. La Germania vuole la sua propria forza e la sua mentalità non solo E;r se stessa, ma essa vuole anche strangolare gli altri.
1 conquista è stata elevata a principio ».
Che noi vogliamo la nostra propria forza e la nostra mentalità, è giusto. Che noi vogliamo strangolare gli altri è falso. Che da noi la conquista sia elevata.a principio, è falso. Ognuno, nel nostro popolo, sa questo, e
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non vale la pena d’insistervi. Ma ci sono contro di noi tre testimoni presi nel nostro stesso ambiente. Il nostro amico americano s’indugia ancora su questo soggetto, tanto gli sembra importante dal punto di vista dei suoi concittadini colti. Egli continua cosi:
« Sarebbe una cosa molto utile, se dalla parte responsabile venisse dimostrato quale influsso Bernhardi e Treitschke esercitino effettivamente sullo spirito tedesco. Si crede che Treitschke sia la « Bibbia della Germania ». Io posso soltanto affermare sempre che non conosco una tale significazione di Treitschke. Se lei... o meglio ancora un paio di rappresentanti delle diverse Facoltà potessero rimettermi un apprezzamento esauriente sull’influsso di questi due scrittori, permettendomi di tradurlo e di pubblicarlo, ciò potrebbe avere un grande valore. Le manifestazioni di Eucken c di Haeckel e di altri non hanno indovinato il tono giusto: troppo dispetto tedesco, troppe accuse contro l’Inghilterra: troppa storia (che l’America generalmente ignora) c troppo poca morale ».
Se io non mi sbaglio, sono stati gli storici di Oxford a scoprire quei nostri tre santi. Nello scritto, con il quale i 42 ecclesiastici inglesi rispondevano all’appello dei nostri missionari, è detto:
« Se poi noi ci rivolgiamo alle altre omissioni, che questo scritto sopra la costituzione, la politica e il programma tedesco contiene, invano cercheremmo un cenno dei maestri di questi scrittori come Treitschke e Bernhardi. O ciò significa che coloro i quali hanno firmato l’appello consideravano come privi d’importanza questi pionieri e maestri, o che il contenuto dei loro libri sia così diffuso e conosciuto che non ci sia più bisogno di menzionarli. Noi non possiamo rispondere a questa domanda. Ma i fatti, quali oggi si verificano, coincidono così chiaramente con tutto ciò che si trova esposto e affermato in quegli autori che ci è impossibile almeno di separare questi fatti da quei maestri ».
Il direttore delle missioni, Axcnfeld e i suoi colleghi — tra cui i professori Deissmann, Harnack. Hermann, Kaftan, Loofs, Mirbt, Wobbermin, j>er nominare solo i teologi -— così rispondono agli inglesi:
■ Voi siete in errore per ciò che riguarda la situazione effettiva del nostro paese, se voi arguite lo stato d’animo del nostro popolo dagli scritti di Bernhardi c di Treitschke, cioè come inclinato " alla prepotenza e all’ingiustizia ... E un fatto significativo che del libro di Bernhard!, che la maggior parte di noi conosce ora per la prima volta dopo le indicazioni dell'Inghilterra, non fu stampata, secondo le nostre informazioni, che un’edizione tedesca di solo 6000 copie, mentre la traduzione inglese deve essere molto più largamente diffusa...
Nessuno ci ha insegnato in modo più impressionante come lo Stato stia sottoposto a una economia divina e che l'uso della sua forza deve essere giustificato dal proseguimento di scopi morali, come Enrico von Treitschke. Nessuno ha giudicato più severamente di lui l'avventata violazione di un trattato c la condotta frivola di una guerra. La guerra attuale non sarebbe
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The Vocabulary of the Greek Testament Illustrated from the Papyri and other non literary sources. — By James Hope Moulton D. D., D. Theol., and George Milligan, D. D. Part. I. Prezzo in Italia, L. 8,50.
Vedere cenno in Bilychnis, febbr. 1915. p. 153.
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Introduction à ¡‘Ancient Testament par Lucien Gautier de T Université de Genève. Seconde édition revue. Lausanne, 1914. Due grossi volumi in-8® di oltre 500 pagine ciascuno. Prezzo dei due voli, a Roma L. 22,75; in Italia L. 23,25.
