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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVD1 RELIGIOSI
Anno VII : : Fasc. III-IV. MARZO-APRILE 1918
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MARZO-30 APRILE 1918
DAL SOMMARIO: Alessandro Chiappelli: Contro l’identificazione della filosofia e della storia e pei diritti della critica - Qui quondam: Carducci e il cristianesimo in un libro di G. rapini -Giovanni Pioli : Felice Moscheles. l’artista umanitario e il pittore di Mazzini - Livio TanFANI: Il fine dell’educazione, nella scuola dei Gesuiti - Mario ROSSI : La « Cacciata della morte » a mezza quaresima in un sinodo boemo del '300 - LlCURGO CAPPELLETTI: Il Conclave del 1774 e la satira a Roma - A. De Stefano: Psicologia russa - F. Dostoievsky : La tentazione (Pagine russe trad. da Èva Amendola) - Giovanni e Ada Meille: Giosuè Gianavello (Profilo - Evocazione - Scene valdesi in quattro atti) - Emmanuel: Poemi francescani - C. Wagner: Serpenti e colombe- TRA LIBRI E RIVISTE: Rassegna di filosofia religiosa (m.) - Spirito, caratteri, effetti della Riforma (G. Pioli) - Religioni del mondo classico (G. Costa).
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RII YCHNIS rivista mensile di studi religiosi
IL/lllMJ « « « « .FONDATA NEL 1912 > > > >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI - PSICOLOGIA PEDAGOGIA -» FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE - QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELIGIOSO - LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE. REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. Dfe Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
ABBONAMENTO ANNUO: Per? Italia, L. 7; Per l'Estero, L. IO ; Un fascicolo, L. 1.
[Per gli Siali Uniti e per il Canadà è autorizzato ad esigere gli abbonamenti il Rev. A. Di Domenica. B. D. Paitor,
1414 Calile Ave, Philadclphia, Pa. (U. S. A.)].
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NOVITÀ
È uscito il 9° volume della Biblioteca di Studi Religiosi edita dal Dr. D. G. WHITTINGHILL
GESÙ DI NAZARETH
STUDIO STORICO CRITICO di PIETRO CHIMINELLI autore del voi. Il n Padrenostro ■ e il mondo moderno.
Il volume comprende i seguenti capitoli:
1. Il mondo al tempo della nascita?, di Gesù.
li. Il paese di Gesù.
Ìli. Là Madre di Gesù.
IV. Gli anni silenziosi di Gesù.
V. Là predicazione di Gesù.
VI. Le Parabole di Gesù.
VII. I principali insegnamenti di Gesù.
Vili. Gli “ agrapha99 o le parole di Gesù non registrate.
IX. I miracoli di Gesù.
X. Le riforme operate da Gesù.
XI. L’ultima settimana della vita di Gesù.
XII. Oltre la tomba.
II voi. di oltre 500 pagine si vende al prezzo di L. 4.
Rivolgersi alla Libreria Ed. Bilychnis, Via Crescenzio, 2 - ROMA.
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Anno settimo - Fascio. I1I-1V Marzo-Aprile 1918 (Vol. XI. 3-4)
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SOMMARIO:
Alessandro Chiappelli: Contro l’identificazione della filosofia e
della Storia e pei diritti della critica . . . . . . . . . . Pag. 122 Qui quondam'. Carducci e il Cristianesimo in un libro di G. Papini . >132
Giovanni Pioli: Felice Moscheles, l’artista umanitario e il pittore
di Mazzini . . . . . . ....... -...... » 14*
Illustrazioni : Mazzini nel 1862 (Ritratto eseguito dal Moscheles)
Ritratto di F. Moscheles (Tavola tra le pagine 144 e 145).
Livio T anfani: Il fine dell’educazione nella scuola dei Gesuiti . . > 148
Mario Rossi : La “ Cacciata della Morte ” a mezza quaresima in un
sinodo boemo del ’300 ......... ...... > 153
Licurgo Cappelletti: Il Conclave del 1774 e la satira a Roma . >159 Antonino De Stefano: Psicologia russa (A proposito di un libro
recente) . > 167
PAGINE RUSSE:
F. DOSTOIEVSKY: La tentazione (Traduzione di Èva Amendola) . . >170
INTERMEZZO:
Red. : Giosuè Gianavello (1617-1690) .......... » 178 Giovanni e Ada Meille: Giosuè Gianavello. Profilo. . . . . . » 179
Evocazione (Poesia) ........ > 182
Scene valdesi in quattro atti..........»183
Le < Istruzioni > del Capitano Gianavello » 204
Illustrazioni: Profilo di Gianavello (p. 178) - Rorà: Vecchie case nel centro del borgo (p. 192) - Il capitano Gianavello (p. 205) - Il fucile di Gianavello (p. 208) - Spada di Peyronnel, luogotenente di Gianavello (p. 211) - (Disegni é xilografie di P. A. Paschetto).
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Emmanuel: Poemi francescani . . . . . . . . .......................» 212
Carlo Wagner: Serpenti e colombe . ...... .... » 215
TRA LIBRI E RIVISTE:
m.: Rassegna di filosofia religiosa (XXII): Scuola, Nazione, Dio-Esame di coscienza nazionale - Umanismo e materialismo scolastico - Sant’Agostino - Messianismo slavo - Le origini della filosofia contemporanea in Italia - Bibliografia filosofica........................................ 221
Giovanni Pioli : Per il IV Centenario della nascita della Riforma (II) : Spirito, caratteri, effetti della Riforma . . ■ 227
Giovanni Costa: Religioni del mondo classico (V): Alimento degli Dei -Baal in Grecia - Cicerone - Dii pedes laneos habent - Duplicazioni di altari o di offerte - Efesto-Vulcano - Eros, e Sirena - Escatologia susiana - Eufrate - Europa - Letteratura ebraica - Martiri cristiani -Persecuzione di Diocleziano - Religione durante l’impero - Sentimento religioso pagano - Simbolo solare - Sole sullo stemma di Ginevra - Specchi màgici - Ulisse come divinità solare - Virgilio . . . » 240
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Contro l’identificazione della
filosofia e della storia e pei diritti della critica fi fi fi
A qualche tempo fra noi (e non senza risonanze ammirative all’estero) è in gran credito presso la gioventù studiosa, non ancor disciplinata bastevolmente nella conoscenza delle forme del pensiero, una direzione ideale innovatrice che riesce ad unificare la filosofia e la storia, riannodandosi in apparenza alla tradizione vichiana, e tratta alle ultime sue conseguenze, riduce tutta la filosofia dello spirito all’atto puro del pensiero, in una forma di redivivo umanismo. Noi riconosciamo volen
tieri le benemerenze grandi per la cultura italiana dei due valentuomini che fra noi più specialmente dirigono codesta corrente intellettuale: nè ci sarebbe lecito disconoscere che il loro pensiero abbia dato un impulso efficace alla curiosità filosofica della gioventù italiana, e contribuito, anzi, a formare in essa un abito di serietà intellettuale che è di lieta promessa, ancorché non sempre essi abbiano lesa la dovuta giustizia a tutti i loro maggiori e preparatori su questa via. Ma giova pur cimentare certi loro principi idealistici alla pietra di paragone della critica filosofica, indipendente da ogni preconcetto ed espeita delle forme storiche del pensiero, affinchè il loro atteggiamento, almeno apparente, d’infallibilità esclusiva non vada a far l’eco alla voce che suonò qui in Italia-dal l’opposto lido, la voce del positivismo naturalistico, espresso per la paiola, pontificale anch’essa, del venerando, e personalmente anch’egli così stimabile uomo, Roberto Ardigò (i). Altri si potrebbe indugiare nella ricerca, che pur sarebbe proficua, delle divergenze fra quei due campioni odierni del neo-hegelismo italiano; e come essi abbiano variamente cercato di correggere e d'integrare la dialettica hegeliana, discernendo le parti vive dalle morte nell'Hegelismo, e come e in qual modo, l’abito sistematico-del loro pensiero possa
(i) Mi sia lecito richiamarmi al vecchio e primo mio scritto, sulla «Morale del Positivismo secondo R. Ardigò » nella Rassegna settimanale del 1879.
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essere escito dal loro studioso amore per due spiriti così diversamente, ma pur così eminentemente critici come furono Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, della cui opera vogliono essere rispettivamente continuatori e perfezionatori. Ma poiché qui intendiamo guardare solo ai principi del loro filosofare per misurarne la consistenza e il valore, occorre innanzi tutto riconoscere che questa forma d'intellettualismo umanistico ha giovato anche a contenere efficacemente, oltreché il naturalismo oramai decadente, anche quella corrente pragmatistica e individualistica che minacciava di dilagare anche fra noi, specie nella giovine genei azione, assai proclive nel suo atteggiamento a seguire la nuova mona di un neo-romanticismo di taglio anglo-americano. Concorde con tutte le odierne direzioni anti-positivistiche e anti-naturalistiche, codesto movimento d'idee contrasta non meno alle varie forme di attivismo e d’intuizionismo odierno, come altresì ad ogni forma nuova di realismo e di pluralismo filosofico. E nemmeno presume di presentare, in forma letterariamente sistematica, una sua nuova welt-anschauung in quanto questa esprima una visione o concezione della realtà naturale: bensì mira piuttosto a risolverla in una teorica dello spirito; la quale via via poi semplificandosi si riduce in una filosofia della pura attività del pensiero, che è attività creatrice dell'oggetto suo.
Perciò si distingue anche recisamente da quello che gl’inglesi oggi usano chiamare assolutismo obiettivo dei neo-hegeliani anglo-americani (come il Bradley, il Bosanquet, in parte il Royce, e tanti altri) che vuol dare un formula ideale della totalità dell’essere, colto nella sua profonda unità obiettiva. Poiché si è come filosofi (secondo l'espressione del Fichte) quello che prima si è stati come uomini, e segnatamente come uomini di cultura, è naturale che quei due antesignani del neo-idealismo meridionale (ánche questa nota regionale ha la sua importanza se la si inetta in relazione col pragmatismo dei circoli giovanili fiorentini e col positivismo specialmente lombardo) disciplinati dapprima nelle ricerche storiche, traggano i motivi del loro pensiero dai concetti fondamentali della esperienza spirituale Che si svolge nella storia. E dico la storia:, poiché non è la vita spirituale interiore che essi principalmente consultino. La psicologia non ha parte essenziale, difatti, nella loro dottrina; poiché come scienza dei processi psichici elementari essa si allinea colle altre scienze positive e particolari, nè da per costoro altro metodo o valore da quello delle scienze dei procèssi fisici, cioè delle scienze naturali. L’esperienza psichica è sempre un’esperienza fenomenica, imperfetta, e di contenuto mutevole; nè da essa si può desumere una espressione assoluta della realtà. Se una metafisica è possibile (e non solo è possibile, ma necessaria), ella non si può fondare nè sulle scienze fisiche, nè sulla psicologia, che operano con concetti aventi un valore empirico e pratico, bensì sulla sola e piena esperienza dello spirito che è la sua vita storica. Imperocché lo spirito, che s’identifica pei neo-hegeliani colla realtà intera, non esiste se in un rinnovamento continuo, in un eterno processo dì svolgimento: e in quanto riflette su se medesimo e coglie sé nella sua viva attività, acquista consapevolezza del suo processo e diviene filosofia. Storia, in quanto rivive in sé immediatamente i fatti vissuti; filosofia, in quanto li guarda nel complesso universale della vita spirituale. Tutta la realtà è, dunque, immanente nello spirito; e bisogna bandire ogni residuo di trascendenza, o si tratti delle leggi neces-
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sarie dei naturalisti o di un ordine di verità eterne dei platonici e dei teisti d'ogni tempo, che lo spiroto debba conquistare come qualcosa di preordinato e di estèrno a se medesimo. Non si danno fatti fuori della coscienza (non questa o quella coscienza) nella loro obiettiva realtà, da ricostruire quali sono in se stessi, come vuole il positivismo storico e naturalistico: e nemmeno le idee come sistema superiore allo spiiito e loro obietto, che esso cerchi di penetrare per conseguire la verità; ma il vero è il fatto, anzi il farsi, cioè la stessa attività costruttiva dello spirito; non il pensiero pensato o la realtà pensabile (l’idea platònica separata) ma il pensiero pensante, cioè il pensiero in atto, nella sua opera incessante e progressiva; non il dato, ma la continua e perenne creazione dello spirito, che non è già parte della realtà, ma unità profonda e generatrice del reale.
Ora, a dimostrare la insufficiènza e la inconsistenza di questa dottrina, a coglierne il punto vulnerabile, non basta insistere sulla esperienza della diversità spirituale e sull’impossibilità che una coscienza empirica, cioè individuata, penetri l’altra, come dovrebbe accadere data la unità universale dello spirito a cui esse appartengono come vari aspetti o motnenti della sua vita. Si potrebbe sempre rispondere dai neo-hegeliani che codesto impedimento nasce appunto dalle condizioni empiriche che individuano la coscienza; e, come dicono alcuni spiritualisti, dall’organismo che funziona da isolatore fra le diverse anime, le quali riconoscerebbero altrimenti la loro cognazione, e tosto si fonderebbero in un’anima sola. La difficoltà nasce invece dal significato e dal valore che si attribuisce a questa stessa storicità inerente allo spirito. Perchè la vita storica è bensì condizione del suo incremento, della sua èwiàoccs come diceva Aristotele; ma è altresì il segno della forma empirica in cui si manifesta; la pròva della sua perfettibilità e progressività, ma anche della sua imperfezione: come l’Eros platonico che tende all'infinito perchè è virtualmente infinito e insieme ha ditetto e manchevolezza di ciò verso cui tende. A quella perfettibilità evolutiva non vi hanno, certo, limiti predeterminabili; e il non plus ultra non è, per fermo, la sua insegna. Ma i limiti, quantitativi e qualitativi, l’accompagnano sempre. Tende all'infinito, ma si sente finito: è infinito per diritto, ma non di fatto; e più che l'antinomia kantiana esprime questo essere suo la parola di Fausto:
Zm jenem seligen Augenblicke Ich fühlte mich so klein, so grossi
Certo, la filosofia vive nella sua storia, che è come una filosofia in azione (i): e poiché lo spirito è in sè processo continuo e perenne dialettica ideale, la sua più adeguata rivelazione è nella vita .storica. Ma è pur vero che come le varie forme della filosofia si sostituiscono l'una all’altra, perchè ciascuna integra, o, come dicono, supera la precedente, così ciascuna di esse tende sempre a dare una concezione dell’essere sub specie aeterni; ed ancorché il pensiero sia un continuo parsi e
(i) Come io dissi già nel 1887 • La cultura storica e il rinnovamento della filosofìa > Napoli; ripubblicato nel volume: Dalla Critica al Nuovo Idealismo, Torino, Bocca, 1910.
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divenire, l'ideale a cui mira è quello di una comprensione ex-temporanea della totalità reale: il iotum sitnul degli Scolastici. Il proprio svolgimento nel tempo; la ragione umana sente quasi crisma della sua contingenza empirica: ed alla coscienza assoluta attribuisce sempre la forma del semper, tibique; onnipresenza ea eternità. Per quanto si voglia rivestire quasi eufemisticamente delle sue forme grandiose, la categoria della storia si traduce in quella del tempo, che è misura e limite. Non occbire ricordare qui ranalisi critica del Bradley (1). Noi abbiamo la misura della verità e realtà nella idea d’un’esperienza perfetta; compiuta, cioè, per estensione e per intima armonia, e verso cui ogni esperienza è come una progressiva approssimazione. Ma la nostra estensione è limitata in ogni momento e grado, è la nostra armonia (riduzione del molteplice ad unità, specificazione dell'unità nel moltéplice) è sempre incompiuta. La condizione del tempo segnatamente, è quella che c'impedisce di conseguire quell'armoniosa totalità; ed è vano ogni sforzo di ridurre la legge di causalità che si disegna necessariamente nello schema della successione, o della dipendenza temporanea di causa e di effetto, al tipo del rapporto di razionalità, come nella Logica e nella Matematica, ove ogni relazione di tempo è abolita. Onde la nostra conoscenza è Storica in quanto non può liberarsi di fatto da codesta visione di antecedenza e di conseguenza, per quanto via via ridotta al minimo: ma questo esprime appunto la natura sua condizionata, e per questo rispetto anzicnè identità, tra filosofia e storia c'è perfetta antitesi. La coscienza assoluta, che è pienezza di conoscenza, non ha storia nè conosce stagioni. L'ideale della conoscenza non è il processo, ma il possesso, il zT/5|xa si; àsl; e così anche per l’arte, come cantò il Keats nel celebre verso
A thing of beauty is a joy for ever.
Il pensiero nostro perciò si aderge verso alcunché che è più del pensiero: la nostra personalità verso ciò che è più della personalità; la nostra moralità anela ad un segno più alto d’ogni morale. Nè v’ha contradizione alcuna in questo, che una natuia aneli ad una perfezione in cui essa si perde. Il fiume corre al mare, e l’individuo si annulla e s’invera nell’amore. Nel seno stesso del nostro processo conoscitivo come del processo attivo, noi riesciamo a liberare dal mutabile fluire dei fenomeni verità e forme durevoli; e questa loro consistenza e resistenza è per noi il ségno dei loro valore.
Was in schwankender Erscheinung schwebt, Befestiget mit dauerenden Gedanken.
Anziché, dunque, racchiudere in sé tutta la realtà, lo spirito, in quanto è processo e ricerca cioè in quanto è tale per sua natura come ci è data dall’esperienza psicologica e storica, ne lascia incompresa una parte di grandezza infinita. Esso è
1) Bradley, Appearence and Reality, 2 ed. 1903.
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sintesi elettiva,.e in questo senso creatore o edificatore della verità che è solo in lui. Ma questa non adegua l’infinita realtà, se non in una coscienza assoluta che non è più processo ma possesso, che è fuori della storia, perchè ricomprende la storia, e perciò anche creazione dell'assoluta verità e infinito valore, secondo la parola di Dante.
II.
I due capisaldi dell’hegelismo rinnovato sono la unità, anzi unicità, dello spirito, e la critica della così detta trascendenza, cioè della indipendenza della realtà pensabile dal pensiero stesso in atto. Quanto al primo punto, è chiaro come esso debba considerare le individualità spirituali quasi manifestazioni empiriche ed efimere, atteggiamenti o momenti o aspetti contingenti dell’unico spirito, che non hanno altra funzione se non di fissare innanzi alla mente il processo della dialettica dell’unico soggetto nell’eterno svolgersi dei suoi atteggiamenti e movimenti. Ora questo suscita un problema pressoché insolubile: come, cioè, la vita dello spirito universale possa in sè accogliere l’elemento della contingenza e il momento dell’empiria. È la difficoltà comune ad ogni forma di monismo; come e perchè l’unità del principio si franga nella moltitudine delle sue apparizioni. Non vale dire che quell'unità vive in ciascuna di esse e in esse tutte; perchè in grazia appunto di quella unità permanente, l'essere loro è accidentale e transitorio, nè si posson dire se non valori empirici e condizionati: e tanto più quanto l’unità nel mondo spirituale è più profonda, anzi la sola vera unità che si dia al mondo. Più conseguente e più sicura per tal rispetto (cioè nel dar ragione del molteplice spirituale), è la posizione dello spiritualismo obiettivo, che da Platone al Lotze, ha considerate queste forme spirituali finite come posizioni necessarie dell’assoluto o come in sè sostanziali e indipendenti, cioè aventi un valore d’indistruttibilità. L’individualità spirituale ha, difatti, un tal valore, che non consente la sua contingenza e il suo annullamento, ancorché nell’ordine gnoseologico se ne riconoscano i limiti inerenti alla sua natura; limiti sempre superabili e non mai effettivamente superati: infinità, cioè, virtuale, ma finitudine attuale, e, per così dire, concreta ed empirica.
Il che ci conduce ad un altro ordine di difficoltà critiche, attinenti al problema, irresolubile dal neo-hegelismo non meno che dall’Hegelismo, della realtà naturale, e al problema più universale della conoscenza e della verità. Se è erronea la concezione della storia, come esterna allo spirito che se la rappresenta, perchè la storia è, come in altro senso la matematica, fattura nostra, e quindi ogni conoscenza storica è un vivere un passato (erlebniss, direbbero i tedeschi) e un farlo a noi contemporaneo: se quindi la certezza storica è certezza piena e perfetta, ben altra è la condizione della conoscenza di una realtà che si conosce, ma non si crea, e resiste all’unità o unicità infinita dello spirito. L’Hegelismo ebbe il merito grande di abbandonare il pensiero astratto come mezzo per ottenere una realtà ulteriore, sostituendovi il processo vivo dell'esperienza. E poiché la funzione della conoscenza non consisteva più, ' per esso, nell’esemplarsi sopra una esistenza
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superiore, ma nell’arricchire l'attività stessa conoscitiva, così ciascun grado dell’esperienza acquistava il suo valore in questo processo evolutivo. Questo medesimo cortcetto di un processo crescente, dette modo all’Hcgel di ridurre la vita cosciente ad unità di principio, eliminando la morta immobilità che aveva regnato nella nozione del reale, e facendone alcunché di dinamico e di attivo. Per tal modo, le distinzioni che il pensiero introduce nella vita non rimangono stabili e irreducibili e congiunte solo da attinenze estrinseche, ma possono essere interpretate in relazione all’unico processo attivo ed evolutivo, come suoi aspetti o momenti. Così noi non cogliamo una unità astratta dalla varietà, ma l’unità nel molteplice: e la coscienza o lo spirito è appunto una tale unità vivente. Onde se l’hegelismo non edifica una filosofia dell'universo se non come negazione della idea o come preparazione allo spirito, riesce però a questo resultato essenziale; che le categorie hanno la loro ragione e spiegazione nella massima di essé, l’auto-coscienza: e che lungi dall’appa-garci delle categorie inferiori del mondo esterno (materia, forza, sostanza, eec.), noi dobbiamo guardare all'io consapevole come l’ultimo tipo che più adeguatamente può rappresentare la realtà, e ci muove nella direzione in cui solo può cercarsi il nucleo della natura universa.
Quest’ultima veduta costituisce il fondamento della filosofia contemporanea nelle sue forme più vive. Ma per chi risalga ai. principi del problema critico come fu proposto dal Kant, è debito riconoscere che, per la prima volta, in esso il soggetto conoscitivo fu considerato non parte dell’universa realtà, bensì presupposto d’ogni realtà conoscibile, principio a cui essa tutta deve riferirsi. Se non che il superare la dualità rimasta nella dottrina del fondatore della critica era una esigenza implicita negli stessi termini dell'analisi critica del conoscimento. I dati, infatti, da cui muove l’opera del pensiero non sono estrinseci; altrimenti l’attività del pensiero non potrebbe farli suoi ed elaborarli. Questi dati non sono la realtà esterna in se stessa, bensì le sensazioni molteplici. E perciò appunto, la coscienza è vera unità del molteplice e insieme moltiplicità dell’uno: e i raggi di questo cerchio conoscitivo, partono dal centro, che è l’unità dell’appercezione o il soggetto, e vi ritornano. Le due vie sono inverse come direzione, ma nel fatto costituiscono un solo processo, secondo l'imagine dell'antico Eraclito. E nondimeno la sintesi elettiva in che consiste la funzione vera del pensiero, sintesi che raccoglie e stringe quel molteplice in. unità, e l'unità riferisce al molteplice (totalità dell'esperienza), trova in una parte .del suo contenuto i segni d’una attinenza sua con un termine diverso da sè; nel che si distingue dall'altra moltitudine di rappresentazioni che Si riferisce direttamente al senso o esperienza interiore. L’oggetto della conoscenza è, sì, una costruzione nostra, e in questo senso è immanente nel soggetto che lo costruisce; peichè l’oggetto è il resultato o il prodotto di un’opera di selezione, o, come diceva la logica antica, di astrazione. Ogni trascendenza è, per questo rispetto, superata: dacché di ciò che trascende, per postulato, il soggetto, non si dà conoscenza di sorta. Ma non per questo il contenuto dell’esperienza si risolve tutto nella stessa funzione o processo del pensiero in atto; e il valore di verità delle idee deriva così dalla attività costruttiva di esse come dal riferimento degli elementi che le costituiscono, cioè le sensazioni o rappresentazioni elementari, ad
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una realtà che vi concorre traverso a quelli elementi primi della coscienza. Il che, si badi bene, non vuol dire ritornare al postulato kantiano del ncumero impenetrabile, o dell’inconoscibile dello Spencer. Perchè il Kant stesso non potè mai dimostrare che i fenomeni, o apparizioni o manifestazioni, non corrispondono a codesta ulteriore entità, e non sono legittime sue rivelazioni in noi. L'antitesi kantiana di noumeno e di fenomeno, non ha ragione d’essere, sì per il principio logico di contraddizione che non consente di qualificare, neanche come impenetrabile, codesta riposta realtà, sì anche (e più) perchè il conoscimento è un continuo avanzare nel campo della realtà, per cerchi sempre più vasti di relazioni: e la relazione è appunto la via che unisce i due termini fra cui intercede e che stringe l’uno all’altro in unità. Il vasto cerchio della conoscenza si dilata (o la sfera secondo l’immagine preferita dallo Spencer) nella realtà circostante e la fa sua col distendersi dei raggi che dal centro vanno alla periferia. E poiché questo ingrandimento è perenne e progressivo, così virtualmente il pensiero è infinito, e infinito anche per l’unità della sua direzione (r). Ma ncll’estendersi dèlia circonferènza, i punti di contatto della circonferenza coll’infinito della realtà circostante si moltiplicano; e là comprensione totale della realtà nell’ambito del nostro circuito conoscitivo non può mai essere in atto compiuta. La .realtà infinita eccede sempre sulle condizioni storiche, cioè empiriche ed evolutive, a cui è legata la conoscenza o l’esperienza nella forma a noi soltanto cognita, che è la conoscenza umana: e poiché quella realtà è conoscibile, cioè oggetto di possibile esperienza, così postula la sua presenza ad un pensièro assoluto, ad una assoluta esperienza in atto in cui sia idealmente e realmente immanente.
A questo medesimo resultato, che non tutto nel mondo si può ridurre all’attività del pensiero, ci conduce un altro ordine di considerazioni. L’elemento attivo e volitivo è inerente alla stessa funzione conoscitiva. Il Bergson ha messo in chiara luce questo lato attivo che l’accompagna in tutti i suoi gradi, dalla percezione elementare fino al concetto. Ora l’azione è sempre nazione; perchè non si susciterebbe attività ove non incontrasse resistenza al di fuori di sè e contro di sè. Espressione non si può dare senza impressione, e la percezione non è che la risposta del soggetto all'eccitazione ricevuta. Via via che c'inalziamo nell’ordine degli esseri, l'animale reagisce con movimenti sempre più variati, fino ad espandersi nella libertà umana. La quale è resa possibile da una visione più vasta del mondo, dal moltiplicarsi delle relazioni del soggetto con un maggior numero di cose. E nell'uno e nell’altro caso si tratta di una risposta della nostra attività cosciente ad altre attività, che non sono la nostra, ma che si continuano, per così dire, in essa: penetrazione reciproca ed azione fra le cose e noi medesimi. Se, adunque, nulla può esser compreso se non in funzione dell’attività psichica o della coscienza, questa pure, per via dei suoi elementi immediati, o della intuizione, ci mette in contatto con una realtà diversa, quella del mondo sensibile, della natura, che non è un pensante ma un pensato o pensabile. Idealismo e realismo son due aspetti d’una
(i) Questo concetto ho meglio illustrato in un articolo che presto vedrà la luce nella Revue Philosophique.
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cosa sola. Altrimenti la scienza non sarebbe possibile; e il pensiero, come il Saturno del mito antico, divorerebbe ì propri figli, o per meglio dire, l’opera sua sarebbe una autofagia. Ciò che distingue la nostra attività fantastica da quelle invarianti che chiamiamo leggi scientifiche, è appunto un ordine di coerenza e di congruenza, che l’attività sintetica dello spirito costituisce e dispiega in presenza di qualche cosa di altro da noi medesimi, a cui lo viene applicando nelle sue interpretazioni. L’avanzare della coscienza è appunto contrassegnato da questo penetrare e distinguere e contrapporre l'essere nostro a ciò che esso non è, ma al quale via via Si estende e si comunica, non per una proiezione di sè, ma per una appropriazione ed assimilazione che fa divenire quello parte di sè, come suo oggetto; dacché oggetto, non si può dare senza soggetto, cioè senza la luce che lo illumina.
ni.
Chi guarda, intanto, al fondo di questo nuovo umanismo e storicismo italiano che ogni realtà riduce all’atto del pensiero ed ogni diversità qualitativa annulla nella unità del processo conoscitivo, si accorge che, mentre per un rispetto esso riconduce ad una posizione agnostica, per un altro è una forma di redivivo panlogismo. Noi, esso dice, nulla conosciamo che non sia attività del pensiero; il problema della realtà naturale è assuido, perchè la natura non è per noi che l’idea della natura. Ma, d’altronde, l’attività del pensiero è tutto, e nulla è reale o possibile al di fuori di essa. Quindi, mentre possiamo sembrar poveii di fronte ad un’infinita realtà, rappresentata come un presupposto o un residuo irrazionale, noi siamo in realtà ricchi d’un infinito tesoro, che è il pensiero attivo. Ora il vero è in un’altra via, cioè anche questa volta nella via media. Il sapere è una funzione progressiva potenzialmente infinita; ma in atto, la sua ricchezza, pur essendo in continuo incremento, di fronte all’universo infinito è circoscritta € misurata. Non tutto nel pensiero, e molto meno nella vita, ha la sua ragione nell'umanità e nella storia: nè queste danno una risposta adeguata a ciò che noi aneliamo di conoscere intorno all’ultima realtà delle cose, ancorché nella storia e nella vita umana e nel pensiero possiamo cercare il centro vitale e, per noi, il valore vero del mondo. Se l’umanità non ha giustificazione nella profonda costituzione dell’universo, il sistema dei doveri e dei diritti, cioè il regno della moralità, non ha più significato alcuno. Mentre noi dobbiamo così postulare una realtà universale al di fuori del mondo del pensiero, che è il mondo della storia umana, dobbiamo altresì riconoscere che la possibilità del suo entrare a far parte del mondo del pensiero, cioè la sua intelligibilità attestata dalla scienza che penetra la natura e ne volge le forze ai fini della vita, è data dalla sua razionalità, cioè dalla sua inerenza in una ragione assoluta.
Ma intanto, poiché la nostra esperienza ha un carattere storico che ne determina le condizioni e i limiti (e qui ha la sua radice la religione, che è sentimento di dipendenza da un potere superiore e insieme sentimento d’infinita libertà che nasce da codesto contatto spirituale), noi riconosciamo di dover rinunciare alla infinità in atto del pensiero, che nella nostra esperienza si presenta come processo
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discorsivo, e perciò intrinsecamente cii coscritto. Nè questo resultato può sembrare sconfortevole. Chi potrebbe guarentire che tutti i nostri bisogni debbano trovare il loro appagamento lungo l’esperienza della vita? L’incompiutezza irrequieta, e l’inappagata idealità non sono elle il premio e l’impulso delle nature finite? La stessa impossibilità di chiudere in una forma di pensiero definitiva la totalità del reale, non è forse stimolo ad una indefinita approssimazione a queirideale, ea argomento per non arrestarci mai sulla diritta via del conoscimento?
Questa distinzione (che non è antitesi) tra una forma relativa, cioè storica, di pensiero progressivo, e l’esigenza di una forma di esperienza compiuta e assoluta, espressione della realtà, ci ricondurrebbe, nondimeno, a quella dualità trascendente della quale noi bensì non sentiamo il sacro orrore che oggi ne hanno tanti e specialmente i nuovi hegeliani, ma che, per fermo, non appaga il più profondo bisogno dello spirito, che è quello dell’unità. Ora codesta unità, se deve avere in sè la ragione e della realtà naturale e del processo del pensiero finito e insieme essere in se medesima perfetta e sovrana coscienza, conviene rappresentarcela necessariamente nella forma dinamica e vitale; il che vuol dire attività perenne, ma non evolutiva e progressiva come la coscienza finita, che in questa'perfettibilità rivela la propria deficienza, e si muove nel tempo e nella storia perchè non attinge l’eterno. Se non che questa eternità non è l'immobilità statica della sostanza spi-noziana o della divinità medievale, o dell’atto puro di Aristotele, .che è forma di vera trascendenza; bensì dev’essere eternità vivente (1). La vita è una categoria superiore a .quella della natura e alla.Storia: come quella che comprende la eterna stabilità dell’una e la mobilità dell’altra. In una coscienza e in un soggetto assoluto la vita, che è una stessa cosa col pensiero e col valore, non è successione di atti o momenti; perchè ciascun atto esprime una perfezione di stato che è in sè compiuta: come la pianta ad ogni momento, o come seme, o come virgulto, o come albero, è ciò che dev’essere per sua natura e potrebbe fissarsi in esso; ciò che non è dei momenti storici, ciascuno dei quali supera l’antecedente, ed è superato dal susseguente, ed ha la sua ragion d’essere nella unità della serie di cui fa parte. Vita eterna è quella che il Nuovo Testamento attribuisce a Dio; ed allinea nella stessa direzione le idee di « via », di « verità » e di « vita », significando così che la vita è via continua, e perciò appunto verità perfetta. E Dante illustra codesto concetto profondo con una serie d’immagini luminose, come « l'eterna fontana », il « miro gurge », culminanti in quello dell’elmo amore che da sè raggia perpetua-mente le creature, e si apre in nuovi amori: dove il nuovo e V eterno sembrano attributi per l'antica teologia inconciliabili ed incompatibili.
Il naturalismo riduce il pensiero ad un epifenomeno della natura materiale e del mondo meccanico: l’Umanismo dei neo-idealisti riassorbe la natura nél pensiero, e nella storia in cui esso si svolge. Solo se nella natura ricercheremo i valori che
(1) Quest’ordine di concetti che io già chiaramente proposi in un mio scritto, nella Rivista di Filosofia I 1909, ripubblicato nel mio volume cit. Dalla Critica, ecc. (1910) p. 118-133, è ora assai bene svolto dal Set Pringle-Pattison, The JdeaofGod in thè tight of Recent Philosophy, Oxford, 1917.
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si coordinano al pensiero umano e si considerano come attività continue di un’unica vita consapevole in cui ineriscono, ci sarà possibile elevarsi ad una visione superiore che in luogo di sacrificare l’uno dei due termini all'altro, li coordina in unità creatrice, da cui essi derivano la ragion d’essere e la vita. Nè in una coscienza assoluta codesta diversa forma di attività può implicare alcuna disarmonia. Perchè, se è vero (r), come già sopra notammo, che l'attività presuppone la resistenza, questa non può' applicarsi ad una natura infinita che nulla ha, nè può avere, al di fuori di sè, e che genera eternamente in se medesima. E poiché codesta suprema attività è ordinatrice di fini, così nella serie graduale dei valori che essa crea, dà a ciascuno di essi la consistenza che gli compete; onde alle individualità spirituali, creatrici o comprensive di valori in sè infiniti (il vero, il bello e il bene) non è lécito attribuire quella efìmera e transeunte realtà, che il naturalismo e l'idealismo assoluto, per opposte vie, loro assegnano nella economia dell’universo.
Alessandro Chiappelli.
(1) Come contro il Bradiey, notava il Taylor in Mind, 1910, p. 258, cfr. Hoef-fding, Religionsphilos, § 18.
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IN UN LIBRO Dl G. PAPIN1
Papini sa scrivere anche un libro serio; tutti ne son persuasi, e primo lui, che forse appunto per questo si compiace, come diversivo-, di scriverne... viceversa. Un libro serio è, per esempio, quello di cui voglio parlar qui brevemente, e ha per titolo: L’Uomo Carducci (i); libro scritto con evidente e confessato amore del suo Soggetto e cioè nella miglior disposizione per scriverlo bene; libero, e cioè senza complimenti deformatori; sciolto da pastoie bibliografiche e di criteri e giudizi già stampati
e stereotipati; personale: « m'è parso meglio, —dice il P. in una Noia — meglio che leggere intorno al Carducci — rileggermi bene lutto Carducci; libro nervoso, impetuoso, aggressivo, come ogni cosa del Papini, -ma scritto non per fare, tanto meno per strafare, e nemmeno per picca, o per passione di iunambulismo polemico, o per il gusto di prendere pel bavero il lettore e pel naso sè medesimo; tutte cose per cui il Papini ha un gran .debole.
Ho qui, accanto a L’Uomo Carducci, (perchè non « Carducci uomo »?), un altro volume suo, che appena ora ho provato a leggere (è del ’17); un volumone — one di mole — in carta a mano, o giù di lì — con la crisi cartaria, che va in truppa con tutte le crisi di tutte le cose in Italia mossa alla conquista di mezzo mondo! — con un titolone in maiuscolone pompeiano? « Opera prima ». Son venti poesie, seguite da venti ragioni, — in tutto quaranta scemenze. A lettura finita — finita dove non s’ha più riserve di resistenza per andare avanti — si riguarda il titolo: Opera prima, e si risponde: e che sia l’ultima!
« L’Uomo Carducci » è invece un volumetto — etto di mole, one di contenuto e di valore — che si divora tutto d’un fiato, e, finito di leggere, vi fa esclamare: peccato che sia finito!
Il Carducci vi è studiato così precisamente, come uomo. S'intende che l’artista, il poeta, c'entra lo stesso. Già infogni caso le due cose sarebbero state inseparabili; il Carducci poi fu come tagliato da un blocco, tutto d’un pezzo: ma insomma.
(1) Bologna, Zanichelli. Gennaio 1918.
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quello che il Papini ha voluto ritrarre, è il carattere intero del Carducci, lui, non separato dall’opera, ma lui come appare traverso l’opera. E lui c’è tutto, s'ha l’imprès-sione che ci sia proprio tutto. Noi — intendo chi conosce un po’ a fondo V opera del Carducci — dopo seguito il Papini nella suà analisi, ci accorgiamo di conoscere meglio di prima quell'uomo. Non avviene tanto spesso dopo critiche e biografie.
Volentieri mi occuperei di tutto il volumetto, ma qui non sarebbe il luogo, e scelgo un capitolo solo, l’unico che qui, in questo periodico d’un colore ben definito e sempre fedele a sè stesso, viene a proposito: La forza vindice della ragione. Il P. vi studia G. Carducci rimpetto al cristianesimo.
Mi son capitati parecchi studi e studietti sulla religiosità del Carducci, sul Carducci cristiano, e che so io. Devo confessare che tutte queste fatiche di buone intenzioni mi hanno costretto a gran scrollate di capo, a molti: ah, giusto! Il capitolo dèi Papini m'ha tatto invece gridare piò volte: Così, proprio così! E che giuste, argute, sagaci, osservazioni, radicate nel soggetto e frondeggianti al di sopra, più alto!
Comincio subito a rilevarne.
Ricordiamo tutti, anche senza essere venerandi vegliardi, le male parole scagliate a ludibrio contro il cristianismo, il sopranna! uralismo, lo spiritualismo, l’ascetismo, il maceratismo, così, tutt’insieme come un’insalata, dai seguaci e dagli adoratori e rivendicatori e glorificatori della pura Natura pura — una confusione di parole e d’idee contrapposta a un press’a poco di astrazione male appresa. Il Carducci fu della brigata. Portando in questo campo l’imprecisione ondeggiante dei suoi quasi convincimenti sociali e politici, lanciò le saette dei suoi versi e delle sue prose cóntro quei molini a vento, acceso di fieri sdegni e di spietati propositi d’ire, d’abbattere, di dissipare, di struggere. Il Papini, concedendo che il Carducci partecipò a ragione al reagire di gente sana e col cervello a posto contro l'ascetismo divenuto materialistico e idiota e ipocrite formalismo, osserva calmo: « Però, s’è scoperto, a forza d’approfondire il pensiero scorso, che la Natura non è poi sempre quella giusta e pulita deità che sembrava a cotesti ribelli dell’ascetismo »; e che se questo, nelle sue degenerazioni ha torto, ha torto del pari (se non più, dico io) chi proclama senz'altro: seguite la Natura, perchè «tZ seguir senz'altro la Natura, che c'insegna l’avidità, la strage, l’odio, il'delitto, è anche una sciocchezza». E siccome il Papini si sente investire dalla formidabile obiezione: — torneremo dunque al dogma del peccato originale? — soggiunge pronto: « Il dogma del peccato originale, spogliato delle sue impalcature teologiche, ha un fondo profondo. ... Sembra un dogma assurdo, una storiella di leviti scaltri. Traducetelo in termini razionali, e vedrete che la scienza nostra — quella che studia i primitivi, i selvaggi, i delinquenti, i bambini — lo conferma pienamente. Il peccalo originale vuol dire, in forma mitica, quel che in forma scientìfica si potrebbe enunziare còsi: l'uomo ha per natura istinti che l’uomo stesso, migliorandosi, riconosce malvagi e feroci. Il progresso dell'umanità consiste nel correggere gl’istinti animali malvagi, in noi e fuori di noi ». E conchiude: « Dunque a qualcosa bisognerà pur rinunciare: non sarà per l’appunto il cesto d’insalata, ma
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qualcosa di più grave, al quale neanche i cenobiti sanno rinunziare: l'egoismo, per esempio. Se ascetismo vuol dire ribellarsi a certi istinti bestiali e malvagi e creare in noi abitudini superiori, l'umanità, nei suoi migliori momenti e individui, Ju ascetica, cioè cristiana ».
Manca qui tutta la ragione storica dell'ascetismo, fin là dove pare aberrante o addirittura stolto e pazzo furioso: ragione Storica, identica a quella che serve a giustificare, o almeno a scusare, le esagerazioni demolitrici dei naturisti, e che si può riassumere in una parola sola: reazione: Lo seppe in parte e fugacemente lo stesso Carducci, quando scrisse che, dopo tanta carne delle vecchie età, un po’ di magro e di spirito non andava male. Iaj reazioni di qualunque genere son sempre eccessive: si tratta sempre con esse di piegare il famoso albero storto da una parte, alla parte opposta, per ridurlo alla fine diritto. E si potrebbe aggiungere che nel Medioevo tutto è eccessivo, e Che per muovere a qualche cosa i ferini animi degl’invasori barbari, e quelli efferati degli invasi degeneri, ci volevano spettacoli ferini ed efferati anch’essi la loro parte.
Ma lasciamo andare; l’essenziale nelle parole del Papini c’è, ed è una gran bella cosa che ci sia. • 1 x
0 vi par poco, per esempio, affermare così recisamente: l’umanità, nei suoi migliori momenti e individui, Ju ascetica, cioè cristiana?
Questa identità, così come l’enunzia il Papini, è stoiica; ma voi sentite implicitamente, affermata l’identità ontologica, essenziale delle due cose: fu così; perchè è così. Ora una tale affermazione la trovate in pochi, pochissimi, anche fra gli amici del cristianesimo. Pare abbiano paura di compromettersi.
E non c’è nulla di meno compromettente. Cristianesimo vero e ascetismo bene inteso, sono proprio la stessa cosa; l’uno e l’altro significano lotta contro gli elementi bestiali della nostra natura e vittoria degli elementi superiori. Perciò la identità ascetismo=cristianesimo, può esser seguita e completata da quest’altra: cristiane-simo» umanità.
Nè l’identità si restringe alle due cose nel loro senso morale.
Oltre, più alto della lotta della spirito contro la carne — direbbe San Paolo, concretando e precisando i concetti — c’è la relazione dell’umano col divino. Fondamento, supposto occulto, remoto, ignorato dai più, di cotesta lotta è questa relazione dell'umano col divinq, e forse è più esatto dire: del divino nell'umano; ma nemmeno in questo, cristianesimo e ascetismo, presi l'uno e l’altro come lotte morali per il trionfo del meglio nell’uomo individuo e per mezzo dell’uomo individuo nella società, nemmeno in questo, ascetismo e cristianesimo si distinguono: tanto l’uno che l'altro partono dallo spirito e tornano allo spirito; partono da Dio e tornano a Dio; sono tutt’insieme, adorazione pura e lotta morale; anzi, in tanto son lotta morale, in quanto sono adorazione pura, adorazione di Dio nell’umanità.
Siamo, com'è chiaro, alle fonti della vita, là dove l’umanità si protende nel divino come fiamma nel fuoco e il divino si rivela nell’umanità, e a traverso l’umanità si libera dalle strette della materia, in cui la potenza creatrice, rimanendo
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infinita in sè, è impiegata e traluce in esseri che scendono fino alla materia morta, a quella- che conviene chiamar così, morta, non ostante i nuovi trovati della scienza e questa presenza della vita in lei per farla sussistere e darle identità con sè stessa, farla essere quello che è. Non è facile trovare in uno scrittore corrente qualche cosa Che accenni alla conoscenza e alla consapevolezza di questi problemi fondamentali della vita.
Il Papini ci arriva, nè io me ne meraviglio, dato il suo ingegno, che deploro tante volte così sciupato. Il Carducci, egli afferma — ed è la verità — non potè mai (tralascio qui i motivi, i quali furono più seri, profondi e fattivi o deformativi di quelli enumerati dal Papini) non potè mai accostarsi con vera intelligenza al problema DEL CRISTIANESIMO, CHE È POI IL PROBLEMA DELLA VITA. Egli fu onesto, e probo, e amoroso nella vita, ma non .ebbe mai crisi profonde, nè fu tormentato mai da problemi spirituali ». È uno dei luoghi questo, in cui ho strillato più forte, con una curiosa maraviglia di quei di casa: Così, ' proprio così! Il Carducci, al problema della vita, non ci si accostò mai. Se avesse potuto accostarvisi, si sarebbe accostato al problema del cristianesimo. Non è detto, non oserei io affermare che in ogni caso avrebbe capito d’accostarvisi. Probabilmente, un problema, quello della vita, gli sarebbe parso lontanissimo dall’altro, quello del cristianesimo: il problema della vita un problema laico, il problema del cristianesimo un problema clericale: ma egli non si accostò mai con vera, e nemmeno approssimativa intelligenza nè all’uno, nè all’altro. Andò più spiccio: ne fece senza. E se, per forza di genio, intravide da lontano le meschite della città misteriosa, le fuggì, per paura di Medusa, non forse gl'impietrasse — non si sa mai — qualche parte della sua pratica umanità pagana; pagana, e cioè superficiale e a tanto lo staio: e non oso dir peggio, e forse faccio male. I versi famosi:
Meglio oprando obliar senza indagarlo Questo enorme mister dell’universo,
in sostanza non significano altro.
Il Papini invece, ha toccato il fondo unico dei due problemi, ed ha scritto: Il problema del Cristianesimo è il problema della vita. Affermare così vuol dire, nel cammino dello spirito indagatore, aver trascorso un bel pezzo di via!