Religione e guerra
Alle pubblicazioni riguardanti questo soggetto da noi annunziate nel fascicolo di febbraio p. 170-171, e che abbiamo in deposito, si aggiungano le seguenti:
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[Novità] Pendant la guerre, 3® volumetto, contenente queste prediche: Les Anges sur le Tombeau, de A. W. d'Aygalliers; La France nouvelle, di J. Viénot; Dans les tranchées, de W. Monod: La peine qui sourit, di C. Wagner; Nos morts, di W. Monod; Les prières non exaucées, di J. E. Roberty. Anche questo, come i precedenti duc volumetti, costa L. 1,25.
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[Novità] A. D. Sertillanges, La Vie Héroïque, Paris, 1914. Sono 20 « conferences données en T Eglise de Sainte-Madeleine, à Paris ». L. 6.50. Ecco i soggetti di alcune delle 20 conferenze: Ce que c’est que l’héroisme; Le reveil de notre foi; Notre espérance;
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La charité et la guerre; La justice vengeresse; La justice pénitente; La force d’âme; La magnanimité; La gloire des morts; La vertu mrificatrice de la guerre; .'amitié dans les luttes; La raternité d’armes; Le noël rançais; ecc.
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[Novità | \V. Monod. Le »¡ani-feste des Quatre-vingt treize. (Un cas psychologique). Paris. 1915. L. 0.50.
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(Novità) L'Eglise et la guerre ’ par Mgr. Batiffol, MM. P.
Monceau, E. Chcnon, A. Vanderpol, !.. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
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— Lettera Pastorale dei Vescovi Tedeschi sulla guerra. Trad. Ita!. L. 0,30.
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— P. A. Oldrà, La guerra nella morale cristiana. Torino 1915 L. 0,90.
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(Novità] H. Hòffding, Compendio di Storia della Filosofia Moderna, L. 5.
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(Novità] N. Turchi, La civiltà Bizantina, L. 5.
Teologia - Apologetica (Novità] Georges Fulliquet, La doctrine du second Adam; Etude anthropologique et christologique. 1 vol. in-8° di pag. 360. Genève. Paris, 1915» L. 5,30.
Sommario: Introduction. (Les textes pauliniens- D’où vient le
scoppiata, se la politica inglese fosse stata, nei suoi ultimi anni, ispirata dallo spirito di Treitschke ».
Io ho già, nel numero 46, pag. 1001, brevemente respinto questa superstizione dell’influenza dei due scrittori sull’anima del popolo tedesco. Non deve tuttavia negarsi,, che Treitschke, specialmente dalla nostra gioventù accademica (e anche ginnasiale) non sia molto letto e che per mezzo della recente pubblicazione delle sue lettere — che per i nostri lettori e lettrici non sono state davvero un cattivo dóno natalizio in quest’anno — non abbia trovato nuovi amici tra noi. Egli morì nel 1896, io stesso l'ho sentito e ricordo con gioia la meravigliosa eloquenza dell’uomo; come scrittore, come stilista, egli appartiene al primo rango; egli era per noi un educatore all’unità tedesca e al sentimento tedesco, al di fuori del campanilismo e del falso individualismo cosmopolita. Egli così operò dall’anno ’50 sino al ’90. Egli non è ad ogni modo quello spettro, che è stato foggiato al di là del Canale e al di là dell’Oceano; ma una personalità piena di raro e forte pathos morale. Bernhard!, che io ho letto appena in parte, vive, è vero, di lui. Ma Bernhardi non rappresenta per noi che uno scrittore accanto a molti altri. Sarebbe stato più tranquillizzante, se a Axenfeld c ai suoi colleghi fosse occorso, come a me, di non averlo conosciuto che adesso. Per l’estero, che voleva vederci sotto la luce della smania di guerra e di conquista il suo libro era certo un piatto caldo caldo. Oltre a ciò, eccoti infine anche Nietzsche! Significativa è la superficialità con la quale il giudizio anglo-americano ha accumuliate i tre santi: sul frontespizio del libro del Bernhardi si trova come motto una frase delio « Zaratustra » di Nietzsche: « La guerra e il coraggio hanno fatto cose più grandi che non l’amore del prossimo. Non la vostra compassione, ma il vostro valore hanno salvato sino ad ora gli infelici ». I nostri giudici non hanno bisogno d’altra testimonianza. Eppure nel volume di Bernhardi non si trova null'altro della filosofia di Nietzsche e anche Treitschke non contiene nulla di Nietzsche. E ciò che importa ancora di più: il periodo dell’entusiasmo per Nietzsche era per la nostra gioventù accademica —che qui maggiormente ci interessa — era anche per i nostri uomini e le nostre signore colte — già trascorso, quando apparve Bernhardi. Nietzsche non si compra più; tutto ciò che si è scritto sopra di lui ha perduto tutta la sua forza d’attrattiva. Quanti cadranno sul campo aventi « Zaratustra » nel loro zaino? Grazie a Dio, altre potenze e altre forze sono frattanto entrate in gioco, e di cui si parla nell’articolo di Fuchs apparso contemporaneamente. Che poi Nietzsche abbia potuto influire sui nostri governanti e sulle loro decisioni, ciò é assoluta-mente escluso. I neutri non ci trattano alla leggera. Essi ci osservano, ci ascoltano, ci tastano, a fine di penetrare nel mistero della nostra anima guerriera. Possano essi farlo ancora più profondamente. Essi non vogliono vedere le semplici cause, che ci hanno spinto a questa guerra e che ci hanno deciso ad un’unanime resistenza. Noi possiamo aggiungere anche questo ai
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fardelli di cui il destino di questa guerra ci ha gravati. Tutta la nostra stima per questi tre uomini. Bernhardt Treistchke, Nietzsche; ma veramente la guerra non l’hanno fatta loro ».
Il Dio tedesco.
Gli storici tedeschi ed austriaci hanno pubblicato, in occasione della guerra, un Manifesto nazionale, che è una raccolta di studi dovuta ai migliori scrittori tedeschi. tra cui il Marks, il Mayr, il Mei necke, l’Onken. lo Spahn, ecc. Il manifesto è stato stampato a Monaco di Baviera, per cura dei Süddeutsche Monathefte, settembre 1914.
Max Lenz, professore di storia all’istituto scientifico di Amburgo, vi ha scritto alcune pagine sul tema: Il Dio tedesco, che qui riproduciamo, integralmente e fedelmente tradotte. (Nationale Kundgebung deutscher u. österreichischer historiker, pp. 821-823):
« Il Dio della terra russa è grande», così terminò lo Zar il suo discorso ai membri della Duma e del suo Consiglio imperiale, quando tentò di giustificare gli orrori che egli aveva scatenati per mezzo della guerra mondiale.
Noi conosciamo questo Dio. È quel Dio che ha dominato da secoli Ja storia della Russia; rapina e oppressione furono sempre le sue vie, uccisione e rivolta, malizia c tradimento furono in ogni tempo i suoi strumenti di lavoro; è il Dio dei despoti e degli schiavi.
Il Dio nel cui nome l’esercito tedesco è entrato in guerra, è un altro Dio. Egli è quel Dio che lascia crescere il ferro e non vuole alcuno schiavo.
Davanti a Lui — il Giusto, appena l’imperatore chiamò ci siamo presentati pregando. A Lui, ¡’Onnipotente, tra il rombo dei cannoni, giunge il nostro « Vater, ich rufe dich » (Padre, io t’invoco). Noi ci siamo dati a lui per la vita c per la morte. E gridando di gioia, come se andasse a festa, la nostra gioventù si presentò al giudizio divino delle battaglie.
Meravigliosa, tanta possanza della guerra! Dove sono rimasti quei clorotici pazzi che in questo mondo pieno d’invidia e di guerra solevano fondare la pace eterna con languide e dolci parole? Dove i compagni blasfemi i quali esercitavano il loro spirito a rimpicciolire e a caricaturare l’essenza tedesca? Dove sonò quegli sporcaccioni i quali trascinavano di settimana in settimana, con la parola c l’imagine, la corrente di fango sopra il terreno dello spirito tedesco cosi faticosamente coltivato dai loro maestri, per guadagnare la loro ricchezza e forse anche il loro miserabile salario quotidiano? Dove tutti gli scimmiotti dei costumi e delle indecenze straniere? Dove i profeti che annunziavano già il crepuscolo degli dei al nostro popolo?