Il Papini scusa il Carducci della sua manchevolezza più volte. « La filosofia del Carducci, scrive, per esempio, è piuttosto semplicistica e superficiale. Ed è inutile fargliene un carico: prima, di tutto perchè il fondo corrispondeva alla tempra sua di Ialino, (rispetto del corpo, idee chiare); eppoi perchè la traduzione ideologica non era sua, ma di altri. A me queste scuse non vanno nè punto, nè poco. La traduzione ideologica (del problema della vita e del cristianesimo) non era sua, ma di altri! E può un uomo, che vuol prendere certi toni parlando di certe cose, contentarsi della traduzione d’altri e non sua? Del cristianesimo, per esempio, il Carducci ne parlò più volte, e l’accusò, lo disprezzo, lo ingiuriò, senza saper che fosse e ignorando che si riduceva al problema umano è al problema della vita, contentandosi
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della traduzione corrente. È inutile fargliene un carico! Perchè inutile? Se è inutile adesso che è morto — e sfido io — e sarebbe stato inutile nel senso pratico, e cioè per convertirlo a maggior serietà d’esami intorno a ciò che si compiaceva dbvitu-perare in prosa e in versi, anche da vivo; ma è adesso, e sarebbe stato allora, se non utile, giusto fargliene proprio un carico, perchè non è lecito biasimare — e nemmeno lodare del resto — quello che non si conosce, o peggio, si conosce male. La traduzione ideologica d’altri! avrebbe Carducci letterato ammessa questa faciloneria, in un giudizio sopra un testo italiano. Carducci storico in un. giudizio sul Tre o Quattrocento? Il Papini osserva: ma questo è latino. Se fosse latino, bisognerebbe condannarlo senza misericordia, fin nei morti: e quanto a noi, spogliarcene, estirpar da noi questo cancro del latinume; altro che prenderlo come motivo di scusa in chi se l’è tenuto addosso con indifferenza, se non anche con vanto!
Ma no: star paghi a idee pxess’a poco; servirsi di traduzioni córrenti di cose su cui s’impensierirono i secoli — il cristianesimo mettiamo — per vedere se si debba ancora impensierirsene, o buttarsele dietro le spalle, amarle 0 odiarle, benedirle o farsene beffa, io so che cos’è, ma non ve lo voglio dire; di certo però, non è latino, perchè latino vuol dire, prima di tutto: galantomismo e chiarezza: e la scusa del Papini a favore del Carducci non tiene per la contraddizion che noi consente. Tale scusa infatti è formolata così: La filosofia del Carducci è semplicistica e superficiale, (e cioè raffazzonata d’idee confuse); ma di ciò è inutile farne un carico al Carducci, perchè ciò corrispóndeva alla sua tempra di latino (prima di tutto: idee chiare). La verità vera, senza eufemismi, è una sola, e dopo le scuse suggerite da riverenza, la enunzia senza eufemismi, com’era da aspettarselo, il Papini: la verità vera è questa: che « la mentalità del Carducci rimase, fino agli ultimi lucidi momenti, una mentalità massonica ».
Il massonismo (diciamo: il settarismo), più che un fatto particolare di un’associazione qualsiasi, fu per il Carducci un’atmosfera. In questa atmosfera respirò e visse e più non volle. Gli scambi grossolani, gli spropositi che inalò, respirandoci e vivendoci, sono più che suoi, di cotest'atmosfera che gli aveva stravolto, e questo per sempre, gli occhi della mente in fatto di giudizi religiosi cristiani. Vi è cosa più importante, per chi esamini l’atteggiamento' spirituale del Carducci nella vita, che la sua professione di paganesimo fatta da lui fin da giovane, senza contraddirla poi sostanzialmente mai? Or bene, egli vi spiega che intendesse per paganesimo, e cioè, oltre il culto della forma, « l’amore della nobile natura, da cui la solitaria astrazione semitica aveva si a lungo e con si feroce dissidio alienato lo spirito dell’uomo. Il Papini commenta « Quando uno mi chiama solitaria astrazione il più concreto sforzo, sia pur non riuscito perfettamente che in pochi uomini e istanti, che l’umanità abbia tentato per uscire dalla ferina e peccaminosa tirannia degli istinti, vuol dire che costui non ha capito, nè mai potrà capire i Vangeli ».
E dopo le parole del Carducci al Chiarini, in una lèttera .del 22 gennaio 1861, in cui si legge: « Del cattolicismo, già ne tratto come di cosa a me estranea, come se non fossi cattolico, come infatti non sono. Del cristianesimo parlo con grande
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indifferenza, ma con più equità (strano! Ma dunque di quell’altia faccenda ne parlava con meno equità?!), dicendo anche del bene che puf ha fatto alle lettere », il Papini ancora commenta: «Che parlando di letteratura medievale, si possa parlare del cristianesimo, cioè della crisi massima che il medioevo precede e ingenera « con grande indiff erenza » e soltanto per il bene che ha Jatlo alle lettere {conservando, m’immagino, alcuni codici d’autori clàssici nei monasteri}, mi pare, anche da parte d’un razionalista, un po’ grossa». Grossa, caro Papini, grossa, e non un po’, ma di molto. Però la grossezza era nell’aria, nella mal’aria. Chinino ci voleva. Carducci non ne voile sapere, e gli capitò come a Don Ferrante: gli si attaccò la peste e gli sfogò nel prurito di prendersela con le Stelle.
Inetto a capire i Vangeli, inettissimo a penetrare la vera essenza del cristianesimo che ne derivò (solo negli ultimi anni disse d’esserselo messo a studiare, ma anche allora credette di salvare la propria dignità di studioso sul serio, spiegando bene di esserselo messo a studiare — storicamente — così ne avrà capito qualche cosa!), il Carducci riuscì meno che inettissimo a intendere Gesù. Glie ne Sfuggì il carattere universale, e credette chi sa che bella trovata chiamarlo semitico nume (così: nume, e per giunta: semilicol); glie ne sfuggì la serenità consolatrice e incitatrice, definendolo: cruciato martire che crucia gli uomini; non avvertì la potenza rinnovatrice della sua parola racchiudente in sè, come in germe, tutto l’avvenire e il divenire sociale, e attribuì (altra,luminosa trovata!) al galileo (col g minuscolo, come per dire: meglio sacrificar l’ortografia che la profondità storica!) al galileo di rosse chiome la decadenza di Roma (decadenza da che cosa? dalla forza delle armi brigantesche e spietate di conquistatori e aggiogatori e strozzatori di libertà fortunati?) e andrei avanti per un pezzo ancora.
Il Papini su questo proposito scrive: « Per il Carducci, Gesù rimase sempre il Galileo di rosse chiome (chi sa da quale fonte storica era andato a scovare che Gesù aveva le chiome — le chiome! — rosse!) che gitlò a Roma, per jarla schiava, « l’astrazione semitica », inganno e servitù dell’Oriente.
Neanche 'ima volta gli viene in mente che Gesù potrebb’essere, almeno in questo, divino: nell’aver chiesto agli uomini l’impossibile.
E le scuse fatte dal Carducci alla contessa Pasolini delle sue invettive, anticristiane gli paiono, come sono, fiacche, inette e non vere. Alla contessa scriveva: « Confesso che mi lasciai trasportare dal principio romano, in me ardentissimo e fu troppo. Ma quasi al tempo stesso, soavi cose pensai e scrissi di Cristo... Resta che ogni qualvolta fui tratto a declamare contro Cristo, fu per odio ai preti; ogni volta che di Cristo pensai libero e.sciolto, fu mio sentimento intimo ». Il Papini domanda « Ma quando, di grazia, parlò di Cristo libero e sciolto? Le «soavi cose » della poesia per Monti e Tognetti son dette in odio al capo dei preti. E quello studiare « storicamente » il Cristianesimo ricorda « l’indifferenza » del 1861.
— Proprio così! — Nel cristianesimo il Carducci aveva sempre visto un cilicio di romito e un bastone di despota. Si potrebbe scommettere che quando si mise a studiarlo storicamente, volle rendersi conto delle fasi, varie secondo i secoli, dell’ab-
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bussarsi e del rialzarsi in auge di quel cilicio e di quel bastone, e non altro, sfuggendogli fatalmente tutta l’intima anima del fatto storico, che è storico solo perchè manifestatosi nel tempo e nello spazio con certi fenomeni esterni e prevalere e sottostare di classi e di ceti sociali, mentre è per sua natura, essenzialmente, e cioè indivisibilmente, storico ,e superstorico al tempo stesso: superstorico, perchè è tutta una evoluzione e rivoluzione intèrna di anime; storico, perchè è un complesso di concetti dinamici da cui la storia è dominata, e via via modificata; superstorico, in quanto ideale, irraggiungibile nella sua integrità, di umana e sociale perfezione; storico, in quanto uomo e società umana, solo avvicinandosi a quell’ideale, si elevano e si perfezionano; storico, in quanto si può segnare la traccia di questo elevarsi e perfezionarsi umano; superstorico, in quanto il cristianesimo affermerebbe tutto sè stesso e il suo valore infinito, ancorché non fermentasse — lievito divino umano — altro che in un’anima sola, fosse pure la più obliata o ignorata, fino se non fermentasse in nessuna, o se fosse avversato, condannato e perseguitato da tutte/
Ma G. Carducci, il cristianesimo cercava d’intenderlo storicamente!
In esso vide probabilmente sempre, quel cilicio e quel bastone, dicevo. 11 Pa-pini osserva arguto: « Ma nel Cristianesimo c'è altro: c’è la scoperta che l’uomo deve arrivare atta felicità (il regno di Dio) per mezzo dell’amore, e specialmente dell’amore per i nemici. Anzi non arguto soltanto questo identificare felicità e regno di Dio, da raggiungersi mediante l’amore: è qualche cosa di assai più profondo dell’argutezza aggiungere: e specialmente per mezzo dell’amor dei nemici. Questo infatti, suppone tale oblio d’egoismo, tale coscienza dell'unità umana, come di una famiglia, tale senso della tenuità dei nostri interessi, tale senso della fugacità della vita, che vieta di perderne gl’istanti in odiare e rivendicare, e consiglia d’andarsene quasi per mano verso la regione del mistero dei misteri Poltre la morte, tale padronanza di sè, tale dominio sulle proprie passioni, tale cosciente energia spirituale, che davvero, applicato in larga, sempre più larga scala, produrrebbe un così gagliardo fascio di forze umane, da potersi a ragione chiamare il regno di Dio, e cioè il mondo dell'operosità intensa e tranquilla, dell’onore, della pace, della felicità.
E mi contenterò di rilevare un ultimo pensiero.
Il Papini segue così: « Inteso a questo modo, il Cristianesimo si accorda perfino colla filosofia della Rivoluzione. Il Cristianesimo parte dal peccato originale... ma nello stesso tempo ammette implicitamente i due dogmi rivoluzionari: la bontà intrinseca dell’uomo e il progresso. Se l’uomo non avesse in sè anche i principi buoni — e primo fra lutti quello dell'amore — nè Cristo sarebbe sorto, nè seguito, nè tanti uomini avrebbero predicato e almeno in parte praticalo le medesime cose. Nel Cristianesimo c’è anche la fede in un perfezionamento degli uomini; anzi è questo il postulato che lo giustifica. Se gli uomini dovessero rimanere le stesse belve invidiose — i gorilla lubrici e feroci di Taine — il Cristianesimo non avrebbe senso. Ma la Rivoluzione, questo perfezionamento aspetta soprattutto dalla scienza e dalle riforme sociali; il Cristianesimo dall’amore e dai mutamenti spirituali. Queste ultime parole toccano il fondo del problema, e l’antitesi lo pone in tutta la sua evidenza. La rivoluzione aspetta il
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perfezionamento dalla scienza e dalle riforme sociali: ma la scienza è astratta e solitaria e non ha mai riformato le compagini vitali del mondo; quand’anche fosse patrimonio di tutti, non vi si potrebbe contar su come sopra un capitale utilizzabile; la scienza dice al massimo quello che dovrebb’essere, non aiuta, e meno ancora determina, aH’mére, all’azione, al fatto. Quanto alle riforme sociali: già molte volte non fanno che rovesciare il problema — nemmeno spostarlo — mettere il pigro godere, il privilegio, la tirannia dove prima era lo stento, il non valore, il soggiacere; ma seppure ottenessero momentaneamente il loro effetto, non trovando arami educati, moderati, morali, sarebbero l’edificio piantato sull'arena, che al primo impeto frana e si sfascia. Non c’è dunque da sperare nessun regno d’ordine, di giustizia, di benessere vero e per tutti, se non per via di mutamenti spirituali. Il meglio stare suppone il meglio essere, e ogni atomo di felicità, e diciamo anche più modestamente: di libertà e di dignità, bisogna meritarselo. Cambiate gli animi e avrete cambiato il mondo. Date a ciascun animo il senso della propria autonomia, della incomunicabile responsabilità, della funzione che ha come individuo attivo e libero nella collettività umana, e legate questi animi individui col vincolo più soave e più tenace allo stesso tempo, l’amore, e avrete composta la ideale delle società: coscienza e libertà dei membri, unità perfetta del loro insieme. Non è questo il cristianesimo? Le passioni possono ritardarne l’avvento, oscurarne e confonderne il concetto, ma esso rimane immutato: o è quello, o non è nulla. E così immutato penetra lento, tacito, occulto, inavvertito, ma incoercibile, l’umanità, che via via gli si concede, tutta insieme, e individuo per individuo. A tutti e a ciascuno l’obbligo di così concedersi. Il concederglisi par cosa fatale, ed è sì anche fatale, ma insieme, e nel meglio forse, volontaria.
Nell’uomo nativo, scrive conchiudendo il Papini, c’è la bontà e la malvagità. L'importante è di scegliere: deprimere e cancellare il male, sviluppare e ingigantire il bene. Gli asceti sbagliavano nell’applicazione, ma il principio è quello. Chi non si propone, almeno una volta, nella sua vita di essere un santo, è un... domandatelo al Papini, che certe cose le sa dir benino.
E io tralascio i miei rilievi, ripetendomi quest’ultima osservazione, così incoraggiante fra gli arzigogoli e le lambiccature di una certa psicologia che pretende dimostrarci la nostra inettitudine a far parte di un qualsiasi mondo morale, e la fatalità onde saremmo attanagliati di scegliere o il bene o il male, quando non anche la inesistenza dell’uno e dell'altro. « L’importante è di scegliere », afferma virilmente il Papini. E che si scelga noi, s’ha coscienza, e la coscienza vai meglio, assai meglio, della logica del ma e del dunque, e della congerie delle osservazioni positive. Queste hanno tutte le fallacie delle statistiche; e quanto alla logica, essa è riservata al solo cervello, méntre nella coscienza c’è tutto l’uomo. D’altronde, io almeno per conto mio, credo sempre più fermamente alle riprove pratiche degli asserti teorici, comunque confermati da numerosi fenomeni, e diffido tanto di cotesti asserti, quando li vedo produrre non arti ma mine, che finisco per crederli falsi addirittura. Ecco, ad esempio: bandite per il mondo che tutto è fatale, e, oltre distruggere ogni nozione
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di virtù e di vizio, di merito e di demerito, tanto da non saper più da che parte rifarvi, e cogliervi, per necessità imprescindibile, in contraddizione con voi stessi ogni momento, voi, deprimendo ogni energia reattiva, lo ridurrete questo povero mondo un nido miserabile d’imbecilli e d’imbelli, e funesto di lupi affamati, senza speranza di comporne qualche cosa di meno disastroso, mai.
Davanti a un tale disastro, io mi fermo, e ogni uomo d'intelletto deve fermarsi e conchiudere: la logica fila che è una maraviglia, le osservazioni positive la confermano che è uno stupore, ma la verità è il contrario di ciò che esse dimostrano.
Il capitolo dà me scelto per dare un saggio del libro del Papini, riguarda anche l’atteggiamento del Carducci rimpetto all’organismo sociale e sociale-religioso. Ma esaminandolo in quest’altra parte, io dovrei digladiare col Papini, trovandomi dissidente da lui e meno disposto di lui a concessioni autoritarie. Di digladiare — Papini userebbe un’altra frase, meno cavalleresca e più efficace — ora non ne ho voglia. E poi l’ho già fatto un poco anche qui, e, almeno per questa volta, basta.
Qui quondam.
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FELICE MOSCHELES
L’ARTISTA UMANITARIO E IL PITTORE DI MAZZINI
“ JPri/e me as one who loved his fellow men " (Ricordatemi come uno che amò i suoi fratelli)
l io febbraio di quest’anno Teodoro Moneta poneva .fine alla sua lunga campagna controle forze che contendono all’umanità l’ordine, la giustizia e la pace: non senza aver prima visto albeggiare e salutato con un grido di trionfo la foriera dell’aurora auspicata, nel risveglio e nella penetrazione mondiale di quei principi di libertà e autonomia dei popoli liberi e fratelli, per cui l’Intesa va spargendo il sangue del fiore dei suoi figli. E poche settimane prima, il suo amico, fratello, commilitone
inglese nella medesima causa e concorde nello spirito, Felice Moscheles, dava anch’egli il suo congedo da un’umanità in cui era stato «cittadino tipico del Mondo» — come lo proclamò Walter Wash nella commemorazione che ne fece in Londra il 6 gennaio.
Egli soccombette al « world shock » (allo « shock del mondo ») — come egli stesso diagnosticò il suo morbo — come altri suoi concittadini han soccombuto allo «shock dei proiettili»; come il comune amico Keir Hardie, il deputato-minatore, fondatore dell’«Independent Labour Party» inglese, soccombette, allo scoppio della guerra, al colpo del risveglio brusco dalla visione che lo aveva ipnotizzato per tanti anni, di una Umanità divenuta famiglia di fratelli.
Fe ice Moscheles sembrava predestinato dalle sue condizioni famigliari, dal suo temperamento di artista «in love with humanity» — innamorato dell’umanità —, dalla sua amicizia intima e personale con le più grandi ed illustri personalità delle nazioni moderne degli ultimi settantanni, a divenire il rappresentante tipico di quell’umanitarismo mistico, ma pur realistico, che senza disconoscere la funzione storica degli organismi nazionali, di difendere come con una corazza protettiva gli organi vitali e il cuore dei membri singoli della gran famiglia umana, vagheggia e persegue attraverso le nazioni e il raggiungimento di missioni nazionali, la realizzazione dell’ideale di una sola nazione, V Umanità.
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• ♦ •
Nato in Londra 1’8 febbraio 1833 dal famoso pianista boemo Ignazio Moscheles, avendo a padrino l’intimo amico di sua famiglia Felice Mendelssohn, che nella occasione della sua nascita compose il « Canto della Culla »; imparentato ad Enrico Heine; avendo trascorsa la sua gioventù artistica a Parigi e quindi in Germania, nella quale, a Berlino, s’incontrò con colei che doveva divenire la sua degna compagna e cooperatrice fedele d’ideali e d’attività; avendo poi scelto a sua residenza abituale e . ampo di sua azione nonché teatro della sua arte per oltre mezzo secolo la città più internazionale del mondo, la patria sua, egli trovava negli elementi costitutivi della sua famiglia, delle sue esperienze personali, del suo essere stesso, il diploma dì cittadino del mondo, e di « amico degli uomini ».
Ed è rimarchevole che, come appresi dalla sua bocca, fu lo spettacolo offertogli nella sua gioventù dal gretto ed.egoistico nazionalismo tedesco, a strappargli in una numerosa adunanza quel grido di protesta: « Il Patriottismo è un delitto » che, inteso del patriottismo che vede nella sopraffazione egoistica e imperialistica delle altre nazioni la forma migliore di servizio della propria patria, rimase il suo motto e la sua impresa in tutta la vita.
Ma la prima reazione- della sua anima universale e ospitale contro le idee grette convenzionali di patriottismo, non aveva atteso quello spettacolo per sprigionarsi: fu a quattordici anni che la visione di un mondo diretto da una sola coscienza, dominato da una sola morale, retto dalla legge dell’amore, brillò ai suoi occhi aperti ad un sogno di bellezza artistica e morale, e dardeggiò poi sempre nel suo sguardo e vibrò poi sempre nei suoi capolavori.
Fu questo spirito che gli attrasse l'amicizia della maggior parte dei personaggi che dominarono la scena mondiale durante la sua lunga vita, in tutte le sfere. Mendelssohn e Wagner, Rossini e Rossetti, Browning, d’Israeli e Gladstone, e naturalmente, Kropotkin e Keir Hardie e Holyoake, e grande sopratutti e a lui più caro e venerato, Giuseppe Mazzini, furono suoi amici intimi, e sto per dire, elementi costituitivi della sua grande visione umanitaria. E nel suo artistico studio, in un cantuccio delizioso del Chelsea in Londra, impreziosito da una raccolta di cimeli e di personali ricordi di Gounod, Chopin, Browning, Mendelssohn, Goethe, Beethoven, Rossini, e dei quadri di parecchi dei suoi grandi amici custoditi nel santuario domesticò, era spettacolo unico quello del maraviglioso vegliardo, che su argomenti d’arte e letteratura, di sociologia, morale, sociale, politica nazionale e internazionale, religione, spargeva con larghezza da gran signore e con sicurezza di studioso e di pensatore, vedute è giudizi, aneddoti e motti. La sua conversazione era condita con una « verve » e con una ricchezza di « humour » — mentre qua e là alcune note irrompenti e appena represse in tempo ci ricordavano che sua madre fu cugina di Heine — che aggiungevano alla universalità degli argomenti e alla composizione internazionale dei visitatori, l’incanto della fusione in lui delle migliori qualità dello spirito delle diverse nazioni.
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Egli appariva allora, su quello sfondo, quello che i pacifisti di tutti i paesi riconoscevano in lui, il " Gran Vecchio ” del Pacifismo e dell’Umanitarismo.
Già dal 1847 associato attivamente in queste due cause, egli aveva servito dai 1878 nel Comitato esecutivo della «Società della Pace e dell’Arbitrato internazionale » fondata in Londra il 14 giugno 1816, e quindi la più antica del mondo — della quale fu per più anni presidente, —- e aveva collaborato assiduamente al suo organo The Herald of Peace and International Arbilration (L'araldo della Pace e dell’Arbitrato internazionale) e al Concord di cui conservava ancora la direzione.
Possedendo le principali lingue europee a perfezione — eppure fu cultore e propagandista dell’Esperanto in cui ravvisava uno strumento di affratellamento dei popoli—egli, come il « Commesso viaggiatore non commerciale » di Dickens, viaggiò per l’Europa da amico di tutti gli uomini, partecipò a quasi tutti i congressi intemazionali per la pace, ponendo la sua ricca esperienza a disposizione dei comitati nazionali. La sua propaganda per una intesa più intima fra questi si concretò nella proposta che egli riuscì a fare adottare nel 1896, della celebrazione universale di un « Giorno della Pace » (il 18 maggio, anniversario della prima Conferenza del-l’Aja), nella quale si votasse contemporaneamente da tutte le Società della Pace la medesima « risoluzione ». Per venti anni è stato cómpito di Felice Moscheles di formulare questo voto, che centinaia di migliaia di amici della pace esprimevano nella loro adunanza annua, con quella fede e con quell’ordine a cui neppure la tragica realtà avevan nulla detratto, e che si espresse ancora nell’ultima formula da lui proposta. «...Noi affermiamo ancora una volta la nostra fiducia nei metodi dell’arbitrato e della conciliazione, e nella sostituzione della Legge alla forza nella decisione delle contese internazionali...: e affermiamo ancora una volta, che la missione delle "Società umanitarie e pacifiste’’ è di formare degli uomini, cittadini impegnati a rispettare le limitazioni che si saranno imposte nel diritto internazionale, fondato sugli interessi comuni dell'Umanità ».
« La nostra lampada » — egli diceva in tale occasione a un redattore ào\Y Herald of Peace — « noi la custodiamo con quella tenerezza gelosa con cui i cattolici custodiscono la fiammella che arde dì e notte nel loro santuario. La nostra fiammella ancora è inestinguibile: essa è un raggio della fiamma eterna della Verità, e le tempeste nulla possono contro di essa. Noi crediamo nel suo trionfo supremo. Non è vero che l’Uomo sia una belva feroce, e che il legato della bestialità selvaggia sia in lui indistruttibile. Non è vero che l’Uomo sia fatalmente inclinato ai più atroci de itti. Non è vero che la ragione non sia capace di sostituire la forza, e l’amore di sostituire la violenza... E noi proclamiamo l’eterna verità adesso, in questa ora tenebrosa, come la proclameremo domani quando i raggi della sua luce splenderanno di nuovo luminosi sul bel mondo di Dio ».
« L’arte per l’aite » — ecco una formola che non potè arrestarsi un istante nella galleria delle visioni del pittore umanitario, nelle cui mani il pennello divenne la spada incruenta del cavaliere delle grandi e nobili cause. Egli apparteneva alla famiglia spirituale degli. artisti che, — con le parole di Ruskin — « leggendo più addentro che la comune degli uomini nei secreti della natura e della vita, e capaci
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di comunicare agli altri la loro visione, compiono la missione di parlare al loro cuore, pongono la loro arte diservizio di cause morali »: alla famiglia di Morris e di Millet, di Holbein- e di W. Ciane, di Watts e di Verestchagin, e dei loro fratelli della penna, Burns ed Elliot, Hugo e Thompson.,, e Raemaeker.
Il cuore dell’artista fu sempre aperto verso il « Bottoni dog », la folla anonima dei milioni, che in pace non meno che in guerra, portano sulle loro spalle il peso più formidabile, pur essendo i meno preparati a sopportarlo. Tulle le miserie tutti i bisogni, tutti i dolori dei suoi fratelli uomini trovarono il pennello dell’artista, non meno che la penna dello scrittore, pronto alla lotta. Ecco con quali parole la sua degna e instancabile compagna e cooperatrice scolpisce l’opera di questo servo dell'umanità: « Il mio marito ¿’interessava a tutte le questióni sociali: al movimento contro il «sweating System» (lo «sfruttamento del sudore»), in favore delle «assicurazioni » operaie — già 30 anni prima che la «pensione per la vecchiaia » divenisse legge, egli era membro del Comitato per lo studio e la soluzione di questo problema — egli apparteneva alla « Lega umanitaria » per la protezione degli animali, e alla « Lega per la educazióne morale »; egli fu per molti anni membro della « Società Etica», e del Comitato per la «Difesa delle nazionalità oppresse », ecc. ecc. Egli era solito dire, che un solo movimento non può condurre la salvezza, ma che tutti debbono cooperare insieme nel grandioso sforzo... ».
Felice Moscheles pianse sui dolori e le miserie dei suoi fratelli uomini: e le sue lacrime hanno non solo premuto altre lacrime, ma hanno seminato in migliaia di cuori il sublime malcontento e la rivolta contro le colpe della società, cioè contro le loro proprie colpe. La strategia delle sue campagne, cioè il metodo e piano dei suoi quadri sociali, era quello di rappresentare una scena crudamente realistica tolta dalla vita contemporanea, e di darle un titolo che ricordi allo spettatore della scena, che questa si svolge in una nazione che da più secoli si suppone sia, e si vanta di essere, penetrata dallo spirito cristiano.
A grandi caratteri, egli ha dipinto in testa alle sue pitture: « Nell’anno del Nostro Signore 1892: I nostri schiavi »; ed anche: « Nell’anno del Nostro Signore... La nonna di qualcuno », o ancora: «Massacri nel secolo xix. Armenia ».
Ad esempio, la scena dei « nostri schiavi » ci presenta una linea di « uomini-sandwich », o reclame ambulanti: figure tristi, sul cui volto è impressa una sciagura e un avvilimento muto, i quali dividono coi cavalli e gli asini il lastricato della via, mentre lungo le. lussuose vetrine, sui marciapiedi, altri loro fratelli — spesso meno onesti e laboriosi di loro — ostentano fasto ed esprimono gioia serena, e, presso i magazzini « Sweatem & Prosper » (« Sfruttali e Prospera »), un cameriere in sontuosa livrea prende cura tenera del cagnolino della sua signora.
E la « nonna di qualcuno » c’impietosisce col suo aspetto miserabile, coi suoi lineamenti buoni e miti, coi suoi capelli d’argènto, mentre, seduta presso la ringhiera di Hyde-Park, vende fiammiferi ai passeggeri che passano veloci sotto il vento gelido che spoglia gli alberi delle ultime foglie.
E 1’« Armenia » — il Belgio del periodo della « pace » — s’impone all'attenzione di un’Europa egoistica con la scena di desolazione e devastazione di una casa violata, attraverso la soglia della quale giace una giovanotta seminuda, uccisa dai
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Giuseppe Mazzini (nd 1862) dipinto da Felico Mojchcle»
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suoi profanatori, mentre il padre inerme e impotente a vendicarla fa scudo vano del suo petto alla moglie e a un fanciullo terrorizzato che si stringe alle vesti di lei...: votati tutti alla stessa tragica sorte. Il fuoco che s’innalza dalle rovine di altre case fa da sfóndo alla scena.
E la galleria continua, con lo « sfruttamento del sudore », con « Il Cantoniere » («colpevole» di negligenza, e del disastro ferroviario che ne seguì,... dopo tredici ore di continua guardia), con le atrocità bùlgare», con la «Guerra legittima»..., mentre il titolo di ogni dramma è accompagnato dalia data dell’avvenimento, preceduta dalla condanna inesorabile: Nell’anno del Signore...
* ♦ ♦
Non a tutti i visitatori di Felice Moscheles era concesso il privilegio di conoscere addentro l'uomo e l’artista e la molteplice attività sua: ma nessuno che varcò la soglia ospitale e godette l’atmosfera idealistica del santuario della pace e dell’umanità, ebbe facoltà di ritirarsi senza aver prima tributato il dovuto omaggio, nello studio privato del maestro, al ritratto che l’artista dipinse, non ancora trentenne, nel 1862, dell’apostolo della democrazia moderna, del maestro di una morale sociale e politica, del profeta dell’autonomia e dell’armonia delle razze, del suo amico Giuseppe Mazzini.
Il Moscheles doveva aver penetrato bene addentro nella grande anima che ferveva dietro il pallido e gracile schermo di quella fisionomia «che niuno pinger valse » (come dice nei « Discepoli » la grande amica di Mazzini, la poetessa illustre Hamilton King) se riuscì a fissare sulla tela l’imponenza, la finezza, l’espressione profonda di quél volto; e quella stessa mano diafana, parlante, sullo sfondo di un cielo cupo appena biancheggiante, con una forza d’interpretazione che gettava il visitatore nella contemplazione e gl’imponeva il raccoglimento.
Se dopo alcuni istanti di silenzio, necessàri a padroneggiare l’emozione e analizzare a se stessi il fascio d’impressioni, si interrogava il Maestro, lì presente a sopprimere il lungo intervallo che vi separava da quell’intimo incontro dell’artista e dell’apostolo, le sue risposte vi davano la sensazione, che il ritratto ancora più fedele di Mazzini era ben quello che si era impresso profondamente nell’animo dell’artista ed amico.
« Aver conosciuto Mazzini », — egli vi diceva, — « significa non dimenticarlo più, udir sempre la sua voce, subire la sua influenza, vedere le sue forme ». E qui vi mostrava uno schizzo di Mazzini stesso, da lui eseguito a memoria parecchio tempo dopo dipintone il ritratto, che vi strappava l'esclamazione: «Ma è perfettamente identico! ».
« Mazzini amava molto il mio studiolo di Cadogan Gardens » — egli proseguiva, — «e vi faceva spesso delle comparse improvvise. I suoi occhi scintillavano mentre parlava, e riflettevano la fiamma interna sempre avvampante, esercitando un fascino magnetico, penetrando nei più intimi recessi della coscienza e accendendovi una scintilla. Sotto l'influenza di quell'occhio e di quella voce, uno si sentiva bene la forza di « abbandonare padre e madre, e di seguir lui », l'eletto dalla Provvidenza a rovesciare l’edificio del male e dell’errore, e propagare il Vangelo dei
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«diritti dell’uomo». E quando l’entusiasta, il cospiratore, davano luogo al poeta, al Sognatore, Mazzini vi cantava l’inno alla natura, ai fiori, al fanciullo,, ai fratelli nostri minori, gli animali, al capolavoro della creazione, la donna ».
E Moscheles vi narrava delle comparse improvvise di Mazzini nel suo studio, intorno allo stesso tempo, per metterlo a parte delle sue ansie, speranze, timori; e vi descriveva l’aspetto e i particolari della stanza di Mazzini, con gli uccelli che svolazzavano liberamente e saltellavano fra la voluminosa corrispondenza del cospiratore, e il nuvolo di fumo in cui l’inveterato fumatore avvolgeva sè e loro;... e profondeva a larghe mani con vena feconda il racconto d’interessanti episodi e di vicende della vita inglese di Mazzini.
« Maestro, fu ardua l’impresa » — gli domandai un giorno — «di trasformare l’irrequieto agitatore in un modello?». «Oh, no!» mi rispose. «Imparai presto >1 secreto per domarlo: e fu di porgli a lato un tavolinetto con sopra una scatola di sigari eccellenti, che egli si fumava tranquillamente, uno appresso all’altro, a sedere, o spesso in piedi, riuscendo un modello paziente e ammirabile: talché, cosa rara, di lui ho potuto dipingere perfino le mani nervose e sensibili e il «gilet » di velluto scuro abbottonato fino al mento. E vi so dire che egli era un soggetto da suggestionare veramente un artista, e da aguzzare tutto il suo acume sulla punta del pennello ».
« Maestro » — mi azzardai ancora a domandargli un giorno in cui ero stato ammesso con mia sorella a contemplare ancora una volta, con un altro gruppo di visitatori, il maraviglioso ritratto, — « Maestro, per quanto il Suo amore paterno e geloso sia giustificabile, un ritratto quale questo che dopo piò di mezzo secolo ha acquistato un valore storico in aggiunta al grandissimo valore artistico, dovrebbe essere patrimonio comune, gustato e custodito da coloro specialmente che con l’originale ebbero comunanza di patria e ai quali egli dedicò il meglio delle sue attività e della sua vita... ».
« Cioè gl’italiani! Capisco... » mi rispose, « anzi lo capii già all'indomani dèlia morte di Mazzini, quando la reazione manifestatasi in suo favore nelle sfere ufficiali italiane, e l’omaggio del Parlamento italiano stesso all’Apostolo dell’unità d’Italia, mi animarono a tributare anch’io il mio tenue tributo alla sua memoria, ed offrire, come feci, all'ambasciatore d’Italia a Londra, marchese d’Azeglio, il mio ritratto di Mazzini, per esser collocato in una delle gallerie nazionali d'Italia. Il marchése però mi fece comprendere molto gentilmente, che altra cosa era tollerare una dimostrazione a favore di Mazzini, ed altra xendere a lui positivo omaggio nel suo ritratto. Dopo di allora la prova è stata tentata un altro paio di volte con lo stesso successo,... ed io sono ben lieto di avere ancora con me il mio caro ritratto di Mazzini ».
Stavo per battere in ritirata, quando mia sorella accorse opportunamente in mio aiuto.
« Ma ora non sarebbe più così. Maestro » — ella soggiunse. « Roma, ad esempio il cui sindaco è al presente Ernesto Nathan, o Genova in cui la memoria di Mazzini è tutt’ora più viva che mai, sarebbero onorate e grate di offrire degna ospitalità al più perfetto ritratto dell’Apostolo dell’Unità d'Italia... ».
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«... Io avevo messo per condizione » — continuò egli proseguendo il corso del suo pensiero, più che rispondendo alla replica, — « che il quadro fosse esposto in una galleria nazionale o altro luogo pubblico conveniente, e che non se ne facessero più copie... ».
Oggi lo studio artistico del Maestro è in procinto di disciogliersi, scompasia la personalità che di sè e delle sue memorie lo riempiva e ne. faceva un santuario.
I quadri, i ritratti, i preziosi cimeli, i ricordi storici, è da prevedere andranno ad impreziosire, richiesti a gara, le gallerie nazionali inglesi o i salotti di intimi amici del defunto; e ci consta con certezza, che parecchi inglesi amici e ammiratori di Mazzini e di Moscheles, stanno interessando le publiche autorità inglesi perchè lo storico e artistico ritratto di Mazzini venga degnamente collocato in un museo nazionale.
Che cosa faranno in Italia gli amici e cultori del grande Genovese — per non parlare degli amici e ammiratori di Felice Moscheles — per impedire che l’Italia venga per sempre defraudata di un ricordo storico e di un capolavoro artistico, che legherebbe ad essa l’effigie più fedele di Mazzini e la memoria di un grande e amico di grandi, dell’apostolo di tante cause sociali e umanitarie?
Si è recentemente discussa in più di un Consiglio Comunale di grandi città italiane la proposta di erigere a Mazzini nell’aula consigliare o in altro pubblico ufficio un busto marmoreo o altro ricordo. Ecco un'oportunità che non occorre lasciarsi sfuggire. Roma, Genova, Milano, Firenze, Napoli, altre illustri città italiane, albergano migliaia di discepoli « dell’apostolo dei tempi nuovi » di colui, la cui figura va ingigantendo a proporzione che le vicende politiche pongono in evidènza il carattere profetico delle sue visioni, il valore centrale delle sue teorie sui doveri e i diritti delle nazioni e dei popoli. Che qualcuno di essi si desti, e senza il minimo indugio si volga agli eredi del Moscheles, nella certezza di poter fare assegnamento sull’affetto che la compagna e cooperatrice del defunto ha vivissimo per l’Italia.
A chi spetterà il merito e l’onore di invitare nel migliore ritratto del profeta della nazione italiana, la figura austera, solenne, veggente di Mazzini, a testimoniare, all'indomani di una pace rispondente agli ideali dell'apostolo dell’autonomia delle nazioni ed insieme a quelli dell’artista, apostolo della pace e dell'arbitrato internazionale, che l'Italia dei suoi sogni « condottiera dell’umanità e angelo di luce fra le nazioni » va realizzandosi: e che i figli dei martiri del Risorgimento son divenuti degni dei loro padri, degni di Lui?
Giovanni Pioli.
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IL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
(Continuazione e fine. Vedi Bilyehnis di Nov.-Dic. 19x7, p. 263 e Febbraio 19x8, pag. 71).
27. Ma, almeno, nell’istruzione scientifica, impartita dai gesuiti ai loro allievi, può trovarsi un compenso sufficiente alle lacune che si riscontrano nei loro sistemi di educazione morale e civile? È quanto ci ripromettiamo di esaminare obbiettivamente.
Nel secolo xvm le scuole dei gesuiti erano al medesimo livello di tutte le altre scuole dell’epoca, quanto ad insegnamenti scientifici. Non così nella prima metà del secolo xix, poiché anche la seconda edizione della Ratio del 1832 non introduce nello svolgimento dei programmi che insignificanti ritocchi. Di ciò del resto dovremo riparlare a lungo in appresso.
Mantenendoci, per ora, in un ordine di considerazioni generali, citeremo un giudizio scultorio del Paulsen sulle cause che condussero alla decadenza della scuola gesuitica. « Il potere dell’Ordine, egli dice, cadde, allorquando nuove scienze, ch’esso non voleva e non poteva adottare, ebbero un’influenza decisiva sulle idee dell’umanità. Esso si era appropriato degli elementi deH’umanesimo, ma il progresso delle scienze • matematiche e naturali si produsse fuori del suo ambito. Esso guardo con diffidenza la trasformazione della filosofia e delle idee che si hanno sul mondo dopo le nuove ipotesi. Le sue università si tenevano rigorosamente al metodo tomistico di Aristotele, mentre che al di fuori Galilei e Descartes (Cartesio), Newton e Locke, Leibniz e Wolff, Voltaire e Rousseau, occupavano e dominavano gli spiriti > (1).
Quale posizione, dunque, l’Ordine assume di fronte alla scienza ed in qual modo la mette in valore per il suo fine?
(r) Paulsen, op. cit., voi. I, pag. 14 1.
La cultura e la scienza non sono per l’Ordine la parte essenziale dell’educazione, benché questo s’occupi molto d’insegnamento. Più che all’incremento della scienza i gesuiti mirano al perfezionamento della vita spirituale, o meglio al dominio delle anime (1).
Così nelle scuole dell’Ordine non s’insegnano che le scienze che convengono al fine cui esso tende: « riconoscere ed amare il nostro Creatore ed il nostro Redentore » (2). Tutto quello che non favorisce il fine perseguito « mirare unicamente alla maggior gloria di Dio ed ottenere una ricca messe d’anime per la scienza » (3) viene stralciato dal piano degli studi, per esempio, la medicina ed il diritto civile. « La scienza, essi infatti dicono, deve essere sacra, tanto nel suo contenuto, cioè nello studio della sacra scrittura e della teologia, come nella sua applicazione a Dio, cioè nello studio della filosofia, delle matematiche e della retorica » (4).
Ristretta, pertanto, la scienza all’ideale religioso, ogni forma .di progresso nell’ordine scientifico divenne impossibile.
28. Quando si abbraccia d’un colpo d’occhio l’insieme delle materie insegnate nelle scuole dei gesuiti, si è soprattutto colpiti dall’esclusione quasi completa delle scienze- positive. Nelle classi inferiori la storia è trattata incidentalmente e nelle classi superiori brilla per la sua assenza.
Nella facoltà teologica, fino al 1832, non si insegna neppure la storia della Chiesa. Lo studio delle matematiche è
(I) Ord. Gen. C. 3, Corp, institul., vol. II, pag. 10.
(2) R. Studiorem Reg. del Provinciate I.
(3) Const., 4. C. 6, I.
(4) Corp, instil., vol. II, pag. 797.
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XL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
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trascuratissimo. Le scienze naturali sin quasi ai nostri giorni non figurano affatto fra le materie d’insegnamento; quanto alla fisica essi professano ancora le vecchie teorie di Aristotele. La medicina e la giurisprudenza poi sono sistematicamente escluse (1). Anche nelle discipline accettate non si insegna che quello che risponde alle finalità dell’Ordine. « Nella teologia positiva si sceglieranno gli autori che visibilmente convengono di più al nostro fine » (2). L’insegnamento dei gesuiti, pertanto, non corrisponde allo spirito dei tempi moderni che esige conoscenze positive. È quanto precisamente ci ripromettiamo di dimostrare con un esame accurato in un capitolo successivo. Non anticipiamo, dunque, quella trattazione ampia ed esauriente dell’organismo scolastico dell’Ordine che faremo in seguito. Diciamo solo, con l’Huber, che: « I meliti relativi dell’insegnamento dei gesuiti dovevano diminuire a misura che la scienza ed i metodi di educazione e d’istruzione facevano continui progressi, e si sviluppavano sulla base di un’idea più larga e più profonda dell’umanità » (3). Nè meno scultorio è il giudizio del Buckle sul valore pedagogico del loro insegnamento. « Più la civiltà avanzava, più i gesuiti perdevano terreno, non tanto a causa della loro propria decadenza, quanto in conseguenza di modificazioni sopravvenute nello spirito dei loro seguaci. Un’istituzione perfettamente adattata ad una forma anteriore della società, era poco fatta per questa medesima società all’epoca della sua maturità. Al sedicesimo secolo i gesuiti erano dei precursori, al diciottesimo camminavano già a ritroso dei loro tempi ». Nè alcun merito ha l’Ordine se dalle sue file uscirono uomini di talento scientifico riconosciuto e provato, poiché ad esso preme coltivare nei suoi membri l’attaccamento all’istituzione, non già l’amore per le scienze (4); chè anzi nell’interesse troppo ardente dei suoi membri per la scienza esso vede una minaccia per la sua stessa esistenza. I superiori, infatti, non debbono tollerare che gli scolastici facciano troppi progressi nelle scienze, giacché la loro dottrina ed il loro valore scientifico potrebber > ritorcersi a danno
(1) Const., 4. C. 12, 4.
t~) Conti., 4, C. 14, 1.
(3) I. Huber, op. cit., voi. II, pag. 177.
(4) Conti., 4, C. 4, 2.
della Compagnia (1). Donde una serie di misure che l’Ordine prende per limitare lo sviluppo della personalità scientifica degli allievi (2). Essa è anzi talmente coartata, ed in piena balia del superiore, che questi, nella sua saggezza, è chiamato persino a decidere dell’indirizzo che ciascun alunno sarà per dare ai suoi studi. « E poiché le attitudini non saranno per tutti le medesime, ciascuno dovrà essere formato dopo matura riflessione in tal guisa che sia preparato il meglio possibile ed adatto alla carriera che verosimilmente abbraccerà » (3).
29. Il problema della cultura gene-ale del popolo non è stato mai seriamente considerato dall’ordine. Benché esso pretenda di aver riconosciuto come un suo dovere l’educazione della comunità religiosa (4), s’occupa, tuttavia, ben poco delle scuole primarie, come noi vedremo più tardi, studiando il piano generale dell’insegnamento gesuitico. I.a scuola dei gesuiti, giova ripeterlo, mira a fare dei campioni dell’Ordine c non già dei cittadini istruiti e degli uomini utili. La n i-glior prova sta appunto nel fatto che gli stessi gesuiti furono poi costretti ad introdurre nuovi insegnamenti, specialmente di geografia, di storia e di aritmetica, poiché, essendosi le loro scuole fossilizzate nei secoli precedenti in un indirizzo esclusivamente umanistico, corsero il rischio di essere completamente tagliate fuori da ogni movimento culturale (5).
L'Ordine, pertanto, mira soltanto all’educazione delle classi dirigenti. Infatti le costituzioni prescrivono che nell’insegnamento universitario si cerchi il maggior numero possibile di ascoltatori, e si crei un corpo d’insegnanti che possa in seguito impartire il sapere insegnato dai gesuiti (6).
(1) Epistola IV. R. P. ,N. Aquavivae. De mediis ad conservandam socictatcm. Corp. insiti., voi. II, pag. 626.
(2) Conti., 4, 5, 2. Reg. Magistrorum Novitio-rum, Si. Corp. insiti., voi. I, pag. 573.
(3) Paraenesis ad magistros scholarum Sor. Jcsu, scripta a palre Francisco Sacchino ex eadcrn socie-tate, Roinae, 1625, C. xS.
(4) Const., 4, C. 12, declarationcs.
(5) Proposta di riforma tedesca alla « Ratio stu-diorum a. 1829, «annotationes promiscue congesta? » Mon. Germ. Paed., voi. XVI, pag. 403.
(6) Const., 4. C. xx, 1.