Essi sono spariti come una nuvola di fumo. E il nostro popolo si è eretto con irresistibile forza, nella luminosa armatura dello spirito di Siegfrid.
Esso ci è apparso, a tutti, come una rivelazione. Quanto pochi avevano ancora conservato la loro fiducia
parallélisme paulinien - Comparaison avec la christologie primitive). Première partie: Le premier Adam. L’affirmation religieuse sur l’homme et l’humanité - Examen scientifique de ces affirmations - Objections -Les données bibliques: les récits de la Genèse. La terminologie de l’Ancien Testament, la terminologie grecque, la conception biblique, questions non résolues - Le problème du mal: Monde pénitencier. Evolutionnisme, Education par la souffrance, Lutte pour l’existance. Péché, Evolution, Inégalités -Le péché: Chute et péché, l’hom me pécheur. Seconde partie : Jésus le Second Adam. La Naissance: L’hypothèse, contrôle de l’hypothèse - Vérification de l’hypothèse - Ce que l’hypothèse nous fait perdre-La préparation: l’enfance, l’adolescence, la conscience messianique, ecc., la tentation - Le ministère: la guérison des malades' la prédication, les disciples, la foule et les malentendus provoqués, ecc., la pers->ectivede la mort-La passion: a mort et le péché, la mort et a vie éternelle, la mort et la puissance spirituelle, là mort et la sainteté, la mort et l’amour; la mort et la solidarité, la mort et les sacrifices cultuels, le conflit entre la Justice et l'Amour en Dieu, Expiation et substitution -La Résurrelion: L’histoire et là psy oologie, l’hypothèse de la résurrection et ses appuis, le sort de Jésus.
Prediche
[Novità]. Venticinque Sermoni e allocuzioni di W. Burt: La luce del Mondo - Coraggio! -La testimonianza cristiana -La santa Cena - La Conversione di Paolo - Che cosa invece dell’anima? - Salario di peccato - L’acqua che disseta - Doveri di figliolanza -Come vivere - Tre parabole - Tutte le cose con Lui - Sul
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primo Salmo-Il battesimo dello spirito - Natale - Per la vita cristiana - Come si può vedere Gesù? - Le ultime parole di Cristo - Pasqua - Il vero fondamento, ecc. Prezzo L. 2.
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In deposito:
R. J. Campbell, Le Christianisme de l’A venir ou La Théologie nouvelle. Sommario: I. La situation présente du Christianisme et la Théologie Nouvelle. -IL Dieu et l’Uni vers. - III. L’homme considéré dans ses rapports avec Dieu - IV. La Nature du mal - V. Jésus, l’Homme-Dieu - VI. Le Christ Eternel-VIL L’incarnation du Fils de Dieu-Vili, IX e X. Le Dogme de l’Expiation -XL L’autorité de l'Ecriture -XII. Le salut, le Jugement et la vie à venir - XIII. L’Eglise et le Royaume de Dieu - XIV. Conclusion. Prezzo L. 3,75.
A A A
Edmond Stapfer, JésusChrist. Sa personne, son autorité, son œuvre. 3 voli.: 1. Jésus Christ avant son ministère - 2. Pendant son ministère - 3. La mort et la résurrection. Prezzo dei tre volumi, L. 11.
À. Causse, Les Prophètes d'Israël et les Religions de l'O-rient. Essai sur les origines du monothéisme universaliste. Volume in-8®, L. 8,50.
W. 1). Morrison, Gli ebrei sotto la dominazione romana. Voi. di pag. 360. I.. 6.
G. Prezzolini, Che cos'è il Modernismo? L. 2.
L Asioli, L’eloquenza civile e sacra. L. 3.
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Platone, Dialoghi, volgarizzati da Fr. Acri. Tre volumi L. 5 ciascuno. — Vol. I. L’Eu-tifrone, ovvero del Santo -L’àpologìà di Socrate - Il Crinel nostro popolo, a causa delle lotte irrequiete e sempre più demagogiche che lo laceravano in tutti i suoi strati, e che lo attanagliavano interiormente! Si sarebbe quasi detto che quell’unità, che noi avevamo raggiunta colla guerra, si spezzava di nuovo nella pace e che le istituzioni che ci eravamo date, dovessero solo servire per mettere in luce tutti gli istinti più grossolani e per lasciare affogare l’idealismo della politica nazionale nel contrasto d’interessi volgari.
Siamo stati uomini di poca fede. In modo commovente, impressionanete, irresistibile si vide sin dal primo affacciarsi del pericolo, qual sentimento profondo del timor di Dio fosse rimasto vivo nel nostro popolo, in tutti i suoi strati, alti e bassi, professori, contadini e operai, cristiani e ebrei, cattolici, protestanti.
Non sono stati i dommi che differenziano le Confessioni e dai quali noi deriviamo gli assiomi e i doveri ¡Militici e religiosi che vennero a galla: ma le idee e le convinzioni, che sono comuni a tutti i predicatori e filosofi liberi da legami dominatici e che valgono perciò sempre come l’idea essenziale di ogni pura religiosità.
Non l’inversione di tutti i valori, di cui i sapientoni tanto avevano favoleggiato, ma le antiche, eterne, creatrici idee: coraggio, fedeltà, ubbidienza, conpimento del dovere sin nel minino dettaglio e una fede incrollabile, trascinante come una tempesta, alla vittoria delie cose giuste.
Bismark fu un vero profeta, quando disse che i tedeschi temono Dio ma nessun’altra cosa al mondo e — in un altro suo potente discorso — che, se fossimo aggrediti, la Germania intera, dal Nemel sino al lago di Costanza avrebbe preso fuoco come una mina di polvere e che sarebbe stato dimostrato con le armi che nessun nemico potrebbe osare di misurarsi con questo furor teutonicus. Npi vecchi, che abbiamo vissuto il periodo del 1870, ci vergognarne quasi di fronte a questa fioritura e a questo splendore, mai visti, dello spirito tedesco.
Ci stimiamo quindi felici, di aver potuto vedere anche quest’epoca. Felici anche, se tutto fosse stato inutile, se lo straripare del nemico dovesse sopraffarci e la nazione tedesca dovesse estinguersi. Anche in questo caso, il nostro ultimo respiro sarebbe di gratitudine verso Dio. Poiché Dio ci avrebbe formati per essere un esempio eterno di ciò che sia la fedeltà; la nostra .lotta mortale sarebbe una predica, che risuonerebbe attraverso i secoli.
Noi non dobbiamo però essere preoccupati. Noi vinceremo, perchè noi dobbiamo «vincere, perchè Dio non può abbandonare i suoi.
La lotta degli interessi e degli ideali non può cessare tra noi. Ciò è umano e non può essere diversamente. Sono troppo profondi i contrasti nella vita del nostro popolo. Anche la lotta tra le Confessioni non cesserà nè deve cessare. Poiché questo è il destino del tedesco, di penetrare tutti gli abissi della conoscenza: noi siamo sempre stati dei cercatori di Dio e tali vogliamo rimanere. Ma le velonese forme di queste lotte, tendenti alla separazione, non ritorneranno più. Troppo prò-
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fondamente siamo divenuti coscienti del fondo comune dell’essenza tedesca. Lo splendore del presente illuminerà anche il passato; gli àuguri della nazione, tutti i suoi eroi dell’azione e del pensiero, troveranno di nuovo, come già una volta, il loro posto l’uno accanto all’altro nel Valhalla del ricordo nazionale. Sono le loro opere, quelle per le quali noi combattiamo. Sono i loro pensieri che hanno preso corpo in tutto ciò che noi chiamiamo: patria. Con le loro canzoni, i figli della Germania partirono in guerra. Come in un volo di spiriti, le loro ombre sublimi aleggiano sopra i nostri eserciti c irrompono con essi avanti, incontro alla vittoria.
E la loro ultima parola è rimasta anche la nostra: « Dio con noi ! ».