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30. Gli allievi, dunque, debbono essere i pionieri dell’Ordine e tra quelli che debbono esservi ammessi occorre fare una scelta scrupolosa, poiché non tutti possono servire ai fini che i gesuiti si propongono (1). Nella scelta debbono preferirsi i ricchi ai poveri, giacché i primi si troveranno probabilmente più tardi in una condizione sociale superiore ai secondi. L’Ordine, beninteso, non confessa apertamente siffatta preferenza: esso anzi pretende che non vi sia alcuna differenza di trattamento nelle sue scuole quanto agli allievi. Gli apologisti gesuiti sostengono perfino che sia questa una delle tante favole dette sul conto loro, ed in prova di ciò riferiscono un passo della Ratio nel quale si raccomanda di cuiare con la stessa amorevolezza tutti gli allievi, di non disprezzarne alcuno, di occuparsi tanto dei poveri come dei ricchi (2). Ma in realtà i nobili ed i ricchi sono preferiti agli altri. • Si accordino ai nobili dei posti più comodi » si dice nella Ratio del 1599 (3). E questo concetto è ribadito nei piano del 1832. I nobili, infatti, su domanda dei parenti, sono dispensati dai servizi domestici ai quali, secondo i regolamenti, tutti indistintamente gli allievi sono adibiti (4). Per l’ammissione di giovinetti, appartenenti alla nobiltà, è sufficiente l’età di 12 anni e la conoscenza della materia che s’insegna nell’infima classe di grammatica, mentre i poveri ed i borghesi, per essere ammessi in alcuni istituti, debbono avere 15 anni e possedere le cognizioni richieste per la classe media di grammatica (5).
L’Ordine,' dunque, non accetta i poveri, che non possono mettere sulla bilancia nè ricchezze nè considerazione, se non nel caso che rechino alla Società un altro non disprezzabile contributo, come alcune spiccate qualità d'ingegno. Soltanto così potranno compensare la deficienza di
(1) Sacchini, Protreplìcon ad magislros, C. 6.
(2) * Professor... non uni se magis quani alteri familiärem obstcndnt; contemnat neminem; pau-perum studiis aeque, oc- divilum prospiciat, profectum-que uniuscuiusque et suis scholasticis speciatim piocuret ». R. stud. reg. cominunes professoribus supciiorum facultatum.
(3) Reg- dei prefetti di studi inferiori, 20.
(4) Memoriale sul Convitto di Dillingen, a. 1585, Mon. Germ. Paed,, voi. Il, pag. 4x2.
(5) Condizioni di ammissione nel seminario di Fulda, 1603. Mon. Germ. Paed., voi. XVI, pag. 286.
beni materiali e diventare anch’essi degli utili operai pel conseguimento dei fini che l’Ordine si propone (1). Insomma quest’ultimo non lavoia nell’incertezza, e non vuole appesantirsi di un bagaglio inutile. Le costituzioni, infatti, dicono che più gli allievi possiedono le doti richieste per essere un buon gesuita, e più sono ritenuti idonei ad essere ammessi nell’Ordine (2).
31. Esso preferisce poi che gli allievi, fin dagli inizi della loro carriera scolastica, s’impegnino a diventare suoi membri. Altrimenti la coazione morale, per quanto esercitata con la maggior possibile discrezione, continua sull’alunno anche dopo il corso degli studi. Così sin dall’ammissione degli allievi nelle scuole gesuitiche, deve esser rimosso ogni impedimento per il caso ch’essi chièdano di entrare nell’Ordine. Tutti, per esempio, debbono essere assolti dei cinque peccati che impediscono di appartenervi (3). Inoltre i maestri hanno il compito d’incoraggiaie quelli che mostrano una certa propensione per la vita dell’Ordine (4), ma debbono tuttavia esser prudenti e non aver l’aria di guadagnare gli allievi ad esso (5). Più efficace poi che la parola è l’esempio che i maestri debbono offrire ai loro alunni di una vita illibata e tutta dedita agli esercizi di pietà, in guisa da porre sotto i loro occhi il benessere ed i vantaggi della vita monastica (6). Senza turbarne l’anima, essi debbono richiamare l’attenzione degli alunni sulla religione. Se poi notino in essi qualche inclinazione, debbono indirizzarli al confessore che completerà l’opeia di persuasione o meglio di suggestione. < Anche nelle conversazioni particolari, si raccomanda nella Ratio Studio? um, il maestro insisterà sulle pratiche della religione, ma senza avei l'aria di attirare i fanciulli al nostro Ordine; qualora tuttavia scoprisse in alcuno una certa incliti) Ordin. P. Ouvbrii Mavarei, a. X586, Mon. Germ. Paed., voi. II, pag. 273; Gretser, Moecenas studiosorum pauperum, a. 1620, C. 2, Mon. Germ. Paed., voi. XVI, pag. 239.
(2) Const., 4, C. 3, deci. lì.
(3) Consl., 1, cit.
(4) Regole scolastiche del 1550-61. Mon. Germ. Paed., voi. Il, pag. 159.
(5) I- cit.
(6) Rat. Stud. Reg. provincialis. C. 4, 33- Corp. inslit., voi. I, pag. 5x5.
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IL FINE DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DEI GESUITI
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nazione, egli dirigerà al confessore l’interessato » (1).
È questo uno dei tanti esempi di quella serie di espedienti, dettati dalla più raffinata ipocrisia e doppiezza, che sogliono definirsi urli gesuitiche. Se ciò non ostante i maestri non riescono a fai e tra gli allievi dei pioseliti per l’Ordine/ non debbono i medesimi cessare di assicurarsi del loro attaccamento e devozione, poiché più 'tardi gli alunni potranno avere influenza ed autorità nella società civile, ed in essa potranno rendere alJ’Ordine segnalati servigi o recargli nocumento {2).
Ora il miglior mezzo per conservare l’amicizia degli ex-alunni, è di ricercamela protezione (3). « Altrimenti, dice ai maestri uno dei più noti pedagogisti dell’Ordine, quegli che non può amarvi a cagione del vostro eccessivo rigore, sarà ingrato verso di voi in avvenire, nè vi tributerà quell’onore Che è dovuto a chi è un padre spirituale ed una guida verso la felicità» (4). E poco più avanti: «... L’Ordine intiero sarà , protetto al presente, come lo sarà più tardi, dall’amore dei fanciulli, divenuti adulti e pervenuti al potere ».
32. Per conseguenza il rettore di un collegio deve essere l’esponente di questo opportunismo pedagogico. Le qualità che in lui si richiedono sono molteplici, ma tutte debbono concorrere al fine di farsi amare dai suoi sottoposti, a maggiore gloria dell’Ordine. Naturalmente non vi è alcuno fra i pedagogisti gesuiti che esplicitamente affermi una tale necessità. Scrittori recenti anzi ci additano a quale elevatezza e purezza di sentimenti debba inspirarsi l’amore del Superiore verso i suoi soggetti. « L’amore del superiore, dice il Micheletti, non può avere accettazione di persone, ma tutti ha da abbracciare in un solo lungo, tenerissimo amplesso di carità. È mestieri che il prelato non ami un suddito per le sue qualità,
(x) Rat. Stud. Rcg. comm. prof, class, ini. 6.
(2) Circolare del Generale Vitelleschi sull’educazione della gioventù (Mon. Germ. Paed., voi. IX, pag. 63): • Noi, egli dice, non vogliamo vedere i giovinetti che oggi istruiamo ed educhiamo, ma quel che i medesimi saranno un giorno, cioè prelati rispettabili, principi, magistrati di provincia e capi di famiglia ».
(3) Colisi., 4, C. io, 5 deci.
(4) Protrcpticon ad Magislros, p. 1, cap. io.
nè escluda dal suo cuore un altro pei suoi difetti, che per quanto gravi non possono costituire ragione sufficiente per abbandonarlo. Quel superiore che governasse i sudditi non considerandoli come i più d’essi sono, ma bensì come dovrebbero essere, commetterebbe la più grave imprudenza » (1).
Tali eccellenti massime non bastano tuttavia ad impugnare la nostra affermazione, dedotta del resto dalle fonti, che il fine di tutta l’educazione gesuitica sia utilitario, cioè rivolto al bene esclusivo dell’Ordine ed al suo predominio nel mondo.
33. Qui cade in acconcio una domanda. L’insegnamento dei gesuiti era gratuito? Per gratuità dell’insegnamento non bisogna credere che l’Ordine ne coprisse tutte le spese con mezzi propri. Esso non è certamente in condizione di farlo, poiché nè il gesuita isolato, nè l’Ordine devono possedere beni di fortuna (2). Per lo più le spese di un collegio sono coperte dai fondatori (3). Le rendite stanziate a questo scopo non debbono, per altro, servire che al mantenimento degli studenti (4). Se le rendite sono insufficienti, si possono accettare elemosine, domandare soccorsi a benefattori e persino mendicare di porta in porta (5). Inoltre, per il mantenimento dei collegi, il Generale ha la facoltà di dare in fitto dei terreni da coltivare (6). Soltanto in caso di assoluta necessità si può esigere dagli interni, eccezionalmente, una pensione (7).
La fondazione di un collegio è l’opera la più accetta a Dio che chiunque possa fare; e fondatori e benefattori sono sicuri della riconoscenza della Compagnia (8). Ecco perchè essa è in condizione di i nifi) Micheletti, Pedagogia ceciesiasi tea, voi. 1, pag- 34 8.
(2) È noto tuttavia che esistevano disposizioni speciali che permettevano al Generale ed alla Congregazione generale di limitare nei professi il voto di povertà, cosicché, direttamente od indiiettamente per interposta persona, l’Ordine dispone di larghissimi mezzi finanziari.
(3) Consl., 4, C. 7. 3(4) Corp. insiti., voi. I, p. 7(5) Colisi., 4, 2, 6.
(6) Dccr. li della 21* Congr., 1829.
(7) Decr. 41 della 22* Congr., 1853.
(8) Gretser, Moecenas Stud. pauperum, Mon. Germ. Paed., Voi. XVI, pag. 239.
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152 BILYCHNIS
partire un insegnamento gratuito e, più spesso ancora, di alloggiare e nutrire gli interni senza rimunerazione.
Per conseguire il fine di poter allevare i membri dell'Ordine senza alcuna spesa, e di poter dare ad un grande numero di fratelli lavoro e trattamento, occorreva fare un’intensa propaganda per la scuola.
Si raccomanda, pertanto, « che gli alunni diano frequenti pubbliche testimonianze dei loro progressi e del buono stato delle nostre scuole, con la solennità che conviene » (1). Grande importanza assumono gli esami scolastici pubblici, allettati da rappresentazioni, commedie ed ogni sorta di spettacoli dati alla presenza di numeroso pubblico. Si tratta, con tali mezzi, di conciliare all’Ordine non soltanto il buon volere degli allievi, ma anche l’animo dei loro parenti (2). Ed a tali consuetudini scolastiche i gesuiti non hanno neppur oggi rinunciato, benché nelle altre scuole siano state soppresse, e le persone sensate dell’Ordine abbiano da parecchio tempo constatato il carattere falso e convenzionale di simili teatralità, come si vedrà più
tardi allorché tratteremo dei mezzi educativi adottati dai gesuiti. Essi infatti si servono tuttora di tali espedienti per risollevare le loro scuole all’antico splendore, mentre dappertutto la scuola laica loro contende il primato per serietà scientifica.
Precisamente così l’Ordine spera di aumentare il numero dei suoi allievi, giacché quanto più i loro istituti sono pletorici, tanto più essi possono vantarne l’eccellenza e l'efficacia educativa. Così di ogni studente, che abbia assistito al corso anche una sola settimana, se ne fa inscrivere il nome nell’elenco degli alunni regolari (1). Da quanto si è detto giova concludere, dunque, che l’Ordine educa i suoi discepoli per il fine che si é proposto: il consolidamento della Chiesa Cattolica e l’onnipotenza del gesuitesimo che in essa domina e primeggia. Le scuole sono per i gesuiti il mezzo più efficace per sviluppare il loro potere e per accrescere la loro influenza, non solamente nel campo, della scuola, ma altresì nel mondo.
Dott. Livio Tanfani
Professore di Pedagogia' nel R. Liceo Magistrale di Tunisi.
(1) R. Stud. reg.dei prefetti di studi infoi iori, 34,1.
(2) Mon. Genn. Paed., voi. IX, pag. 472.
(x) Const., 4, C. 17, deci. D.
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.-.,.'¿1.111 .......................................................... La “ Cacciata della morte ” a mezza quaresima
in un sinodo boemo(I) 2 del ’300
(NOTE FOLKLORICHE)
Et corso delle mie ricerche del periodo ussita mi son imbattuto in un testo, difficile a trovarsi e che può destare un certo interesse come fonte letteraria di un costume abbastanza diffuso nei paesi slavi del nord e nella Gei mania meridionale e che trova nelle moderne teorie della « scienza delle religioni » una spiegazione ed una classificazione soddisfacente (2).
L’arcivescovo di Praga Ofcko di Wlaschim, successore e continuatore della vigorosa politica ecclesiastica riformatrice
di Ernesto di Paaurbitz, il braccio destro di Garlo IV, in uno dei suoi numerosi statuti sinodali in cui si proponeva di migliorare i costumi del popolo e del cleio, e precisamente in uno del 1366 commina le più gravi pene canoniche agli ecclesiastici e ai laici che prendono parte all’antichissima cerimonia di mezza quaresima della processione, accompagnata da cantici e balli, di un fantoccio rappresentante la morte portato in giro per il paese e gettato finalmente in un corso d’acqua, con l’intenzione di liberare così il territorio dall’influenza della morte.
Il rito è evidentemente uno dei più antichi delle popolazioni slave dell’Europa settentrionale ed ha le sue radici in una mentalità magico-religiosa assai remota, che forma ancora il sustrato delle vita morale e dei costumi delle popolazioni agricole moderne.
A questo rito agrario purificatorio-preservativo della Cacciata della morte corrisponde nelle nostre regioni italiane quello della « vecchia segata ». Mentre dunque approssimativamente l’area folklórica del primo lito così macabro a cui, come ve(1) Statuta Synodalia et mandata per D. lohannem, Arch. Prägens. (1366). n. 8: De mortis imagine (de his, qui in medio quadragesimae portant mortem extra yillam).
Item quia in nònnullis oppidis et villis piava clericorum et laicorum inolcvit abusio, qui in medio quadagesimae ymagines in figura mortis per civitatem cum ritmis etludis superstitiosis ad flumen deferunt. ibi quoque ipsas imagines cum impetu submergunt, in eorum ¡gnomi niam asserentes quod mors eis ultra nocete non debeat tamquam ab ipsorum terminis sit consumata et totaliter extei minata. Quare omnibus et singulis ecclarum parochialium rectoribus precipitar cum tales in suis plebibus resci-verint, mox adivinis officiis tam diu se abstineant, donee dicti praevaricatores lusuoresque superstitiosi a domino arch episcopo poenitentiam. recipiant pro excessibus condi-gnam et salutarem, quorum absolutionem sibi reverendus pater specialiter reservat... (In Höfler, Concilia Praeensia, p. 11).
(2) Non è Citato dal Frazer nel suo Golden Bough.
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dremo, va annesso per lo più un secondo rito più lieto, è l’Europa nord-orientale (Slavi del nord, Germania orientale ed Austria centrale), l'area del secondo è il sud Europa e principalmente l’Italia, la Francia, la Spagna e la Balcania. L’energico arcivescovo non vide nella festa popolare che una cerimonia superstiziosa per la preservazione della morte e non si preoccupò di colpire la seconda parte della cerimonia, e che n’era come il complemento, J1 ritorno trionfale dell’Estate o della Primavera di carattere piuttosto poetico e sentimentale che aveva il fine di assicurare uh migliore raccolto, cerimonia affine a tante altre cerimonie pagane e popolari conservate dal cattolicesimo.
Le ricerche folkloriche moderne attestano la grande diffusione della cerimonia, con l’immancabile accompagnamento di varietà locali e di intrecci con altri riti che ne mostrano meglio, alle volte, l’originario significato e altre volte la sua spontanea associazione con forme diverse della stessa fondamentale mentalità magica.
Per la Boemia il lavoro j.iù interessante è il « Fest-Kalender aus Böhmen » (Calendàrio delle feste in Boemia) di Reinsberg-Duringsfeld. Ecco come ancor oggi in Boemia nella 4a domenica di Quaresima (la domenica Laetare) la cerimonia si svolge. Dei giovani gettano un pupazzo chiamato la Morte nell'acqua; subito dopo delle ragazze vanno nel bosco, tagliano un giovane albero e legano ad esso una pupazza rivestita di bianco che sembra una donna; con questo albero e la pupazza vanno di casa in casa per raccogliere dei doni mentre cantano il ritornello:
«noi portiamo la morte fuori del villaggio, noi portiamo « Estate » nel villaggio! »
Qui il rito è completo; « Estate » è un nome proprio, è lo spirito della vegetazione che ritorna o risuscita nella primavera.
In altri paesi della Boemia (i) dei ragazzi portano il fantoccio ai paglia che rappresenta la morte all'estremità del villaggio, dove lo bruciano cantando:
• Ora trasciniamo « Molte ■ fuori del villaggio, il nuovo « Estate » nel villaggio.
Ben venuto, caro Estate, verde e piccolo grano! »
A Tabor (Boemia del Sud) il fantoccio è precipitato giù da un'alta roccia nell'acqua, mentre si canta:
« Morte » galleggia sulle acque,
« Estate > sarà prestò qui;
noi portammo via per voi Moite, vi portiamo Estate.
E a te, santa Marketa, (2) dacci una buona annata per il grano e per la segala ».
Il lito con l’invocazione a Santa Margherita ha ricevuto una piccola rivestitura cristiana. In Polonia la cerimonia è ridotta alla sola prima parte ed è meno
ì) Citato da I. Grimm, Deutsche Mythologie (II, 642).
2) Il nome boemo per Margherita.
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LA "CACCIATA DELLA MORTE” A MEZZA QUARESIMA 155
solenne. Il pupazzo, fatto di canapa e di paglia, viene gettato in uno stagno, in una palude fcon pdgtale di esecrazione «il diavolo ti prenda!»:
Nella Slesia, il cui fondo della popolazione è slave, la cerimonia è ugualmente diffusa. Nei dintorni di Gross-Strehlitz, vicino alla Polonia, il pagliaccio, chiamato Goik viene portato sul dorso di un cavallo e gettato nel più vicino corso d’acqua.
Così nella selvosa Turingia, nella Germania centrale, in alcuni villaggi — si noti bene — di oiigine slava, il significato integrale della cerimonia è espresso chiaramente; durante^! a processione del fantoccio vien cantato un inno che comincia così: « Noi ora portiam via « Morte » dal villaggio — e portiam Primavera nel villaggio ».
Per Lipsia (Sassonia, il cui fondo etnico è slavo) abbiamo una fonte letteraria d’una certa importanza (i).
.L’immagine di paglia (la «mortis larva») era fatta da bastardi e da donne pubbliche e portata da essi per le vie e mostrata alle donne maritate; poi veniva gettata nelle Partite. «Con questa cerimonia essi dichiaravano di rendere feconde le giovani donne, di purificare la città é di proteggere gli abitanti per quell’anno dalla peste e dalle altre epidemie ». La fecondità nella generalità dei casi è attribuita molto più logicamente ai giovani rami in cui è risuscitato pieno di vita lo spirito vegetativo. Qui abbiamo il caso di una compenetrazione e di una riduzione più moderna e più cittadina del rito primitivo. .
È interessante vedere l’impiego dei bastardi e delle meretrici per tutto ciò che concerne la «larva, l’imago mortis» a cui magicamente erano attribuite le pili malefiche influenze e che quindi veniva trattata come un’ tabù.
Il trascurare il rito della « Cacciata della morte » apportava, nella credenza popolare, il flagello di un’epidemia nel corso dell'anno. La necessità quindi di portarla fuori dei confini del paese, dopo che su di essa erano stati caricati tutti i mali del villaggio durante la processione in cui era accompagnata da insulti e da maledizioni di ogni genere, (2) e di gettarla nell’acqua còri ente per le Virtù purifica-torie e allontanatoci del male di questa, formando essa per la mentalità magica una bairiera agli spiriti malefici (3) e specialmente alle morte; o di bruciarla o addirittura
SZacharias Schneider, Leipziger Chronik, I, V. 143.
Vedi il rito israelita del capro espiatorio (¿evitico, cap. 16).
È in questo circolo di idee che va cercato il significato originale, divenuto vivente simbolismo, dei riti battesimali diffusi nell’antichità e che ritroviamo in s. Paolo (Romani VI. 3 4) che però lo ha elevato ad una complessa significazione spirituale mettendolo in rapporti con la morte e la risurrezione del Cristi : della vittoria, cioè, sulla morte, collegata al peccato, che viene portala via dalle acque verso i luòghi profondi e della risurrezione alla vita del battezzando mentre egli emerge dalle acque vivificatrici. L’acqua infatti è il mezze della purificazione, il confine, il limite magico del male ed insieme il veicolo della fecondazione e della risurrezione. Questo fondo magico noi lo troviamo sviluppato largamente nel rituale del battesimo cattòlico in cui rivivono Sotto veste e frase cristiana e biblica tutte le vecchie concezioni religiose sull'acqua (vedi specialmente il significantissimo rito della benedizione del fonte batesimale nel sabato santo).
Il battesimo cristiano resta privo del suo alto significato spirituale se non mantiene il contatto col suo punto di partenza, nel rito compiuto nella sua originaria forma cristiana di immersione totale nelle acque • viventi > (Didaché).
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di gettarla nel territorio dei vicini villaggi dóve suscitava fiere opposizioni. Spesso quei che han gettato via la morte, ritornano di gran corsa al villaggio perchè la morte non li raggiunga.
Il rifiorire dèi rito condannato dall’arcivescovo Giovanni di Ofcko, è, secondo me, dovuto probabilmente al fatto della diffusione della peste nera del 1348 e seguenti, che tanto perturbamento morale e sociale arrecò in Europa in quegli anni. Per .influenza delle idee e dei riti penitenziari ed espiatori allora in vigore e per la coincidenza della festa popolare col periodo penitenziario della Quaresima il clero dovette favorire, in quello scoppio di superstizioni e di fanatismo, forse con aggiunte e rivestimenti liturgici — come è possibile vedere ancor oggi in alcuni paesi della Boemia — il rito popolare che assumeva un valore d'attualità nelle gravi contingenze del momento. Di qui l’accento posto sul rito espiatorio-preser-vativo e la messa in seconda linea del rito complementare più gaio e spiccaita-mente agricolo dell’introduzione di Estate nel villàggio.
Anche nel nord-est della Baviera, nella quarta domenica di Quaresima, in alcuni villaggi vicino ad Erlangen ritroviamo questo costume. Delle contadine con il capo adorno di fiori si recano al paese vicino, portando delle pupazzo ornate di foglie e rivestite di abiti bianchi,’ e si fermano davanti ad ogni porta, due a due, cantando un inno e ricevendone un dono. Annunziano che è venuta la mezza quaresima e che si dispongono a gettare la Morte, sotto la veste di pupazza, nelle acque del vicino fiume Regnitz.
Qui la duplice cerimonia è come compenetrata in una; il ritorno della Primavera e la letizia che apporta, rappresentata dai fiori e dagli abiti di festa delle contadine e dall’ornamento delle pupazze che rappresentano insieme Morte e Primavera, sembra precedere quello che logicamente — nella mentalità magica e nella tradizione del costume — deve occupare il primo posto, cioè la cacciata della morte. Si noti che il canto accennava al rito come assicurazione di una prospera annata e come salvaguardia contro la peste e la morte improvvisa, corrispondenti evidentemente ai due momenti del rito tradizionale.
Ma non sempre nella celebrazione di questi riti che la prosaica vita modèrna, impregnata di mentalità razionalista uniformemente livellante, va facendo scomparire, si ha il gettito nell’acqua dell’imago mortis, ma altre forme di distruzione equivalenti all’annegamento. In Baviera, nelle provincie della Media Franconia, il pagliaccio portato su di un palo in processione per le vie del paese viene bruciato con alte grida fuori dei confini del villaggio stesso.
Così in alcuni villaggi della Boemia, dove il rito’sembra più diffuso ed è restato più a lungo e dove anche è stato meglio studiato, il pagliaccio Morte vien bruciato; lo stesso avviene nella Moravia.
In alcuni paesi russi la figura della morte viene prima bastonata e poi spezzata in due (1).
Ho citato precedentemente l'esempio in »cui le due parti del rito si succedono distintamente. Riporto qui un altro caso (citato tanto dal Reinsberg-Duringsfeld
(1) Rolston, Songs of thè Russian people. London, 1872, p. 211.
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LA “CACCIATA DELLA MORTE” A MEZZA QUARESIMA I57
che dal Mannhardt (i), il grande studioso del culto degli alberi in Europa) che presenta, alcune varianti ricche di significato per il folklorista.
L'immagine della mòrte è gettata nell'acqua al tramonto; subito dopo delle ragazze vanno nel bosco e tagliano un alberello verdeggiante, gli appendono una pu-pazza vestita da donna ed adornano pupazza e rami con nastri bianchi rossi e verdi e ritornano nel villaggio cantando e raccogliendo doni. Portando in giro l’Estate (2) cantano: « Morte galleggia nell’acqua. Primavera viene a visitarci — con uova che son rosse — con gialle frittelle (3). — Portammo via Morte fuori del villaggio — portiamo ora Estate nel villaggio ».
Un'altra varietà la troviamo ad Eisenach (Germania).
Sempre nella 4a domenica di Quaresima (4), i giovani portano un fantoccio di paglia rappresentante la morte attaccato ad una ruota in cima-ad una collina e di là, dato fuoco al pagliaccio, lo fanno precipitare in fiamme giu per il declivio. Subito dopo tagliano un piccolo abete (5), l’adornano di nastri e lo innalzano sulla pianura.
Interessante per vedere il fondo comune che lega costumi agricoli in paesi così lontani come i paesi slavi e i paesi inglesi, è il ricordare come in molti paesi della Slesia (6), dopo la sparizione della Morte, i contadini riportano al villaggio delle figure adornate che hanno il nome non solo di Estate, ma di sposo e di Maggio. L’albero estate è infatti equivalente al poetico albero di maggio (7).
La data più frequente* per l’a cacciata della Morte è, come abbiamo visto, la quarta domenica di Quaresima (Laetare) che prese il nome appunto di Domenica della morte (8). Ma poiché in fondo essa dipendeva dalla prima apparizione della primavera, che varia da regione-a regione, così la troviamo in certi paesi celebrata una settimana più tardi ed in alcuni villaggi tedeschi della Moravia perfino la prima domenica dopo Pasqua. •
È difficile dire se il rito sia esclusivamente slavo. È certo che esso si ritrova ancor oggi diffuso fra gli slavi del nord (Boemia, Moravia, Slesia, Polonia) nei bacini della Moldava, dell’Oder e della Vistola; ma non è esclusivamente localizzato fra gli slavi del nord perchè lo ritroviamo, oltre che nella Sassonia e nella Baviera, anche nel centro della Germania. Ma è difficile dire se il rito non sia in
(ij Baumkullus (p. 156).
(?) f /lo in Ixemo.
(3) Chi ncn ricorda le nostre « frittelle » del giorno di s. Giuseppe, 19 marzo, pur essa festa popolare perchè innestata su di una vecchia celebrazione dell’entrata della Primavera?
(4) La festa di «mezza quaresima» celebrata il giovedì è ancor oggi, specialmente in Austria e ne la Germania meridionale, giorno in cui tutti si danno alla più pazza gioia e rappresenta la sopravvivenza della festa della Primavera.
(5) E l’abete, l'albéro di Natale? Forse per la non completa morte dello spirito della vegetazione?
(6) P. Drecrsler, Siile, Brauch u. Volksglaube in Schlesien. Leipzig, 1903, ss.
I, p. 71 ss. •
(7) Vedine la vivace descrizione che ne fa il Lytton nelle prime pagine del suo Harold.
(8) In inglese Dead-Sunday, in tedesco Todt-Sonntag. Anche nel Molise ho ritrovato questo nome, ma non tracce del rito. Il clero lo ha trasformato intieramente in una festa per le anime del Purgatorio!
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questi paesi una sopravvivenza dell’antico strato slavo della popolazione. Il Grimm (Deutsche Mythòlogie) la considerava addirittura come la festa dell’anno nuovo degli antichi slavi. Il fatto che la cerimonià si trova anche nelle colonie tedesche in Moravia, in Transilvania (dove in un villaggio la Cacciata della Morte è celebrata durante la festa dell’ascensione che cade nel maggio) fa pensare ad altre ipotesi.
Ma il rito ora descritto è in stretta affinità con altri due, più noti fra noi, della « vecchia segata » e del « bruciamento del Carnevale ».
In alcuni villaggi polacchi dell'alta Slesia, l'immagine della morte ha l’aspetto di una vecchia e piglia il nome della dea della morte, Marzana. Il pupazzo è composto nella casa dove si è avuta l’ultima morte e, portato su di un palo ai confini del villaggio, vien gettato nell'acqua o bruciato. Qui possiamo cogliere il passaggio fra il rito della « cacciata della morte » e il segamento della « vecchia segata ».
Come Si è detto, la cerimonia della vecchia segata, si ritrova in Italia, in Francia, in Spagna e fra gli slavi meridionali. In Lombardia, p. es., il giovedì di mezza Quaresima — si noti bene la coincidenza — è chiamato il «giorno delle vecchie ». Il costume popolare è stato studiato ampiamente dal Pitrè per la Sicilia, e da altri.
L'altra cerimonia popolare del « bruciamento del Carnevale » è fin troppo nota. È anch’esso un fratello delle altre uccisioni rituali dell’antica popolazione europea, che uccideva a primavera, se data alla vita di caccia o alla pastorizia, degli animali-dei o, se data all’agricoltura, le divinità dei campi (cereali) o gli spiriti degli alberi, perchè l’uomo primitivo interpretava la sospensione della vita della pianta nell’inverno come un vero indebolimento da invecchiamento dello «spirito» della vegetazione (1): che veniva rinnovato con l’ucciderlo e che veniva riportato a vita in una forma più giovane e più vivace (Frazer). L’uccisione del dio, cioè della sua incarnazione, era peiciòun passo necessario per la sua risurrezione in una forma migliore. Questo principio enunciato dal Frazer nel suo Golden Bough è ancor oggi la più soddisfacente spiegazione di un’infinità di‘riti che non avevano ricevuto prima di lui un significato completo e che vanno, per citare l’esempio classico da cui è partito il Frazer stesso, dall’uccisione annuale del re divino e sacerdote, al Giacomo-vestito-in-verde (Jack-in-Green) degl’inglesi, al Gioigio verde dei tedeschi e all'albero di maggio, rappresentanti diverei dello spirito primaverile della vegetazione che apporta la fecondità e ogni sorta di benedizione (2).
Mario Rossi
(1) Ancor oggi nel Molise — e cito il Molise perchè in esso sto compiendo delle ricerche metodiche nel campo folklórico — è vivissima nei contadini la convinzione che le vicende delle piante dipendono in ultima analisi dalló stato di deboiezza o di forza del loro « spirito ».
(2) A questo stesso gruppo vanno riportate le feste di mezza estate, in cui entrano anche influenze del culto degli astri, i fuochi di s. Giovanni (24 giugno) e i fuochi di.'s. Antonio (13 giugno).
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Il Conclave del 1774 e la Satira a Roma
Sommario. — TI Pontificato di Clemente XIV — La soppressione dei Gesuiti - La leggenda dell’avvelenamento - Il Conclave — L’elezione del Cardinal Braschi — Il melodramma satirico dell’abate Sertor - Sua condanna - La satira a Roma sulla fine del secolo xvnx e sul principio del xix.
■ ella notte dal i° al 2 febbraio del 1769, il pontefice Clemente XIII (già Cardinale Rezzonico) cessava improvvisamente di vivere, in età di 76 anni, dopo averne regnati undici.
Resi gli onori novendiali al Papa defunto, i Cardinali si riunirono in Conclave per eleggere il nuovo Capo della Cristianità. Questo Conclave durò oltre tre mesi. Finalmente, il venerdì 12 maggio del 1769, il cardinale Lorenzo Ganganelli, frate francescano, veniva eletto Sómmo Pontefice con 45 voti, e assumeva il nome di Clemente XIV. Era nato a Sant’Angelo in Vado (oggi provincia di Pesaro e Urbino) nell’anno-1706, ed era figlio di un medico condotto. Nel 1723, vésti l’abito dei frati minori (1); nel 1741 fu chiamato a Roma, dove fu .beneviso a Benedetto XIV, e nel 1759 fu creato cardinale da Clemente XIII. Nel 1773, istigato insistentemente dalle Corti di Versailles, di Madrid, di Vienna, di Napoli e di Lisbona, emanò in data del 21 di luglio la Bolla Dominus ac Redemptor, colla quale sopprimeva la Compagnia di Gesù. I Cardinali e i prelati, incaricati di fare eseguire la Bolla’ pontificia, procedettero con modi brutali, non usando alcuna pietà nè per i vecchi, nè per gl'infermi (2). E mentrq’ i sovrani, ohe portavano i titoli di
(x) Quando l’imperatore Giuseppe II si recò a Roma nel 1769, desiderò di visitare il Conclave; e tutti quei porporati gli furono attorno per ossequiarlo. 11 cardinale Ganganelli, in abito fratesco, si teneva in dispaile. L'imperatore gli si avvicinò, domandandogli: «Come mai Vostra Eminenza non veste come gli altri suoi colleghi?» •Sire, gli rispose il Ganganelli, io sono frate, e vesto l’abito della povertà ».
. (2) Il padre Giulio Cesare Conierà, gesuita, scrisse sei sonetti contro la soppressione dell'ordine, nei quali se la piglia anche coi padri scolopi, coi cappuc*
Maestà Apostolica, di Maestà Cristianissima, di Maestà Cattolica e di Maestà Fedelissima, plaudivano alla soppressióne del-l’Ordine famoso, l’imperatrice Caterina II e il re Federigo II (una scismatica e un luterano) accoglievano — sia pure pei fai dispetto al Papa, come altri dissero — i padri espulsi e perseguitati a Pietroburgo e a Berlino (1).
La salute di Clemente XIV era cagionevole fin dal 1771; egli divenne poi triste e melanconico; il 25 di marzo del 1774 fu sorpreso aa un attacco bronchiale; ai io di settembre peggiorò, e ai 22 finì di vivere in età di 69 anni, dopo un pontificato di 5 anni, 4 mesi e 3 giorni.
IL Ap'pena morto il Papa, corsero voci di avvelenamento, e naturalmente furono accusati i Gesuiti di averlo fatto avvelenare. Parecchi lo credettero; molti però lo negarono (2). Un illustre storico protecìni e con altri religiosi. Veggasi un articolo di Ernesto Rutili; intitolato: La soppressione dei Gesuiti nel >773, nei versi inediti di uno di essi; articolo inserito nella Rivista Bilychnis, Anno III, fascicolo IX (15 settembre 19x4), pag. x76-179.
(1) Gl’increduli e i miscredenti cantarono la rovina dei Gesuiti, come una vittoria dcl’a filosofia; sebbene Federigo II re di Prussia scrivesse al D’Alembert com'egli avesse tanto da dimostrate tutto essere stata opera di vanità, di vendette segrete, d’intrighi, e sopratutto d’interesse e di cupidigia. Oeuvres posili. de Frtd. IL Berlino, 17SS; tomo XI, pag. 75.
(2) I più celebri storici, quali Schocll, Lafuente. Thcincr, Reuinont, Masson, Ginzel, si pronunziarono con grande risolutezza contro l’avvelenamento di Clemente. Lo stesso re di Prussia scriveva al D'Alembert (15 novembre 1774) queste memorande parole: < Non vi è nulla di più falso che la voce dell'avvelenamento del Papa... Io so con ogni certezza ohe tutte le lettere giunte qui, provenienti dall'Italia
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XÓO • CRONACHE
stante, lo Schoell, nella sua grande Storia degli Stali Europei, dice: « Pur nondimeno le persone, che si chiamano il parlilo spa-gnuolo, diffusero una quantità di favole per far credere che il Papa fosse stato avvelenato coll’tofana, un prodotto di cui si è molto parlato, ma che nessuno conosce, e da nessuno è stato mai veduto. Si è diffusa una quantità di libelli, i quali incol-{>ano i Gesuiti di essere autori di un delitto, a cui verità non poggia sopra alcun fatto che possa essere accettato dalla storia (i). Federigo Masson, nel suo dotto volume sul Cardinale De Bernis, prova con validissimi argomenti che Clemente morì di morte naturale, e non fu -avvelenato (2). Il Boehmcr, fiero nemico dei Gesuiti, parlando della morte di quel Pontefice, così scrive: «On accusa les Jésuites d’avoir « empoissonné le Pape. C’est une fable «depuis longtemps réfutée. .Mais cette « fable est instructive: elle montre ce que, «non seulement des libres penseurs, mais « même des cardinaux de l’Eglise romaine, « pouvaient attribuer aux Jésuites à la « fin du XVIII Siècle » (3).
III. Il 5 ottobie, 45 cardinali enfiarono in Conclave. Essi furono: Acquaviva d’Aragona, Albani Alessandro, Albani Gian Fiancesco, Bonaccoisi, Boighese, Borromeo, Boschi. Bracciforte, Braschi, Bufalini, Calino, Colonna Marco Antonio, Colonna Pamphily, Caracciolo, Caraffa di Traietto, Casali, Corsini, Conti, De Bernis, De Luynes, D’Elsi, De Simone, De Rossi, Delle Danze, Fantuzzi, Giraud,
si dichiarano contro l’avvelenamento, e non trovano nulla di straoi dinario nella morte del Gan ganci! t ». Il padre Theincr, che non fu certo un amico dei Gesuiti, parlando della morte del Papa, cosi scrive: • Per poco che il lettore si ricordi di ciò che noi dicemmo intorno alla malattia cd alla morte di Clemente XIV, riconoscerà che essa non fu se non naturale, c che il sospetto di un avvelenamento non potè essere fuorché figlio della passione o di un’illusione sciagurata ». Storia del Pontificato di Clemente XIV, trad. di F. Longhena. Firenze, Tipografia di L. Niocolini, 1854; tomo IV, pag. 407.
(x) Schoell, Cours d'histoire des Etals européens, tomo XLIV, pag. 185.
(2) Frêp. Masson. Le cardinal De Bernis, depuis son Ministère. Paris, Paul OUendorff, 1003, pagg. 293 e seguenti.
(3) H. Boehmer, Les Jésuites. Ouvrage traduit de ¡'allemand par G. Monod. Paris, Armand Colin, 19x0, pag. 277.
Malvezzi, Migozzi, Mofiino, Marefoschi, Negroni, Orsini, Pallavicini, Porracciani, Rezzonico C., Rezzonico G. F., Serbelloni, Sersale, Stoppani, Spinola, Solis, Toneg-giani. Veterani, Visconti, Zelada.
Il Cardinal Casali era stato governatore di Roma; il Negroni e il Borghese erano romani: il Bonaccorsi era stato un protetto dei Gesuiti; Marco Antonio Colónna era un uomo pio, teologo e diplomatico; il Corsini era ambasciatole cesareo; e l’Orsini era ministio nel re Ferdinando IV di Napoli. I due Rezzonico e il Torreg-giani sostenevano la Compagnia di Gesù. Poi vi erano i cardinali di gran nome, cioè Visconti e Serbelloni milanesi; Caraffa di Traietto, Acquaviva d’Aragona e Caracciolo napoletani; Malvezzi bolognese; Pallavicini e Spinola genovesi, più o meno ostili ai Gesuiti. Questi cardinali trovavano il loro appoggio nei francesi De Bernis e De Luynes, negli spagnuoli Solis e Menino. e nel Migazzi trentino, arcivescovo ai Vienna, (i).
Suesto Conclave durò 4 mesi e io giorni, dal 5 ottobre 1774 al 15 febbraio del 1775. Gl’intrighi, i pettegolezzi, le maldicenze, le calunnie, nulla fu risparmiato, sia dai rappresentanti delle potenze, sia nel seno stesso del collegio dei Cardinali. Finalmente fu eletto il cardinale Giovan Angelo Braschi di Cesena. Gli fu chiesto qual nome intendeva di prendere, ed egli rispose: Pius Sextus (2). Allora dal gruppo dei cardinali partì una vóce, che ricordò il famoso epigramma contro Alessandro VI: Semper Sub Sextis perdilo Roma fuit (3). « Io smentirò il poeta » rispose Pio VI. Ahimè! che niun poeta fu mai così profeta come l’autore di questo epigramma.
(x) Vedi D. Silvagni, La Corte e la Società Romana nei secoli XVIII e XIX. Firenze, Tipografia della • Gazzetta d’Italia », 1882; tomo I, pagg. 239-240.
(2) Come ognun sa, i Pontefici,'appena eletti, quasi tutti cambiano il nome. Il primo a far ciò fu Giovanni XII. Egli chi a ma vasi Ottaviano, ed era figlio del principe Alberico e nipote della famigerata Marozia. Fu eletto papa, appena diciottenne, nell’anno 956, alla morte di Agabito II.
(3) Di questo epigramma esiste una variante, che uscì fuori alcuni anni dopo l’elezione di Pio VI. Eccola: '
Semfier sub Sextis genuit deperdila Roma Dal Sixlus cunclis ultima Papa Pius.i
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IV. L’elezione al pontificato del cardinale Braschi non fu, sulle prime, bene accolta oalla popolazione romana. Però quando videro assiso sulla sedia gestatoria quell’uomo di alta statura, che accoglieva graziosamente le suppliche che gli venivano E esentate, lo applaudirono vivamnete.
a le pi ime parole che egli diresse a Monsignor Governatore di Roma furono queste: « Ricordatevi che io voglio essere obbedito»; (1)
Pio VI era un bell’uomo,, còlto, elo quente e alquanto pieno di sé; allorché riceveva gli "ambasciatori o impartiva la benedizione, assumeva un atteggiamento quasi teatrale. Ebbe un regno travagliatissimo; si trovò in lotta cnH'imperatore Giuseppe II, quando questi voile intraprendere nei suoi Stati le riforme politiche, jeligiose e civili, riguardanti la supremazia dello Stato sulla Chiesa; e al tempo della grande'Rivoluzione di Francia si vide spogliato del suo temporale dominio; poi fu arrestato e condotto a Valenza in Francia, dove mori il 29 d’aprile del 1799.
V. Mentre i Cardinali, chiusi in Conclave, discutevano sulla elezione del Pontefice, veniva affisso sui muri di Roma — nei dicembre del 1774 — un manifesto, che diceva così:
lì, CONCLAVE DEI, X774Diamma per musica, da rappresentarsi nel Teatro delle Dami nel carnevale dell’anno 1775, dedicato alle medesime Dame in Roma per il Kracas all’insegna del silenzio con licenza ed approvazione (2).
XrgojMtfnio.
Succeduta la morte del gran Pontefice Clemente XIV di gloriosa e santa memoria nel settembre dell'anno x'774, nel susseguente ottobre si rifilarono i Cardinali, secondo il solito, nel gran Palazzo del Vaticano, per procedere alla elezione di un nuovo Pontefice. L’elezione in tale occasione andò più in lungo del solito, attese le discordie degli Elettori; i quali, a gran fatica, poteron trovarsi uniti su questo importante punto. Il fondamento dell’azione principale è preso dai foglietti del Kracas c. 8, dalle Notizie del Mondo n. 2X, e
(x) Vedi Prtruccelli della Gattina. Hisloire diplomai ique des Conciava. Bruxelles, Librairie Internationale, 1866; tomo IV, pag. 240.
(2) Di quésto dramma satirico, « che non vale nulla, nè come opera d’arte, nè come opera politica » io posseggo un esemplare in 8® picc., stampato a Firenze nella Stamperia Bonducciana nel 1799.
dalla Gazzella di Fuligno. Una parte poi degli accidenti si fingono per maggior comodo della scena, la quale si rappresenta in Conclave.
La Poesia è del celebre Abate Pietro Metastasio, in gran parte.
La Musica è del sig. Niccolò Piccini;
Inventore e ricamatore degli abiti è monsignor Sagiista Landini.
Pittore dello Scenario è il sig. avv. Benedetti.
Diiettore dell’Abbattimento è monsignor Dini, maestro delle cerimonie.
Inventore e direttore del primo ballo è il signor Abate Paris, conclavista dell’eminentissimo Braschi.
Del secondo ballo è il signor Abate Bruni, altro maestro di cerimonie.
Il primo ballo eroico rappresenta la sconfitta degli Spagnuoli presso la città di Velletri data loro dagl’imperiali.
Il secondo ballo rappresenta un giuoco tedesco, chiamato la Cordellina.
Ballano da Uomini.
Il sig, Abate Paris suddetto:
Monsignor Negroni.
Il sig. doti. Rossi medico fisico.
Il sig. Abate Tosi, conclavista.
Ballano da Donne.
Monsignor Valeri ani.
Il sig. Abate Pieri, conclavista.
Il sig. Abate Manni, conclavista.
Il sig. Abate Onorati, conclavista.
Ballano fuori di concerto.
Da uomo: Il sig. Abate Bruni suddetto.
Da Donna: Monsignor Lucca.
4)
Interlocutori Cardinali.
Alessandro Albani. Caracciolo.
Giovan Francesco Al- Negroni.
bani. Sersale.
De Bernis. Scr bel Ioni.
Orsini. Fantuzzi.
Veterani. Zelada, detto l’EcumeCorsini. nico, all’attuale serCasali. vizio di tutte le Corti.
De Rossi. Cario Rezzo» «co.
D’Elei. Caraffa di Traietto.
Calino. Giraud.
Coro di conclavisti e facchini del Concerto.
Il manifesto affisso durante la notte, era stato staccato il mattino dalla sbirraglia; ma affisso audacemente un altro sulle ore 16 (9 antim.), non era più riuscito al bargello di farlo togliere, tale era la ressa della gente per leggerlo, e tale l’osti-pazione del popolo a non lasciar penetrare gli sbirri in mezzo alla folla, la quale.
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mescolata con abati, uomini di spada e dame, teneva indietro la forza pubblica un po’ colle buone'parole, un po’ colle mi-naccie; e la sbirraglia non osava affrontare una folla così fitta, e molto meno signori e signore, che la esortavano ad usare prudenza (x).
VI. Autore di questo dramma fu l’abate Gaetano Sertor, fiorentino stabilito a Roma, uomo mordacissimo e senza coscienza, che scriveva prò e cóntro secondo chi lo pareva; e questa volta pare che lo pagassero i Gesuiti ed i lóro amici, perchè i dardi più avvelenati vennero scagliati da lui contro il cardinale Zelada, nemico della Compagnia di Gesù e sostenitore della politica del re Carlo III di Spagna.