A. D.
FRANCIA
Un discorso di Bergson.
Il 13 dicembre, all’Accademia di scienze morali e Solitiche, dell’ Institute de Franco, il Presidente, pro-sssor Bergson, parlò della Germania dedita per sècoli all’arte, alla poesia, alla metafisica, della quale Voltaire diceva: Alla Francia l’egemonia continentale; all’Inghilterra quella dei mari; alla Germania quella delie nuvole. « Allora, essa non aveva il senso della realtà; ma le sue energie municipali erano sorte, e avrebbero assicurato il mantenimento dell’ordine, senza mettere in pericolo la libertà. Però, mentre essa lavorava in modo organico, un popolo, nel suo mezzo, lavorava in modo meccanico. La formazione della Prussia fu artificiale e grossolana, e la sua amministrazione simile ad una macchina.
«Un giorno venne, in cui la Germania dovette sce-Sliere tra l’unità naturale dal di dentro e un meccanismo ell’e fatto. Un uomo si trovò ad incarnare il metodo Srussiano : un genio, se volete, ma un cattivo genio.
gli disse: ■ Noi imporremo alla Germania, per mezzo della centralizzazione prussiana e della sua disciplina ferrea, tutte le nostre ambizioni e cupidigie. Io farò firmare alla Germania un patto, quale quello tra Faust e Mefistofele ». E così fece. Fu volere di Bismarck che la Germania si sentisse sempre in continuo pericolo di guerra: la vecchia storia del mostro di Frankenstein.
« Allo spirito di conquiste militari, si aggiunse io spirito insaziabile di conquiste industriali. Finalmente la Germania dichiarò, virtualmente, la guerra a coloro di cui Bismarck aveva sollecitato l’alleanza. La Germania, avendo conquistato la prosperità materiale per mezzo della forza bruta, attribuì alla forza bruta una virtù misteriosa e divina. Allora, tutto divenne giusto e lecito per i Tedeschi: l’imperialismo tedesco ebbe la sua teoria, che non fu altro che la trasposizione in tertone, ovvero di quel che si deve fare - Il Fedone, ovvero «Iella immortalità dell’anima - L'As-sioco, ovvero della morte.
Voi. IL II Ione, ovvero del furore poetico - Il Mcnone, ovvero della Virtù - L’Alcibiade, ovvero della natura dell’uomo. - I tre ragionamenti contro i veristi: Contro i veristi filosofici - Contro i veristi politici -Contro i pochi veristi - Il Convito di Platone o dell’amore.
Voi. III. Il Parmenide, ovvero delle Idee - Il Timeo, ovvero della Natura - Dichiarazione del Timeo - II Fedro, ovvero della Bellezza.
Eccellente versione.
a a *
Romanzi cristiano-sociali di Carlo M. Sheldon: Che farebbe Gesù? (L. 2) -Crocifisso! (I.. 2).
a a a
[Occasione] Del prof. Ernesto Buonaiuti: Saggi di Filologia e Storia dei Nuovo Testamento. L. 2,50 per L. 1,80 - Lo Gnosticismo, Storia di antiche lotte religiose. (L. 3.50 per L. 1,85).
[Ottima occasioned. Pfenni-gsdorf-Gindraux, Le Christ et la pensée moderne. 1 vol. in-8® di pag. 370. Prezzo L. 6 per L. 3 (Estero L. 3,50). Som-mario: Les Religions (La jeunesse du Christianisme - Où est le bonheur? - Nature et esprit - L’idéal et le réel -Vestiges de vérité dans la mythologie grecque - La mythologie allemande - Le Bouddha, Mahomet ou le Christ? - La religion naturelle - Sa valeur). - Le Christ cl les savants (Le progrès des sciences naturelles - Le divorce des sciences naturelles et du Christianisme - Nulle contradiction entre les sciences et le christianisme - Les frontières de notre savoir - Miracles et création -Le Darwinisme et les darwi-
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nistes - Darwinisme et christianisme - Le Christ et les philosophes - Pourquoi la science a besoin de la foi). - Le Christ et les artistes (L’art est un don de Dieu - La religion de la beauté - L’art a besoin de la foi - Le Christ dans l’art moderne - I.es services rendus par l’art à la foi). - Le Christ et la Vie morale (Le naturalisme en morale - Le surhomme - La morale philosophique-La morale sans Dieu - La morale chrétienne). - La puissance du Christianisme dans l’histoire (Progrès mystérieux du christianisme- La propagation du christianisme dans le monde-La puissance sociale du christianisme - Le devoir social des chrétiens). - Rome ou l’Evangile? (Une Réformation était-elle nécessaire? - L’esprit actuel du catholicisme romain - L’ultra-montanisme - La lutte des confessions). - La vraie foi évangélique (Les maladies de la foi -La foi joyeuse - Foi à la Bible et foi au Christ - Le devoir de confesser sa foi - La religion est-elle une affaire privée? - La conservation de la foi).