Fu promesso un premio di 500 scudi a colui che fosse riuscito a scoprirne l’autore; e siccome la Camera Apostolica si dichiarò troppo povera per pagare questo premio, i cardinali De Bernis e Giraud, che erano i più furibondi, offrirono di pa-Sarlo di tasca propria. Ma il cardinale elada, che aveva più buon senso di loro, fece dire 200 messe nella Chiesa di San Pietro perchè Iddio non permettesse che l’autore della Satira fosse scoperto. Lo fu non ostante; e sebbene egli proclamasse la propria innocenza, venne condannato a morte; ma la pena gli fu commutata nella galera a vita. Allora il Sertor indirizzo una supplica in ottava rima (2) al pontefice Piò VI. il quale lo liberò dal carcere, ma lo mandò in esilio, li cardinale Zelada, il più maltrattato dalla penna velenosa, del Sertor, compì in tale circostanza un atto generosissimo, perchè non solo s’interpose per ottenérgli la libertà, ma scrivendogli un biglietto, col quale gli notificava la grazia, vi aggiunse un donativo di cento scudi, affinchè, tornando in patria, potesse trovar modo di occupare più onestamente l'ingegno suo (3).
Di questo dramma il Petruccelli della Gattina dà il seguente giudizio, alquanto
(x) Vedi D. Silvagni, op. di., tomo I, pag. 23I.
(2) La prima ottava comincia colle parole: * Padre Augusto del Tcbro ».
(3) Il Sertor scrisse pure un melodramma intitolato: La morte di Cesare, il quale fu posto in musica, nel 1789, da Francesco Bianchi, e rappresentato a Venezia nel teatro Civico già Fenice il 27 fruttidoro (13 settembre) dell’anno VII (1797). Vedi Michieli, Ugo Foscolo contro Vittorio Alfieri1 2 3 nella Rivista d’Italia, dicembre X792.
severo se si voglia: < Cette satire est sotte «et insipide... C’est une parodie de Me-« tastasio, et en- grande partie une appli-« cation des vers de ce poète, ni méchante « ni spirituelle. Bernis, Zélada, Negroni, « Giraud, y sont les plus tournés en ridi-« cule, à cause de leurs intrigues. Le trait «le plus aigu est contre ce Negroni, qui « sollicite Bernis assis à la sellette à l’instar «du maréchal de Vendôme, sans fard et « sans parruque. Giraud et Zélada y figu-« rent, l’un comme une soubrette, l’autre « comme un frontin. La colère de ces car-«dinaux fut extrême. On fit brûler la « pièce par la main du bourreau ». (x)
VII. Nel dramma del Sertor il Conclave si divide in due campi; nel primo il cardinale De Bernis vuol fare eleggere il Negroni; nell’altro l’astuto cardinale Alessandro Albani si adopera per l’elezione del Serbelloni. Ma non v’ha modo alcuno di mettersi d’accordo; «si cerca di definii e la questione per mezzo delle armi; e queste armi sono breviari, cinturoni, calamai e poi venni ».
Quando s’alza la tela e comincia il primo atto del dramma, la scena rappresenta una gran sala con Porta del Conclave, a cui si ascende per lunga e comoda cordonata. Entrano i cardinali Negroni ed Orsini.
Negr. Ho, risoluto, Orsini,
Più consigli non vuo': se da me stesso Non fo cabale e brighe.
Non divento più Papa,, ed il triregno
Mi toglierà qualche rivale indegno.
Ors. (Che bèll'orgoglio!)'; A moderare impara, Negroni, questo tuo
Spirito intollerante; a me la cura
E al cardinal De Bernis
Lascia della tua sorte. Io per te voglio
Più che non credi, ed il mio Re... vedrai...
Basta per or... non è maturo il tempo Di svelarti un arcano,
Che fia palese un giorno...
Sai che il mio Re...
Negr. Ma ciò non giova un corno.
So che l’altr'jcr Panfili
Per non so quale imbroglio.
Poco mancò non ascendesse al soglio.
(x) Petruccelli della Gattina,ofi.cit., tomoIV,’ pag. 224. Fu anche detto, senza poi addurne le prove, che il Sertor fosse stato.pagato dal Cardinale Albani, sebbene questo vecchio satanico ne fosse diabolicamente capace.
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Se veniva Serbale, ei sol potrà,
Maneggiando per me, condui mi al trono...
Ei mi tradisce e Papa più non sono.
Ors. Non condannar si presto
Un amico, o Negron: breve cammino
Non è quel che divide
Da Roma, ih cui noi siamo,
Di Nàpoli le mura, ov’ci dimora;
Forse il tuo messo allora
Subito noi trovò; l’ali alle piante
Non ha Sei sale alfin: forse è vicino
Più che non credi, a me lo dice il cuore.
Che mi palpita in seno.
Negr. Pria che tramonti il sol, giungesse almeno!
Sersale infatti giunge, e incoraggia Ne-groni a sperare; poi, quando questi è partito, dice all’Orstni:
Pel mio caro Negroni
Dunque tutto si faccia... Egli n’è degno.
11 suo sublime ingegno.
L’onesto suo sembiante, umil, devoto.
Ogni accento, ogni moto
Abbastanza palesa il cor gentile
Negli atti ancor del portamento umile (x).
Viene pei in scena il calcinale Zelàda, che l’autore del dramma dipinge come falso, traditore, fedifrago, ambizioso. Costui aspira al posto di Segretario di Stato; e, per ottenerlo, commette qualunque bassezza, raccomandandosi ora a questo, ora a quello fra i cardinali, così detti papabili.
(x) Quando si seppe in Roma la candidatura del Negroni, di nuova famiglia rqmana, nemico dei Gesuiti e cortigiano astuto, usci sùbito il seguente sonetto: . Recò stupor non lieve a Roma intera
Il colpo fier tirato dal Francese (Bernis) Di far papa Negron, di cui la nera Ed oscura prosapia è a ognun palese.
Ma da Albani scopo itosi la sera
Lo fé’ restar nel di col vóto arnese, I gran parenti, qual rapace fiera. Tutto avrian divorato nel paese.
E se cantò il Poeta del suo Enea
Che l'avanzo di Troia al re dei Mori
Costato avria più che non crcdea. Dell'avanzo di Troia ai successori
Quanto costato ayria la nera idea
Di chi tien nello stemma pinti 1 Mori?
« Questo sonettaccio — dice il Silvagni — giucca sul cognome Negroni e sui Mori, che sono nello stemma di famiglia. Del resto, il Serlor era dello stesso avviso che Negroni avrebbe comprato il papato della Francia». Silvagni, op. cil., tomo I, pag. 244. *
Vili. Anche il cardinale D’Elei aspira al Papato, ma trova un accanito oppositore nell’eminentissimo Orsini, il quale lo insulta, chiamandolo povero e pitocco. Il Casali e il Corsini cessano di consolare l’avvilito collega, il quale, invitato a spiegarsi, esclama:
Disse (l'Orsini) che del Papato
Indegno son, perchè è palese a tutti
La mia miseria e poveitade estrema.
Foxse il merito scema
La povertà? dirmi pitocco? Oh stelle! Scannatacelo chiamarmi e galoppino?
’ Dir che non bevo vino
Per risparmiar? Che scrocco ai vignatoli
L'insalata, i fagiuoli,
Le persiche ed i fichi... Il nascer ricco
È caso e non virtù. Che se ragione
Regolasse l’entrata ed arricchisse
Sol colui che è capace Di posseder quattrini, Forse Orsini era d’Elci, e D'Elei Orsini.
I. due Cardinali 'allora lo confortano alla mèglio, e gli promettono di difenderlo a spada tratta se qualcuno si permettesse d’insultarlo. In quel momento giunge la notizia che il Cardinale De Rossi è impazzito; ed infatti il misero porporato entra in scena facendo dei discorsi inconcludenti; gli altri lo ascoltano senza interromperlo, fino a che egli parte esclamando:
Or che solo son io, pcidoni il Pi enee. Ancor io sono amante. Il mio rivale Cercherò nel Giappone, ov'ei si trova. Dissimular non giova...
Già mi tradì l'amor di padre: afflitto
Vedilo a tutte l’oro
Fremer di sdegno. Oh Dio! mi spezza il core.
Il suo mesto silenzio
Era error del mio fallo; ecco la tazza:
S’io dubitai di te... farò ritorno
All'amor di Sabina; e in questa forma
Passa la bella donna e pai che dorma.
L’altro aspirante all’onor della tiara è, come sappiamo, il cardinale Serbellpni, il quale è sostenuto da Alessandro Albani. Questi se la piglia col cardinale de Bernis, Berchè. come già dicemmo, sostiene il egroni, e dice, discorrendo col Serbelloni:
Dunque, per Dio sagrato! (x)
Così vuole ingannarmi il Gallo Prence?
Perdio, soffrir dovremo i suoi deliri?
(1) Il cardinale Alessandro Albani veniva appellato il Sagralino, perchè il suo intercalare era « Per-
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BILYCHNIS
Con cabale e raggiri
Vuol farci un Papa accetto al suo Sovrano E di Roma nemico?
Qual dover, qual vantaggio
Nel promuover Negroni ei si propone?
Il Serbelloni, sebbene sia contento di ▼edeisi sostenuto da un cardinale potente, qual’è ¡’Albani, pur tuttavia teme di non riuscire, perchè il suo rivale Negroni è sostenuto dalla Francia e da parenti por-Sorati, che seguono le parti del cardinale •e Bernis.
Ma 1*Albani lo rassicura, dicendogli:
O Dei! lascia una volta
Questi dubbi importuni, a’ detti tuoi Chi presta fede intera,
Non sa mai quand’è l’alba e quand’è sera.
Quel c...n, che si figura
Ogni scoglio una tempesta. Non si lagni se la testa Fra gli scogli romperà.
Io detesto la follia
Di uno stolto Cardinale, Che sugli altri alzar vuol l’ale E coraggio in sen non ha.
Intanto lo Zelada, che aveva già pronesso il proprio voto al Negroni, adesso lo promette al Serbelloni; ma nè l’uno nè l’altro gli credono. L’Autore del dramma ha dipinto il cardinale Zelada come l’essere più iniquo ed abietto, vero disonore del Sacro Collegio, ma quest’odio non si concepisce e lascia trasparire anche da lontano la calunnia. Havvi chi crede che l’abate Sertor abbia voluto vendicarsi del cardinale Zelada per qualche grave offesa da lui ricevuta; mà quale sia stata questa offesa niuno ha mai potuto sapere.
IX. La candidatura Negroni, che si credeva quasi certa, viene poi abbandonata; rimane dunque il Serbe Ioni, al quale ▼ien perfino consegnato il riregno; ma, sul più belìo, i suoi oppositori, e special-mente il cardinale De Bernis, che gli minaccia Vesclusiva da parte del re di Francia, lo costringono a sottomettersi; ed egli, non ©Stanti le proteste del cardinale
dio Sagrato! »• In una satira del tempo, chiamata Io staccio dei Cardinali, si legge:
Alessandro che è d’Urbino, Vulgo detto il Sagralino, Se non fosse sì avanzato Sarta degno del Papato.
Giovan Francesco Albani, nipote di Alessandro, e di Cailo Rezzonico, indignato consegna il triregno a Sersale, a lui inviato da De Bernis e gli dice:
Non mi conosci
Abbastanza, o Sersale; un fieio colpo
So che darmi pretendi in questa guisa...
Ma a me muovon le risa
Questi vostri artifizi. Io non son reo
Nè indegno del Papato, e ciò mi basta...
Poi, se mi si contrasta, cèco là il trono;
A chi voglia salirvi io l’abbandono.
Il triregno non curo, ed all’amico
Portalo, e di’ che non lo curo un fico.
Dopo questa rinunzia, ¡’Albani e il Rezzonico Si rassegnano; e il De Bernis, non potendo più riprendere la candidatura del Negroni, propone quella del Cardinal Fantuzzi. la quale viene accettata; e il Sersale s’incarica di andare a notificarla a quest’ultimo.
X. Per rendere più impressionabile il suo dramma, l’abate Sertor finge che fra i cardinali, chiusi in Conclave, avvengano delle colluttazioni: parecchi di essi, mentre cercano di fuggire, .si urtano gli uni cogli altri, e cadono in terra, fra le sedie e i tavolini. Intanto da una parte entrano nella Sala i conclavisti, i facchini e i camerieri del Conclave, tutti del partito del De Bernis; dall’altra parte i congiunti dell’Albani. Segue la zuffa con breviari, calamai, polverini e Cinturoni, e termina colla sconfitta del cardinale De Bernis, che esce fuori senza parrucca c'on un breviario in mano, e ai suoi amici fuggenti grida:
Fermate, o Cardinali. Ah! colla fuga
Mal Si compra un Papato; a chi ragiono?
Non ha lègge il timor, la mia sventura
Toglie l’ardire anche ai più forti; adunque Tanto rispètto ha per gli Albani il fato E si poco per me? Son stanco alfine
Di vederne di più. ■
Vuol partire, ma Sersale lo calma e Io invita a rimanere. Tanto da una parte quanto dall’altra tutti sono stanchi di star chiusi e cercano di mettersi d’àccordo per eleggere il Papa. E, come già dicemmo, la scelta cade, quasi unanimemente, sul cardinale Fantuzzi. I nemici diventano amici; e Giovan Francesco Albani e De Bernis cantano il seguente duetto:
G. F. Albani. Dopo l’orrida prigione
Onde è oppresso ¡1 nostro coxe. Ecco alfin la libertà.
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Db Bernis.
G. F. Albani.
De Bernis.
G. F. Albani.
De Bernis.
G. F. Albani.
De Bernis.
A DUE.
Di star lieti abbiamo ragione, Che una volta il nostro amore A riviver tornerà.
Della mia vezzosa Altieri Panni già d’udir la voce.
Veggo i vezzi lusinghieri
Della bella Santacroce (x).
Dalia gioia...
Dal contento...
Manco o Dio!
Morir mi sento Chi m’aiuta, per pietà!
Alme belle, innamorate. Dite voi, che lo piovate. Se più bel piacer si dà.
Il Fantuzzi,,dunque, — secondo il dramma — viene eletto Pontefice. Il Sertor ebbe troppa furia; se avesse aspettato, prima di dar termine alla sua Satira, avrebbe veduto che l’Eletto non fu il Fantuzzi, ma il cardinale Braschi.
Non si può negare Che in questo Dramma satirico, il quale dal lato letterario e drammatico vale pochissimo, L’Autore abbia ben dipinto alcuni porporati; al D’Elei dà del pitocco: al Caraffa di Tra-ietto del prodigo;, chiama l'Orsini un vol-5one: Alessandro Albani un prepotente;
De Rossi (che morì durante il Conclave) vien dipinto pazzo; Francesco Albani e De Bernis sono due damerini; ma esagera, Sdì, chiamando Veterani un imbecille e elada un ipocrita, falso, venale, acerbo nemico di Veterani, che egli uccide, e poi muore fulminato. Si può essere più esagerati e ridicoli a un tempo?
Il Dramma termina còlla notizia arrecata ai Cardinali .da Giovan Francesco Albani, il quale annunzia la morte del Cardinale Zelada, così dicendo:
Da queirimpura bocca
Mille orrende bestemmie
Vomitando, mori. Sua morte insomma
Fu simile alla vita: alteri, irati.
Superbi, formidabili, feroci, Gli ultimi moti fur, l’ultimé voci.
Fantuzzi. Oh giustizia di Dio!
ALESS. Albani. Senza dimora
Si dia tomba a costui, perchè la gioia Di questo di non avveleni.
G. F. Albani. Oh vista!
Oh rimembianza amara!
(1) Era cosa nota a tutti in Roma che il cardinale Giov. Francesco Albani fosse l’amante della principessa Altieri, e il cardinale De Bernis della principessa dì Santa Croce.
De Bernis (a Fa ni usti)., Signor, chieggono a gara Di vederti i tuoi figli, il popol tutto Co! tuo aspetto consola: anch’io lo bramo.
Aless. Albani. Sospira ognun.
Fantuzzi. Ebben, s’appaghi, andiamo.
Coro di facchini.
Su, compagni, allegramente Coroniam sì fausto di: Di star chiusi finalmente Questa'buggera fini.
E così ha termine il dramma.
XI. Fu il cardinale De Bernis che, divenuto capo d’Ordine (1). fece arrestato l’abate Sertor. D’accordo coi cardinali Casali e Giraud, che insieme con lui formavano la Congregazione, ordinò che il Dramma del Conclave fosse bruciato, il 19 novembre, sulla piazza Colonna, per mano del boia.
Questi energici provvedimenti non piac-Suero a quei Cardinali, che non amavano
De Bernis. Si disse che il cardinale Fantuzzi, Prefetto dell’immunità, avesse prò; nunziato la censura contro i tre Capi d’Ordine, che avevano agito senza consultare il Sacro Collegio; si pretese pure che De Bernis fosse stato scomunicato ipso facto, per aver proceduto contro un Sacerdote, poiché il solo Cardinal Vicario aveva il diritto di far ciò, e che, per conseguenza il suo voto sarebbe stato nullo nel Conclave: si affermò pure che il cardinale Marefoschi, il principe Chigi e il duca d’Arco si fossero lamentati perchè era stata scelta, come luogo d’esecuzione, la piazza Colonna, dove son situati i loro Ì»alazzi. Il De Bernis dichiarò di aver atto il proprio dovere, e li lasciò gridare (2).
La Satira a Roma non fu mai accanitamente perseguitata, e nemmeno venne in
(x) Si chiamavano anticamente Capi d’Ordine i tre Cardinali, che, intorno al Papa, rappresentavano il Clero della Chiesa Romana. Essi erano: il Decano dei Preti, il Primicerio della Cancelleria pontificia e l’Arcidiacono. Ma nei tempi moderni questo triumvirato era una emanazione rappiesentativa del Collegio dei Cardinali. Essi donavano la loro prerogativa di precedenza al solo privilegio dell'anzianità. Prima dell’apertura,Ìlei Conclave, i vicari di ciascuno dei tre ordini rimanevano investiti dalle funzioni esecutive. Vedi Lucius Lector, Le Conclave. Paris, Le Hiclloux, Editeur, 1904, pag. 256.
(2) Vedi F. Masson, Le Cardinal De Bernis depuis son Ministre 1/753-1794)', Paris, Paul Gllendortf, «903. Pag. 30S.
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mente ai reggitori di poterla distruggere, perchè sarebbe stato impossibile: si contentavano però di punire gli autori se fossero capitati loro fra le mani, e qualche volta la punizione, era di una gravità eccessiva. Ciò nondimeno le satire, invece di cessare, moltiplicavano (i).
Pasquino e Marforio, le due bocche di marmo della Roma Papale, erano i portavoce delle satire, che si facevano quasi ogni giorno. Quando Pio VI salì al Pontificato. si- fece disegnare uno stemma coi simboli più elevati dell’araldica, cioè l’aquila, i gigli di Francia, le stelle e infine Borea (il vento). L’abate Mariottini, uomo assai còlto e pieno di spirito, fece circolare per tutta Roma (e dicesi che lo mandasse anche al Papa) il seguente distico:
Ridde aquilani imperio, Francorum lilia regi, Sidera ridde polo, calerà. Bracchi, Ubi.
Il distico fu tradotto in italiano dallo stesso suo autore:
Rendi all’impero l'aquila, Dei Franchi i gigli al re, Al ciel rendi le stelle; Il resto, o Braschi, a te.
Il resto era Borea, ossia il vento.
Pio VI, che non era soltanto amante del fasto, ma che era uomo di spirito e d’animo generoso, invece di mandare in galera il Mariottini, gli fece fare una risposta dall’ex-gesuita Cunich, il famoso traduttore àeW Iliade di Omero. Ecco questa risposta:
Lilia Borbonidos, volucrum regina faientes
Denotarli Auclriacos, propitium cetra Deum. Quid nivci flores zephtro qui fante rccistunt? Certant innocui principis ingenium.
(i) Veggasi il pregevole volume di Emilio del Cerro (pseudonimo di N. Niceforo), intitolato: Roma che ride, Sella ni'anni di Satira (1801-1870). Torino, Casa Editrice Nazionale, 1904.
I due distici furono tradotti in versi italiani così:
Propizia Francia Denota il giglio. Protègge l’aquila Col forte artiglio Questo con gli astri Splendon nel ciel.
E così il Zcffiro, Che soffia in terra Sul fiore candido Che non si atterra Del Prence dènota L’ingegno e il cor.
Non si può negare che il padre Cunich fosse un gran maestro sull’arte di adulare.
La Sàtira in Roma ’ebbe fine col 1870. Essa fu portata via —- come altri ben disse — da una ventata, la quale chiuse per sempre la bocca a Pasquino. I classici sonetti-dei Belli, che avevano fatto ridere tutta Roma (specialmente durante il pontificato di Gregorio XVI) scomparvero nei primordi del pontificato di Pio IX. Il poeta romanesco aveva, in quei tempi, iniziata la sua palinodia; e se ne può vedere un esempio in quel sonetto, scritto in lingua italiana, e indirizzato Al Signor Giuseppe Mazzini, nel quale inveisce contro i Triumviri della Repubblica Romana e plaude al ritorno di Pio IX, spalleggiato dalle baionette straniere.
Per circa 15 anni, il più gran Poeta dialettale dei tempi moderni visse quasi estraneo ai grandi rivolgimenti politici, non comprese la rivoluzione del 1859-60: e la detestò. « Finì per lavorare pel governo pontificio nella censura e per i gesuiti, che lo inabissarono di scrupoli, e ne torturarono la coscienza, finché morì nel 1863 quando il popolo romano lo credeva morto da circa vent'anni (1) ».
Con Gioacchino Birili finì per sempre la satira politica in Roma, chè i suoi imitatori — e ce ne sono stati parecchi — si mostraron di gran lunga inferiori al modello, che credettero di potere facilmente imitare.
Licurgo Cappelletti.
(1) D. Silvagni, op. cit., tomo IH, pag. 427.
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PSICOLOGIA RUSSA
(A PROPOSITO DI UN UBRO RECENTE)*
Quali avvenimenti maturano in Russia? Quale nuovo assetto sociale e politico uscirà dagli smulnoie vremia, dai tempi torbidi, che la Russia traversa oggi nella loro fase più acuta? La crisi russa attuale, che sembra contenere gli elementi della più grandiosa esperienza sociale che là storia ricordi, si risolverà essa in una bolla di sapone, sarà essa fatale all’avvenire politico del paese, o veramente rinnoverà il mondo? È difficile rispondere con precisione a queste domande angosciose, ora che la situazione si è fatta ancora più intricata e più buia. Nè credo che il passato possa suggerirci una soluzione che tranquillizzi l’animo. Certo, la grande tragedia odierna 'mette in azione i fattori tradizionali della storia russa e nelle lotte civili che dilaniano il paese riardono i contrasti che lo sconvolsero a traverso i secoli precedenti e specialmente durante il ig°. Soltanto, la lotta che era allora prevalentemente letteraria, è divenuta oggi prevalentemente politica.
Nella lotta intransigente ed accanita, che armò gli slaviani, conservatori e .nazionalistici, decisi assertori della originalità etnica della razza, e che avevano il loro quartier generale a Pietroburgo, contro gli x&padnikt, orientati verso la cultura e la civiltà occidentali, internazionalistici, e che avevano il loro centro a Mosca, in questa lotta, dicevo, si delineano alcune tendenze psicologiche che sembrano predominare anche oggi: l’ideale umanitario, la mania della discussione, la passione della distruzióne.
Tutta l’opera letteraria di Dostoievski è pervasa d’ispirazione umanitaristica. Egli proclama che il popolo russo è «il
• Francesco Losini, Ivan Tttrghienicf,. A. F. Formiggini (collezione « Profili > n. 45). 19x8. Prezzo« L. x.50.
solo popolo capace di finalità schièttamente umane e però il solo atto a realizzare l’ideale universale dell’umanità, cui altri popoli d’Europa tendono con fini esclusivamente nazionalistici ».
Intorno alla natura e alla realizzazione delle aspirazioni dell’anima slava, si faceva gran discutere in tutti i cenacoli di pensatori e di scrittori. Bakunin, Bielinskì, Herzen, tutti sono invasi da una febbre di discussione, da un bisogno frenetico di ricercare le ragioni di ogni cosa, esaurendosi in una verbosità torrenziale, estenuandosi in dispute interminabili. Rimettendo tutto in discussione, si auspicava la distruzione dell’ordine sociale esistente per il rinnovamento della società. Diceva Bakunin: « La passione della distruzione è una passione creatrice », e Dostoievski osservava che la Russia era ognora « nelle doglie del divenire ».
Passione sterile, però, perché© semplice-mente verbale e cerebrale ovvero anarchica e disorgànica. Le creazioni più grandiose si risolvevano nel vuoto. « L’uomo russo è spaventato di vedére il suo nulla », sentenziava Gogol. La sfiducia nelle qualità fattive del popolo s’impadroniva degli animi. Il Lermontof osservava che la Russia non aveva mai inventato nulla, neppure una trappola per i sorci. E il Ciaadaief: « Solitari nel mondo, noi non gli abbiamo dato nulla e nulla ne abbiamo preso: noi non abbiamo aggiunto un’idea al tesoro delle idee dell’umanità, non abbiamo contribuito in nulla al perfezionamento della ragione umana ».
A quésti caratteristici elementi della fsiche russa dà nitido rilievo il profilo del urghienief, delineato con mano maestra da un noto cultore della letteratura slava, il Losini.
Turghienief fu, appunto, uno dei più il-
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lustri rappresentanti dell’occidentalismo; rivale di Dostoievski, « il russo per eccellenza ».
Nel Fumo, mette in bocca a Patughin, la sua professione di fede, là dove questi esclama: « Si, io sono occidentale, sono devoto all’Europa o, per meglio dire, alla civiltà, a quella civiltà che tanto si denigra da noi; io l’amo con tutta l’anima, ho fede in essa, e mai avrò altro amore, altra fede ».
La tendenza verso la vita e la civiltà occidentale dominò siffattamente l’animo di Turghienief, da fargli quasi ripudiare la pàtria. .
Nel suo romanzo principale. Padri e figli, il Turghienief fu il primo a dare espressione letteraria alla passione russa delia distruzione sterile, che egli chiamò, con vocabolo che rimase, il nihilismo.
Basarof, il protagonista del romanzo, è l’incarnazione del nihilismo, il « retore della negazione », che di tutto fa tabula rasa, ma che nulla edifica, che sa degnamente morire, ma non sa utilmente vivere.
Il Turghienief, senza essere un pensatore, ebbe intelligenza acuta, e penetrante e fu dotato di fine sensibilità artistica. Ebbe un grave difetto: una eccessiva vanità, che lo.fece sembrare volubile e incoerente.
Il Losini rievoca succintamente le sue vicende letterarie, le lotte cui fu egli trascinato dagli avversari e non senza malevolenza, e ne passa in rassegna la produzione intellettuale, determinandone le origini ed i caratteri.
La personalità dello scrittore balza su con contorni ben netti da questo profilo, dettato con garbo signorile e ove, tra le osservazioni critiche, fioriscono le reminiscenze umanistiche. Ma credo che uno dei principali meriti di questo saggio consista nell’offrire materia alla meditazione del lettore. La grande preoccupazione dell’ora ci riporta al quesito: cosa avviene in Russia? è un ordo novus che si sta elaborando, o non avremo che una rudis indigestaque molis, un caos terribile ed inutile?
L’attività degli occidentalisti, di cui Turghienief fu l’araldo, e che tante speranze e tanti entusiasmi aveva destato a suo tempo, finì in una bolla di sapóne. Tutti ci appaiono, .più o meno, come gli eroi stessi di Turghienief, di cui il Cerni-scevski, scrisse: « Quante volte sono messi al punto, altrettante si ritraggono sgomenti, confusi ». Ardente alla disputa, fiaccò all’azione; è questo il destino del po
polo russo, simboleggiato nel personaggio turghienieviano, Drnitri Rudin?
« Rudin —- scrive il Losini — è un precursore, il che è quanto dire spostato e sfortunato: povero naufrago del passato, egli sogna vólto a l’avvenire, ed impersona le prime vaghe aspirazioni ad un nuovo ordine di cose; ma privo di senso pratico e di qualsiasi attitudine ad operare, vive nel suo sogno senza saper provvedere alla vita presente, nè preparare quell’avvenire: egli non sa in qual modo si attuino le sue idealità. Parlatore facile ed affascinante, seduce con la novità delle sue vedute: ma sfumata l’ebrezza del momentaneo trionfo, cessata l’attrattiva della novità, egli si ritrova di fronte alla vita reale, spostato, inoperoso, parassita. Rapida l’ascesa, rapidissima la discesa. Teatro della gesta rudi-niana è un tranquillo ambiente campa-gnuolo, dove, appena capitato, egli suscita con lo sfolgorio della sua visione, e della facondia un momentaneo sobollimento di coscienze: ma la repentina vampata impallidisce e si spegne rapidamente sotto il grave ed inesistibile flusso della- vita pratica che prende il sopravvento: il bel sogno dilegua, vanisce miseramente nell’indifferenza generale; e il profeta, l’apostolo, accolto come atteso messia, si ritrova solo, abbandonato come un disperso, nel viaggio ch’ei riprende verso la meta, delle sue illusioni. A che tenda, egli crede di saperlo; dove vada, egli non sa: peregrino dovunque, cittadino in nessun luogo, corre la terra, messaggero di un’idea che non trova ricetto; 6 straniero rimane in ogni gente, benché voglia farle partecipi dell’interna luce che lo illumina.’ E* un ingenuo, cui non tempra il fuoco dell’esperienza e della realtà, e dell’ingenuità Be difetti, impeti generosi e vanità.
e fervida, cuore ardente, temperamento entusiasta, innamorato del bello, Rudin è alla mercè di due moventi che agiscono uniti: bontà e vanità. È pronto ad immolarsi per un’idea, se il sacrificio porti in sè il suo premio, coronandolo martire od eroe di un popolo; ma è inetto all’azione sistematica, pertinace: egli non ha volontà, e le sue mani delicate rifiutansi al lavoro oscuro, metodico, che lento, ma sicuro, edifica: muove contro un mondo e intanto non sa provvedere alle prime necessità della vita, di fronte alle quali si mostra debole, impreparato, inesperto come un fanciullo: è insomma un disutile, e sarebbe un dappoco se in un momento eccezionale non fosse capace di un atto
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PSICOLOGIA RUSSA
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eroico. Giunge nunzio di un rinnovamento, e, fuori del suo apostolato, è una povera rovina del passato: sospinto da ideali generosi e rattenuto da una debolezza insanabile. non ha mai l’atto pari al detto, e passa la sua vita nell’accingersi a lavorare e nel rimetter la. cosa al domani logorandosi sterilmente in parole. Oltre a ciò, carattere fiacco e non scevro di tare, Rudin, tutto alla sua mirabile visione, non s’avvede d’immergere talvolta il piede nel fango, scivola a posizioni indecorose, subisce umiliazioni e parrebbe un volgare parassita ed un uomo senza dignità, se dai mali passi non si ritraesse senza utili, come senza interesse nè proposito deliberato v’incappa. Ma ne esce malconcio, portando altrove, alla ventura, la sua esistenza randagia, finché, povero oscuro, sbandato dell’avan-Ì;uardia umana, nelle barricate di Parigi a getto della vita per una causa votata alla sconfitta. E, ultima irrisione della sorte! anche in morte egli è frainteso: agli occhi di coloro pei quali lotta, Rudin, che si sacrifica per Una idealità altrui e nella quale forse non ha fede, non è russo, ma Í»©lacco: « Voilà ^u’on nous a tué le Peonáis ».
« Triste epilogo di vani conati, con cui l’autore ammonisce essere sterili le aspira
zioni scompagnate del genio pratico che voglia e sappia attuarle operando indefessamente. Questo sognatore, che ognora si dispone ad agire e mai agisce, questo visionario, vittima della sua immaginazione e della sua impotenza, e specialmente della sua vanità, è tipo frequente nel romanzo russo: nel romanzo turghienieviano in ¡specie, poiché rispecchia sotto certi aspetti l’indole dell’autore, nobile e vana, generosa e debole (pag. 57 ss.) ».
Ho voluto riportare l’analisi psicologica che il Losini traccia del personaggio turghienieviano, perchè in essa troviamo sintetizzate alcune qualità caratteristiche di tutta la razza e che governano ancor oggi le sue vicende storiche: l’ingenuità vanitosa, l’idealismo impotente, la verbosità abulica, la sproporzione tra il volere e il potere, la fusione di elementi nobili ed ignobili. La luce che infiamma l’orizzonte è talvolta una meteora, e talvolta gran rumore venne fatto per nulla. Molte cose ci fa comprendere lo studio dèi Losini per la lezione che si sprigiona dai fatti che egli narra per ciò che possiamo attenderci da un popolo, il cui destino è stato scolpito dal Ciaadaief in questa sua sentenza: « Noi germiniamo, ma non maturiamo ».
Antonino De Stefano
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PAGINE RUSSE
LA TENTAZIONE'1
o « spirito terribile ed intelligente, lo spirito della autodistruzione e della negazione» — (continua il vecchio Inquisitore, mentre il Cristo sceso di nuovo sulla terra e preso prigioniero da lui l’ascolta silenzioso) — il grande spirito Ti parlò nel deserto e ci fu trasmesso dagli scritti come egli T’avesse “ tentato ”... È così? Ed era possibile di dire qualche cosa di più vero di quello che egli Ti propose nelle sue tre domande e che Tu rifiutasti? Negli scritti queste sono chiamate le "tentazioni
Invece se sulla terra è stato compiuto un vero ed immenso miracolo fu appunto quel giorno, nel giorno di quelle tentazioni. Il miracolo sta appunto nel fatto' che quelle tre domande furono formulate. Ammettiamo, per esempio, che quelle tre domande dello spirito del male fossero andate perdute negli scritti e se ne fosse perduta completamente la traccia e bisognasse rievocarle nuovamente e riscriverle • nella storia; e che per far questo bisognasse ricorrere ai maggiori sapienti della terra — ai capi ecclesiastici, agli scienziati, filosofi, poeti — e si dicesse loro: — Pensate, inventate tre domande, ma tali, che non solo corrispondano alla immensità dell’evento, ma esprimano inoltre in tre parole, in tre sole frasi umane tutta la storia futura dell’universo e dell’umanità — credi Tu, che tutta la saggezza della terra, riunita insieme, potrebbe inventare qualche cosa di simile per la forza e per la profondità alle tre domande che realmente Ti furono rivolte allora dal potente ed intelligente spirito nel deserto? Già in base soltanto a queste domande, miracolosamente proferite, si può capire Che Tu non hai soltanto da fare colla intelligenza umana di oggi, ma con quella eterna, secolare ed assoluta. Perchè in esse è come riunita in una formola intera e vien predetta tutta la recente storia umana e sono tre immagini, nelle quali si conciliano tutte le contradizioni stòriche della natura umana di tutta la terra. Allora tutto questo non poteva essere ancora compreso così bene, perchè il futuro era ignoto, ma ora che tanti secoli sono passati, noi vediamo, che tutto in queste tre domande è così bene indovinato e predetto e tutto si è così bene avverato che non è possibile nè aggiungervi nè sottrarvi nulla.
(i) Dal poema in prosa II Grande Inquisitore contenuto a mo’ d’intermezzo nell’opera I fratelli Karamasoff. Vedasi quanto scrisse Èva Amendola sul pensiero religioso e filosofico del Dostoievsky in Bitychnis, gennaio 1917.
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LA TENTAZIONE
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« Dunque decidi da Te ehi ha ragione: Tu o colui che allora Ti fece le domande? Ricordati della prima domanda; se non testualmente, il senso ne è questo: " Tu vuoi andare nel mondo e vai colle mani vuote, con una promessa di libertà che gli uomini nella loro semplicità e nel loro peccato innato non possono neppure capire, di cui hanno soggezione e paura — perchè nulla fu mai-per l'uomo e per la società umana più insopportabile della libertà! Ma Tu vedi queste pietre in questo deserto vuoto ed infuocato? Cambiale in pane e l'umanità Ti correrà appresso non come un gregge nobile e docile, ma vile e pieno del timore che Tu alzi la Tua mano e cessi di dar loro il Tuo pane
«Ma Tu non volesti privare l'uomo della libertà e respingesti l’offerta, perchè: che libertà è dunque questa, ragionasti Tu, se l’obbedienza viene comprata col pane? E rispondesti che l'uomo' non vive solo di pane; ma Tu Io sai, che in nome di questo stésso pane di quaggiù lo spirito della Terra si rivolterà contro di Te e lotterà contro di Te e Ti vincerà e tutti andranno con lui, esclamando: “ Non vi è nessuno che come questa bestia ci abbia dato il fuoco dal cielo ". Tu lo sai che passeranno secoli e l’umanità proclamerà per bocca della saggezza e della scienza che non esiste il delitto e che quindi non esiste il peccato, ma che esistono soltanto degli affamati. « Dà lóro da mangiare e poi chiedi loro la virtù! » ecco che cosa scriveranno sulla bandiera, che inalzeranno contro di Te e nel nome della quale sarà distrutto il Tuo tempio. Al posto del Tuo tempio si erigerà un nuovo edificio, una nuova e terribile torre Babilonica, però anche questa non sarà condotta a termine come la prima... Ma pure Tu potresti evitare questa nuova torre e risparmiare agli uomini secoli di sofferenze. Perchè sarà da noi che loro verranno, dopo essersi torturati mille anni con la loro torre! Allora ci verranno a cercare nuovamente sotto la terra, nelle catacombe che ci nasconderanno (perchè saremo di nuovo perseguitati e torturati), ci troveranno ed esclameranno implorandoci: “ Dateci da mangiare, perchè coloro che ci promisero il fuoco dal cielo non hanno mantenuto la loro promessa ”. E allora saremo noi a terminare la torre, perchè la finirà colui che sazierà gli affamati, e lo faremo nel nome Tuo e mentiremo dicendo così. 0 mai» mai senza noi gli uomini si sazieranno! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno' liberi, ma in fine succederà che getteranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: " Fateci schiavi, ma saziateci! Capiranno, finalmente, loro stessi, che libertà e abbondanza non sono conciliabili, perchè mai e poi mai sapranno dividere il pane fra di loro! E si persuaderanno anche che mai potranno essere liberi, perchè deboli, corrotti, miseri e ribelli. Tu promettesti loro il pane divino, ma ripeto, come possono questi poveri esseri deboli, eternamente corrotti ed ignobili, simboleggiare col pane terreno il pane divino? E se verranno con.Te migliaia e decine di migliaia di persone in nome del cibo divino, che ne sarà .degli altri milioni e decine di milioni di esseri che non avranno la forza di preferire il pane divino a quello terreno? 0 forse Ti sono cari soltanto quelle decine di migliaia di grandi e di forti, e gli altri milioni di deboli, innumerevoli come i granelli della sabbia del mare, ma che pure Ti amano, debbono servire soltanto per formare, la massa da cui si elevano i grandi ed i forti? No,, ti sono cari anche i deboli. Essi sono corrotti e ribelli, ma alla fine saranno essi che diventeranno obbedienti. Ci
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considereranno con meraviglia e ci crederanno delle divinità, perchè noi ci siamo messi alla testa, abbiamo consentito a sopportare la libertà, di Cui loro» > déboli, ebbero paura, ed abbiamo voluto dominarli — tanto terribile sarà diventata alla fine per i deboli l'idea di essere liberi. Ma noi diremo, che siamo ubbidienti a Te e che dominiamo in nome Tuo. Noi li inganneremo di nuovo,, perchè quanto a Te non T’accetteremo più fra di noi. Appunto in questo inganno consisterà la nostra sofferenza, perchè saremo costretti a mentire.
«Ecco che cosa significava la prima domanda nel deserto ed ecco che cosa Tu hai rifiutato nel nome della libertà che hai messo al di sopra di tutto. In questa domanda era sottinteso il grande mistero dell'universo. Avendo accettato il « pane », Tu avresti soddisfatti la bramosia umana, bramosia comune e secolare, così dell’individuo come di tutta l'umanità — bramosia di sapere! “Dinanzi a chi dobbiamo noi inchinarci? ” « Non c’è pensiero più insistente e più tormentoso per l’uomo rimasto libero di questo bisogno di trovare al più presto possibile a chi egli debba inchinarsi. Però l'uomo cerca d'inchinarsi a ciò che non ammette discussione, e che non ammette discussione al punto che tutti gli uomini in una volta consentano di inchinarsi dinanzi a questo dio. Perchè il desiderio di questi miseri esseri è di trovare non solo il dio a cui-io o un altro s’inchina, ma di trovare quello, in cui tutti credono assolutamente e a cui tutti si inchinano e tutti insieme. Ed ecco, questo bisogno della adorazione in comune è dal principio dei secoli la più grande tortura dell’uomo tanto del singolo individuo che dell’intera umanità. Causa l'adorazione ih comune gli uomini si sono combattuti con la spada. Essi adoravano differenti dii e gridavano l’uno all’altro: "Abbandonate i vostri dii e venite ad adorare i nostri, altrimenti morte a voi e ai vostri dii ”. E così sarà fino alla fine dell’universo; anche allora, quando nel mondo saranno spariti gli dei, s'inchineranno lo stesso dinanzi agli idoli. Tu sapevi. Tu non potevi ignorare questo segreto fondamentale della natura umana, ma Tu rifiutasti quella bandiera, che Ti fu offerta ch’è l’unico mezzo sicuro per forzare tutti quanti ad inchinarsi dinanzi a Te indiscutibilmente — la- bandiera del pane terreno; lo rifiutasti in nome della libertà e in nome del pane divino. Guarda dunque che cosa Tu hai fatto! E sempre in nome della libertà! Ti dico che l’uomo non ha desiderio più tormentoso che di trovare colui al quale trasmettere al più presto possibile il dono della libertà, col quale nasce questo essere miserabile. Ma solo colui che tranquillizzerà la loro coscienza, s’impossesserà della libertà degli uomini. Insieme al pane Ti fu dato una bandiera indiscutibile: se darai il pane', l'uomo s'inchinerà, perchè non vi è nulla di più indiscutibile del pane, ma se nello stesso tempo qualcuno prenderà possesso della sua coscienza,’ oh, allora l’uomo lascerà perfino il Tuo pane e andrà con colui che ha lusingata la sua coscienza. In questo Tu avevi ragione. Perchè il segreto della esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive. Senza l’idea chiara sul perchè si vive l'uomo non acconsentirà di vivere, e si sopprimerà piuttosto che rimanere sulla terra, anche se vivesse in sopra abbondanza di pane.
È così? Ma che cosa avvenne? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu gliela hai aumentata! 0 hai dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è
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LA TENTAZIONE
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più cara all'uomo che l’essere libero di scegliere e riconoscere il bene ed il male? Non vi è nulla di più lusinghiero per l’uomo della libertà della propria coscienza, ma allo stesso tempo non vi è nulla di più tormentoso di questa libertà. Ed ecco, invece di fondare la pace della coscienza umana su basi sicure ed eterne. Tu scegliesti ciò che vi è di più straordinario, di più misterióso ed indeciso, tutto ciò che supera le forze degli uomini e perciò agisti come se non li amassi; e Tu che eri venuto per dare la propria vita per amore degli uomini, invece di impadronirti della libertà umana. Tu l’hai aumentata ed hai per l’eternità dato all’anima umana la coscienza penosa delle sue torture. Tu desideravi l’amore libero dell’uomo, desideravi ch’égli venisse da Te liberamente, attirato dal Tuo incanto. Invece di seguire l’antica legge fissa, ora col cuore libero l'uomo deve decidere ciò che è il bene e ciò che è il male avendo per guida soltanto la Tua immagine. Ma è possibile che Tu non abbia pensato che l'uomo respingerà e metterà in dubbio perfino la Tua immagine e la Tua verità, se avrà da portare un fardello così terribile come è quello della libertà della scelta? L’uomo alla fine esclamerà che la verità non è in Te, perchè era impossibile gettarli nello smarrimento e nella tortura più di quello che facesti Tu, lasciando a loro tanti pensieri e tanti problemi insolubili. In tal modo Tu stesso iniziasti la distruzione del Tuo impèro e non accusare di ciò nessun altro. Fu questo ciò che Ti venne offerto? Vi sono tre forze, tre uniche forze sulla terra, che possono per l’eternità vincere ed incantare la coscienza di questi ribelli deboli e dare loro la felicità; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti l’uno e l’altro e cedesti la terza: Quando lo spirito terribile e savio Ti pose in cima del tempio e Ti disse: «Se sei Figlio di Dio, buttati giù, perchè è stato detto che gli angeli Ti reggeranno e non cadrai e non Ti farai male alcuno, così dimostrerai che sei Figlio d’iddio e farai atto di fede verso il padre Tuo », Tu dopo averlo ascoltato, respingesti l’offerta e non Ti sottomettesti e non Ti buttasti , giù. Oh, certo, allora Tu agisti orgogliosamente e magnificamente come un Dio; ma gli uomini di questa stirpe debole e ribelle sono forse simili a Te? Oh, Tu hai capito allora, che facendo un passo solo, un movimento solo per buttarti giù, avresti tentato il Signore e avresti perduta la Tua fede in Lui e Ti saresti ucciso cadendo su quella terra che eri venuto a salvare e avrebbe giubilato lo spirito intelligente che Ti ha tentato. Ma, Ti ripeto, vi sono molti come Te? È possibile che Tu abbia potuto ammettere, sia pure per un minuto, che anche gli uomini abbiano la forza contro una simile tentazione? La natura umana non è creata per respingere il miracolo e rimettersi alla libera decisione del cuore in tali momenti terribili della vita, nei momenti in cui s’affacciano terribili e tormentosi i più grandi problemi dell’anima. Oh, Tu sapevi che il Tuo atto eroico sarebbe conservato negli scritti, raggiungerebbe la profondità dei tempi e gli estremi confini della terra e speravi che, seguendoti, anche l’uomo rimarrebbe con Dio non avendo bisogno del miracolo. Ma Tu non sapevi che l’uomo col rifiutare il miracolo, avrebbe rinnegato pure Dio? Perchè l’uomo cerca non tanto Dio, quanto il miracolo. E così, siccome l’uomo non ha là forza di rimanere senza il miracolo, si cr^rà nuovi miracoli, fra i suoi simili e s’inchinerà dinanzi il miracolo del ciarlatano, dinanzi alla magia delle vecchie streghe, benché mille volte ribelle, eretico
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ed àteo. Tu non sei sceso dalla croce, quando Ti gridavano, schernendoti: “ Scendi dalla Croce e noi crederemo che Tu sei il Figlio di Dio ”. Tu non sei sceso, perchè non volesti comprare l’uomo col miracolo e bramavi la fede libera e non quella basata sui miracoli. Desideravi l’amore libero e non l’abbandono dello schiavo dinanzi al potere che l’ha sbigottito. Ma anche qui Tu giudicasti gli uomini in un modo troppo elevato, perchè certo essi sono schiavi, benché a volte ribelli. Guarda intorno e giudica, ecco, sono passati quindici secoli; va, guardali: chi hai Tu innalzato fino a Te? Giurerei» che l'uomo è più debole e più basso di quello che Tu noi pensi. Può, può egli compiere ciò che hai compiuto Tu? Stimandolo capace di Vinto agivi come se Tu avessi cessato di compatirlo; troppo, troppo gli hai chiesto! Tu che hai amato l’uomo più di te stesso! Stimandolo meno avresti chiesto meno da lui, e ciò sarebbe stato più vicino all'amore, perchè il suo fardello sarebbe stato più leggero. Egli è debole e vile. Che importa la sua ribellione contro chi lo domina? Egli è superbo di essere ribelle. Questa è la superbia del fanciullo e dello scolaro. Così sono i piccoli fanciulli che si ribellano in classe e Che hanno cacciato via il maestro. Ma verrà là fine di questa ebbrézza da bimbi Che a loro costerà cara. Abbatteranno i templi e bagneranno la terra di sangue. Ma finalmente gl'insani bambini capiranno che, anche se rivoluzionari, sono dei rivoluzionari deboli che non hanno potuto sopportare la loro propria rivolta. Versando lagrime inutili comprenderanno, finalmente, che Colui che li ha spinti’alla ribellione, voleva, senza dubbio, ridersi di loro. Diranno che sonò disperati e ciò sarà un sacrilegio che li renderà ancora più infelici, perchè la natura umana non sopporta il sacrilegio e alla fine delle fini essa stessa se ne vendicherà. Ed ecco l’irrequietezza, lo smarrimento e la disgrazia-: il destino degli uomini di oggi, dopo che Tu hai tanto sofferto per la loro libertà!
« Il Tuo grande profeta dice nella sua visione, nell'Apocalissi, di aver visto tutti coloro che hanno preso parte alla prima risurrezione e che ve ne-erano di ogni tribù, dodici mila. Ma se ve ne erano tanti, essi erano però non come uomini, ma come dii. Hanno sofferto la tua croce, hanno sofferto diecine d’anni nel deserto nudo; hanno preferito la fame nutrendosi di radici, e certo Tu puoi con orgoglio indicare questi figli della libertà, dell'amore libero, del libero e magnifico sacrificio compiuto nel nome Tuo. Ricordati però che essi non furono che poche migliaia e per di più erano dii, ma gli altri? E di che cosa sono colpevoli gli altri uomini deboli che non potevano sopportare ciò che hanno sopportato i for/i? In che cosa è colpevole l’anima debole che non ha la forza di contenere dei doni così tremendi? Ed è possibile che davvero Tu sia venuto soltanto dagli eletti e per gli eletti? Ma se è così questo è un mistero e noi non possiamo capirlo. E se vi è un mistero, anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e di insegnare a loro che non importa la decisione libera dei loro cuori e non il loro amore, ma importa il mistero, al quale debbono obbedire ciecamente, anche se ciò ripugna alla loro coscienza. E così abbiamo fatto. Abbiamo corretto il Tuo atto eroico e l’abbiamo fondato sul miracelo, sul mistero e sulla autorità. E gli uomini furono felici di essere nuovamente condotti come un gregge e che dai loro cuori fosse tolto, finalmente, un dono così terribile che dava a loro tanto tormento. Non avevamo
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ragione, insegnando e facendo così, dimmi? Non amavamo noi ¡’umanità avendo così umilmente riconosciuto la sua impotenza, avendo alleggerito con amore il suo fardello e permettendo alla sua natura debole magari il peccato, ma sotto la nostra responsabilità? E perchè dunque sei venuto ora a disturbarci? E perchè ora Tu mi guardi coi tuoi occhi miti? Odiami, non voglio il Tuo amore, perchè io stesso non Ti amo. E che cosa ho da nascondere dinanzi a Te? O forse io non so con chi parlo? Ciò che ho da dirti Ti è già noto, lo leggo nei tuoi occhi. E posso io nasconderti il nostro mistero? 0 forse vuoi sentire la confessione dalle mie labbra: ebbene già da molto tempo noi non siamo più con te, ma con luì? Siamo con lui già da otto secoli e precisamente da quando abbiamo accettato da lui ciò che Tu hai rifiutato con indignazione: la sua ultima offerta: tutti i regni terreni. Prendemmo Roma e la spada del Cesare e ci dichiarammo da noi stessi re della terra, sebbene ancora oggi siamo completamente nel nostro intento.
• Ma di chi Fa colpa? Oh questo affare è appena iniziato, però esso è già iniziato. Molto tempo ancora bisogna aspettare per il suo compimento e molto ancora bisognerà soffrire; però raggiungeremo il nostro scopo e saremo i Cesari e allora penseremo alla felicità universale degli uomini. Intanto Tu avresti potuto prendere anche allora la spada di Cesare. Perchè respingesti quell’ultimo dono? Ac Gettando questo terzo consiglio dello spirito potente. Tu avresti realizzato tutto ciò Che l’uomo cerca sulla terra; cioè: uno dinanzi a cui inchinarsi e a cui affidare la propria coscienza e in cui unirsi, finalmente, tutti come in un formicaio, perchè il bisogno di una unione universale è la terza ed ultima sofferenza degli uomini. L’umanità ha sempre cercato di sistemarsi a qualunque costo universalmente. Molti furono i popoli grandi, che ebbero una storia eroica, ma più questi popoli progredirono, più erano infelici, perchè più fortemente capivano la necessità dell'unione umana universale. I grandi conquistatori, Timuri e Tschinghischan, sono passati come un uragano sulla terra, tentando di conquistare l’universo, ma anche loro, inconsciamente, espressero lo stesso grande bisogno dell’umanità
. dell’unione universale e generale. Accettando l’universo e la spada di Cesare avre-> sti fondato il regno universale ed avresti dato la pace universale. Perchè chi altro deve regnare sugli uòmini, se non coloro Che governano la loro coscienza e nelle mani dei quali sono i loro averi. Abbiamo preso la spada di Cesare e avendola presa, certo. Ti abbiamo rinnegato ed abbiamo seguito quell’altro, lui, lo spirito del male. Ma solo così comincerà per gli uomini il regno della pace e della felicità. Tu sei orgoglioso dei Tuoi eletti, ma Tu non hai che degli eletti, noi invece tranquillizzeremo tutti. E poi quanti di questi eletti e di questi potenti» che potrebbero anche essere fra gli eletti, si sono stancati, alla fine, di aspettarti ed hanno portato le forze del loro spirito ed il fuòco del loro cuore su un altro campo ed hanno finito per inalzare la loro bandiera libera contro di Te? Ma sei stato Tu stesso che hai inalzato questa bandiera. Con noi tutti saranno felici e non potranno più nè ribellarsi nè distruggersi l’un l’altro come Succede nella Tua libertà. Oh, noi convinceremo gli uomini Che saranno liberi soltanto, quando rinunzieranno alle loro libertà per sottomettersi a noi. Ebbene, avremo noi ragione o torto? Loro stessi giudicheranno e si ricorderanno fino a che punto di schiavitù e di smar-
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rimento la Tua libertà li ha portati. La libertà, l'intelligenza libera e la scienza portano in tali labirinti e Ti presentano tali miracoli e tali misteri in simboli che alcuni disobbedienti e feroci distruggeranno se stessi; gli altri disobbedienti, ma deboli si distruggeranno reciprocamente e gli altri rimasti, deboli e disgraziati, verranno ai nostri piedi e ci imploreranno piangendo: “ Si, voi avevate ragione ", diranno “ voi soli possedevate il segreto e noi ritorniamo da voi, salvateci da noi stessi ”. Ricevendo da noi il pane, certo, vedranno chiaramente, che noi prendiamo il frutto del loro lavoro, guadagnato con le loro mani, per distribuirlo tra loro tutti senza nessun miracolo; vedranno, che non abbiamo cambiato le pietre in pane, ma in verità più del pane, saranno contenti di riceverlo dalie nostre mani! Perchè troppo si ricorderanno, che prima senza di noi l’istesso pane guadagnato da loro si cambiava in pietra tra le loro mani e quando verranno da noi invece sarà pane davvero. Troppo, troppo apprezzeranno che cosa significa sottomettersi una volta per sempre! E finché gli uomini non capiranno questo, essi saranno disgraziati. Chi ha spinto la greggia e l’ha dispersa per vie ignote? Ma la greggia si radunerà di nuovo e di nuovo si sottometterà e questa volta per sempre. Allora verrà una felicità tranquilla ed umile, la felicità degli esseri deboli quali sono stati creati. Oh, noi li persuaderemo finalmente di non avere orgoglio, Tu li hai inalzati e con questo hai insegnato loro di essere orgogliosi; invece proveremo che sono deboli, che essi sono soltanto miseri bimbi, che la felicità dei fanciulli è la più dolce. Diventeranno timidi e ci guarderanno timorosi, si stringeranno intorno a noi, coihe pulcini intorno alla chioccia. Ci guarderanno con paura e saranno orgogliosi di noi che siamo così potenti e così intelligenti, che abbiamo potuto domare una greggia ribelle e così numerosa. Indeboliti cominceranno a tremare dinanzi la nostra ira, le loro intelligenze diventeranno timide, i loro occhi diventeranno lacrimosi come quelli dei bimbi e delle donne, ma egualmente presto passeranno ad un nostro cenno all'allegria e al riso, alla gioia serena e alla felice canzoncina bambinesca... Sì, noi li forzeremo a lavorare poi nelle ore libere dal lavoro, organizzeremo la loro vita, come un gioco da bimbi, con canzoni fanciullesche, con danze innocenti. Oh, noi permetteremo loro il peccato; essi sono deboli e senza forza e ci ameranno come i bimbi, perchè noi abbiamo loro permesso di peccare. Noi diremo, che ogni peccato sarà perdonato, se fatto col nostro permesso; e noi permettiamo loro di peccare, perchè li amiamo; l’espiazione di questi peccati la prendiamo su di noi. E assumendola noi, loro ci adoreranno, adoreranno questi benefattori, che dinanzi a Dio si sono' addossati i loro peccati. E non avranno nessun segreto per noi. Saremo noi che permetteremo o no di vivere colle loro mogli e amanti, di avere o no dei figli — sempre giudicando noi a seconda della loro obbedienza — essi ci saranno sottomessi con allegria e con gioia. I più tormentosi segreti della loro coscienza, tutto, tutto porteranno a noi e noi permetteremo tutto e loro confideranno con gioia nella nostra decisione, perchè essa li libererà da un grande pensiero e dalle terribili sofferenze che dà oggi una libera decisione personale. E tutti saranno felici, tutti i milioni di esseri, eccetto quei pochi che li dirigono. Perchè soltanto noi, noi, che serbiamo il loro mistero, solo noi saremo i tormentati. Vi saranno milioni di bimbi felici e soltanto migliaia di martiri.
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----------1---------------------------------------------------------------------che hanno preso su di loro la maledizione della conoscenza del bene e del male. Morranno silenziosi, si sdegneranno silenziosi nel nome Tuo e dopo la tomba avranno soltanto la morte. Ma noi conserveremo il segreto e per la loro felicità lusingheremo i poveri deboli colla ricompensa celeste ed eterna. Perchè anche se vi sarà qualche cosa nell'altro mondo, non sarà certo per le anime come le loro. Dicono e profetizzano che Tu verrai e vincerai ancora, verrai coi Tuoi eletti, coi Tuoi orgogliosi e potenti, ma noi, diremo allora, che loro (questi eletti), hanno salvato soltanto loro stessi; noi invece abbiamo salvato tutti. Io mi alzerò e Ti mostrerò le migliaia di milioni di bimbi felici che non hanno conosciuto il peccato. E noi che abbiamo preso su di noi il loro peccato per la loro felicità ci inalzeremo dinanzi a Te e diremo: “ Giudicaci, se puoi e osi ”. Sappi che io non ho paura di Te. Sappi che anche io sono stato nel deserto, che anche io mi sono nutrito di radici e di miele delle api selvatiche, che anche io benediceva la libertà in nome della qyale Tu hai benedetto gli uomini ed anche io mi sono preparato per entrare nella schiera dei Tuoi eletti, dei Tuoi potenti e forti colla brama di “ Completare il numero ”. Ma mi svegliai e non volli servire la follia. Tornai indietro e m’associai alla schiera di coloro che hanno corretto il Tuo alio eroico. M’allontanai dagli orgogliosi e tornai fra gli umili per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico avverrà ed il nostro regno si edificherà. Ti ripeto: domani stesso Tu vedrai questa greggia obbediente che al primo mio segno si precipiterà a raccogliere il carbone acceso per il Tuo rogo, dove sarai bruciato, perchè sei venuto a disturbarci. Perchè c’è Chi più di l^utti ha meritato il nostro rogo, questo sei Tu. Domani Ti brucerò. Dixi! ».
Il vecchio inquisitore tacque; aspettando la risposta del prigioniero. Il silenzio di quest'ultimo gli pesava! Aveva notato come il prigioniero aveva ascoltato tutto il tempo guardandolo con mitezza e con penetrazione negli occhi e come se non volesse rispondergli. Il vecchio vuole che Egli gli dica qualche cosa, magari qualche cosa di amaro, di terribile. Ma Egli ad un tratto s’avvicina al vecchio silenziosamente e lo bacia sulle sue labbra senza sangue, labbra da vecchio di 90 anni.
Ecco tutta la risposta.
Il vecchio trasale. Qualche cosa si muove intorno alla sua bocca... il vecchio va verso la porta, l’apre e dice al suo prigioniero: « Vattene e non tornare più. Non tornare mai più... mai, mai! »
E lo lascia partire. Il prigioniero se ne va.
{Traduzione di Èva Amendola). . F. Dostoievsky.
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INTERMEZZO
(Xilografia di P. A Pacchetto)
GIOSUÈ GIANAVELLO
(1617-1690)
In questa Rivista eh'è dedicata allo studio del fatto religioso — studio libero ed ampio, senza limiti di tempo e di spazio e senza soppressione del sentimento — non è certo inopportuno ricordare colui della cui nascita il popolo delle nostre Valli Valdesi ha testé celebrato il terzo centenario. Gianavcllo, con Arnaud, è senza dubbio l'eroe più popolare della Storia Valdese, eroe militare ed eroe religioso.
’ Bilychnis ’ che, amando, senza distinzioni, le fiamme delle anime ardenti di fede, suole offrir loro la sua lampada perché riardendo illuminino a riscaldino, é grata a GIOVANNI « ADA MEILLE che con quest artistica, suggestiva rievocazione storica, le offrono il privilegio di far rivibrare la fiamma del prode Gianavcllo. (RED.)
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PROFILO
uest’uomo, che nacque giusto trecent’anni or sono, fu per vario tempo un bandito e la guerriglia ch’egli diresse dal 1663 al 1664 porta appunto, nella cronaca piemontése, il nome di « Guerra dei Banditi ». Bandito : fuor della legge, brigante!
Ma quando le leggi sono inique, la giustizia cieca, la bontà paralitica, chi cerca di vivere fuori della loro atmosfera di morte, un brigante, può essere un eroe. L’eroe è chi ha coraggio non solo e non solo chi, per una luce di bene, sopporta ogni
dolore; ma sopratutto colui che, tendendo alta la fiaccola, attrae intorno a sé e guida altri fedeli.
In tale molteplice senso un eroe è veramente Gianavello, montanaro di Va! Pellice, che, se non fosse vissuto tra persecuzioni e martiri, sarebbe rimasto probabilmente un semplice contadino intelligente e pio, e, se fosse stato posto dal caso in condizioni opportune, sarebbe certo diventato un grande generale.
Fino a trent’anni non sa scrivere e deve firmare colla croce degli analfabeti, ma, a trentadue, -noi troviamo la sua firma a pie’ d’un contratto: agiato agricoltore, padre di numerosa famiglia, egli si è applicato allo studio. Leggere sapeva. Nelle Valli Valdesi, focolare di una religione evangelica anteriore alla Riforma, già da tempo tutti sapevano leggere: era necessità di vita per loro il potére attingere nella Bibbia la certezza delle verità per cui sopportavano periodicamente crudeltà senza jiome.
Sudditi fedeli del Duca di Savoia, ma oggetto di scandalo per la Chiesa di Roma, questa più volte seppe, traverso intrighi di principi e di principesse, forzare la mano al Duca e tentare, con accozzaglia di varie milizie, cui eran sempre mescolati contadini fanatici e ribaldi assetati di rapina, l’estirpazione della cosidetta eresia.
Prescindendo dalla verità- o meno del « Credo » valdese, la magnifica tenacia alle lóro idee, la magnifica rivolta al pensiero imposto colla violenza, a qualunque parvenza di sottomissione non consona a verità, a qualunque atto esterno non corrispondente a intima convinzione: la nitida percezione, insomma, dei diritti dell’umana coscienza, fanno di tutto il popolo" valdese, e di Gianavello in particolare, un vessillifero e un martire di quel Libero-Pensiero, inteso nel suo senso giusto e più vero, ch’è una delle maggiori conquiste dell’età nostra.
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♦ ♦ •
Pio,, tenace, ma non orgoglióso, anzi umilissimo, d’una prontezza di concezione, d’una vastità di vedute, d'un'accortezza a saper cogliere il Iato debole del nemico, d’una conoscenza degli uomini mirabile, d’un’intuizione che io fa apparire spesse volte piofeta, il « Gran Barba », com’è chiamato ironicamente da un libellista cattolico, si delinea, a chi studi con imparzialità, ma con amore, la sua figura, una personalità di proporzioni e d’equilibrio eccezionali.
La grande strage del 1655, conosciuta sotto il nome di « Pasque Piemontesi», lo fa uscire dall’ombra: egli intuisce l’agguato e, non essendo riuscito ad aprire gli occhi ai suoi, cerca di opporsi colla forza al dilagare di quel mare di sangue. Con sette od otto compagni prima, che riescono a tener testa a 600 nemici, poi con venti, con trenta che ne fronteggiano 2000 e, unito al Jahier — altro nobile personaggio della storia valdese — avendo altresì ricevuto dalla Francia il rinforzo di profughi, egli si forma un vero piccolo esercito, il quale compie degli atti che hanno del prodigioso: prevede, provvede, piomba quando meno si aspetta in due o tre luoghi contemporaneamente, sparisce, si moltiplica in difese disperate, non lascia invendicato un sopruso; non irreparata una ingiustizia e tormenta l’esercito degli assalitori con mille scaramucce e mille sorprese; anzi, fatto più ardito, non si limita alla difesa, ma scende fino ai paesi di pianura, ai paesi del nemico, a seminarvi lo sgomento e lo spavento. È la guerra sì, dei «Banditi»; ma guerra che impone al Duca la tregua, e salva il popolo valdese dallo Sterminio.
E siccome uno dei proposti patti della tregua dice non concedersi amnistia a 28 banditi, fra cui Gianavello, egli consiglia i Valdesi ad accettare e, con la stessa prontezza con cui aveva accolto il sacrificio non solo di tutti i suoi beni, ma pur anco della moglie e delle figlie, sacrifica se stesso in ciò che ha di più ardente e profondo: l’attaccamento alla sua terra, — e si esilia.
Egli non patisce di permalosità, di rancori, di freddezze: a Ginevra, guadagnandosi nobilmente la vita colla sua bottega di libràio, « fa della propaganda », crea al suo popolo amici potenti, apre la sua casa a ogni profugo, vigila con sagace occhio la marea politica e quando, dopo venti anni, nel 1686 intuisce il maturarsi d’una nuova persecuzione, egli detta, in termini di grande umiltà, quelle prime mirabili « Istruzioni » per il popolo valdese che, se fossero state seguite, avrebbero risparmiati immensi dolori e l’esodo forzato di tutta la gente delle Valli.
Gianavello è il primo, al ponte dell’Arve, àd aspettare il doloroso corteo dei Valdesi, rigettati dalle prigioni sulla via dell’esilio in pieno inverno: è il suscitatore di quella maravigliosa accoglienza fraterna, che mosse l’ammirazione del mondo... e la bile di Luigi XIV, il quale diffidò i Ginevrini a moderare le loro espansioni.
Gianavello non riposa ancora, studia coi suoi le vie migliori per la formazione di colonie in terra straniera e, quando sente l’inanità dei loro tentativi, il disperato, il « folle amore » della sua gente per la terra natia, che par quasi la
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Giosuè GIANAVELLO iSl
prescienza d’un destino che sia nei piani di Dio, accoglie, medita, aiuta il favoloso progetto del rimpatrio armata mano.
Diventato sospetto per tali macchinazioni, che minacciavano di compromettere la Svizzera presso il Duca di Savoia, egli è a varie riprese invitato ad allontanarsi dà Ginevra; ma ciò nonostante la rete de) complotto si estende. E tornano nascostamente molti dei valdesi già avviati verso l’Europa centrale, si raccolgono le armi, si maturano i piani e il « Glorioso Rimpatrio » avviene. I duci recano con loro nuovi scritti di Gianavello: con tal mezzo — egli ormai è vecchio e malato — accompagna ancora la falange ardita e anzi ne è il Condottiero spirituale in quanto le sue « Istruzioni » preziose, — che prevedono, dilucidano, spiegano, consigliano, entrando in mille particolari pratici — guidano letteralmente i passi del drappello da Prangins fino a quella rocca imprendibile della Balziglia, su cui i reduci resisteranno per mesi ad assalti d’interi eserciti e, minacciati di fame, troveranno sotto la neve del grano non mietuto, conservato al loro bisogno come dà un'miracolo.
Ed un miracolo sembra àncora la maniera con cui a Gianavello potè giungete nel 1690, pochi giorni prima della sua morte, il diario di questa spedizione ch'egli aveva certamente seguita con la tensione di tutta l’anima sua: regalo divino ai vecchi giorni, che tramontavano in solitudine, ma nel fulgore d’una fede immacolata e d'una coscienza intatta.
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EVOCAZIONE
Un’anima, una grande anima ormai Migrata fuor dei limiti dell’ora — Che, pùr trascorsa come pellegrina Stella, di sè le vie passate infiora
E. negli umani petti un santo orgoglio Desta e la speme e la fiducia pia In più eccelsi destini — oggi evoca're E in sue forme plasmar lecito fia?...
Ridarle umana vita e fra le nòte Sue vicende altre ignote ricercare, Altre crearne e in faccia al mondo, forse Scettico e freddo, farla ancora amare
E soffrire e pregar lecito è dunque?
Esito... Eppur un brivido nel cuore Mi dice: « Sì!... L’assenso, la veggenza. La forza evocatrice abbila! » È amore
Dell’occulto poter, della veggenza. Del consenso la fonte unica! Pura Ricca sorgente che nel cuor mi canti Il tuo cammino io vo* seguir secura.
E possa io solo un ramoscel fiorito Cogliere presso t ue bell’onde chiare. Un ramoscello di sanguigni fiori La casa Gianavello a inghirlandare.
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GIANAVELLO
SCENE VALDESI IN QUATTRO ATTI<*)
«ALLA BRUA!»
ATTO PRIMO
LE PASQUE PIEMONTESI
Notte dal 23 al 24 aprile 1655, ore 2.
Alle Vigne di Luserna — la casa di Gianavello: una casa rustica di contadini valdesi col cas (sorta di rimessa) da un lato. La casa ha un balcone pieno di garofani fioriti al quale si giunge per mezzo d'una scala esterna praticabile. Dietro la casa castagni; sul davanti un prato e su questo rozze pietre a guisa di tavolo e di sedili. E‘ una dolcissima notte di primavera, la notte del Sabato santo. Due finestre sono illuminate.
PERSONAGGI.
Giosuè Gianavello, contadino valdese.
Maria I
w < sue figlie.
Margherita f
Giovanni, suo figlio di 14 anni.
Stefano Bonnet, fidanzato di Maria.
Francesco, soldato del Marchese di Pianezza, amante di Margherita. Giovanni Muston detto il Mangino, genero di Gianavello.
: Giacomo i
1'• < fratelli di Giosuè Giavanello.
Giuseppe /
Giuseppe Garnier.
/ Giuseppe Pblenc.
I Paolo Vacherò.
(•) Riservati tutti i diritti di riproduzione, traduzione e rappresentazione.
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SCENA I.
Margherita, Francesco, poi Stefano e Maria.
A vanti che si alzi il sipario, s’ode una serenata che si va avvicinando: un semplice canto amoroso. E, prima che colui che canta compaia in iscena.'il sipario si alza. Margherita è sul davanti della scena in un angolo con Francesco.
Margherita. Lasciatemi, lasciatemi, vien gente, lasciatemi! (libera le mani dalla stretta di quelle di lui e Jugge dietro la casa. Francesco si nasconde tra gli alberi), Stefano (entra in iscena cantando. Maria si fa al balcone).
Maria. A quest’ora? Son quasi le du<!
Stefano. Quésta non è una notte come le altre: pochi dormono alle Valli e nessuno completamente tranquillo. Io son di- ronda. Tuo padre è tornato?
Maria (è appoggiata al terrazzo colla lesta fra le mani). Eppure tu cantavi!
Stefano. Io... Sai bene di che cosa trabocca il mio cuore, Maria! Questi son tempi maledetti, si dice, e io li trovo così belli. Il tuo amore mi rende la vita bella come un sogno! Domani è Pasqua e io son giovine e ho tanto amore e tanta speranza!
Maria. Tu sei buono, tu! (scende).
Stefano. Io ho fede. Perchè non può esser possibile che il Marchese abbia veramente buone intenzioni e il Duca di Savoia voglia esserci finalmente padre?
Maria. Oh Stefano! Quando ascolto te, la mia anima si allarga: è così triste vivere con quésto peso di minaccie oscure attorno, sentire dappertutto il sospetto, la diffidenza, l'odio. Ma tu sei buono, sei allegro, credi a tutti, ami tutti.
Stefano. Ma perchè non avere un po’ di fiducia? Che cosa domandiamo infine? Vivere in pace lavorando e amando; servire il Signore come c’insegna il Vangelo...
Marìa. Tu porti lo schioppo...
Stefano. Sss!..... (guardandosi attorno) Sai bene che dovremmo avere deposte le armi!... Io, che vuoi? seguo tuo padre. Quel ch’egli vuole, io lo voglio: è Gia-navello ed è tuo padre!
Maria, (come risovvenendosi) Il babbo non è tornato! E la mamma è andata da mia sorella Jeanne Muston alle Fucine, (chiama) Giovanni, Giovanni! È lì che legge, lui!
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GIOSUÈ GIANAVELLO
SCENA IL
Giovanni e detti.
Giovanni, (con un libro) Sèi qua?
Stefano. Sì, ogni mezz’ora passa uno dei nostri sulla strada. Facciamo la ronda. Io devo arrivare fino dai Canton, poi tornar qui, aspettare Gianavello e portare i suoi ordini a quei di Luserna. Egli è andato al banchetto del Marchese di Pianezza solo per vedere come si mettono le cose (i).
Giovanni, (fremente) Il babbo non è come gli altri, lui! Lo sa, lui, chi è il Marchese e chi sono i suoi soldati!
Stefano. Sss!...
Giovanni, (ironico) Ma sì! Invitati dal Marchese i Valdesi! Che onore! Bere i suoi vini mentre tutti i suoi soldati sono accantonati nelle nostre case.
Stefano. Dov'è Margherita?
Maria. È su in camera che dorme, credo.
Stefano. Dai Canton sono alloggiati dei soldati. Ma qui è sicuro. Venite con me fin lì. Aspetteremo lì Gianavello. (prende Maria per la vita) La notte è così bella! Fioriscon violette in tutti i prati... e anemoni!... (escono).
SCENA III.
Francesco, poi Margherita.
Francesco. Margherita!
Margherita. Andatevene, andatevene, ve ne prego, ve ne scongiuro (piangendo). Come ve lo devo dire? Andatevene!
Francesco. Andarmene, perchè?
Margherita. E me lo domandate? Volete rendermi la più sciagurata delle donne?
Francesco. Margherita! Un anno fa non mi trattavi così!... Quando passai col mio reggimento... (2)
Margherita. Ah, taci! Fui leggera, cattiva allora! È vero, ma non voglio esserlo più.
Francesco. Eppure hai sentito quello che ha detto Stefano a tua sorella, (ripetendo, ma senza canzonatura, anzi mettendoci della sua passione) — È primavera, la notte è bella, vi sono tante anemoni e tante violette nei prati...
Margherita. Ah! state zitto, non bestemmiate! Stetano è valdese, come mia sorella; è dei nostri; il loro è un amore benedetto, il nostro...
Francesco, (con dolcezza) II nostro amore.....
Margherita, (scoppiando a piangere) Il nostro è un povero amore!
Francesco. Il nostro amore Margherita! Ed io non sono cattivo sai! Ho una piccola mamma buona, lassù nelle montagne della Savoia, che prega mattina e . sera pel suo figliolo e ogni sera mette un po’ d’olio nella lampada innanzi alla Madonna perchè lo preservi dal fare il male.
Margherita. La Madonna...
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Francesco. È buona sai la Mamma, buona come te! Crede i Valdesi dei diavoli, come credevo anch’io: con tre file di denti pelosi e un occhio in mezzo alla fronte (3). [Margherita sorride) Oh sorridi sì, sei tanto bella quando sorridi così... Quando la mia mamma ti vedrà...
Margherita. Quando mi vedrà?!
Francesco, (con impeto, prendendole la mano) Sì, Margherita! Non sono venuto soltanto per dirti che sei bella e che t'amo, stasera. Ho una grave cosa da dirti! io non posso spiegarmi, perchè il mio onore di soldato me lo vieta, ma abbi fiducia in me: un grande pericolo sovrasta i Valdesi. Vieni con me tu! Affidati a me: ti giuro che non avrai a pentirtene. (Margherita si scosta, egli la segue) Ti porterò subito da una brava donna seria, onesta come la tua mamma.
Margherita. Ma cattolica...
Francesco. Ah sì! Là sarai salva corpo e anima. Starai sicura quando ti avrò portata con me, lontana da queste montagne che mi soffocano col loro peso di mistero, di maledizione, d’orrore; non avrai a pentirtene, te lo giuro sul mio onore di soldato.
Margherita. Soldato del Marchese di Pianezza (con scherno).
Francesco. Ah, non motteggiare; non è il momento. Sì! Se avessi creduto che fossero queste le sante imprese a cui andavamo... Ma perchè discutere, ora? Potessi soltanto convincerti di venire, di venire. Vieni Margherita, io t'amo tanto! Più di tutti, più della tua famiglia che ti conduce in perdizione per una caparbietà del diavolo... Io t’amo veramente! Sei così bella! Più che bella! Non posso non pensare a te, ecco! Dall'anno scorso ti ho sempre in mente. Dappertutto dove sono stato, ti ho sempre avuta innanzi agli occhi: pura che mi rendevi puro, buona che mi facevi buono. Tu sei la mia Madonna! E quando ho saputo che si tornava...
Margherita. Sì! tornavi!... Tutti vi aspettavano qui con paura... Io sola... io già come straniera nella mia famiglia, io ti aspettavo... ma non con angoscia...
Francesco. Ah Margherita! Tu l’hai detto ora! Tu mi ami ancora, almeno un poco! Ascoltami dunque; ho qualche diritto di parlarti, di pregarti, di comandarti: vieni, c’è un pericolo, capisci!
Margherita. Il pericolo! Credi che non lo senta, che non lo vegga io? Non sono come Stefano io! Ma il pericolo, noi ci esalta.
Francesco. Perchè tu non sai che cos’è!...
Margherita. Quand’ero piccina, il libro della Bibbia che preferivo era l’Apocalisse; leggendolo... oh tu non puoi sapere quel che sentivo! Mi pareva'che un vento impetuoso mi portasse su una vetta altissima: fra quelli vestiti di stole bianche, che hanno palme in mano e cantano innanzi al trono dell’Agnello, ci sono i miei nonni, Francesco! Andar con loro era il mio gran desiderio... Lasciami! soltanto questa speranza mi fa dimenticare te!... mi dà un po' di pace, di tregua!...
Francesco. È una pazzia: ti han fatto qualche incantamento; ma colle buone o colla forza tu verrai!...
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SCENA IV.
Stefano, Maria e detti, poi Giovanni.
Stefano, (avanzando con impelo) Venire? E dove di grazia? Perchè penso che l’invito sia’ anche per noi che siamo della sua famiglia.
Francesco. (freddamente) No! Io sono soldato e non sono teologo... come tutti voi Valdesi! Non mi garbano nè le chiacchiere, nè le ironie! Palliamo chiaro.
Stefano. Ah sì! Bravo, bravo lo scolaro dei Gesuiti! Questa è una giusta parola! Dillo pure a noi Valdesi: Parliamo chiaro! e sia così per sempre! (Si guar-dano un momento in silenzio, mentre gli altri stan sospesi) Teologo!! Non lo sono!! Non Conosco la teologia, conosco la fede! Quella sì, e tanto che mi basta per ripudiare i vostri preti, la vostra messa e il vostro papa. Parlo chiaro! E desidero che siano inabissati tutti i seduttori! Parlo chiaro!
Francesco. Che non ti strappin la lingua, Valdese!
Stefano, (imbracciando il fucile) Se ti lasciassi il tempo di far la spia, manigoldo! (Francesco cava la spada, le donne si slanciano fra i due esclamando)'. — Stefano! — Francesco! — Per pietà! — Sii buono! — Sii paziente!
Francesco, (a Margherita) Per te, per amor tuo (ripone la spada).
Stefano. Sì! Dille delle parole dolci! (scattando di nuovo con forza) ite prendile colla violenza le nostre donne, se le vuoi! A che tardi tanto? Violenza e rapina,- è gloria vostra! Gitta la maschera, Gesuita, e respirerai meglio!
Francesco, (con calma, ma fremendo) Ricordati che taccio.
Stefano, (dibattendosi) Taci perchè sei solo, perchè sei smascherato, perchè la verità, la luce t’acceca; razza di vipere che ferisce a tradimento chi l’accoglie; taci perchè sei un...
Margherita, (gettandosi risolutamente avanti) Ah no! Basta Stefano!
Stefano e Maria, (insieme) Margherita!
Margherita. Sì, colpevole, disgraziata, tanto! Ma posso ancora guardarti in faccia e colla fronte alta dirtelo: (a Stefano) Io l’amo e tu non l’insulterai davanti a me.
Stefano. Via, figlia di Gianavello che fai vergogna al sangue tuo!
Maria. Margherita! Ti sapevo diversa da noi, ma non ti credevo ancora a quésto punto!
Margherita. Tutto accetto, tutto! Potete dirmi tutto: lo merito; ma esiste qualcosa che niente può più distruggere, perchè, se si potesse, l’avrei già distrutto io che vi ho logorata ogni mia forza per tanti mesi: è il mio amore, il mio povero amore!
Giovanni, (accorrendo) Il babbo! Il babbo che arriva! Sento il suo passo. È alle svolte... Margherita, (attaccandosi a Francesco) Vattene, vattene per carità.
Stefano, (cupo) Sì vattene, se... (con un balzo) se non sei venuto per ¡svergognar la figlia e provocare il padre! Uccidi dunque Gianavello e, raccontando che
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BILYCHNIS
sei stato assalito, giustifica una strage! Tutto ci avete insegnato in 400 anni di persecuzioni!
Margherita, (gettandosi in ginocchio) Vattene, vattene Francesco!
Maria. Ma andate dunque!
Francesco. Margherita! Ho fatto per amor tuo più di quanto mi credevo capace, non rispondendo a questo forsennato! Ora lasciami dire una parola sola: dove invitavo Margherita non invitavo i suoi, perchè li so -induriti nell’errore. E poi... di loro non m’importa, ma Margherita io l’amo e l'avrei condotta in luogo dove sarebbe stata rispettata e sicura. Non è voluta venire! Addio Margherita! (Si curva su di lei. Va per partire, ma incerto torna indietro) Margherita, ricordati: si dice che tuo padre abbia un nascondiglio sicuro; tu lo conosci certo, (esita un momento, poi con isjorzo, quasi con pena, dice co nin-ienzione a Margherita, ma rivolgendosi a tutti) Ricordatene; ricordatene bene, fra poco, quando sentirai... le campane del mattutino!
SCENA V.
Gianavello e detti, meno Francesco.
Maria. È andato!...
Stefano. Che cosà ha detto?!
Maria e Giovanni. Le campane del mattutino!...
Stefano, (alzando le spalle) Non sapeva più che cosa si dicesse!
Maria, (a Margherita ch'è rimasta in ginocchio tutta accasciata) Vieni, Margherita, vieni su in camera, poverina, prima che arrivi il babbo (salgono insieme la scala).
Gianavello. (entrando a grandi passi, getta con jorza il cappello in terra e resta immobile, le braccia conserte, gli occhi fissi a terra. Poi dopo un po' di silenzio): I nostri migliori a Torino a portare un’ambasciata che nessuno riceverà perchè chi la doveva ricevere è il Marchese di Pianezza che è qui; i capi di famiglia a banchetto festoso dal Marchese, e donde non partiranno tanto presto...; in ogni casa, dove soli restano i deboli, donne, vecchi, malati, bambini, alloggiati i soldati del Marchese con la scusa di provare la nostra fiducia e di proteggerci al bisogno! Ma che cosa vi dice tutto questo, oh insensati tardi di mente, duri d'orecchi; ma che vi dicono i fuochi d'allarme che sul Taillaret, sulla Vachère, già da due giorni ci annunziano il preludio delle stragi, gli abitanti massacrati « per ¡sbaglio » — udite, udite! — • per ¡sbaglio », si dice, dai nostri così detti difensori, dai compagni di quelli che stanotte dormono in ogni casa valdese! (resta cupo) Ah! fratelli illusi! coi loro sogni di pace, d'amore, di fratellanza. Pecore in mezzo ai lupi! — Perchè non fidarci? chiedono. — Perchè?! Quattro secoli di sangue vi rispondono. Potessimo solo sapere come, quando, da che parte cominceranno. Vegliare, Stefano, bisogna vegliare!
e
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GIOSUÈ GIAN AVELLO
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Stefano. Io son venuto al vostro comando; gli altri sono al loro posto e allo spuntar del sole saranno qui.
Gian avello. Maria, portami da bere.
Maria. Babbo, non vuoi anche mangiare qualcosa?
Gianavello. Sì, un boccone; laggiù non ho assaggiato nulla: mi avrebbe soffocato. Illusi! Pronti, in forze bisogna essere! la lotta è certa, il momento è prossimo: se non è oggi, sarà domani...
Maria. Vuoi entrare?
Gianavello. No, no, qui sotto la rimessa, un po' di pane e formaggio. Fra poco verranno gli altri: è questa l'ora. Stefano, è il tuo turno, vai da quei di Luserna.
Stefano. Vado, arrivederci, addio Maria. Maria. Addio.
SCENA VI.
Margherita dal balcone, affannosa, e detti.
Margherita. Babbo, babbo, un fuoco su Rocca Bera, un fuoco d'allarme.
(tulli si precipitano verso il Jondo. Momento di silenzio)
Gianavello. (ritornando) Ci ripetono di stare in guardia. Di la&sù vedono i segnali d’allarme di Val d’Àngrogna, della Vachère. Vedete la fiamma come s’alza e s’abbassa, come sembra spengersi e si riaccende a un tratto? È fuoco d’al-Jarme che ripete segnali lontani: in guardia, in guardia. (Stejano parte).
SCENA VII.
Gianavello, Maria e Margherita.
Gianavello. (si raccoglie brevemente, poi comincia a mangiare con calma).
Margherita, (scende la scala e viene ad inginocchiarsi vicino al padre, posandogli la lesta sui ginocchi).
Gianavello. E così?! (guardando Margherita affettuosamente) Che cosa c’è? Tu sei come la Maria del Vangelo, pronta a inginocchiarsi,, a guardare lontano, a pensare. Ed ecco la mia Marta sempre in moto (accennando a Maria) Su su coraggio (rivolto a Margherita) bisogna credere ed Operare per mandar via i brutti pensieri. Hai capito? E operare. Intanto guarda il sole che fa l'occhietto sulla pianura. Va! porta la Bibbia e facciamo il nostro culto del mattino.
Margherita, (porta la Bibbia, Maria s’avvicina e si siede alla tavola. Dicono sottovoce l’invocazione) «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ».
Gianavello. (legge) « Abbi pietà di me, oh Dio; perchè gli uomini a gola aperta son dietro a me; i miei assalitori mi stringono ognora. I miei nemici son dietro a me a gola aperta; gran numero di gente mi assale. Nel giorno che io avrò
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timore, io mi confiderò in Te. Coll’aiuto di Dio, io loderò la Sua parola; io mi confido in Dio; io* non temerò cosa che mi possa far la carne. Si radunano insieme, stanno in agguato; spiano le mie pedate, aspettando di cogliere l’anima mia; ma, nel giorno che io griderò, i miei nemici volteranno le spalle. Questo io so: che Dio è per me » (*).
(Si sentono da lontano le campane del mattutino).
Margherita, (balzando in piedi) Le campane del mattutino.,.
Maria. Sì; è sorto il sole; è Pasqua oggi!
Giana vell< •. (intona il « Padre Nostro ») « Padre Nostro che sei nei cieli - Sia santific ito il Tuo Nome - Il tuo Regno venga - La tua volontà Sia fatta... » (si arresta, porge l'orecchio. Altre campane più vicino) Aspettate, qui un momento (esce).
Maria. Che hai Margherita?
Margherita, {quasi piangendo) Non so, ho freddo, vorrei la mamma. Perchè non viene la mamma?
Maria- È andata a curare Jeanne ammalata, non lo sai?
Margherita. Ti ricordi che cosa ha detto... quel... quel soldato: cercate un rifugio quando sentirete le campane del mattutino?
Maria. Non esaltarti così. Margherita, erano parole di pazzo! ’
Margherita. Ascolta: non hai udito come dei colpi di fucile? Ecco, delle grida! Gianavello. (rientrando) Ah lo sapevo bene! Delle truppe armate salgono verso
Pianprà zitte, zitte. Vogliono sorprendere\Rorà... Oh! ma noi vi saremo prima di loro! Noi sorprenderemo loro, (quasi con ferocia) Benedetto sia Iddio! Almeno ora usciamo da questa angosciosa attesa nel buio.
SCENA Vili.
Detti, Giovanni e alcuni Valdesi, poi Muston.
I Valdesi. Eccoci, Gianavello. È l’ora!
Gianavello. È l'ora, sì, pensai giusto! Salgono degli armati verso Pianprà. Li ho veduti io in questo momento. Silenzio e sveltezza. Pel nostro cammino segreto (4) saremo in breve a Pianprà; taglieremo loro il cammino, li respingeremo nella valle. Dov’è Stefano? Non possiamo aspettarlo.
Muston. (accorrendo) Tradimento! Tradimento! I soldati sgozzano tutti a Torre, a Luserna. Son saltati come tigri al suono delle campane e ammazzano tutti nelle case dove hanno dormito: le dònne, i bambini, i vecchi... chi scappa è ucciso a sassate per la strada come un cane. E cominciano gl’incendi... Ho visto Stefano ferito... o morto... non so...
Maria, (avanzandosi con calma straziante) Dov’è?
(») Salmo 56
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PT-T.--------------------------------, -----------,__________________- 7, ~ .'
GIOSUÈ GIANAVELLO r9X
Muston. Vieino al grande abete del molino della Maddalena; ma restate qui.
Siete perduta se uscite.
Maria (esce).
Margherita. La mamma! Bisógna avvertirla (si avvinghia un momento a GianaveUo, ma poi si stacca e jugge anche lei). ' . . . 'iS
Gianavello. Margherita! Maria! Figliuole! (guarda loro dietro, incerto se seguirle).
Muston. Ed è' Pasqua, oggi! (gli altri guardano fisso GianaveUo).
Gianavello. (dopo un istante di lotta interiore) No! A Pianprà noialtri!
CALA LA TELA. . t'ì
Note all'atto primo.
(i) Secondo gli storici» questo banchetto ebbe luogo veramente il 21 aprile 1655. La Società « De propaganda fide » aveva ottenuto dal debole Carlo Emanuele II un editto col quale si diffidavano i Valdesi ad abiurare o a ritirarsi dai loro possessi in pianura. Ninno si ribellò e nel cuore ael crude inverno 1654-55 s’ videro i Valdesi internarsi nelle montagne.
Un’ambasciata valdese, recatasi a Torino per domandar giustizia, vi fu trattenuta colla promessa d’un* udienza, sempre rimandata, presso il Marchese di Pianezza, il quale avrebbe poi dovuto presentare le richieste al Duca. Il Marchese, frattanto, marciava sulle Valli a capo di numerose truppe, che dal 17 aprile, giorno del lóro ingresso a S. Giovanni, cominciarono a mostrar chiaramente le loro intenzioni devastando e uccidendo.
Fu allora che il marchese chiamò deputati di tutti i comuni della Valle per trattare d’un accomodamento. Egli fece loro accoglienza generosa e, durante là cena lautamente anaffiata, giunse persino
a scusarsi degli eccessi dei soldati, pretestando ch’èra difficile mantener la disciplina in truppe tanto numerose e che, pel bene stesso dei Valdesi, e per dimostrare la loro fedeltà al Sovrano, sarebbe stato opportuno distribuire piccoli distaccamenti di soldati nei vari borghi.
I Valdesi caddero nel tranello ed avvennero le stragi note col nome di ■ Pasque Piemontesi ».
S:) I soldati francesi che facevano parte a milizia del Marchese di Pianezza erano infatti passati dalle Valli nel 1654, inviate da Luigi XIV in soccorso del Duca dì Modena, inutile aggiungere come Luigi XIV fosse uno dei principali istigatori della così detta « Crociata » contro gli eretici.
(3) Questa era la leggenda sparsa dai Gesuiti: < I Valdesi, come veri figli del demonio, hanno tre file di denti pelosi e un occhio in mezzo alla fronte ».
(4) Secondo una tradizione mólto diffusa, ma oggi poco accreditata, sarebbe esistito un cammino segreto entro le viscere della montagna che, dalla cantina di Gianavello, avrebbe menato a Pianprà.
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RORÀ - Vecchie caie nel centro del borgo (Dhegno di P. A. PASCHETTO)
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Giosuè GIANA VELLO
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ATTO SECONDO
IL CAMPO DEI RODODENDRI
Metà di maggio 1655.