A & &
Ernest Rostan, Les paradoxes de Jésus; Esquisse de morale évangélique. 1 vol. in-160 di pag. 270. L. 3.25.
Sommario: Le paradoxe de l’impossible - du possible, - de la prière, - de la confiance, -du bonheur et du malheur, -des rétributions, - du savoir faire, - de l’ascétisme, - de la haine, - du nouveau talion, -de l’homicide, - de l’amour des ennemis, - du jugement, - de la pauvreté, - de la réciprocité, - deM’amour, - de la perfection,-de la vie.
mini intellettualistici della brutalità, delle passioni, dei vizi tedeschi ».
Qui il prof. Bergson si abbandonò ad una specie di profezia retrospettiva, si pose cioè, mentalmente, al posto di un filosofo, che avesse, molti anni fa, previsto una sintesi degli eventi che oggi si svolgono. « Questo filosofo osservatore » — disse Bergson — « vedrebbe nel; l’aggressione teutonica un tentativo di far servire ai vantaggi del materialismo l’espansione meccanica della civiltà dei secoli xix e xx. Mentre l’umanità si affatica alla grande opera di spiritualizzare il meccanismo, le influenze malefiche di una potenza inferiore sta tentando resperimento opposto. Invece di spiritualizzare la materia, esse tentano di materializzare lo spirito. E un popolo era predestinato a questo compito: la Prussia, militarizzata dai suoi re, aveva, alla sua volta, militarizzata la Germania, e una potente nazione venix-a trattata come una macchina. Il meccanicismo amministrativo e militare non aspettava che la comparsa del meccanicismo industriale per combinarsi con esso: avvenuta la combinazione, ne doveva sorgere una macchina formidabile, che non aveva che da mettersi in moto per trascinare altri popoli nel vortice delle sue ruote ». Tale, per il Bergson, sarebbe il significato che un filosofo osservatore di mezzo secolo fa avrebbe dato alla guerra dichiarata oggi dalla Germania. « Ma » — la visione continua — « una crudele sorpresa attendeva la macchina. Le forze morali si rivelarono, all’improvviso, capaci di creare esse stesse una forza materiale. L’ideale della forza trovò a fronte la forza dell’ideale, trionfante. Il concetto eroico dell’onore sentito da un piccolo popolo, lo rese capace di affrontare un potente impero. Al grido della giustizia oltraggiata, dal suolo di una terra che finora si era affidata intieramente alla sua flotta sorse uno, due milioni di uomini. Miracolo anche più grande’ Una nazione che si credeva fosse mortalmente divisa, divenne una famiglia di fratelli indissolubilmente uniti.
«Da questo momento, l’esito della lotta non era più dubbio. Da un lato la macchina incapace di rifornirsi da sè di nuovo vigore; dall’altro la vita e il potere creativo che si rinnova ad ogni istante: da un lato ciò che si logora; dall’altro ciò che è immortale. La macchina resistette a lungo: poi, all’improvviso, si spezzò. Il destino aveva voluto che tutte le potenze della morte si schierassero contro la vita in questo conflitto supremo. La morte fu vinta: l’umanità fu salva: le nazioni sollevandosi dalla loro desolazione, alzarono il grido della gioia; levarono alto, dal profondo del loro lutto, l’inno della liberazione».
G. P.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Ce»i, 45
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Prezzo del fascicolo Lire 1 —