Un angolo tranquillo del Col Cassuler, fra la Val Pellice e la Val Lucerna; un cantuccio pieno di rododendri sanguigni, che mescono il loro profumo aspro a quello del limo e dèlia menta. A destra, in fondo, fra pochi larici, un cumulo di grosse roccie, su cui i raggi del sole pomeridiano mettono fervidi bagliori; a sinistra, cime di monti bianchi e turchini nel cielo rosa. Presso le roccie, una tenda primitiva, sotto a cui giacciono due feriti. Vicino ai feriti, Giovanni. Sul davanti della scena, Daniele sedillo sopra un sasso » Paolo Vacherò, poco discosto, inginocchiato, che pulisce delle armi.
PERSONAGGI.
Giosuè Gianavello.
Bartolomeo Jahier. capitano valdese.
Daniele Morel, giovane studente valdese.
Giovanni Gianavello, figlio di Giosuè.
Giovanni Muston, detto il Mangino, genero e luogotenente di Gianavello.
Pietro Andrion, luogotenente di Jahier.
Stefano Bònnet, fidanzato di Maria Gianavello.
Giacomo ) £ratellj Giosuè Gianavello.
Giuseppe )
Giuseppe Pelenc.
Giuseppe Garnier.
Paolo Vagherò.
Pietro Salvagiot, pecoraio.
Francesco, soldato del Marchese di Pianezza.
Dorotea, domestica della famiglia Gianavello.
Un Ferito valdese.
Alcuni Valdesi armati.
Valdesi compagni di Gianavello, fra cui:
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SCENA I.
Feriti, Giovanni, Daniele e Paolo.
{Momento di silenzio).
Daniele. Il sole già volge al tramonto: un altro giorno è quasi passato!
Paolo. Scorrono i giorni degli uomini come le acque dei torrenti; Dio solo è sempre lo stesso: ieri, oggi, in eternò.
Daniele. Penso, Paolo Vacherò, che questo medesimo sole vedrà un giorno le Valli tranquille; che, verso questo stesso cielo, saliranno i cantici dei nostri figli nelle nostre chiese riedificate... ai Coppieri, al Ciabàs, a Rorà; che dei Valdesi torneranno a sera dai loro campi, benedicendo Iddio. Tra quanto? Chissà! Ma io vivo così realmente in quest’avvenire di pace, che mi par sino di sentire i campani delle loro mucche, che, tornando ai casolari essi si spingono innanzi.
Giovanni. Parla, Daniele, tu fai loro del bene (accennando ai feriti).
Paolo. Sì, Daniele. Che belle parole sai trovare tu! parole d'oro che ci calmano come quando si ha séte e si può bere a una pura sorgente.
Daniele. Vedete questi rododendri rossi? I nostri figliuoli diranno, tornando a sera dai campi: niun paese ha rose così rosse, perchè queste furono un giorno annaffiate di tanto sangue, del sangue dei nostri Padri, uccisi per la fede e per la patria! E ciò sarà gloria pei figli nostri, sarà benedizione.
Paolo, (che intanto ha accomodato le armi, coglie 'Pensierosamente un fiord) N’è stato sparso tanto!...
Giovanni, (che di tempo in tempo si sarà chinato sui feriti, accomodando loro una benda, facendo aria sui loro volti) Ecco Giuseppe Garnier.
SCENA II.
Garnier e Detti, poi Dorotea.
Garnier. (entrando con due secchie, che posa per terra asciugandosi il sudore) Acqua fresca della fontana della Salute! Chi ne beve non muore più!
Paolo. Asciugati il sudore, sai, per codesta grande fatica (Garnier ride). Dorotea. Ecco del pane fresco (Giovanni porge da bere ai feriti).
Garnier. E non ci prepari altro?
Dorotea. Devono ancora tornare i nostri che sono andati a vedere se trovavano qualche provvista (si affaccenda in un angolo a disporre brocche e a riordinare abiti. Daniele e Paolo si avvicinano a Giovanni. Paolo sbocconcella del pane).
Daniele (a Giovanni). Chiamo gli altri?
Giovanni. No! Dorotea ha già dato loro il pane. Lasciali ancora un po’ in riposo; ne hanno bisognose poi il babbo avrà forse piacere, quando tornerà, di trovar quest’angolo non troppo affollato.
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GIOSUÈ GIANAVELLO 195
Paolo. un gran sorso d'acqua alla brocca, poi, risoluto) È l’ora del cambio alle vedette. Ehi là (chiama fra le quinte) Simone, Andrea, Emanuele! Io darò il cambio a Barba Giuseppe (» tre chiamati compariscono da sinistra e attraversano la scena con Paolo e Garnier uscendo da destra).
Daniele, (a Giovanni) Dov’è tuo padre?
Giovanni. È sulla roccia.
Daniele. Teme forse una sorpresa? “
Giovanni. No, Daniele, egli attende qualcuno.
SCENA III.
Detti, poi Muston, poi Giacomo Gianavello.
(Si sente di dentro una voce): Eh Dorotea! Abbine cura, ti raccomando! Dà loro da bere, poi le mungerai! Cara la mia Reusa!
Muston. (entrando con un sacco che getta per terra e buttandosi poi a sedere sopra un masso, si toglie il cappello) E così son riuscito a riprendere le mie tre mucche! Ora avremo del latte. Sono stato alle Fucine; tutto il giorno ho spiato per cogliere il momento opportuno. Infine son riuscito a entrare in casa mia! Ah i maledetti! Che straziò! (si passa il rovescio della mano sugli occhi. Tace un momento).
Daniele. I demoni!
Muston. Bah! Nella stalla c'erano ancora le mie bestie e mi han seguito docilmente! Lo sapevo io: mi hanno riconosciuto! Biunda, Reusa e Mora, povere bestie! Ho anche portato tre prosciutti e un po’ di farina (si sente di dentro, un po' lontano, una voce: Chi va là? — Altra voce: Angrogna) Vò ad aiutar la Dorotea (esce).
Giacomo Gianavello. (entra, polveroso e affaticato) Dov’è Giosuè Gianavello? (continuando) Sono stato al Villar. Ho visto tanti orrori, ma ho anche sentito tinte cose; ho bisogno di parlare a Giosuè.
Giovanni. Il babbo aspetta , qualcuno.
Giacomo. Sì, lo so; quando lo vedrai digli che sono tornato. M,i chiami appéna mi vorrà (esce).
Daniele. Sài tu chi attenda? Non si fidi. Ci sono tanti traditori.
Giovanni. Oh! Egli attende un fedele, uno dei nostri, un valoroso che ha fatto in Val San Martino quel che mio padre ha fatto in Val Luserna. Non si conoscono' ancora, ma dai nemici stessi abbiamo appreso il suo nome: Jahier!
Daniele. Jahier?
SCENA IV.
Gianavello, Jahier, Andrion e detti.
(Gianavello e Jahier entrano a grandi passi, tenendosi per mani). Gianavello. Ah finalmente, finalmente, Jahier, fratello nostro (i).
Jahier. Sì! Il vostro biglietto, giuntomi soltanto ieri, mi ha riempito di gioia.
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196 BILYCHNIS
E son venuto subito, con questo mio fedele, (presenta Andrion a Gianavello, che gli stringe la mano) È Andrion. Ah! Una nuova speranza mi conforta! Non esser più soli, trovare amici, fratèlli, qual grazia di Dio!
Gianavello. Ecco i miei amici: mio figlio, uno {accenna a Stefano ferito) che doveva essermi genero fra poco. Ho qui con me anche due fratelli, (si sente un suono di violino. A Daniele) Ma chi è che ha ancora voglia di suonare?
Daniele. È quel Melli della Comba dei Carboneri. Sapete bene, quel ragazzo che, l’altro giorno, salvò due dei nostri uccidendo un soldato colla frombola.
Gianavello. Siamo pochi, vedete: musici, poeti (accenna a Daniele) e fanciulli quasi tutti, che non possono reggere un fucile, nè maneggiare una colubrina; che devono lottare colle fionde. Eppure Iddio si vale di questi umili servi.' Jahier. Davide era poeta e musico ed era fanciullo, quando uccise Golia colla frombola (Andrion discorre con Giovanni e Daniele).
Gianavello. E noi sconfiggeremo il nuovo Golia, se sapremo essere uniti. Ci ricongiungeremo coi vostri di Val San Martino, studieremo e prepareremo una guerriglia senza requie.
Jahier. Siamo pochi, ma non conosceremo nè riposo, nè tregua e così ci moltipliche-remo. Ah! vedranno quel che san fare i deboli, i pochi; pecore trattate da lupi, metteremo fuori gli artigli, piomberemo in più posti contemporaneamente, compariremo là dove meno ci aspettano, razzieremo tutto quel che potremo. Ah! Son venuti a massacrarci? E noi insidieremo loro sin nella pianura.
Andrion. (a Daniele, continuando un discorso) Dalla Val San Martino passammo, per la Vachère in Val d’Angrogna e ora siamo al Vernò.
Gianavello. (guarda un poco Jahier) Voi avete del fuoco! Bravo! (gli stringe la mano) sarò. bello lottare con Voi! E credo ch’io dovrò piuttosto frenarvi che spingervi. (sorridendo un poco) Voi sarete l’entusiasmo, io la riflessione.
Jahier. (ridendo) Ci completeremo a vicenda.
Gianavello. Dunque: ai particolari! (si allontana con Jahier discorrendo).
Daniele, (a Andrion) D’or’innanzi compagni di lotta, a quel che io sento! Andrion. Al più prèsto; domani forse.
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SCENA V.
Detti, meno Gianavello e Jahier poi Dorotea.
Ferito, (vaneggiando) Torna, torna... ecco che torna ancora e balla e canta. Daniele. Chi? Dove?
Ferito. Là, laggiù fra i larici. È bionda e ha la veste azzurra.
Giovanni, (chiama tra le quinte) Dorotea! Filippo vaneggia.
Ferito. È la fata della montagna che fila, fila dell’oro, sulla cima della roccia... La vedi? La vedi?
Daniele. Calmati, Filippo (lo accarezza).
Ferito. Ah mi aveva promesso, se avessi afferrato quel filo... tanta gioia... (Dorotea mette delle pezze bagnate sulla fronte del ferito) Essa mi amava... sai, la fata del Prà.
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GIOSUÈ GIANA VELLO
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Daniele. Le gioie del mondo passano e lasciano amarezza; ma le sue persecuzioni credano beatitudine eterna (il ferito ricade e si assopisce).
Andrion. Come trasportate i vostri feriti?
Daniele. Sulle spalle. Questo fu messo in salvo da Gianavello stesso (2). L'altro ferito è Stefano Bonnet. Talvolta qualche casolare ci serve di rifugio e allora, se possiamo, li lasciamo lì al coperto, presso qualche buona donna. Qui con noi abbiamo Dorotea, la serva fedele dei Gianavello, che riesce quasi sempre a prepararci un boccone e a trovare delle erbe balsamiche pei feriti.
(Si ode di nuovo il violino, e il ferito, ritornato in se, si solleva su un gomito). Ferito. Io soffro. Parlami di Dio, Daniele.
Daniele. Il mondo è grande, ricco e potente, ma è malvagio e odia la luce. Noi siamo piccoli, pochi, poveri; ma possediamo una grande ricchezza: una fiammella, una luce che crescerà, crescerà, fugherà le tenebre e vincerà il mondo malvagio. Per questo ci odia il.mondo, per questo ci perseguita, per soffocare la piccola luce e far regnare le tenebre nelle quali esso compie il male. Noi poco possiamo; ma quella luce, tu lo sai, è la luce di Cristo e non istà a loro di spengerla Beati coloro che avranno sofferto per conservarla e accrescerla. Beati! « Io ho vinto il mondo » ha detto Gesù.
Ferito. Li vince, sì. È vero! Io l’ho visto! (sollevandosi e febbrilmente) Noi lottiamo per Lui, ma Egli lotta per noi. Ricordi, ricordi Daniele?... Quanti giorni son passati?
Daniele. Da Pasqua? Quindici giorni, Filippo.
Ferito. Di già! Due cento armati salivan pian piano, sicuri! Noi, Daniele, quanti eravamo?
Daniele. In diciassette (esaltandosi anche lui), e dodici soli avevano il fucile, cinque non avevano che fionde. Noi su, su per l’erta a Pianprà. Siam giunti i primi.
Giovanni. Èravamo diciassette e ne abbiamo travolti duecento!
Ferito. Oh! l’urlo della loro fuga! Io l'ho ancora negli orecchi!
Daniele. E due giorni dopo, gl’infami!... Eccoli a Rorà. Noi, dagli Uvert, vedevamo il fumo degli incendi, il massacro, il saccheggio... Essi erano un reggimento, noi eravamo quei pochi e ci mordevamo le mani a star lì inerti dinnanzi alla distruzione dei nostri focolari!...
Ferito. Ma Gianavello allora... Dì... che luce nei suoi occhi! Si getta in ginocchio... Oh come sa pregare!
Daniele. Sì! Par che veda Dio, che gli parli a tu per tu, come Mosè.
Ferito. E poi avanti a Pianprà.
Giovanni. Eran tranquilli loro! Ci credevano scomparsi! Ed eccoci a un tratto comparir loro davanti. Certo hanno combattuto per noi legioni d'angioli. Son fuggiti i vili, giù per la costa.
Daniele. Era una valanga d’uomini, inseguita da una valanga di pietre, che precipitava verso il Pellice. Giù, come da un inferno, salivano gli urli, le imprecazioni, i lamenti. Su, sopra quel pianoro, tutto verde e smagliante dei nostri
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bei fiori ¿¡'montagna, saliva verso il cielo di primavera il canto della nostra riconoscenza come un canto di Paradiso.
Ferito. « Ti ringraziamo, disse Gianavello a Dio. Proteggi le nostre genti e aumentaci la fede ». Lo ricordo io.
Daniele. Sì! Gianavello è grande! Come prega, comanda. Sa tutto, lui; prevede tutto ed ha allora uno sguardo, una voce, delle parole che non paiono umane.
Andrion. (a Giovanni} Non è mai uscito dal paese?
Giovanni. Così possa non uscirne mai!
Daniele. Ah io penso talvolta ch’ei sia un Profeta o uno degli antichi Giudici d’Israele, mandatoci da Dio per la nostra salvezza. Egli deve aver delle visioni che noi non abbiamo!
SCENA VI.
Gianavello, Jahier e detti.
Gianavello. (che ha udite le ultime parole, a Daniele) No! Daniele. Non parliamo di visioni! Noi Valdesi, la fede l'abbiamo qui (accenna il petto) ma anche qui (accenna la testa). E, per le nostre ispirazioni, questo ci basta (dà a Daniele la Bibbia che aveva in mano). Questa è la fonte eterna che sazia ogni nostro bisogno. Addio dunque, Jahier, siamo intesi.
Jahier. Addio Gianavello, a doman l'altro, al Verné.
Andrion. Addio, amici (tutti si salutano),
Gianavello. La vostra energia è bellissima, Jahier. Perdonatemi se, come più anziano, vi prègo di meditar bene prima le conseguenze d’ogni vostro passo e di misurare il valore delle vostre forze. Un'imprudenza potrebbe esservi fatale.
Jahier. Vedete, Gianavello, io seguo l’ispirazione!
Gianavello. Voi avete troppi doni: fede, gioventù, energia, intelligenza, coraggio, per rischiarli in avventure dubbiose. La prudenza è dono di Dio.
Jahier. Virtù di serpenti la prudenza!
Gianavello. (sorridendo) Non solo alla colomba, ma anche al serpente ci fu raccomandato di somigliare!
Jahier. (abbracciando Gianavello) A doman l’altro, al Verné!
Gianavello. A doman l’altro! (esce accompagnando Jahier insieme a Giovanni).
SCENA VII.
Daniele, Ferito, Stefano poi Dorotea.
Stefano, (chiama) Gianavello! dov’è Gianàvello?
Daniele. Che volevi, Stefano?
Stefano. Niente. Volevo sapere .se Gianavello ha punte notizie di Maria.
Ferito. Era la tua fidanzata Maria?
Stefano, Sì! Ma perchè dici era?
Ferito. Così.
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Giosuè GIANAVELLO
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Stefano. Anche se fosse morta, sarebbe sempre la mia fidanzata.
Ferito. Quando la vedesti?
Stefano. Quella notte, due settimane fa. Lei corse a cercarmi mentre gli amici mi mettevano in salvo e non si sa più dove sia: forse è morta. Uno ci ha detto che è prigioniera con le sue sorelle e sua madre, ma neanche di loro si sa più nulla. Chi sa per quali altri orrori le han serbate!
(Si sente ùna voce: Chi va là? Chi va là?).
Dorotea. Ecco il latte. Ce n’è in abbondanza per tutti.
SCENA VIH.
Pietro Salvagiot, poi vari Compagni, tra cui i fratelli Giacomo e Giuseppe Giana-vello, il Muston, il Pelenc, il Garnier. Altri sopraggiungono durante la scena.
Pietro, (tulio stracciato, sfinito, con negli occhi ancora la luce torbida dello spavento) Ho sete! Da bere! Datemi da bere!
Voci di sopraggiunti. Chi è? Ma è Pietro! Pietro Salvagiot! Povero Pietro.
Pietro. Dunque è vero? Siete voi? Vi ho raggiunti? Ah benedetti! Da bere, datemi da bere.
Dorotea. Eccoti del latte.
Pelenc. E del pane!
Pietro. Oh! del pane fresco (odora il pane, ma beve solo il latte avidamente).
Alcuni. Povero Pietro!
Pietro, (resta immobile, scuotendo di tanto in tanto la testa) Tutto sangue, e sangue e fuoco!
Daniele. Coraggio Pietro.
Pietro. E che odore! Ah! che nausea! Il vento non porta che odore di bruciaticcio, d’abbrustolito. Ah! I bei fiori! (poi Ja un gesto come per allontanarli dagli occhi) Anche i fiori hanno il colóre del sangue, hanno odor di bruciato! (vedendo feriti) Tu ferito? E tu? (momento di silenzio angoscioso. Restano immobili e taciturni).
Pelenc. Che cosa possiamo darti, Pietro? Eccoti dell’acqua. Vuoi rinfrescarti la faccia? Vuoi sdraiarti?
Garnier. Sì, ti faremo un giaciglio. Qui sei sicuro: dormirai (si affatica con Dorotea a preparare un tettuccio presso i feriti).
Pietro. Non posso più. Son tante notti che non posso più. Ho gli occhi pieni di orrore: di corpi straziati, di membra lacerate, di crudeltà senza nome. Oh! quella prima luce di Pasqua, tutta rossa! Quell’odore di bruciato, di carne; quegli urli. Non posso più piangere, (disperato) Non posso più piangere, nè dormire.
Son vissuto randagio come un cane e non ho chiuso occhio mai, nè mai parlato: ho visto il solò calare, poi risorgere, poi calare e risorgere, tante volte. Poi ieri, nascosto ira i pruni, ho sentito due soldati che dicevano: Ci sono i
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diavoli lassù! Un esercito di diavoli è sorto a Pianprà per difendere i Bal betti (3) ma li ricacceremo all’inferno da cui sono usciti, quei diavoli che ci appariscono sempre sulla vetta, sempre più alti di noi! E io ho capito, [parlando a tutti e pure come fra sè) Sempre sulle cime, sempre più alto dei nemici: alla Brua! Mi sono ricordato le parole di Gianavello. — È lui! Non può esser che lui! ho detto. E, se lui vive, la vita è dunque ancora possibile. Allora ho cercato di venire ed eccomi: son qui.
Daniele. Alla Brua, sì! Alla vetta, dove soffia libero il vento, dove si posano le aquile! Alla brua, dov’è la vittoria!
Pietro. Ah! fratelli, credo che i miei sien tutti morti! Chissà? Non ho più testa, nè cuore, {resta pensoso) Ma qui mi sento quieto finalmente.
(Si è fatto sera, gli armali s’aggruppano).
Daniele. Spuntano le stelle, sbocciano come fiori del cielo e ci ripetono: Chi ci ha create vi ricorda e vi ama!
Pelenc. I cieli annunziano la Sua gloria e la distesa celebra l’opera delle Sue mani. Giuseppe Gianavello. È l'ora della preghiera.
Daniele, (legge) «Se il mondo vi odia, dice Gesù, sappiate ch’egli mi ha odiato, prima di voi. Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che sarebbe suo. Ma, poiché voi non siete del mondo, anzi io vi ho eletti dal mondo, perciò esso vi odia. Ma voi rallegratevi e giubilate » (*).
Pietro, (scoppiando a piangere) Ah! Quanto è buono, quanto è bello, fratelli. Più ancora del pane e del latte! (va a gettarsi singhiozzando sul tettuccio).
Giuseppe, (prega) Signore, nostro Dio e Padre di misericordia, ci umiliamo dinnanzi a Te per domandarti perdono di tutti i nostri peccati nel nome di Cristo Gesù, Salvator nostro. Rivolgiti benigno inverso noi che tanto ti abbiamo offeso colla nostra vita perversa e corrotta. Grazie ti sian rese di averci conservati Sin qui; continua a proteggerci dai nostri nemici e, poiché essi attaccano la verità per combatterla, aiutaci a sostenerla e a difenderla.
(Voci di fuori lontane: Chi va là? Chi va là?)
Giuseppe, (continuando la preghiera) Sii Tu la nostra forza e la nostra guida in tutte le lotte, perchè noi ne usciamo vittoriosi. E, se qualcuno di noi morrà per questa causa, ricevilo, o Signore, nella tua grazia e, perdonandogli tutti i suoi peccati, fai che la sua anima sia accolta nel tuo Paradiso eterno (4).
SCENA IX.
Gianavello, Giovanni e detti.
Gianavello. (arrivando da sinistra con Giovanni) Un soldato dici?
Giovanni. Sì, babbo (incerto).
Gianavello. Che hai? Perchè esiti? C’è 0 non c’è?
(•) Evangelo di S. Giovanni, XV, 18, 19.
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Giovanni, (più franco) Sì, babbo; un soldato di quei del Marchese vuol parlarti. Voci. Un soldato? Attento! Tradimento!
Giovanni. No, Non erede che sia un traditore!
Gianavello. (fa un cenno e tutti escono, meno Pelone, Garnier, Muston, Daniele, Giuseppe e Giacomo) Che ne sài tu? (cupamente).
Giovanni. È disarmato; e poi...
Gianavello. E poi? Tu lo conosci questo soldato, l'hai visto altre volte e sembri aver in lui una strana fiducia. Lo vedo nei tuoi occhi. Perchè?
Giovanni. Babbo... Sì, è vero. Tu indovini tutto.
Gianavello. Non indovino, vedo io, ragiono io; adopro la mia mente e i miei occhi.
Giovanni. Babbo, tu sai pure che Margherita aveva dell’affetto per un giovane soldato, passato di qui l’anno scorso, andato giù nelle terre del Papa e poi ritornato quest’anno.
Gianavello. Vedi che non so tutto. Non sapevo ch’era fra quelli tornati.
Giovanni. La notte della strage, Stefano, Maria ed io... (s’arresta per le memorie che gli riempiono la voce di lacrime).
Daniele. Sss... Attento a Stefano, (guardando i feriti) Egli potrebbe turbarsi ed è ferito, (rassicurato) Egli dorme, (meraviglialo) E anche Pietro!
Giovanni. Trovammo quel soldato che scongiurava Margherita di seguirlo e Stefano lo insultò. Ma egli si comportò molto bene, e poi abbiamo veduto perchè voleva metterla in salvo... {finisce singhiozzando) la nostra povera Margherita!...
Gianavello. Non piangere! Fallo venire.
SCENA X.
Francesco, Due Valdesi armati e detti.
Gianavello. In nome di chi?
Francesco. Del Marchese di Pianezza, mio Signore.
Gianavello. Chi cercate?
Francesco. Giosuè Gianavello delle Vigne.
Gianavello. Sono io!
Francesco. Ho una lettera da consegnarvi.
Gianavello. Come venisti sin qui solo e senz’armi?
Francesco. Ho fiducia,
Gianavello. Così potessimo noi averla in voi.
Francesco, (si mette una mano sul petto) Fui io che domandai di venire!
Gianavello. (apre la lettera e legge, resta un istante immobile, poi leva gli occhi in alto fa due passi e dice) Un momento ch’io detti la risposta. Vieni, Daniele, la scriverai.
Francesco, (lo guarda e, quasi intuendo) Io so che cosa contiene quella lettera.
Gianavello. (alteramente) Ebbene? (aspetta un momento, poi parte).
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SCENA XI.
Gli stessi, meno Gianavello e Daniele.
Francesco, (smarrito) Voi, Giovanni... e Stefano... dov’è Stefano? dov’è? Giovanni. Perché?
Francesco. Quella lettera... Ma dov’è Stefano? È morto anche lui?
Garnier. Tacete: è ferito.
Francesco. Gianavello rifiuta; l’ho letto nei suoi occhi. Ah Dio, Dio mio! Le sue figliuole, sua moglie son prigioniere del Marchese; egli le fa libere se Gianavello rinuncia a combattere. Bisogna che rinunci.
Giovanni. La mamma!...
Francesco. Sì. Maria, Margherita, Jeannne, la loro madre sono in mano al Marchese; le torturerà, le ucciderà come sa uccider lui, se Gianavello rifiuta.
Stefano, (con voce terribile) Chi ha détto che Maria morrà?
Francesco, (precipitandosi) Ah, Stefano, siete voi. Maria e Margherita sono prigioniere; ma Gianavello ha la loro libertà in mano. Mi sono offerto io di portar la lettera del Marchese; io, per iscongiurare Gianavello di salvarle. Sarei andato all’inferno. Stefano, bisogna che Gianavello rinunzi alla lotta (gli altri tacciono, Giovanni singhiozza).
Stefano, (cupo) Sì, bisogna...
Francesco. È sangue suo, son figlie sue, è sua moglie! Come può preferire una lotta senza speranza? Sarà trattato onorevolmente. Sarà salvo, lui e i suoi...
Stefano, (afferrato alla speranza) Sì, sì...
t
SCENA XII.
Gianavello, Daniele e detti.
Gianavello. Ecco, soldato, la risposta.
Muston. Leggila!
Gianavello. Perchè? Son cose che riguardano me solo.
Giovanni, (slanciandosi ai suoi piedi) Babbo, pietà della mamma!
Francesco. Voi avete un solo dovere ora: quello di marito e di padre; ogni altro dovere è oggi un’infamia.
Stefano. Gianavello, abbi pietà di queste mie ferite. Io mi strappo le bende, io mi uccido se tu rifiuti.
Gianavello. (con grande autorità) Chi si erige giudice della voce di Dio? La mia coscienza ha detta la sua parola: questa è, niun altra! Leggi, Daniele.
Daniele. A Giosuè Gianavello, lettera del Marchese di Pianezza: « Vostra moglie e le vostre figlie sono nelle mie mani; sono state fatte prigioniere? io vi esorto per l’ultima volta ad abiurare la vostra eresia. In tal modo soltanto vi sarà perdonata la vostra ribellione contro Sua Altezza Reale e potrete salvare
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la vita a vostra moglie e alle vostre figlie che saranno bruciate vive se non v'arrenderete. Se poi voi persistete nella vostra ostinatezza, io, senza preoccuparmi d’inviar truppe contro di voi, metterò la vostra testa a tal prezzo che, quand'anche aveste il diavolo in corpo, mi sarete ben consegnato, vivo o morto. E, se cadete vivo nelle mie mani, potete credere che non vi saranno tormenti abbastanza crudeli ch’io non vi faccia infliggere. Quest’avviso è per vostra regola. Pensate a trarne profitto >.
Gianavello. Ed ecco la mia risposta (fogge): « Non c'è tormento, per crudele che sia, ch'io non preferisca all'abiura della mia fede, e le vostre minaccio, invece di distogliermene, mi fortificano in essa vieppiù. Quanto a mia moglie e alle mie figliole, esse sanno se mi sono care; ma Dio solo è il padrone delle loro vite e, se voi uccidete i loro corpi, Dio salverà le loro anime. Pòssa Egli ricevere nella Sua grazia quelle anime dilette, e la mia se avviene ch’io cada nelle vostre mani » (5).
(Momento di silenzio. Stefano, abbracciato a Giovanni, piange con lui). Francesco, (rimane pallido e immobile fissando Gianavello) Io non vi aveva visto mai sin'ora, Messer Gianavello. Ora voi mi avete insegnato a conoscer meglio voi e Margherita; ad esser più degno di lei... Porterò la risposta...
CALA LA TELA.
(Gli atti III c IV al prossimo numero)
Note all'atto secondo.
(1) Quantunque abbiamo cercato di attenerci il più fedelmente possibile alla cronistoria, ognun comprende come, per aggruppare nel bieve spazio di un atto vari avvenimenti, siasi dovuto peccare Ìualche volta d’inesattezza: l'incontro di ianavello e Jahier, avvenne presumibilmente il 27 maggio al Verné in Val d’An-grogna. Gianavello — allora di ritorno dalla Val Queiras, dove aveva portato in salvo il figliuolo, scrisse al Jahier per un appuntamento e ehi legga le pagine vibranti in cui si descrive la straordinaria attività di questi due eroici montanari nei mesi che seguirono le «Pasque », non può che trovar pallide le pagine nostre.
(2) Anche il fatto d’un ferito trasportato a spalla da Gianavello con grave pericolo della propria vita è storico, quantunque posterióre.
(3) Nome dato dispregiativamente ai Valdesi, dal loro uso di chiamar col termine familiare di « Barba », cioè zio, i ministri del loio culto.
(4) Questa preghiera si ripeteva quotidianamente in tutte le compagnie di soldati valdesi. Una notizia certa in proposito risale però solo al 16S6, durante il « Glorioso Rimpatrio Si trova scritta a piè del « Regolamento militare », documento conservatoci.
(5) Inutile aire come queste due lettere siano documenti autentici, testuali.
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LE “ ISTRUZIONI ” DEL CAPITANO GIANAVELLO
Di Gianaveìlo due scritti importanti ci sono rimasti:
i® le Istruzioni da lui inviate alle Valli nel 1686 che portano il titolo di « Regolamento per la guerra 1686.
2° le nuove « Istruzioni del capitanò Gianaveìlo», con un’appendice intitolata « Istruzioni per attaccare le Valli con le armi », il tutto datato « Svizzera, questo giugno 1688 ».
Quantunque ambedue siano stati dettati a un segretario, ni un dubbio è sorto mai sull'autenticità tanto dell’uno che dell’altro manoscritto. Il primo, probabilmente trovato addosso a qualche Valdese prigioniero, e conservato nell’Archivio di Stato di Torino, termina con 12 righe scritte di proprio pugno di Gianaveìlo. Caratteristica in esse la raccomandazione fatta ai « ministri » di non recarsi per nessun motivo a Torino. Di questo primo documento sono citati l’introduzione e vari dei passi più notévoli nell’Atto III del dramma « Gianaveìlo ».
Del secondo manoscritto — di cui, nell’originale francese, gli storici Muston e Rochat d’Aiglun hanno riprodotto larghi squarci e che è stato pubblicato in extenso, sempre in francese, sia come appendice alia « Glorieuse Rentrée ■ di Arnaud, ed. 1880, sia, in modo più completo, dal Ferrerò — offriamo qui la traduzione, prima crediamo, in lingua italiana. Per questa noi abbiamo seguita la lezione data appunto da Domenico Ferrerò nel suo opuscolo — poco sereno, ma, nei documenti, sufficentemente esatto — dal titolo: Il rimpatrio dei Valdesi e i suoi cooperatori(i).
Ci siamo attenuti con somma cura al testo originale, resistendo al desiderio sia di modificare il rude stile dell’Eroe, che ama ripetere le sue raccomandazioni, sia di mettere maggior ordine nell’esposizione delle sue idee. Chi leggerà queste righe, non colla freddezza del critico letterario e nemmeno soltanto colla curiosità benevola
(x) Torino, Casanova 1889.
dell’intellettuale, ma piuttosto coll’amore dell’uomo libero o del fratello credente, non potrà non rimanere impressionato e commosso per la vigoria di concezione, pei la prudenza, la pietà e, diciamolo pure, anche la generosità di uno che — pur essendo stato quant’altri mai uomo di parie — ha sentito nella propria coscienza ed ha proclamato in quei selvaggi tempi (così lontani eppur, sotto certi aspetti, cosi vicini ai nostri) il carattere sacro del sangue innocente.
LE «ISTRUZIONI”
Carissimi fratelli in Gesù Cristo,
Poiché il Signore non mi permette, con mio grande rincrescimento, di potere seguirvi, causa la mia infermità, ho creduto ai non dover trascurare nulla per il bene della mia povera patria. Ho fatto perciò mettere per iscritto il mio parere riguardo alla condotta che dovete tenere — sia nel cammino, che negli attacchi e combattimenti — se il Signore vi fa la grazia di condurvi nelle nostre montagne, come io.spero: per laqual cosa prego Dio di tutto cuore: faccia Egli riuscire i vostri sforzi per il ristabilimento della sua Chiesa a gloria Sua.
Poiché dunque prendete tutti insieme questa ferma risoluzione, io v’invio il mio pensiero per iscritto: voi prenderete ciò che vi sembrerà più utile. Ad ogni modo, io vi prego di accettare in buona parte il contenuto della presente; e lo spero, poiché viene da uno dei vostri servitori che, coll’aiuto di Dio, vi è e vi sarà fedele fino alla morte.
Vedo che Siete pieni di zelo e di coraggio Ser accendere la fiaccola della vera luce ell’Evangelo nei luoghi della vostra nascita. dove giammai come al presente la Chiesa del Signore è stata ridotta a tanta estremità; ma i nostri peccati ne sono la vera cagione: bisogna dunque umiliarsi tutti i giorni e sempre più davanti a Dio e domanaargli di cuore perdono dei tanti peccati che abbiamo commessi e commet-
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IL CAPITANO GIANAVÉLLO (Xilografia ¿i P. A. PASCHETTO)
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tiamo contro la Sua Santa Maestà, affine di riconciliarci con Lui. E poiché è sempre stato per mezzo d’un piccol numero che la Chiesa di Dio si è mantenuta ih quei luoghi, io spero che voi sarete ancora il Eiccol numero di cui Dio vorrà servirsi di el nuovo per riaccendere il vero candeliere della vostra Patria.
E quando vi sarà sopraggiunto qualche inconveniente, abbiate buona pazienza e raddoppiate il vostre coraggio, in tal modo che non vi sia niente di più fermo della vostra fede n Dio: così facendo, non dubitate punto che il Signore non vi conservi e non faccia riuscire tutti i vostri buoni disegni, a gloria Sua è per l'avanzamento del regno di Gesù Cristo.
Intanto, pei vostra regola, allo scopo di riuscire nei vostri disegni, io vi consiglio che, appena sarete sulla terra del nemico, v’impadroniate di tre c quattro uomini della regione. In seguito, li farete marciare con voi di luogo in luogo con tutti i riguardi che saranno possibili, e quando arriverete in qualche parte dove vi è pericolo d’allarmi, ordinerete ad uno di quegli uomini, da voi tenuti, di andare innanzi con uno dei vostri per avvertire i contadini che non si mettano in apprensione, che non farete lor.o alcun male, nè arrecherete loro alcun danno, purché essi vi lascino passare amichevolmente. E, se voi avete bisogno di qualche cosa, la pagherete a loro soddisfazione. Infatti, voi non potete assolutamente marciare tutti in un corpo solo, perciò, se la prima squadra non pagasse quello che avesse preso, ciò potrebbe esser causa della perdita della seconda o della terza.
Perciò, e per diverse altre ragioni, il mio parere è che voi paghiate tutto ciò che prenderete. Fra quelli che saranno nelle vostre mani, voi obbligherete colui che andrà avanti a parlare, insieme a uno dei vostri, e a dire che, se verrà fatto qualche male a qualcuno di voi, non solo periranno quelli che sono in mano vostra, ma ancora non l'andrà bene per loro; mentre che non farete loro alcun male se essi non comin-ceranno atti ostili contro di voi. Vi comporterete il più saggiamente possibile, anche a causa dei vicini che sono i Signori Svizzeri e di altri che debbono esservi cari. In tal maniera, io spero che passeiete senza alcun male nè impedimento, e che Dio vi conserverà.
In quanto al modo di condii r la guerra, se Dio vi farà la grazia di andare dove desiderate icome io spero per l'aiuto del Si
gnore), se, dico, potete senza allarmi arrivare in luogo sicuro, voi non mancherete di organizzare tale necessaria condotta in mezzo a vói..
Prima di tutto dovete, quanti siete, mettere i ginocchi a terra, alzar gli occhi e le mani al cielo, il cuore e l’anima a Dio con ardenti preghiere, affinché egli, vi dia il Suo Santo Spirito e tutto quel che è necessario per una sì eccellente impresa, e Ch’Egli metta nei vostri cuori di nominare i più capaci per il comando e per la direzione.
In primo luogo occorre che in ogni Comunità ci sieno due ufficiali, che si uniranno agli altri (x) e i detti ufficiali saranno nominati tutti pel voto dei soldati, in questa maniera: per poter bene apprezzare l’intenzione di ognuno, occorre fare raccogliere le schede da un uomo fedele e onesto, dopo aver fatto mettere tutti i votanti in rango. Quest’uomo porterà le dette schede al segretario, che ne prenderà nota e i capitani e i sergenti eletti potranno servire 15 giorni, dopo di che la Compagnia potrà riunirsi di buon accordo per discutere tutti insieme se si è contenti degli ufficiali: in caso affermativo, ringraziarli, esortandoli a continuare; e, se c’é qualche lamentela contro di essi, si rappresenterà loro con buona maniera due o tre volte, che, se non si correggono, si può destituirli e stabilirne di più capaci.
I soldati siano sempre pronti ad obbedire al loro capitano, sotto pena di passare al Consiglio di guerra, che sarà ordinato e stabilito col consenso di tutti. Inoltre, sarà proibito a tutti gli ufficiali e a tutti i soldati di criticare e di bestemmiare in qualsiasi maniera, sotto grave pena; chè, se arrivi qualche attrito fra gli uni e gli altri, s’imponga silenzio e gli ufficiali vi metteranno ordine, secondo il loro giudizio. Di più, sarà proibito a tutti indistintamente di prendere o rubare qualsiasi cosa, gli uni agli altri: se si trova qualcosa di perduto di questo o quello, ciò sia reso di buona grazia, senza difficoltà, affinchè l'unione, che è la cosa principale, sia conservata in mezzo a voi, trattandovi come fratelli in Gesù Cristo, conformemente a ciò che dice la Santa Scrittura, la quale non verrà mai meno, essendo più ferma che il cielo e la terra, tanto che tutte le cose cambieranno E rima che muti una sola parola di Dio.
onfidatevi sempre in Lui e siate certi che
(x) Cioè ad alcuni ufficiali francesi, olandesi e inglesi, volontari nella spedizione. (N. d. T.)
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Egli non vi dimenticherà mai, ma sarà una muraglia di fuoco intorno a voi, contro i vostri nemici.
Quando prenderete del bottino del nemico, di qualsiasi cosa si tratti e in qualunque luogo ciò avvenga, voi lo dividerete egualmente a testa, salvo ciò che sarà necessario per costituire una riserva nei luoghi di rifugio: gli ufficiali non prenderanno che la loro parte, come gli altri. Tuttavia, se i soldati volessero spontaneamente offrire qualche ricompensa ai loro ufficiali, ciò sarà loro permesso per incoraggiarli a ben fare e per mantenere l’unione; anzi, il caporale potrà farne la proposta alla Compagnia.
Venuta la sera, vi riunirete per indirizzare la vostra preghiera a Dio; pòi metterete sentinelle in gran numero, e porrete i più timidi dei vostri soldati la sera, e durante la notte; approssimandosi il giorno, porrete i più coraggiosi ea esperti, raddoppiandone il numero. Quando vedrete il nemicò approssimarsi per attaccarvi, lasciatelo avvicinarsi finché sarà possibile, e tirate sempre agli ufficiali: ve ne troverete bene; io ne ho fatto l’esperienza. Non fate alcuna scarica se non al momento più opportuno e siate pronti a ricaricare le vostre armi, e sopratutto cercate di avere delle pallottole che vadano giusto pel calibro dei ve stri archibugi, perchè in tal modo tirerete più diritto e a colpo più sicuro.
Per ciò che riguarda gli ufficiali nemici, ai quali io vi consiglio di tirare, voi li riconoscerete ai loro colletti, picche e alabarde. Ancora: quando voi avvicinerete il nemico, non mancate di mettere in campagna i vostri soldati per iscoprirlo e batterlo di fianco, oltre alle imboscate; ma che la punta non avanzi mai, altro che in seguito all’avviso del fianco: così facendo, voi vi proteggerete gli uni gli altri, e conserverete in pari tempo la chiesa di Dio, poiché, com’io spero, sarete Cristiani fedeli.
State attenti, in tutti gli scontri e combattimenti, di risparmiare il sangue innocente, cioè quelli che sono incapaci di farvi del male, affinchè Dio non sia offeso e voi non dobbiate risponderne davanti al Suo tribunale il giorno del Giudizio: il sangue innocente grida sempre vendetta. A questo proposito i capitani avvertiranno i soldati e voi starete in guardia di non lasciarvi mai trasportare, dalla paura o dalla collera, al vostro interesse particolare. Così facendo, la spada del Signore — come la Sua grazia — sarà sempre con voi. In Lui dobbiamo fondare tutte le nostre speranze, perchè
Dio — che è sempre stato, che è e che sarà — è colui che vi conserverà e vi stabilirà. Ricordatevi che chi spera in Dio non perirà giammai.
In ogni Compagnia si nominerà un uomo che pòssa assistere al Consigliò di guerra; ma egli sarà nominato da tutti, ufficiali e soldati, portanti armi: si raccoglierà il voto di ciascuno senza distinzione, e colui che avrà più voti sarà, eletto. È necessarissimo e importantissimo che quelli che vi si daranno per guida (1) facciano parte di detto Consiglio di guerra (voi dovete aver gran cura di loro e non permettere che si espon-Sano ad alcun pericolo). Detto Consiglio i guerra condannerà alle pene più appropriate, secondo i falli e le mancanze commesse: sarà punito di morte chi avrà parlato col nemico in altra maniera che colla punta delle armi. Ma se alcuno cadrà in errore, non si faccia morire senza averlo esortato alla 'morte e a domandar perdono a Dio, e chi dovrà morire, nomini colui che dovrà tirargli: ciò per evitare le discordie che potrebbero avvenire.
Ancora: non vi fidate nè degli scritti, nè delle parole dei vostri nemici, e, quando essi vorranno parlarvi, allora maggiormente tenetevi in guardia.
Io vi avviso ancora che, dopo il primo combattimento, è necessarissimo che gli ufficiali cambino d’abiti, indossando anche, se occorre, quelli in peggior stato della loro Compagina (2). Saià pena la vita a cqloxq che si mettexanno a spogliale i morti e i feriti del nemico, prima che il combattimento sia del tutto terminato e che i capitani non abbiano ordinato, a quelli che giudicheranno più al caso, di procedere alla spogliazione. In seguito, tutto si dividerà molto egualmente, e ciò che non potrà dividersi, apparterrà a chi lo pagherà meglio.
Quando attaccherete i nemici, state attenti a metter bene le vostre imboscate di fianco, chè, se il terreno si presenta favorevole, bisognerà — prima che la punta abbia attaccato — far la finta di ritirarsi, affin di attirare il nemico sótto i colpi del-l’imboscate, e in tal modo sorprenderlo. E quando questi è in rotta bisogna inseguirlo di fronte, fortemente e vivamente, ma non per questo le vostre imboscate
(1) Cioè gli ufficiali stranieri di cui abbiamo già 'ietto. (N. d. T.)
(2) Traduiione esatta di una raccomand; zi uè di cui sfugge l’esatto significato. (N. d. T.)
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cessino di batterlo, sinché vi volti il dorso. Allora bisogna mirare in mezzo alle reni e, s’egli vi volterà la faccia, voi mirerete al ventre; così non mancherete di ucciderne e di ferirne molti, facendo loro assaggiare i frutti della guerra. E, se si trovano fra essi dei vostri rinnegati e ch'essi vengano sinceramente ad abbandonarsi nelle vostre mani alla vita o alla morte, voi non mancate di riceverli con indulgenza, rimettendoli ai vostri ministri; in seguito, li esorterete a combattere con voi, ma non affidate loro alcun incarico delicato, come, ad esempio, quello di sentinelle. E, se v’impadronite di qualche famiglia di rinnegati, quanto agli uomini portanti le armi sono alla vostra discrezione, ma trattate con umanità le famiglie, e ciò per diverse ragioni.
Hate il vostro Consiglio segreto composto di quattro uòmini: due di Val Luserna, uno di Val S. Martino e uno di Val Perosa; e questo Consiglio non faccia niente se non dopo aver sentiti i vostri Conduttori. Sopratutto stabilisca, sotto comminatoria di gravi pene, di non rinfacciarsi gli uni agli altri qualunque cosa che si riferisca a rivolte, prigionie o simili, perchè — e ne proviamo immenso dolore — non siamo mai giunti a così grandi estremità. Ma i nostri peccati ne sono là causa vera. Perciò dobbiamo tutti umiliarci dinnanzi a Dio, riunendoci insieme e domandandogli perdono con vero e sincero pentimento, affinchè Egli ci faccia la grafia di agire meglio per l’avvenire, coll’aiuto della Sua Santa bontà.
ma sopratutto perchè altrimenti Iddio ne sarebbe offeso.
In séguito, se, com’io spéro, Dio vi fa la grazia di arrivare sulle nostre montagne, è necessario porre grande attenzione ai luoghi prescelti a vostro rifugio, e ciò avanti di attaccare; bisogna attaccare da Val Luserna e da Val S. Martino nello stesso tempo. Ma, primamente,' fissate bene questo: in Val S. Martino il vostro rifugio sarà la Balziglia e in Val Luserna Bàlma d’Aut, l’Aiguille e la comba di Giansarant, che è stata il rifugio della nostra gente dai tempi più remoti. Terrete sempre buone guardie sulle cime delle montagne e agli sbocchi necessari, affin di non essere sorpresi, e per mantenere il passaggio libero da una valle all’altra. Quando sarà necessario tenere delle guardie sul col Giuliano, la metà di dette guardie sia di Val S. Martino e l’altra metà di Val Luserna; mettete sempre parecchie sentinelle di guardia dalla parte di Pragelà, per non esser sorpresi; e, quanto alla Balziglia, voi che siete tutta gente di buone braccia, non risparmiate fatiche per fortificarla, perchè ve ne ¡troverete bene.
Ciò di cui vi prego istantemente è che, quando voi stabilirete gli ufficiali, stabiVi è necessario approfittare delle sante esortazioni che vi saranno fatte dai Signori Ministri, e dei consigli dei Signori Ufficiali che s'incaricano di condurvi, affinchè Dio vi metta nel cuore buone intenzioni d’essergli graditi e di lottare per la causa Sua. Io non dubito che ne trarrete profitto e che sarete ardenti nella preghiera, sopratutto nel combattimento, in maniera che, se Dio vi chiama a sé per caso o accidente subitaneo. Egli vi riceva in grazia accogliendovi nel Suo Paradiso. Abbiate sempre l’anima vostra levata a Gesù Cristo! Rispettate quelli che vi conducono e i vostri cari Pastori, i quali sono servitori di Dio, avendo il carico della Sua Chiesa quaggiù sulla terra. Fate vedere a quelli che vi conducono, che voi non risparmiate nè la vostra vita nè il vostro sangue per il loro servizio e la loro conservazione, con eccellente zelo.
Tutti gli ufficiali sono avvertiti di non lasciare entrare i Signori Ministri nel combattimento e nel Consiglio di guerra, a meno che ciò non sia strettamente richiesto.
Il Capitano Gianavello non ha mai avuto per sue guardie di corpo che sei uomini, ma i signori che vi condurranno ne pren-
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deranno tanti quanti piacerà loro e guardie e ministri e medici e altri. Dovete aver gran cura di proteggere gli ufficiali che i vostri benefattori v’invieranno. Li terrete come la pupilla dei vostri occhi, considerando essere meglio perdere 50 soldati che uno di questi ufficiali, tanto essi vi saranno utili.
Se qualcuno vi mette avanti la Messa, voi — come hanno sempre risposto i nostri Antenati — rispondete: che da quando la Messa porta il suo nome, ella è sempre stata mescolata con mille superstizioni e idolatrie e che niuno ci ha giammai fatto, nè ci farà vedere che Dio, Gesù Cristo, i Profeti o i Discepoli l’abbiano istituita o celebrata; che voi non potete vivere in essa, poiché ciò è per voi più amaro della morte e che siete certi non esservi nel mondo Legge alcuna migliore di quella che Iddio diede a Mosè sopra le tavole di pietra, cioè i santi Comanda-menti, nè migliore Vangelo di quello che Cristo ci ha lasciato; nella cui Legge e nel cui Vangelo, noi vogliamo, per grazia di Dio, vivere e morire come i nostri avi.
Sia proibito a tutti indistintamente di parlar male, di mormorare contro il Sovrano, sotto pena di passare per il Consiglio di Guerra; al contrario, si preghi Dio perchè gli doni buone disposizioni verso i suoi umili e fedeli servitori.
Vi ripeto che — nel caso voi siate attaccati da gran quantità di truppe — non manchiate di riunirvi tutti insieme e di ritirarvi nei posti più vantaggiosi come Balma d’Aut, la Sarsenà, la Comba di Giansarand e l’Aiguille, tenendo buone !;uardie sulla cima delle montagne; non asciate giammai la Balziglia, altro che agli estremi e, quando maggiormente vi minacceranno, allora meno temiate. Non mancheranno di dirvi che, per venirne a capo, tutta la Francia, l’Italia e altre Potenze del loro partito si uniranno contro di voi; ma voi non temiate niente, neanche la morte, contro di voi non temiate che l’Onnipotente, il quale è la vostra salva-guardia.
Sia. proibito a tutti indistintamente, sotto pena di morte, di allontanarsi cento passi dalla propria Compagnia senza il consenso dei propri ufficiali, sopratutto durante la notte e quando ci si batterà.
L’autore di questo scritto, che è il Capitano Gianavello, vi prega nel Nome di Dio, di osservare meglio che vi sia possibile tutto quello che vi è stato e vi sarà
raccomandato. Vi ripeto ancora di aver cura dei Signori Ufficiali che i vostri benefattori d’Olanda e d’Inghilterra vi hanno inviato per condurvi; non permettete ch’essi prendano parte ai combattimenti, nè che si espongano ad alcun pericolo, e se talvolta lo zelo e il coraggio li trasporta e ch’essi vogliano affrontare il nemico, tratteneteli e non fate sì che espongano le loro persone, tanto più che vi saranno utili quanto non posso dirvi; tanto che, come ho già detto, meglio varrebbe perdere cinquanta soldati che uno di tali ufficiali. Tenete per loro guardia di corpo degli uomini da bene e fidati.
Niente di tutto questo è scritto che l'autore non abbia sperimentato. Bisogna che ognuno, sopratutto i migliori tiratori, abbiano qualche pallottola di bronzo o di ghisa per soffiare il naso al Diavolo in caso di bisogno. Ci sono altre munizioni e pallottole molto utili, di cui non trovo opportuno parlare qui.
ISTRUZIONI PER ATTACCARE LE VALLI CON LE ARMI
Nell’attacco di Val S. Martino vi conviene dividere i vostri soldati in tre schiere, una dèlie quali prenderà l’alto della montagna, la seconda farà la guardia al ponte della Torre e la terza si dividerà ancora in due per investire il Perrero, in maniera che i suoi difensori siano investiti senza poter ricever alcun soccorso e non possano battere in ritirata senza essere scoperti. Voi non darete quartiere e state in guardia di non lasciare i vostri posti prima che la Valle sia investita e presa. Se avrete il vantaggio, come spero per la grazia di Dio, voi dovete attaccare subito il Perrero; ma, nello stesso tempo, guardate bene so-Eratutto il ponte della Torre, affinchè il errerò non possa ricevere soccorsi.
Se Dio vi fa la grazia d’aver la vittoria, voi passerete ogni cosa per il fuoco, principalmente le chiese e i conventi, conserverete tuttavia la gabella del sale, il granaio, il forno pubblico coi suoi utensili, perchè ciò potrà servirvi se la Francia non vi è contraria. Per ciò che riguarda i primi attacchi al Perrero, vi è necessario aver delle persone del luogo che lo conoscano bene, per attaccare a proposito e non perdere i vostri soldati.
Quanto ai prigionieri che farete, assicurerete bene la gente di chiesa, mettendole i ferri ai piedi. Vi servirà per ¡scambio
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con ministri e altri prigionieri nostri; e per gli altri che potrete prendere e che potessero farvi avere del denaro utile alla vostra sussistenza, fate loro bene la guardia; ma, quando avrete data la vostra parola, mantenetela per non offendere Iddio. Non ho altro a dirvi riguardo al Ferrerò se non raccomandarvi, di nuovo, il sangue innocente, perchè sia risparmiato.
Per ciò che riguarda Val Perosa, vi bisogna rompere il ponte di assi a monte di Mirandola, se ciò è possibile. Se vedete di poterlo fare Con vantaggio, attaccate Pramollo e S. Germano nello stesso tempo. Per Pramollo potrete impiegarvi una quarantina d’uomini dall'alto e una trentina dal basso, sia alle barricate o altro. Se è a vostro vantaggio, attaccherete, come vi ho detto, S. Germano nel tempo istesso e, se è possibile, non vi appiccherete subito il fuoco, salvo alle chiese; ma pel resto scoperchiate i tetti, mettendo i lastroni di pietra (lattses) sugli stessi muri, per quanto vi sarà possibile. Gli altri lastróni, li calerete e li porrete, messi di taglio, ai piedi dei muri. Nel paese ponete delle imboscate, ma non lasciate un sol tetto, perchè il nemico non vi si possa ritirare.
Se vi accade di prendere dei religiosi, li menerete, come vi ho detto, cogli altri, assicurandoli bene e legandoli con ferri e manette, due a due, in modo che si voltino il dosso; e in seguito, li menerete cogli altri a Balma d’Aut.
Per ciò che riguarda Val Luserna, bisogna occupare il torrione e la cresta delle montagne ed esser pronti a inviare la metà dei vostri soldati in basso ai corsi d’acqua per tagliare i ponti e le passerelle; insegnate alle imboscate a tener fermo nei luoghi favorevoli e stretti, a guardar fortemente il ponte di Subiasco, per impedire che vi si porti via il bestiame, i viveri e che il nemico entri nella Valle, ciò che potrebbe nuocervi molto.
Per Ciò che riguarda Bobbio, io non credo che il nemico venga ad accampar visi; quando vi sia ragione di temerlo, scoperchiate il detto borgo e mettetevi il fuoco, se non si può fare altrimenti. Per il Villar, vi sarà impossibile scoprirlo, perchè dalla torre del forte o convento resta dominato. In proposito, vi dirò a voce il mio pensiero, non voglio metterlo per iscritto.
Per ciò che concerne Torre, bisogna accertarsi se non vi siano truppe nell’abitato, essere forti e prudenti, investirla di notte e, per far bene, mettervi il fuoco
tutt’intorno, affinchè il fumo vi ripari dalle scariche e dalle cannonate del forte, che facilmente vi potrebbero raggiungere.
Per S. Giovanni e Angrogna non vi posso dire di più. Cercate che il momento sia più propizio possibile. V’impadronirete di tutti i religiosi e rinvierete nei vostri rifugi attaccati due a due. E, se vi si domanda di riscattarli per denaro, direte che ciò non si può, che rendano i ministri altri prigionieri che ritengono a torto e voi allora renderete la lóro gente di chiesa. È necessario che voi teníate di conto tutti i religiosi che potrete prendere, per salvar la vita ai vostri poveri ministri e agli altri prigionieri.
Quando sarete entrati nelle Valli, bisogna alloggiare gli ufficiali che vi guidano, i ministri e gli altri al Serre Cruel, quivi voi li conserverete al sicuro. E, quando il villaggio di Bobbio sarà preso, essi si ritireranno alla Sarsenà. E, quando la Torre sarà presa, si ritireranno alla Ruà dèi Bonnet, oppure al Tagliaret. Infine quando Angrogna, S. Giovanni, Roccapiatta, S. Germano, Pramollo saranno presi, potranno ritirarsi a Pra del Torno, d’onde impartiranno i loro buoni consigli a quelli dell’altra valle.
Ricordatevi, nei combattimenti o in qualunque altro scontro, di non fare mai battere la ritirata, perchè questo incoraggia il nemico, che approfitta della vostra stanchezza per inseguirvi ad oltranza.
Il capitano Gianavello e i suoi soldati furono una volta sì affaticati nel combattimento da avere le fauci inaridite, senza la possibilità d’una goccia d’acqua per placare l’estrema loro sete. Eppure sopportarono tutto senza far battere la ritirata, perchè devesi resistere fino alla morte, piuttosto che ritirarsi. ‘
Ricordatevi infine d’avere sempre degli informatori a battere la campagna per osservare le mosse dei vostri nemici.
Vi raccomando di non fare le vostre compagnie più numerose di venti uomini, perchè così vi saranno facili a comandare, e per diverse ragioni di cui l’esperienza vi farà conoscere facilmente il valore.. Val meglio Jare più compagnie che oltrepassare il numero di venti uomini.
Quando vorrete mettere il fuoco a qualche villaggio, lo farete con comodo e con poche persone, poiché, in meno d’un’ora, si può mettere una città o villaggio tutto in fuoco. Perciò bisogna prendere del legno di betulla, o in lingua nostra houle,
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Giosuè GIANAVELLO
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tagliato in pezzi lunghi da 7 a 8 piedi e della grossezza del braccio, spaccati poi minutamente coll’ascia. Poi legherete questi legni dove sarà necessario in modo da farne dei fasci. Quindi farete seccare i fasci al forno e, quando saranno ancor caldi, li ungerete in tutta la lunghezza con un po’ d’olio. Gli uomini destinati ad appiccare il fuoco ne prenderanno uno ciascuno e li porteranno ai luoghi che vorrete incendiare e ne metteranno uno per casa in mezzo alla stanza, poi, accendendo il legno, voi vedre'te ben tosto il fuoco da tutte le parti. Questo è un metodo sicuro Ser fare le cose prontamente e senza per-ere nè impiegare troppa gente.
Se dei signori francesi rifugiati o altri della nostra S. Religione venissero a voi per soccorrervi e aiutarvi a riconquistare i vostri focolari, vi prego di riceverli, onorarli e rispettarli in tutto, come si deve fare tra buoni e fedeli fratelli cristiani. Mantenete l’unione e formate dei corpi misti per diverse ragioni e principalmente
perchè i Valdesi conoscono meglio il paese, 1 luoghi propizi al combattimento e i luoghi di rifugio. Mescolate le compagnie di sudditi stranieri colle vostre, però non nutrite nessun sospetto gli uni verso gli altri. E quanto al bottino di guerra si dividerà ugualmente fra gli stranieri e voi. Procurate di salvaguardare per quanto è possibile i detti stranieri, affinchè essi non siano sacrificati che in casi eccezionali: e se cadono ammalati o son feriti, trattateli come voi stessi, e anche meglio se è possibile. non dimenticando la grande carità che hanno avuta mettendosi al vostro servizo e il loro zelo per la gloria di Dio, e il ristabilimento della Sua Ch era. Per le rincompense da darsi ai detti signori, io non giudico conveniente metterle sulla carta: ma la fine coronerà l’opera coll'aiuto di Dio e spero che la ricompensa non mancherà loro.
Sfitterà, questo Giugno r68ì.
GlOSUÈ GlANAVELLO.
SPADA. DI PBYRONNEL - LUOGOTBNBNTB DI GIAHAVELLO (MUSEO VALDESE DI TORRE PBLLICE)
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PEREG/EIVRÀ DELL'ÀNIMA
POEMI FRANCESCANI
ra già poesia, e qui le si aggiunge il verso. Un idillio carissimo, fresco, soave tutto il volume dei Fioretti; spontanea, naturale, fluida la nuova forma, della quale una mano, familiare all’arte, amorosamente ora l’ha rivestito.
Dai saggi gustati mi riprometto una letizia nell’intero volume, il quale contribuirà efficacemente a crescere larghezza di culto alle memorie francescane e farà ritornare più frequente nelle mani
dei nostri giovani quei Fioretti che, come sorrisero al primo sorgere della nostra lingua, così dovrebbero sorridere al primo sorgere della vita a presidio di quel candore e di quella fede, di quella innocente ingenuità, che sono il decoro e l’ornamento della sana gioventù ».
Sono queste le parole con cui il Card. P. Maffi, ha voluto presentare questo amoroso tentativo di offrire ai più schivi l’allettamento del verso, per giungere fino alla figura che dalla Verna e dall’Umbria mistica si protende da sette secoli ispiratrice di pace, di perfetta letizia, di amore universale, di follia divina.
L’A. ha una sola pretesa: di offrirci un Francesco dei « Fioretti ».
Egli sa che « per qualche stagione, il francescanesimo è stato una moda, una accademia, uno sport. Pochi studiosi e innamorati veri di santo Francesco hanno fatto opera seria, sostanziosa, feconda: molti dilettanti la figura del santo hanno impicciolita, immiserita, contraffatta, presentandoci, in un contorno di rondinelle e di fiori, un povero sognatore sentimentale, un arcade languidetto e smorfioso, non l’austero giullare di Dio, non il gagliardo bandiliere di Cristo, non il soccorritore industre di ogni povertà, il medico dei leprosi, il domesticatore dei lupi e dei tiranni, non l’apostolo dell'amore e della pace fraterna, il pio legislatore della bontà e del lavoro ».
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Ed un solo merito si riconosce: quello che nella sua veste poetica « l’ingenua candida inspirata grazia della leggenda primitiva non è andata interamente pèrduta » (1).
Che la pretesa sia giustificata e il merito raggiunto, lo mostrino alcuni saggi che togliamo dai 32 capitoli della leggenda francescana: cominciando da quello della Perfetta letizia
— Padre, nel nome del Signor, ti priego che mi dica dov’è piena letizia. Santo Francesco così gli rispose: — Leone, quando noi saremo a Santa Maria, così bagnati per la piova, brutti di fango, lividi pel freddo, di fame afflitti ed al convento, irato il portinaio ci dirà: chi siete?; e noi diremo: due de’ vostri frati; ed ei dirà: voi siete due ribaldi che pel mondo rubate ai poverelli; e lascierà di fuori noi due sóli» col freddo e con la fame, insino a notte; s
se tanta ingiuria, tanta crudeltà . fi
tanti commiati sosterremo in pace, senza turbarci e senza mormorare, stimando che Dio parli contr’a noi, scrivi che in questo è piena letizia.— Il freddo intorno ora mordea men folte. San Francesco riprese:— Se, costretti da la fame, dal freddo*, e da la notte più picchieremo e chiamerem pregando per l’amore di Dio con molto pianto, e il portinaio, pieno d’;ra, uscendo con un bastone, ci dirà: gaglioffi, ben pagberovvi come Siete degni; tosto !n terra gittandoci nel fango e nella neve, numerando ad una . '.7
ad una Tossa nostre con gran cólpi: se queste cose sosterremo in pace, allegramente per amor di Cristo, *’•
scrivi che in questo è pièna letizia * .
Ì>erò ch’ogni altra gioia vien da l’alto, rate Leone, ma il dolore è nostro.
Il convito di madonna Povertà non è meno ricco di leggiadra semplicità e di armonia di concetto e di forme, che alla fedeltà più devota aggiungono venustà e sapore di freschezza.
— O fratello, preghia m nostro Signore che c’insegni e ci aiuti a possedere il tesòro di santa Povertà, però ch’ella è tesoro sì divino che indegni siam di custodirla in nostri
(1) L’elegante volume edito in scelta veste tipografica è vendibile presso la libreria di Bilychnis al prezzo di L. 4,25 franco di porto.
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infermi cuori, se per lei si toglie ogni impaccio a ciò che liberamente l'anima si congiunga col suo Dio. Povertade è virtù tutta di cielo, che nel presepe nacque insieme a Cristo, fu seppellita per tre dì con Cristo risuscitò bellissima con Cristo, e regina salì con Cristo in cielo.
Questa è virtù che a l’anima, ancor posta qua giù, concede, se fedele l’ami, agevolezza di volare in cielo, e di parlar con gli angeli di Dio, imperò che la povertade guardi l’arme della umiltà che non mentisce e della carità che non tradisce.
Anche preghiamo, o frate mio diletto, li santissimi apostoli di Cristo che da nostro Signore Gesù Cristo ci ottengano la grazia d’esser veri, sul loro esempio, osservatori ed umili discepoli di donna Povertà.
Disse Francesco, e aveano l’acqua e il pane ridolenza e saper più che di miele ».
E un gioiello di versione, che avviva e ammoderna col più filiale rispetto la primitiva poesia del testo, è quella in terzine, del Cantico delle Creature.
« Onnipotente, altissimo Signóre, (null’uomo al móndo di nomarti è degno), tue son le laudi, la gloria e l’onore!
Laudato sii per frate nostro Sole, che giorna e alluma, e radiante e bello di Te, Signor, ci parla alte parole.
Per suora nostra luna e per le Stelle, sii laudato. Signor, che le hai formate in cielo chiare, preziose e belle.
Laudato sii per frate nostro vento, per l’aere nubiloso e pel sereno, chè dài sempre ai tuoi figli il nutrimento.
Sii laudato, Signor, per nostra suora acqua, eh’è verginella umile e pia, nulla dimanda e altrui lieta ristora Laudato sii per frate foco, ch’óra, come l’amor, tremendo ed or giocondo, arde riscalda illumina divora.
Sii laudato. Signor, per nostra madre Terra, ch’eprime dal suo sen fecondo frutti, fiori vermigli, erbe leggiadre.
Laudato sii per colui che perdona. Chi per Te soffre in pace ogni martore, beato!, avrà da Te la sua corona.
Laudato sii, laudato sii. Signore, per suora nostra morte corporale... chi muore nel tuo grembo, oh, mai non muore!
O venti, o nubi, o mari, o fiori, o stelle, o creature candide sorelle, con umiltà servite e con amore benedite l’altissimo Signore!
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È un saggio, non una recensione, che ho voluto dare: chè della opportunità e attualità ai dì nostri di un invito francescano non occorre io parli. L’A. lo fa efficacemente, e solò, con una Invocazione.
Uniamoci con lui: mentre i fioretti del cuor nostro, « da notturno gelo chinati e chiusi », imbiancati dal sole serafico, « si drizzan tutti aperti in loro stelo »:
« O Francesco, tu nato tra gli orrori di un secolo di fèrro, con soavi parlari i lupi e gli uomini; peggiori dei lupi in lor feroce odio, ammansavi.
— T’eran conti del ciel tutt’i tesori, come a chi tien del cor di Dio le chiavi; e, tra nembi di rondini e di fiori, al Dolore e alla Morte comandavi.
’ — Fin le demonio loro scorribande interrompean, sgomente, alla tua vista... -Ma de’ prodigi tuoi quest’è il più grande: — che a Te si volga impetuósamente e a te sospiri, aolce evangelista, in ogni tempo la caina gente ».
Amen.
Emmanuel.
SERPENTI E COLOMBE p)
« Io vi mando come agnelli fra i lupi. Siate prudenti come i serpenti, semplici come le colombe ».
(Evangelo di S. Matteo, X, >6).
È altrettanto difficile di sapere come contenersi di fronte ai propri simili, che di sapere cosa debbasi pensare dei misteri di quel prodigioso universo che ci circonda. Talvolta si crede che l’uomo, in presenza della creazione, non sia che un pigmeo di faccia ad un’opera gigantesca; ma che, ponendolo tra i suoi simili, tutto si rischiari e si avvicini.
E sicuro, fino ad un certo punto, questo si verifica; ma in altri casi si ha anche l’impressione che il mistero toccato con mano sconvolga ancor più di quello che trovasi al di là del limite da noi raggiungibile. Il simile, l’uomo, è per noi un formidabile punto interrogativo, un’inco(•) Dal volume Glaives à deux tranchants (Spade a due tagli'). Discorsi. Parigi, 1927.
gnita piena d’angoscia. Colla sua azione benefica o funesta, egli entra direttamente nella nostra vita; egli imprime il suo marchio alla nostra carne, al nostro sangue, al nostro spirito. E, benché piccolo e prossimo a noi, quel compagno di viaggio, se perverso e cattivo, ci è causa di maggior tormento che non sia il grande mistero sospeso al disopra del nostro destino. In quello almeno, nonostante la nostra ignoranza, ci è lecito vedere, attraverso la Fede, il sorriso d’un Padre.
Gesù ci ha dato un certo numero di massime per vivere e per morire.
Quando ci chiediamo che cosa c’è al disopra di noi, che cosa c’era prima di noi, che cosa ci sarà dopo di noi, ricordiamo la sua commovente parola: « Padre, io rimetto il mio spirito nelle Tue mani ». E ponendo in quel grido filiale, che ripete i termini stessi d’un Salmo antico, una fiducia che abbraccia ogni cosa, noi ci troviamo a possedere un viatico eterno. Oggi, il Maestro ci dà una breve regola di vita da portare con noi nel nostro viaggio
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terreno. Non è una regola riservata all’apostolo itinerante. È per tutti.
Conviene riconoscere che le paróle precedenti la regola sono un tantino pessi-miste. « Io vi mando come agnelli fra i lupi», non è un complimento per là società dove ci si delega. Ma per ..quanto realista, la constatazione non è meno veridica e si concepisce l’importanza dell'ammonimento che segue: «Siate prudenti cornei serpenti, semplici come le colombe ». Quattro animali si associano per istruire gli uomini. I due primi servono per definire la situazione; i due altri insegnano il modo di comportarvisi.
Tutte queste espressioni sono tolte ad imprestato dal vecchio repertorio orientale in cui la psicologia, invece d’essere stabilita con termini astratti, come nel linguaggio dotto dei giorni nostri, veniva espressa mediante paragoni cogli animali. Ciò è talmente opportuno, talmente conforme al bisogno di chiarezza, di precisione, di cui necessita lo spirito, che ancor’oggi tra noi, tali paragoni hanno corso.
«Come agnelli fra i lupi» è terribilmente chiaro; non v’è possibilità d’equivoco. Altrettanto non può dirsi dei termini colombe, serpenti. Perchè? Il motivo è che, nel corso dei secoli, succede per le parole e per i paragoni la stessa cosa che succede agli uomini. Cambiano a forza di durare. Non si va pellegrinando per anni sotto il gran cielo di Dio senza cambiar fisionomia. Possiamo noi dire d’un tale: « Non è lui; ha i capelli bianchi. L’ho conosciuto benissimo quaranta o cinquant’anni fa; i suoi capelli erano biondi » ? Bella ragione! I colori cambiano. Sotto un’apparenza affatto diversa, il biondo d’una volta è lo stesso uomo del bianco d’oggi; egli forse non ha cambiato anima; ma ha indossato la livrea del tempo di cui siamo tutti quanti tributari.
Lo stesso succede per le parole. An-ch’esse subiscono l’influenza del tempo. Mentre permangono, cambiano significato; Quando il nostro Signore ha detto « colomba » siamo noi certi che sia la stessa cosa che quando pensiamo « colomba », e s’egli ha detto « serpente » siamo noi certi ch’egli, abbia pensato la stessa cosa di quando noi diciamo «serpente »?
La colomba, a dire il vero, ci disturba meno. È più evangelica. La colomba in genere, attraverso tutta la Bibbia, è un uccello simpatico. Vogliamo bene alla co
lomba di Noè. In tempi terribili, in cui una parte della terra era sommersa dalle onde, essa fu mandata dall'arca e vi ritornò fedelmente, la prima volta senza portar nulla, la seconda volta col ramo d’ulivo. Quel ramoscello è rimasto, in tutti i tempi, il simbolo della pace.
Noi amiamo eziandio quella colomba che, nel Nuovo Testamento, è diventata il simbolo dello Spirito Santo. In tutti i tempi, così gentile nell’immaginazione dei bimbi che in quella, degli adulti, la colomba è considerata cóme una buona bestia. È una di quelle dolci creature alle quali è opportuno di somigliare e che conviene di prendere ad esempio. Non è il caso però d’insistere troppo al riguardo. Sappiamo che i naturalisti considerano tra le bestioline più pugnaci, più gelóse e più leticone quelle colombe che sono simbolo di pace e di semplicità. Sono talvolta complicate, le colombe. Rimane però sempre vero che, allorquando è detto: « Siate semplici come le colombe », ciò non ci urta. Nello spirito nostro il paragóne fa l’effetto che deve fare; siamo davanti ad un’idea che non ci pare contradire il fondo, stesso dell’Evangelo.
Ma, allorquando dalle stesse labbra esce questa parola: « Siate prudenti come i serpenti », allora — come proviamo una sorpresa incontrando un vero serpe — siamo colti da una certa esitazione. Somigliare alla colomba, sta bene; ma somigliare al serpente!
La brava gente è sempre stata turbata nella sua coscienza da questa duplice consegna. Come le colombe, come i serpenti'. cose non solo diverse, ma opposte. Una nega l’altra; come associarle?
Oh! Vi sono persone che vi sono riuscite molto facilmente. Hanno risolto la difficoltà d’associare la colomba al serpente ed è del caso loro ch’io anzitutto desidero parlarvi. Nello stesso modo i pittori preparano un fondo scuro per far risaltare una figura bianca e luminosa...
La colomba-serpente. Ciò non rievoca nulla? In questi tempi, qualche cosa di analogo non è stato intravisto dalle nazioni contemporanee? Sulle onde di quel-l'altro diluvio ch’è la guerra, si è visto ad un tratto passare, colle ali distese, una colomba recante un ramo d’ulivo. E gli sguardi, per un istante, hanno seguito il suo volo... volo strano che non era quello della colomba di Noè. Era quello d’una battaglia diplomatica. Falsa colomba por-
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tatrice d’un falso ramo d’ulivo, simbolo d’una falsa pace. Era un pericoloso drago, un orribile serpente travestito da colomba. Da simili uccelli, ci guardi il cielo! La colomba-serpente esiste da tempo. La specie è altrettanto antica quanto malefica. Essa abita gli ambienti ove fioriscono la falsità, la menzogna, l’ipocrisia. Tutti si Ìuardano dal serpente; la colomba ispira ducia; allora il serpente si traveste in colomba.
Nulla urta il cuore umano nella sua dirittura, nella sua sincerità, come d’incontrare una colomba che è un serpente, una creatura che, sotto l’apparente semplicità della colomba, nasconde un’anima di serpe, un’anima di vipera. Uno dèi capolavori del male è appunto quello. Tutti coloro che hanno studiato i caratteri, frugato le pieghe secrete del cuore degli uomini, si sono scostati con disgusto quando hanno incontrato nella società umana degli esseri che apparivano adorni colle piume della colomba, con grandi occhi dove sembrava riflettersi il candore, ma che lasciavano scorgere nel loro interno l’astuzia delle vipere. V’è stato in particolare nella falsa devozione — la devozione smarrita, deviata, corrotta — una fioritura d’ipocrisia, di perfidia, di malizia infernale. Nell’arte perfida della calunnia, piamente inventata per cagionare la perdita d’innocenti, di giusti, di anime rette, mai nessuno ha eguagliato i falsi devoti.
Non bisogna battere il petto degli altri, ma il proprio petto. Quando parlo di falsi devoti, non bisogna credere che parli di quelli qui accanto, o di quelli dì laggiù o d’altrove. Occorre dirsi che un gravissimo pericolo esiste per ogni anima umana, di trasformare ciò che v’è di meglio in ciò che v’è di peggio. Una certa astuzia clericale si è manifestata in tutte le religioni antiche e moderne, dovunque coi medesimi segni e con pratiche analoghe. Ma essa ha trovato nel cristianesimo denaturato uno dei suoi raffinamenti più odiosi. In ogni ramo cristiano, essa assume una forma speciale, e si trova schifosa dovunque. La trovo odiosa sempre allorquando si vale, pei suoi fini, della Sacra Scrittura. Con certi passi delle. Sacre Scritture, che sono come altrettanti mezzi per illuminare il prossimo e per salvarlo, si possono con arte fabbricare dei nodi scorsoi per strangolarlo. Con una citazione abilmente collocata è possibile annerire un volto. Colombe-serpenti, siete
dovunque la medesima razza stigmatizzata da Gesù. Sapete, con un sorriso piamente composto, dire parole mortali. Allorquando siete assidui all’opera vostra e che, non accontentandovi dèlia malvagità ordinaria, voi avvolgete là vostra cattiveria in un’apparenza di santità, di zelo per Dio, per la sua Chiesa o per ogni sorta di cose che hanno il consenso e il rispetto degli uomini, voi volate da colombe e mordete da serpenti. Non insisto; è un argomento troppo triste. È il caso di ricordare quella parola di S. Paolo: «Per causa vostra, il nome di Dio è bestemmiato tra i pagani ». Per causa di simili pratiche di devozione frivola e malsana;-per causa di simile caricatura della religione, Dio e la religione sono talvolta bestemmiati nel mondo.
Allora, mi direte voi, come mai il nostro Signore ha pronunziato parole così pericolose, delle quali si può fare un uso simile?
Vi risponderò questo: Si possono pronunziare parole di bontà, e il cattivo spirito può farne armi di distruzione. È questa una vecchia legge dell’umanità: le parole hanno il destino degli strumenti e degli utensili: tutto dipende dalle intenzioni dell’operaio. Le parole di Gesù non sfuggono a tale legge più di quelle dei comuni mortali. Ma è uno dei grandi dolori di tutti coloro che hanno delle idee e le mettono in circolazione, di tutti coloro che pronunziano parole con cuore sincero, il vedere che, con quelle armi leali e buone, alcuni fabbricano strumenti d’iniquità. Tuttavia, per trovar pericoloso il consiglio di Gesù: «Siate semplici come le colombe, prudenti come i serpenti », occorre un difetto d’attenzione per lo meno uguale ad una tendenza naturale a trascinare nella polvere quanto viene dall’ideale.
Il Maestro ha detto: « Prudenti come i serpenti ». Se avesse detto soltanto: « Siate semplici », poi « Siate prudenti », se non avesse detto « colomba » e se non avesse detto « serpe », si troverebbe tutto naturalissimo. Ma egli non ha détto: « Mordete, come i serpenti ». Non ha .detto: « Siate velenosi come i serpenti ». Non ha détto: « Nascondetevi come i serpenti ». Ha detto « Siate prudenti come i serpenti ». E questo ci servirà di guida per trovare il suo vero pensiero. Il serpente — che è mal Juotato nella Scrittura, dopo la storia di damo e d’Èva — il serpente, conside-
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rato in generale, per una specie d'istinto naturale degli uomini, come un essere malefico, il serpente — tanto nell’antichità egizia quanto nell’antichità greca e nella psicologia degli antichi — è stato sempre considerato come il simbolo della Sapienza, della penetrazione, della chiaroveggenza, della vigilanza e della prudenza, virtù complessa, in cui si raccolgono, come in un fascio, molte preziose qualità. Sotto questo aspetto, il serpe non è più per niente la peste orribile, malefica, davanti alla quale tutti, uomini e bestie, si scostano fuggendo. E, se consideriamo sotto questa luce la parola di Gesù Cristo che stiamo studiando, essa ci apparirà come una sicura ed indispensabile regola di vita.
Egli dunque incomincia dicendo: « Vi mando come agnelli tra i lupi », caratterizzando così l’aspetto pericoloso di quella missione. Però il solo fatto che è Lui a mandarli deve rassicurare gl'inviati: «Sono io che vi mando; lì sta la vostra forza; avete dietro a voi la spinta immensa, non soltanto della parola d’un uomo, ma di Colui che ha mandato quest’uomo e che tiene il mondo nelle sue mani. Io vi mando, Dio vi manda; è questo che sarà il vostro conforto dovunque. Lo spirito stesso della vostra azione dovrà riflettere gl’intendimenti del capo che vi affida il mandato. Siate dunque semplici come le colombe. Non cambiate la vostra natura, siate retti, sinceri, senza frode, per amore di Me che vi mando e per amore di Dio che mi ha mandato, del Dio di verità, del Dio di giustizia e di lealtà. Poi siate semplici per amor di voi stessi. Non abbandonate il vostro carattere pel fatto che andate verso cattivi incontri. Non lasciatevi influenzare dal cattivo ambiente. Non urlate coi lupi. Restate semplici e senza frode; la vostra strada sia rettilinea. Vorrei quasi soggiungere: Se non lo foste per amor mio e perchè siete miei discepoli, se non lo foste per amor di Dio che mi ha mandato, ne’ per amore di voi stessi e di quella fierezza che ognuno possiede di serbare il proprio carattere, dovreste esserlo per amore di coloro verso i quali vi mando. Tutti quei lupi, molto furbi, molto scaltri, giudicandovi secondo loro stessi, vi aspetteranno su vie traverse e vi sospetteranno di àdoprare armi sleali.
Il miglior modo di combatterli sarà di andare dritto davanti a voi. Così li coglierete alla sprovvista. Saranno scon
certati dalla -vostra dirittura come voi potreste esserlo dalla loro scaltrezza. La più grande furberia del mondo non arriva al tallone della sincerità. Simile alla luce, essa dissipa le tenebre. Siate semplici!
Siate semplici altresì conservando la fiducia propria della brava gente che crede al bene malgrado tutto. Non lasciatevi andare a supporre che tutta l'umanità non sia altro che un brutto serraglio popolato da belve. I malvagi esistono, è innegabile; ma v’è pure della bellezza, della bontà, della tenerezza, della fedeltà; v’è persino del sublime in questo povero genere umano. Per ciò, conservate la vostra fiducia, non vivete da pessimisti che vedono un lupo in ogni uomo. Non vivete come 5indici istruttori che hanno per mandato 'essere diffidenti: credete al Dio del Bene, nascosto in cuori d’uomini. Conservate gli occhi puri della colomba, i quali credono all’innocenza: anche ciò è una forza.
Siate semplici ancora nella vita, nei bisogni, nei gusti. Siete dei soldati e io sono il vostro capo. Vedete di quanto poco io mi accontento. Il mio regno non consiste nel confort dell'abitazione, della tavola, del vestito e di tante altre cose di cui s’impaccia il mondo e che vien concupito dai ladri, lupi sempre in agguato. Imitate il vostio Maestro e, come lui, limitate i vostri desideri a poca cosa. Sia lieve il vostro bagaglio; la vostra marcia ne risulterà più ferma e saprete meglio difendervi. Siate semplici... Ma siate ■prudenti, e con ciò intendo vigilanti, in guardia, coscienti sempre del rischio che v’è, per l’agnello, nel vivere a portata dei lupi».
Ecco ciò che non ci sarà mai raccomandato abbastanza. Una semplicità non accompagnata da un senso sveglio, perspicace e, diciamo la parola, da una dose legittima d’intelligente sfiducia, lascierebbe l’uomo in balia del nemico.
Una moltitudine di gente è stata sterminata perchè il candore del cuor suo era, non troppo grande, ma troppo disarmato. Non si può essere semplicemente colomba, altrimenti gli avoltoi e i lupi vi portan via come facile preda. Occorre sapere dove si è, con chi si ha da fare, ciò che si rischia. Colomba bianca non è sinonimo di oca bianca. Un brav’uomo non è un uomo che non s’immagina che vi sieno dei malvagi. Un brav’uomo, è un uomo che crede al Bene, ma sa che v’è della canaglia e che ne conosce le mosse, come il pastore quelle dei lupi. Mai nessuno ha avuto lo sguardo
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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Siù semplice, più diritto, più franco del 'ostro Signor Gesù Cristo: ma giammai nessuno altresì ha scorto più sicuramente e più lapidamente di lui, i diversi cam-tioni più o meno tarati della specie umana.
.’ipocrisia per lui non aveva secreti; egli smascherava le losche manovre.
Gli abili ed i perfidi si sentivano ad un tratto sorpresi nelle loro macchinazioni, e stigmatizzati da una di quelle parole che fanno vedere che non vi s’inganna. Ma, in mezzo alle ombre nere e ai tradimenti, Gesù è rimasto candido d’un perfetto candore.
Ecco quanto si deve fare per non compromettere le marcia del Bene nel mondo, non solamente per causa dei lupi, per causa di tutto il male che c’è nel mondo, di tutte le crudeltà e le ipocrisie alle quali saremmo abbandonati come esseri senza difesa; ma per causa, in generale, delle debolezze della natura umana. È desolante d’esser costretti a riconoscere che la maggior parte degli uomini, anche quelli che non sono lupi, non possono sopportare che si sia di fronte a loro semplicemente un agnello q una colomba. Immediatamente — se si è di questi — s’incoraggiano i cattivi istinti, si desta l’ingratitudine che sonnecchia. Se siete uomini dabbene, state dunque in guardia perchè la buona semenza che spargete nei cuori non germogli come un loglio cattivo e malvagio c perchè, facendo il bene, non induciate in tentazione coloro ai quali lo fate.
Tutti i giorni si corrompono i propri figliuoli. Vi sono genitori talmente buoni, che sono troppo buoni e che finalmente giungono a dirsi: «Com’è mai possibile che, con tanta tenerezza, con tanta devozione, con tanta fedeltà, con un così bell'esempio da me dato ai miei figliuoli, essi siano così duri per me, da camminare, per modo di dire, sopra di me? » Non vi siete fatti rispettare abbastanza, non siete stati abbastanza serpenti — lo dico nel senso buono del termine. Ad alcuni specialmente, a quelli che sono molto buoni, molto dolci, bisogna ripeterlo; altrimenti si espongono a scendere nel rango d’un agnello immolato o d'una colomba maltrattata.
k questa una regola da applicarsi non solo in famiglia, nella propria casa, ma anche tra i nostri amici. Chiunque sia l'amico e quale che sia la sicurezza delle nostre relazioni, quell’amico è un uomo; egli appartiene all’umanità; egli ha le sue debolezze. La semplicità è una delle forme
della bontà. Ma una bontà troppo divinamente semplice è ben compresa solo dalle anime elette. Per le altre, occorre circondarsi da qualche precauzione. Trovate dunque i mezzi appropriati per fare apprezzare il vostro affetto, non foss'altro per il modo stesso col quale sapete dare e ritenere.
Un’altra osservazione. Avete voi mai pensato che la carità rigua do ai vostri più prossimi, e per esempio neil’educazione dei vostri figli, comportava una seria vigilanza? Tenersi alle apparenze, alla superficie è un mancare al dovere. Siamo, coi nostri figliuoli, paternamente e maternamente fiduciosi. Non sospettiamo il male in loro, ma ricordatevi che il male esiste, e può raggiungerli e afferrarli. Pur concedendo loro il credito, pur trattandoli come brava gente alla quale si risparmia l’insulto di supporre che vi nasconde qualcosa. troviamo dei mezzi per sapere quel che succede in loro. Amiamoli abbastanza per desiderare di saperlo. Allo stesso modo ch’è prudente di ascoltarli ogni tanto, o di guardar loro la gola, è indispensabile di oscularli moralmente. Non v'è alcuna indiscrezione nel ragguagliarsi in proposito. Non temete di urtarli. Chi li ama abbastanza per assicurarsi del loro stato Erofondo, conquista più sicuramente il
>ro affetto e la loro fiducia. Genitori, sappiate veder chiaro nell’anima dei vostri figli!
Capi, sappiate veder chiaro nello spirito dei vostri sottoposti!
Perchè tanta gente non sa comandare? Non è perchè sono capi cattivi, arroganti, che disprezzano i loro subordinati, ma è S>erchè non hanno un’idea sufficiente della ermezza, della disciplina, dell'amore dell’ordine e della sicurezza di controllo che occorrono per farsi ubbidire scrupolosamente nello stesso tempo che ci si fa amare e rispettare. Giammai si è stimati a lungo da chi non si sente sorvegliato con intelligenza, da chi forse vi trova ingenuo, candido all’eccesso. La mancanza di vigilanza, di circospezione, di fiuto è un' grave difetto. La fiducia rimane una virtù, solo se è chiaro veggente. Se cieca, essa è un vizio. Avete un bel trattare con uomini di fiducia, non cessate d’essere ser-Senti, cioè d’essere prudenti. Potreste fare el male al vostro uomo di fiducia e a voi stessi.
Ricordatevene, non solo nelle vostre case commerciali, ma nel commercio ge-
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nerale tra gli uomini. Nella sfera spirituale co ne in quella materiale, giammai dev’essere abolita la « funzione di controllo ». Altrimenti si preparano gli abusi, il disordine, la trascuratezza e forse peggio.
La vita pubblica, anch’essa, riposa sulla vigilanza altrettanto che: sulla fiducia In una democrazia, ad esempio, come volete voi che il bene generale si mantenga in equilibrio se il popolo, la massa, gli elettori, sono colombe sino alla fiducia cieca in coloro che governano? È essenziale di assicurarsi che chi ci conduce veda più chiaro e conosca la strada meglio di noi; altrimenti è la distruzione dell’ordine pubblico: ciechi che guidano altri ciechi.
La vita vera si compone di queste due categorie di elementi: sincerità, benevolenza, fiducia: poi: attenzione, vigilanza, che si chiama talvolta sfiducia — c’è una buona sfiducia.
Meditando su questa parola del Nostro Signore Gesù Cristo, mi sono ricordato di una cosa che può essere per noi una specie di simbolo e d’esempio. Avete voi mai visto un cigno camminare? Quell’uccello meraviglioso, così bello. quando vola, o quando nuota, com’è goffo e inabile quando vuol camminare sulla terra! Ciò proviene dal fatto ch’egli non è abbastanza solido sulle zampe. Anche l’uccello che ha le ali migliori, che può innalzarsi sino alle altezze dell’aquila, ha pur bisogno, quando tocca il suolo, di poter camminare. Persino quelle povere zampe del cigno, che non gli servono molto per correre, gli sono però necessarie per spiccare il volo. Nessun uccello, nè rondine, nè gabbiano, nè fringuello può spiccare il volo sènza ricorrere ai suoi zampini. È col loro modesto, ma indispensabile, concorso ch’ei prende il primo slancio. Quando gli uccelli stanno sopra un ramo, nel momento in cui spiccano il volo, il ramo s’abbassa perchè ha fatto da molla sotto la pressione delle zampe. Per partire, l’ala ha bisogno della zampa. Sì, quella cosa ideale che si chiama un'ala, che nuota nell'azzurro, che s’avvicina al sole, ha bisogno di quella cosa umile e terra a terra che si chiama la
zampa. Quale alta lezione di vita in quella meccanica! L’uòmo, per viver bene, ha bisogno d’essere munito per potere ad un tempo camminare sulla terra eoi propri piedi e spiegare le proprie ali. Le due cose sono Necessarie. Occorre una tendenza verso l’alto, uno slancio ideale: ma — se non volete diventar.la preda di tutti i tranelli, la vittima del minimo imprevisto -occorre anche saper scendere dalle altezze e saper muoversi sulla terra. Organizzate l’intesa fra quello che v’è di più elevato e quello che v’è di più umilmente pratico: l’ala e la zampa. L’equilibrio, in ogni cosa, si riduce a qualità contradittorie armonizzanti fra loro. E così ci troviamo ricondotti alla colomba e al serpente.
Nella situazione emozionante in cui ora si trova il nostro paese, non abbiamo bisogno soltanto d’un bell’ideale e d’una lealtà completa, abbiamo bisogno altresì d’una grande vigilanza, di scienza pratica, di chiaro discerniménto. Che ciascuno al suo posto possa sviluppare in sè le qualità che rispondono a questa esigenza. Non potremo mai riuscire semplicemente coll’entusiasmo e una magnifica fiducia in una bella causa. Bisogna an'cora méttere al servizio di quella fiducia tutte le risorse modeste, applicate ora per ora, d’uno spirito perspicace, attento ai rischi come alle occasioni favorevoli.
Caso contrario, ciò che v’è di più bello può fallire sopra un particolare’ che degli uomini di corta vista avranno considerato trascurabile. Nulla è piccino. Il pennacchio del più superbo cavaliere, rappresentante la causa più nobile, può esseré compromesso perchè non s’è data sufficiente attenzione ai chiodi degli zoccoli del suo cavallo. Un piede mal sicuro, un inciampo, e la cavalcatura, che non è che un povero bruto, può compromettere il cavaliere, sebbene sia forse un genio, qualcuno di cui l’azione riassume quella d’un popolo intero e che porta tutto un avvenire sospeso al suo destino.
C. Wagner.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XXII.
SCUOLA, NAZIONE, DIO
Il primo dei quaderni dei quali la nostra scuola, la simpatica rivista scolastica milanese, animata da un programma di vivido idealismo morale, inizia la pubblicazione, raccoglie scritti che nel periodico medesimo avevano largamente agitato e dibattuto il problema .della rinnovazione nazionale della scuola italiana.
In questi scritti, la nazione e la preoccupazione nazionale sono al primo piano, per il loro assunto stesso; ma ogni volta che esaminando il concetto di nazione e quello, implicito in esso, di umanità, o parlando di educazione come di attuazione dello spirito in universale, o chiarendo con l’idea di nazione la trascendenza, sull’individuo, empirico, e l’immanenza nello spirito in atto, del dovere e dell’ideale morale, la discussione tocca le altezze filosofiche, alita in essa un soffio più o meno vivo di religiosità.
E il quaderno ha pagine interessantissime, anzi interessa vivamente dalla prima all’ultima pagina: ma una lacuna, in esso, ci sembra questo non aver affrontato più direttamente la questione non della scuola nazionale in genere, ma di quel che dovrebbe essere la scuola in Italia per essere scuola nazionale. Poiché per stabilire che una scuola, come istituto unitario, vivo della vita della sua società 0 del suo tempo e capace di alimentarla e rinnovarla, debba aver carattere e spirito nazionali basta riconoscere che essa
deve essere in intima comunione con la vita del popolo al quale è dedicata; e non solo e non tanto con la terra che esso coltiva e con i cavoli e i maiali che educa e i chiodi che aguzza e gli edifici che costruisce, ma con la sua coscienza,, con i suoi ideali pratici di vita, con le sue proprie necessità ed ansie spirituali.
In altre parole, si potrebbe stabilire il principio, di evidenza quasi elementare, che scuola nazionale è la scuola la quale, dagli infimi ai sommi gradi, concorre e' contribuisce a modo suo, a risolvere, quelli che sono i maggiori concreti problemi ed affanni della coscienza e dell’anima nazionale, e che diventa così, non scuola dei singoli in una nazione, ma scuola di una nazione, auto-educazione di un popolo.
Ed allora è facile riconoscere che la scuola italiana non è stata davvero ed efficacemente nazionale perchè non solo non ha contribuito a risolvere, ma ha avuto una paura pazza di toccare e sfiorare quello che era il massimo problema dell’Italia uscita dai Risorgimento: chiarire e risolvere il dissidio fra la vecchia coscienza cattolica e la nuòva democrazia, rifarsi una coscienza religiosa. Gli uomini politici, corti di vista o preoccupati solo di voti, non volevano che si inquietasse la vecchia coscienza cattolica; e ad essi, e ai loro interessi politici, ’è stata sacrificata la scuola, a cominciare dall’università. Perchè proprio su questa, da cui di una scuola nazionale avrebbero dovuto muovere lo spirito e l’impulso, imperversò l’organismo politico della Minerva e dominarono, non per il prestigio della scienza.
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che sacrificavano all’attività parlamentare, ma per l’influenza politica, i deputati; e l’accademia clericaleggiò. E nelle scuole medie e inferiori fu proibito parlare di religione, di Cristo e di Dio: non volendosene parlare sulla falsariga del catechismo e non avendosi fiducia di saperne parlare degnamente e utilmente fuori di quella.
Questa insincerità nazionale, che colpiva la coscienza nel suo più intimo, dove si elaborano le concezioni della vita e le fedi direttrici e dove si fondono i caratteri: ha inquinato profondamente la scuola; e ne ha fatto una scuola meccanica, quantitativa, non educatrice, incapace di disciplina, sorgente di infinita fatuità negli alunni che erano abituati da essa a collocar se stessi al primo posto, vuoto, nella vita e nella società; e quindi non nazionale allo stesso modo che non morale, non umana, non idealistica, in una parola non scuola. E detto da alcuno in questo volumetto: scuola nazionale è la scuola buona, cioè la scuola, quando è scuola vera.
ESAME DI COSCIENZA NAZIONALE
A questo che è il problema nazionale, per eccellenza richiamerà la durissima esperienza della guerra la nazione e quindi la scuola? A molti segni, ci sarebbe da sperare che si. Poiché dopo Caporetto si è cominciato a dire, e si dice assai più frequentemente, e da molti ad un tempo, che le energie morali sono al primo posto, che esse furono trascurate, che la cosa più urgente è collocare in fondo alle anime e in cima allo Stato le fedi e i valori morali, che la rinnovazione deve muovere dal vedere in tutti i numerosi e complessi problemi di riforma un comune e immanente problema morale.
Di questo esame di coscienza un gruppo di studiosi e di soldati romani ha preso l’in ziat va; e del pensiero animatore è interprete particolarmente acuto ed esplicito Giovanni Gentile; che in una serie di articoli, pubblicati nel Resto del Carlino di Bologna e nel Nuovo Giornale di Firenze, ha liberamente parlato della colpa comune e di un necessario esame di coscienza nazionale.
Nel n. 25 gennaio del Resto del Carlino egli nota che « la ricerca più importante e più urgente ora non è quella degli errori parziali o di quelle colpe singole che possono addebitarsi a generali e ad uomini
di governo, ma quella indirizzata a scuo-prire la prima radice del male, ih fondo alla nostra coscienza nazionale. Giacché questa avrà assai più guadagnato dalla sconfitta di quanto non avrebbe guadagnato dalla vittoria, se saprà ricavarne il senso vivo dei suoi difetti e l’impulso efficace a una reintegrazione vigorosa risoluta illuminata delle proprie energie».
Per questo è necessario innanzi tutto intendere che il problema militare è un Eroblema politico, perchè per avere un non esercito bisognava averlo preparato, e « perchè l’esercito non è soltanto una sapiente e robusta organizzazione, ma una somma di forze morali, che in esso devono ricevere la disciplina organizzatrice; e queste forze morali non possono esserci dove manchi ogni idea di quegli alti interessi, a servizio dei quali le forze stesse devono stare ». E il problema politico è, a sua volta, un problema morale; il problema delle idealità e del Carattere nazionale .
« La questione politica è questione morale: e chi dice moralità dice carattere, dice energia di una fede. Con questa energia l’Italia è rinata; e attraverso scogli e tempeste, che parve miracolo superare, riuscì non solo ad assicurare la pròpria esistenza, ma a risolvere questioni che sembravano disperate: come quella della definizione dei rapporti tra Stato e Chièsa ». E forse questo del G. è giudizio ottimistico; perchè un esame critico del Risorgici ente, non ancora compiuto, ci mostrerebbe che ci fu sì una fede nei rinnovatori, ma questi furono pochi e discordi e più confidarono, salvo Mazzini, nei mézzi politici e nelle circostanze e nella diplomazia che nella profonda virtù di una fede: e l’Italia fu unificata più per il disfacimento, a un lieve urto, dei vecchi regimi corrosi, che per nuova virtù creatrice. E la sistemazione dei rapporti fra Chiesa e Stato fu soluzione contingente di un problema giuridico, non del problema spirituale che sta dietro quello; il quale, dopo cinquanta anni, è più che mai vivo, come mostra la condotta dei cattolici ufficiali italiani, divisi fra la politica del Vaticano e la politica della nazione.
Prosegue il G.; « Un paese politicamente vale per la vitalità del suo organismo: quali movimenti, quali idee hanno sorretto e cementato negli ultimi quaranta anni lo Stato italiano? Grandi passioni politiche, sorgenti di ispirazione e di forza
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alla vita pubblica ce ne sono state: ma senza diretto ed intimo rapporto con quello Stato che, bene o male, s’era creato e che bisognava consolidare, per dare coesione e vigore al paese. Partiti politici vivi e combattivi, con programmi capaci di raccogliere e disciplinare gli animi, sono stati quelli dei clericali e dei socialisti: due programmi che posano pure essere fermento salutare della vita politica di un popolo se hanno di fronte altri programmi non solo teoricamente avversi, ma praticamente capaci di contrapporre idea a idea, organizzazione a organizzazione ». Anche questo giudizio del G. ci sembra in parte ottimistico: poiché i clericali — quelli che, nel cattolicismo stesso, reagirono sempre, e vinsero, contro ogni elemento di novità (conservatori liberali, democristiani, modernisti) furono un partito di negazione e di reazione e di passato; e il socialismo, nelle sue correnti ideali, fu sempre un movimento di imitazione, dai francesi o dai tedeschi o dai russi, e intristì poi nella volgarità del materialismo dei capi e della incultura dei tesserati.
Ad ogni modo, al programma di chi affermava la necessità di un contenuto religioso a tutta la vita pubblica e privata che cosa seppe opporre lo Stato? «La laicità vuota della scienza, che potè avere il suo significato nel secolo xvm, ma che s’è scoperta poi remota affatto dalla vita, e rispondente a una concezione astratta, che disarma l’uomo e lo getta in braccio all’inconoscibile, ossia a quel potere che è stato la forza irresistibile delle chiese di tutti i tempi. » Così, « lo Stato, nella sua essenza e finalità liberale, coi suoi diritti che sono i suoi grandi doveri di cultura e di benessere, è stato abbandonato a sè, senza presidio perchè senza coscienza della sua missione. Il senso del pubblico interesse che esso amministra si è oscurato negli animi. Finì col suonare falso, come espressione rettorica, almeno fuori delle scuole, il sacro nome della patria ».
Una tale situazione esige un risanamento ad imis. Chi, e di dove, convincerà?
UMANISMO E MATERIA-. LISMO SCOLASTICO
Nel numero di gennaio 1918 della Coltura popolare, G. Prezzolimi e R. Murri applicano alla scuola italiana quell’« esame di coscienza » che dopo Caporetto la parte
più colta e più seria del paese sente la necessità e il dovere di compiere in tutta la vita nazionale precedente la guerra.
Il Prezzolini osserva a ragione quanta f»arte del popolo rimanesse « per. l'anal-abetismo spirituale, la scarsezza di orizzonte mentale, l’incapacità di uscire dai limiti della persona propria o tutto al più da quelli del minuscolo aggregato familiare ma inteso, ahimè, non già come am-a rapii a mento del proprio essere, ma come una comoda proprietà di corpi e di anime > estranea e refrattaria a ogni vivo sentimento e coscienza di patria. Di qui, egli osserva, la necessità urgente, suprema di diffondere con la scuola popolare, e con ogni maniera di sussidii, la cultura, elemento primo di ogni costruzione spirituale della patria.
A questa constatazione il Murri aggiunge l’altra della scarsa efficacia dell’insegnamento popolare, notevole là dove la scuola non mancò, e tuttavia lo stato d’animo delle masse fu anche più riluttante alla disciplina nazionale. Al difetto quantitativo si unisce, ed è più grave, un difetto qualitativo, nello spiritò stesso e nel programma di vita della scuola italiana. La ragione del fatto va cercata, egli spiega, in quella specie di «peccato contro lo spirito > che fu il materialismo pratico e utilitario, il quale rinsaldò e peggiorò l’ideale umanistico di pura cultura; per il quale tutto si riteneva consistere nel dominio della materia e delia natura, che era poi un considerare lo spirito stesso ad instar della materia e degli agenti naturali. Ora il segreto della vita umana sta, bensì, nel dominio della natura e della storia; ma di una natura e di una storia che non sono fuori di noi, altra cosa da noi; che il nostro spirito stesso si foggia, secondo le sue necessità, i suoi ideali, i fini che vuol raggiungere. E sempre elemento fonda mentale e determinante nello sviluppo delle attività umane e della storia fatta dagli uomini è qual concetto della vita e del mondo che. essi hanno dentro di sè e la fede in taluni ideali nella quale è precontenuto e dalla quale è definito, in ultima analisi, il mondo storico che poi realmente gli uomini fanno.
Quale fu l’effetto di questa assenza di un principio e di un ideale etico direttivo nella scuola? Questo: che in luogo di una scuola dimezzata, che non aveva risposte Ser i problemi fondamentali della vita elio spirito, che non intendeva a foggiare
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là volontà buona, ad assoggettare l’alunno ad una disciplina interiore sentita come esigenza di valutazioni ' ideali e quindi liberamente accettatta, si aveva una scuola in cui l’alunno doveva da solo trarre dalla istruzione che gli si impartiva una dottrina di vita. Ma, lasciato a se stesso, egli provvedeva con le risorse che aveva in mano, e cioè seguendo il suo istinto, facendo sè centro della vita morale, esercitando la conoscenza che gli impartivano in una critica favorevole ai proprii desideri e passioni, contro ogni forma di freno esteriore, non giustificato e non postulato da un freno, da una norma interiore; e così l’egoismo prendeva il posto che sarebbe spettato alla coscienza del dovere, e dei concreti ideali umani in cui esso si esprime, al rispetto di una coscienza universale legislatrice, alle norme per le quali la vita dell’individuo è subordinata e coordinata alle esigenze dell’umanità ed alla società, espressione concreta di quella.
Un indice noto di questo mancato riconoscimento di una norma superiore, espressa in istituti sociali, liberamente accettata e rispettata, si aveva in quella specie di infatuazione vanesia per la quale ai ragazzi usciti di scuola normale o di liceo pareva di aver toccato l’apice della cultura e di esser costituiti legislatori disè e del mondo; infatuazione la quale li rendeva incapaci di insegnare; poiché che cosa avrebbero potuto insegnare se non se stessi? e che cosa poteva valere un tale insegnamento se non a fare dei simili a sè cioè degli altri automi umani anarchici?
SANT’AGOSTINO
Il profilo 44® della collezione Formiggini, che E. Buon aiuti ha dedicatoa S. Agostino, è per metà la storia di una conversione, per metà la sintesi di un sistema. Nella prima parte il B. traccia con la biografia di Agostino le condizioni spirituali di Roma, metà pagana e metà cristiana, sulla fine del secolo iv; per le quali la conversione di A. apparisce come l’esplicarsi spontaneo, dal neoplatonismo e dal manicheismo alla teologia cristiana, di un pensiero finemente dialettico e insieme valido interprete del nuovo mondo spirituale che si andava facendo.
Nella seconda, il B. ricorda ed espone in sintesi i tratti fondamentali del sistema agostiniano, nelle controversie contro i pelagiani e i donatisti e nella filosofia
della storia del de Civiiate Dei. La storia del cristianesimo, che apparisce ai superficiali come lo sviluppo storico di un unico germe, poste dai vangeli, è in realtà caratterizzata da momenti successivi di nuova creazione ih cui ai precedenti dati cristiani si associano altri elementi, presi di altronde, espressione di altre necessità spirituali e storiche, e si fa una sintesi nuova.
A. è sulla soglia del M. E. La Chiesa cattolica incomincia in qualche senso da lui. Nel cozzo vivacissimo delle dottrine che minacciarono, agli inizii del v secolo, di scindere la non ancora molto solida e concreta unità cristiana, egli porta, più che l’istinto di un pensiero speculativo, l’istinto di un fondatore di impero spirituale; le idee alle quali successivamente aderisce e delle quali, con la potenza del suo ragionamento e della sua anima, determina il trionfo, sono, non già le più vere in sè — ricerca che oggi può apparirci vana, quando si tratta di dorami e di miti — ma le più atte a giustificare la missione ed a fondare la potenza di una società ecclesiastica, governata da Roma; ed è appunto per questo che la Chiesa di Roma, adottandole, le fa trionfare.
Vedete, ad es., per quel che riguarda la controversia pelagiana. < Le esagerazioni agostiniane, inevitabili in un’aspra controversia ventennale, hanno esercitato una altissima funzione storica nel processo del pensiero cristiano. A distanza di secoli, noi possiamo facilmente riconoscere che se avesse prevalso il pelagianismo, l’organismo ecclesiastico, quale mezzo e strumento di distribuzione di quei carismi onde si alimenta la vita soprannaturale dei fedeli, sarebbe stato reciso alla radice, Foichè il cristianesimo non è per esso che espressione più alta delle naturali aspirazioni dello spirito, e il Vangelo nulla di essenzialmente nuovo ha introdotto nel mondo. A., deprimendo, sia pure esageratamente, le potenzialità dell’umana natura lasciata a se stessa, ha garantito il fatto della individuale redenzione ed ha assicurato alla Chiesa nei secoli la sua insurrogabile funzione di risanatrice e di corroboratrice >.
Proprio quello che ci voleva. Lo stesso è della posizione presa da A. nelle controversia con i donatisti.
« Le conseguenze concrete dei postulati donatisti si intuiscono agevolmente. Essi tagliavano i tendini di ogni organizzazione
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ecclesiastica... Col suo fine intuito di uomo pratico ed avveduto, che l’esperienza romana e milanese aveva educato all’apprezzamento sereno della missione storica della Chiesa, A. intravide di un subito le conseguenze funeste della intransigenza ¿Sonatistica... A sei secoli dalla battaglia di Zama, l’Africa romana dava a Roma il più robusto assertore del suo primato spirituale nel mondo ».
In De Cimiate Dei, A. va più innanzi; e scrive « la carta fondamentale della Chiesa latina nella sua missione sociale ». L'apologetica di essa è «spiegamento di un vasto piano sociale riserbato alla pedagogia della Chiesa... Il messaggio del dcC.D.. posponendo le valutazioni materiali a quelle spirituali, collocando il fastigio della vita umana nella serena pace di Dio, foriera e pegno di una pace immortale, additando l’economia della vera civiltà nella pratica del bene e nella speranza irrequieta del meglio; stimolando allo sforzo costante per il conseguimento di più ampia giustizia, gettò i germi di quella cultura medioevale, mistica e idealistica, che... molti inclinano oggi a considerare come una delle più alte affermazioni dello Spirito del mondo ».
Ma, naturalmente, questa creazione ha il suo corso storico; nasce, sostituendosi alla primitiva escatologia cristiana; muore quando, col risorgere della cultura laica, la pedagogia ecclesiastica si avvia al tramonto. Ed è notevole che. dopo un millennio, un ritorno ad A. è il segnacolo spirituale del distacco del nord d’Europa da Roma e la teologia dei gesuiti abbandona invece definitivamente la dottrina centrale del grande africano sul peccato originale.
MESSIANISMO SLAVO
« Solo gli slavi hanno .il vantaggio di aver conservato in tutta la sua purezza la religione primitiva, il sentimento nativo della divinità. Tutti gli elementi che compongono ciò che si chiama la religione patriarcale vennero conservati intatti e puri solo presso gli slavi. Essi hanno il vantaggio di non aver guastato il sacro deposito con un falso lavoro di immaginazione e di scienza, e infine di non aver abusato delle loro facoltà. Essi formano dunque realmente una razza a parte, per ciò non hanno una mitologia propriamente detta, non hanno che gli avanzi della religione patriarcale; non hanno genealogie.
storie ed avventure di dèi, perciò non hanno avuto elementi aristocratici nella loro società ed anche per ciò hanno ricevuto con tanta facilità il cristianesimo, non essendo stati corrotti dai sofisti o dall’arte. Questo popolo offre un carattere particolare, quello aspetta zinne’, è un poSolo che non ha ancora svolto la sua vita.
■on circostanze esteriori e avvenimenti politici gli hanno impedito di aver il suo posto nella storia; il suo carattere passivo gli era impresso dalla divinità fino dalla culla. Questo popolo, rimasto finora passivo, è immenso nella carta del mondo, è nullo nella storia come la si comprende ora, nella storia della civiltà esteriore. E tuttavia, essendo vissuto così a lungo, deve aver pure una storia. Questa storia è depesta nella sua anima. Ma tutti ora hanno il presentimento che gli slavi sono chiamati ad agire...»
Questa pagina si legge in un « quaderno » de La Nostra Scuola, il secondo della serie, nel quale son pubblicati estratti dal corso di lingua e di letteratura slava che il E età polacco Adam Mickiewicz tenne a rigi, al Collegio di Francia, negli anni 1840-1844 e che fu raccolto con il titolo: Les Slaves, in 5 voi. in-8°. Quel corso era stato istituiti espressamente per il Mickiewicz, nel fervore di simpatie polacche e genericamente panslave che in quel tempo agitava, intorno ai profughi polacchi della recente infelice rivoluzione, la società parigina; ma fu tolto al poeta con un pretesto, nel 1844, perchè egli, come scrive Louis Leger, nel volume: Le Ìansiamente et ¡’intérêt français, (Paris, lammarion, 1917) «si era immerso nelle dottrine fuliginose del Messianismo » in luogo di far opera di storia e di critica letteraria.
Il brano che abbiamo citato è, come tanti altri del volumetto, sommamente espressivo. Il fondo dell’anima slava (polacca e russa più specialmente) vi è colto nei suoi tratti essenziali; ed è colpa della nostra grande ignoranza se, a gettare un poco di luce su avvenimenti contemporane* così vasti e così poco esplicabili da noi, ci giovano anche, e non poco, queste considerazioni scritte oramai sono 80 anni.
Che la razza slava fosse chiamata ad agire fu pensiero e speranza di molti; e Mazzini, presagendo mezzo secolo indietro la caduta degl’imperi austriaco e turco, scriveva che l’elsa della spada la quale doveva atterrarli era nella mano degli
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slavi. Dopo di allora, là Francia e l’Europa hanno continuato a fare assegnamento su quella spada e su quella mano, per il giorno del grande giudizio. Ed ora abbiamo visto come fossero salde l’una e l’a tra.
Eppure in questa stessa pagina i Mie-kiewicz, mentre ci annuncia che la razza slava è chiamata ad agire, ci presenta come carattere proprio, nativo, millenario di essa la passività, V aspettazione di una rivelazione, l’assenza di uno sforzo costruttivo e creativo, (i popoli hanno incominciato a fare la loro storia facendo le loro genealogie divine o mitologie) l’assenza di uno Stato propriamente detto, l’anarchia spontanea idealizzata ed eretta a sistema.
E poco appresso le parole che abbiamo riferite il M. ci avverte che l'Europa occidentale non deve illudersi nel pensiero che gli slavi, per agire, abbiano a farsi come essa; ad istruirsi, impossessarsi della tecnica, industrializzarsi. Egli ci cita in appoggio parole di Emerson in lode della rustica semplicità primitiva e contro l’industrialismo: senza riflettere quanto diverso fosse il caso di uno che parlava o « profetava » ad americani, ac-cingentisi da allora alla conquista del mondo mediante la tecnica, e di uno che profetava agli Slavi i quali, «nelle loro mitologie, non hanno il dio della guerra » nè, forse, quello del commercio.
Agire poteva dunque solo la' razza slava aprendosi improvvisa ad una grande e nuova rivelazione di mitezza o di bontà che avesse quasi fatto meravigliosamente cader le armi di mano ai popoli od ai poteri nemici e tirannici. Ma la rivelazione non è venuta o, se è venuta, si chiama Lenin e Trotzki e guardia rossa; e le armi non sono cadute di mano al formidabile popolo che aveva una dottrina precisa-mente opposta, quella dell’immanenza, della autorivelazione. E gli Slavi sono oggi più che mai quali li descriveva, più che mille anni addietro, Maurizio imperatore bizantino, anarchici e nemici gli uni degli àltri. E in prima linea, sulla via della immancabile rinnovazione, passano i gruppi minori, ma che hanno più di storia occidentale, i boemi.
Ma piene di calda ed intensa spiritualità sono tutte le pagine di questo volumetto. Se la storia ha così crudamente smentito ì’aspetlazione slava, ciò non dice nulla contro il*contenuto etico sostanziale di questi messaggi di mistici. Ai quali bisognerà tornare.
LE ORIGINI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA IN ITALIA
Giovanni Gentile raccoglie in tre volumi, presso l’editore Giuseppe Principato, di Messina, i saggi pubblicati nella prima serie della Critica (1903-14) intorno alla filosofia italiana dalla seconda metà del secolo passato. Nel primo, testé uscito, egli si occupa dei platonici. Sono esaminati in esso G. Ferrari, A. Franchi, B. Mazzarella, T. Mamiani, G. M. Berlini, L. Ferri, F. Bonatelli, C. Cantoni, G. Barzellotti, A. Conti, G. Allievo. B. Labanca, F. Acri.
In una breve prefazione egli avverte che non si tratta, propriamente parlando, di una storia della filosofia italiana nei primi decennii dell’unità. Sotto questo aspetto « in questi, volumi c’è per un verso troppo, e per un altro verso, troppo poco. Eccessiva può parere l’ampiezza con cui si tratta di pensatori che non hanno impressa un’orma profonda e duratura nel pensiero scientifico, e dei quali appena toccherà la storia futura, che sarà scritta da un punto più lontano e più alto di prospettiva. Nè sarebbe stato da tralasciare in una storia sistematica ogni cenno di scrittori e problemi, che non sono entrati nel quadro, perchè estranei al contrasto delle idee fondamentali e animatrici della cultura, che (il G. si proponeva) di rappresentare come determinanti il processo ideale, da cui è sorta la recente filosofia italiana ».
Più che una storia della filosofia, il G. ha fatto una rassegna dei filosofi, ma con un pensiero unitario, il quale è poi la sua stessa filosofia, ricercantesi e rispecchian-tesi nell’immediato passato nazionale; cioè, come egli scrive, mirando « a illustrare le origini del.pensiero italiano che in questo principio di secolo si è venuto e si viene costituendo con caratteristiche sue proprie; le quali, se non cancellano gli intimi rapporti che esso ha con la filosofia straniera contemporanea, lo riallacciano a quelle tradizioni italiane che colla ricostituzione politica dell’Italia acquista una chiara coscienza di sè ».
Dove poteva la filosofia italiana, che in questi studii del G. ci appare quasi sempre così povera e timida, più umanismo e cultura che filosofia vera, trovare le caratteristiche sue proprie? Nell’esame profondo dello speciale problema della coscienza e della vita spirituale italiana contemporanea, che è un prblema reli-
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Ìioso: di distacco dal passato e di costi-azione di fedi per la nuova vita. I.a filosofia italiana mancò a questo compito nazionale, o vi rinunciò pavida, come nei mistici cattolichcggianti, o se ne lasciò deviare, come nei positivisti; e per ciò fu poco nazionale e poco filosofica.
BIBLIOGRAFIA FILOSOFICA
Nella Rivista di filosofia (1917, II) A. Levi.pubblica la « Bibliografia filosofica italiana » per l’anno 1914. continuando così un utile lavoro già da lui compiuto per più che un decennio precedente. II VI gruppo è dedicato alla filosofia religiosa.
con una appendice sulla teosofia; e va dal n. 455 al n. 537. Sono quasi tutti articoli di riviste, sui più disparati argomenti; e poco di buono, di durevole vi è commisto a molti scritti superficiali od inutili. Nessun lavoro originale italiano in volume vi apparisce, di nuova edizione; poche versioni dall’estero, delle quali la più notevole resta il manuale dello Jevons F. B. tradotto dal Pestalozza, e pubblicato da Hoepli: « L’idea di Dio nelle religioni primitive >.
Più abbondante e migliore il contributo taliano alla storia della religioni, il quale non entra nel campo di questa bibliografia.
m.
PER IL IV CENTENARIO DELLA NASCITA DELLA “ RIFORMA ” (31 OTTOBRE 1517 - 31 OTTOBRE 1917)
IL
SPIRITO, CARATTERI, EFFETTI DELLA RIFORMA
È notevole il contributo che a questo aspetto dell’argomento apporta la rivista battista americana The Watchman Exa-miner col suo atteggiamento di riserva e di critica. Per essa, la Riforma fu un movimento assai più grande di Lutero. Noi possiamo trascurare la personalità di lui, ma non trascurare o ripudiare o porre in questione per un istante la grandezza storica del movimento del quale egli fu il miope profeta.
« I.utero. scrive l’autore, dott. Dodd, personalmente, mi ripugna più che mi attragga. Quello che mi attira alla Riforma è che essa riaffermò la democrazia nella religione e fece ritornare la religione della democrazia ».
Qui l’A. pone in rilievo la parte avuta dagli anabattisti nel preparare alla Riforma un terreno anche più ricco e sano che quello prescelto da Lutero. Storch, Max Stübner, Münzer, i tre profeti anabattisti, predicatori a Wittemberg e appro
vati anche da Cellarius e Carlstadt, i due eminenti professori di quella Università, avevano predicato « la rottura completa con ogni sacerdotalismo e sacramenta-lismo, e la sovranità assoluta dell’esperienza e dello spirito di comunione, quali stregua suprema della vita del Cristianesimo e della Chiesa ».
Ma Lutero, reduce dal suo esilio di Wartburg alla yecchia Università di Wittemberg per studiare quale dovesse essere la base dottrinale della emancipazione ormai completa da Roma, « giunse geloso e terribile; gigante, eroe ed autocrata, emulo in gelosia di un Napoleone e con tutti i difetti di un uomo d’immenso coraggio. Gli anabattisti Stubner e Mùnzer furono scacciati dalla sua presenza con l’invettiva: " Dio ti punisca. Satana! „ Questa sua iracondia alienò da ini per sempre Cellarius; Carlstadt diede le dimissioni dalla sua cattedra c se ne andò in Svizzera: e Lutero usò spudoratamente della sua grandezza per soffocare un movimento che lo avrebbe reso mille volte più grande.
Autocrata nel fondo del cuore, e punto democratico, liberatosi appena a metà dagli errori del romanismo, credendo an-
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cora nella transustanzazionc e nel potere di vita e di morte aello Stato sopra le coscienze. Lutero avrebbe avuto estremo bisogno di persone quali Cellarius e Cail-stadt, ed anche Münzer. Ma egli non era uomo da comprenderlo, nè mai lo comprese. È noto ciò che ne seguì: la'sanguinosa guerra dei contadini, eccitati quasi solo dal Münzer, nella quale, dopo quattordici anni di massacri di semplici anabattisti, Lutero finì per vincere.
...Non si è abbastanza calcolato come di dovere, questo fatto, che il Battismo presiedette quasi al movimento della Riforma... Stübner, Cellarius, Carlstadt, videro chiaramente che un movimento democratico non poteva in ultima analisi avere successo su di una base autocratica: e che Snello che Luterò intendeva di conservare i Roma non era un’impalcatura sufficiente per costituirvi sopra una Chiesa basata sull’idea del sacerdozio di tutti i fedeli e la libertà inalienabile dell’individuo... ».
« La verità è che la Riforma Protestante, nel suo fondo democratica, è stata in tutto il suo periodo di 400 anni in balia dell’aristocrazia, mai e in nessun luogo libera di realizzare il vero suo essere... La ragione di ciò, non è difficile a scoprire... La fede, nelle sue diverse espressioni dottrinali e sociali, non è mai andata al di là delle idee dominanti di governo delle rispettive età. Le forme statali vi sono sempre.riprodotte e ripetute nelle forme della fede. Ciò che lo Stato è, la fede, nell’insieme, lo diviene anch’essa inevitabilmente: feudale o democratica, secondo i casi.
Le Nazioni tengono sempre strette nel pugno le loro Chiese: e quello che è la loro fède politica è anche la loro fede religiosa. Se hanno dato il loro assenso all’autocrazia come governo politico, lo daranno anche in materia religiosa. Lutero fu, in un certo senso, impotente, non meno della Riforma. Il Sacro Romano Impero dominava ancora l’Europa, e l’Agostinianismò si ritrovava in casa sua fin nelle vene del popolo. Calvino fu il portavoce di un antico Zeitgeist... La Riforma ruppe la crisalide di un nuovo periodo, ma il vivente che si agitava entro di essa non potè abbandonarsi al volo nel mezzo esterno, agghiacciato da un medioe-valismo che continuava.
Cromwell ruppe la crisalide in Inghilterra, ma non nè sortì una nuova Chiesa libera. La Rivoluzione francese la ruppe in Francia, ma benché sia trascorso un centinaio di anni, la Francia non è ancora
spiritualmente libera. Per una Chiesa ci vuol pili tempo per conquistare la sua libertà che per una farfalla a slanciarsi nell’azzurro del cielo.
È appunto questa corrispondenza tra lo spirito di una fede e quella del governo che in alcuni periodi ha costituito la suprema opportunità della Chiesa. Noi ci troviamo appunto in uno di questi pei iodi nell’Inghilterra e in America... Se la Chiesa non può elevarsi nelle sue concezioni religiose al di là delle forme imposte dagli ideali superiori dello Stato, " un mondo democratizzato produrrà inevitabilmente una Chiesa democratica,” come dice il prof. Pollard.
La nostra nazione è decisa di salvare il mondo per il vantaggio della Chiesa...: una Chiesa, che mostri fedelmente quanto gloriosa sia la libertà dei figli di Dio. È per Juesto compito che restan vere le parole i Neander: " 1 Battisti hanno un avvenire.”
Con l’eloquente oratore americano battista si accorda, su di un’altra rivista dei battisti americani — la lìeview and Ex-po-sitar, edita dalla facoltà teologica di Louisville — il dott. Eager, nel riconoscere che • Lutero non fu il fondatore di un movimento, di cui fu non pertanto la figura' centrale » e che « la Riforma tedesca fu solo una fase della rivoluzione sociale che si diffondeva nel sec. xvi per tutta l’Europa trasformando tutta là sua vita e le sue istituzioni, e al cui fermento, più assai che alle cause religiose, essa dovette il suo successo ». Ma egli riconosce che è nello spirito della Germania del xvi sec. che dobbiamo trovare la soluzione del problema del successo, per quanto -relativo, di Lutero, là dove altri riformatori non meno audaci e vigorosi di lui ■— Wycliff in In-Ìhilterra, Huss in Boemia, Savonaiola in talia — non erano riusciti, prima di lui, ad un movimento così vasto, vitale e capace di incorporare e utilizzare tutti i ripetuti sforzi e tentativi di rinnovamento. « Nella Germania, come nell’Inghilterra del sec. xvi, sopravviveva l’autorità della coscienza, una rozza serietà di carattere, un timore di Dio e dei suoi Giudizi, che offriva al gran riformatore un materiale disposto a rispondere alla sua attività... La Riforma ebbe, naturalmente, il suo punto di partenza dàlie idee sulla "giustificazione”, che benché in sostanza le stesse che avea . -— ■
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vano armato i primi predicatori del Cristianesimo ed i successivi riformatori, quali Wycliff ed Huss, trovarono nell’anima di I,utero come una seconda nascita, e allargarono e intensificarono il movimento, sino a che tutte le forze intellettuali, politiche e sociali della Germania furono avvolte nell’incendio...
Condannato dai Papi, dai Concilii, dalle Università, egli appellò alle Scritture come ad ultimo fondamento di autorità: seconda grande idea della Riforma.
E incalzato dai Cattolici: " Anche noi accettiamo le Scritture: ma chi può interpretarle... se non i preti?” “No, egli gridò, le Scritture sono il legato trasmesso dalla Chiesa primitiva all’umanità. Che esse siano poste nelle mani di tutti, ed ognuno le interpreti da sé. Il diritto al giudizio privato è una libertà spirituale che spetta a noi non meno che ai fedeli dei tempi apostolici ”.
Fu questo principio del diritto al giudizio privato, che marciò trionfalmente su migliaia di campi di battaglia, conferendo al popolo dignità e forza, manifestandosi energia dinamica di un progresso irresistibile, fino a far trionfare il Protestantesimo nella Germania, nell’Inghilterra, nella Scozia, e nella lontana America del Nord. Fu questo principio, più di ogni altro fattore separato, che diede alla Riforma il suo carattere popolare e ne fece una rivoluzione sociale non meno che religiosa'. Esso impressionò l’intelligenza ed il cuore del contadino più di quello che alcun’altra idea avrebbe potuto (are: poiché nessuna famiglia era troppo povera o troppo umile per poter possedere una Bibbia, e per leggerla ad alta voce e per farne oggetto di conversazione nel circolo famigliare al termine di una giornata di lavoro e di affanni. Fu la dichiarazione di questo diritto che, più che Qualunque altra cosa, emancipò l’Europa ai donimi medioevali, dalla schiavitù e dalla tirannia del clero e di Roma ».
Dopo trattato dei rapporti fra la predicazione della Riforma e la « Guerra dei contadini », rapporti Che « sarebbe facile dimostrare non essere stati affatto causali », benché resti il fatto che « la voce di Lutero suscitò echi da lui neppur sospettati... nei cuori di coloro che si dibattevano sotto il grave fardello e l’opprimente giogo della schiavitù sociale e industriale », l’A. afferma che nella sua essenza, il messaggio di Lutero fu democratico. « Esso infatti tendeva a distruggere l’aristocrazia dei santi.
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a livellare le barriere tra clero e laicato, proclamando l’uguaglianza di tutti gli uomini innanzi a Dio. Quando i famosi dodici articoli dei contadini furono spediti a Lutero, egli ne prese occasione per un pubblico indirizzo ai nobili, ai contadini e ad entrambi. Nel suo appello alla nobiltà della nazione tedesca, Lutero si fece eco dei torti subiti dal popolo tedesco con una energia non mai prima udita. Il suo fu il più grande “pamphlet” politico mai composto... Egli proclamò: “ Non sono i contadini che si armano contro di voi, o miei signori, ma Dio stesso ”.
Ai contadini egli parlò con eguale franchezza...: che le loro domande eran giuste e i loro fardelli insopportabili... ma che Dio combatteva per loro... Ma le sue parole dispiacquero ad ambo le parti, e non calmarono certo le passioni dei contadini... ».
Segue l’esposizione sommaria delle vicende della rivolta sanguinosa nel Sud e nel Nord della Germania e della sua repressione e conseguenze sull’indirizzo della Riforma.
« Questi penosi avvenimenti reagirono sulla persona di Lutero... ostacolarono lo sviluppo della Riforma e gettarono le guide di essa nelle mani dei principi, distruggendo così la speranza di Lutero, di una Chiesa tedesca nazionale riformata... Un altro effetto deplorevole fu, che ih lui rimase una diffidenza permanente del volgo... che gli fece ostacolare qualsiasi tentativo di dare un’organizzazione democratica alla Chiesa Evangelica, e legare invece la Riforma in Germania con le catene del controllo secolare... I Riformatori, e Lutero stesso, dopo aver sostenuto il diritto del giudizio privato per se stessi, bandirono e bruciarono quelli il cui giudizio privato differiva dal loro... Ma la maggior parte del mondo ha seguito il loro insegnamento anziché il loro esempio... L’importanza della Riforma per noi- consiste non tanto per ciò che compì immediatamente, quanto per ciò che rese possibile. Essa fece a pezzi molti idoli e falsi ideali, e gl’ideali nuovi che essa fornì, hanno da allora in poi governato il mondo. Il nuovo spirito sopravvisse ai tentativi dei suoi atterriti condottieri d’imprigionarlo, ed è divenuto Io spirito del mondo moderno. E l’essenza di quello spirito si è che nulla deve ritenersi come vero solo perchè antico: nulla accettarsi in nome di altra autorità che quella della verità stessa ».
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Uno sguardo bene addentro nell’opera morale e religiosa del periodo ulteriore della Riforma, del suo spirito di Cristianesimo sociale, dei suoi effetti universali e della sua influenza su tutta la vita privata e pubblica, è Quello che ci aiuta a dare Leon Marchand col suo vasto studio, riferito dalla Rtvut Chrélienne, dal titolo: « La Réformation: ses causes, sa nature, ses-conséquences », del quale, come uno dei più completi e insieme popolari, ci auguriamo sia fatta una traduzione italiana a scopo di diffusione, dolenti di non poterne qui riprodurre che poche pagine.
• Fin dal secolo xvi gli avversari della Riforma hanno predetto la sua rovina: eppure quest’anno vede il 400° anniversario del primo atto pubblico che le ha dato la nascita, e si contano oggi in tutto il mondo circa 200 milioni di protestanti.
Il protestantesimo ha dato vita a delle grandi Chiese che hanno carattere e spirito < iverso, ma che tutte riposano sui due grandi principi della Riforma: la salvezza 5er mezzo della fede e l’autorità delle critture in materia di fede. Queste Chiese sono state delle potenze spirituali: esse hanno istruito la gioventù, hanno mostrato la via retta e sicura da tenere, hanno dato conforto nelle prove della vita, sono state creatrici di vita interiore e di benefica attività.’ Esse hanno presentato un tipo di pietà molto attraente, che ha radice nella coscienza, che è tutta lotte e vittorie, dolori e gioie intime, e di cui Taine ha mostrato la grande bellezza morale. Esse hanno creato delle famiglie oneste, semplici c laboriose, in cui la Bibbia, il lavoro e la preghiera tengono il primo posto, dove il padre e la madre sono sacerdoti, educando i loro figliuoli nel timor di Dio, l’odio del male e la pratica delle virtù famigliari. Esse hanno suscitato, senza dubbio, delle violente controversie, ciò che prova quanto la verità religiosa stia loro a cuore e abbia pregio ai loro occhi; ma sono state soprattutto feconde di caratteri ammirabili, la cui elevatezza cristiana non è stata altrove sorpassata. I loro seguaci sono delle legioni, e si possono trovare fra gli umili operai delle officine e i coltivatori delle nostre campagne, come fra le classi borghesi, nelle grandi famiglie, fra i pensatori e i conduttori de’ popoli.
Penetrate dallo spirito di Cristo, esse
sono state fertili di opere buone di ogni specie; di innumerevoli opere di beneficenza, in cui tutte le infermità e le sofferenze trovano asilo, e sono circondate di cure dalle nostre diaconesse e da cristiani devoti; opere d’istruzione e di educazione della gioventù, fra le quali tengono il primo Ì>osto le scuole della domenica e del giovedì; e recenti associazioni d’illuministi, le società internazionali di studenti cristiani e le unioni cristiane di giovani e ragazze; le opere di evangelizzazione e di missioni che hanno mandato i loro operai su tutta la faccia della terra: tutt’un florilegio di opere d’amore e di fede così ammirabile e grandioso, che nulla di simile si era mai visto prima.
Per coloro che fanno parte di queste chiese protestanti esse sono divenute la casa dell’anima, che si ama di profondo amore, perchè ad essa si deve tutto ciò che si ha di migliore.
Non si è abbastanza rilevato che se l’Europa è sfuggita ài due assolutismi che la minacciavano, l’assolutismo spirituale dei papi e l’assolutismo politico della casa d’Austria — l’orgogliosa divisa di Federico III era: "il mondo intero è sottomesso all’Austria ” — essa lo deve ai prìncipi protestanti alleati alla Francia. Coll’appoggio della Francia, essi hanno spezzato Slesto assolutismo, e l’hanno rimpiazzato, trattato di Wesftalia, col sistema dell’equilibrio europeo che ha permesso alle nazionalità libere di formarsi e svilupparsi, e che sostituirà ormai all’autocratismo imperiale un nuovo ideale di unità fra i popoli indipendenti.
L’opposizione fra cattolicismo e protestantesimo è oggi simbolizzata da questi due nomi: Benedetto XV e Wilson: Benedetto XV, colle sue condiscendenze verso gli ultimi imperi autoritari, e Wilson che gli oppone, in nome della grande democrazia protestante, il programma dei tempi nuovi: libertà, giustizia, diritti degl’individui e dei popoli. Anche la libertà religiosa era talmente nella natura del protestantesimo, che oggi lutti.\ protestanti deplorano le guerre di religione e disapprovano l’uso della forza pubblica e della violenza nelle cose religiose. Ne hanno dato recentemente una manifestazione significativa, elevando un monumento espiatorio, a Ginevra, alla memoria di Serveto.
Il mondo è debitore al protestantesimo di un altro benefizio, cioè di aver dato
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l’impulso alle grandi democrazie, di aver avuto fiducia nella democrazia e di aver contribuito al suo trionfo. Nell’individua-lismo della Riforma, nel posto e nella dignità ch’essa dava alla fede personale e all’individuo, c’era un principio democratico che, sviluppandosi, doveva contribuire a far sì che i popoli giungessero a governarsi da sd. Questo principiò non tardò a manifestarsi soprattutto nel calvinismo più logico, più conseguente. La costituzione presbiteriana delle chiese riformate, fin dal sinodo del 1559 introduceva praticamente il regime rappresentativo. Era naturale che queste abitudini di governo parlamentare, imprimendosi negli animi, dovessero immancabilmente passare nel dominio politico.
L’influenza democratica calvinista è penetrata in Olanda ed in Iscozia. Questa ha avuto, nella formazione dell’impero britannico e della parte del inondo che parla inglese, un’influenza al di là di ogni proporzione colla sua popolazione. Edapertutto, scozzesi e non conformisti, hanno portato con sè il loro calvinismo di cui erano fieri, e grazie al quale essi si riguard avano come strumenti di Dio.
Fu il re Giacomo I, che dichiarò alla conferenza d’Hampton Court (1604) che un presbiteriano scozzese s’accordava con la monarchia come Dio col diavolo.
Sarebbe difficile valutare tutta l’influenza esercitata dai profughi protestanti francesi sull’educazione dei popoli che li hanno ricevuti, e quella soprattutto dèi popoli anglo-sassoni per la formazione delle grandi democrazie degli Stati Uniti e delle Colonie del Sud Africa. Nel 1902 è sembrato che l’Inghilterra,vincesse i Boeri, ma nel 1906, disse il profèssore inglese Pleure, era lo spirito calvinista che trionfava.
Per quanto riguarda la Francia, i nostri avversari ci hanno continuamente rimproverato, durante tutto il xix secolo, l'avvento della democrazia e la rivoluzione del 1789: e sembra che essi abbiano veduto Siusto, se si considerano le strette relazioni ei nostri filosofi col mondo anglo-americano, se si pensa alla parte preponderante che il ginevrino G. G. Rousseau, uscito dal protestantesimo, ha avuto nella preparazione della Rivoluzione.
Il protestantesimo, per mezzo dei suoi princìpi morali e cristiani, del bisogno d'ordine e libertà che fa penetrare nelle masse, degli uomini di coscienza superiore che forma e che sono necessari alle democrazie
più che ad altre forme di governo, rende flessibile alle democrazie di stabilirsi e sviti pparsi. È stato spesso notato che i popoli protestanti, in generale, sono meglio preparati al regime delle libertà pubbliche e vi riescono meglio: e che il pregresso avviene in essi più per via di evoluzione che per via di rivoluzione;
Come si potrebbe non ammirare la grande figura che fanno, nella guerra attuale, le due democrazie protestanti dell’Inghilterra e degli Stati Uniti?
Quanto all’avvenire dei popoli, è indubitato che sarà lo spirito protestante e lo spirito protestante francese, che per mezzo delle due grandi democrazie, l’americana e l’inglese, potrà stabilire quella società delle nazioni verso la quale si volgono le aspirazioni di tutti, e che il Presidente Wilson, un cristiano protestante, domandava; or non è molto, in un linguaggio così forte e nobile».
«La diffusione della Bibbia fra ¡protestanti in modo che ogni individuo ne abbia una, doveva condune il protestantesimo a favorire l’istruzione popolare, ciò ch’esso non ha mancato di fare.
Fin dai primi tempi della Riforma, I.u tero avrebbe desiderato che vicino ad ogn chiesa sorgesse una scuola. " È una gran cosa l’istruzione dei figli del popolo - egli diceva: - se io non fossi predicatore, vorrei essere istitutore”. Sempre, infatti, presso i protestanti, l'istruzione e l’educazione sono state amate, volute e date al popolo. Da-pertutto è questa la loro caratteristica.
Nel dominio delle scienze, della filosofia e della teologia, ò fuor di dubbio che il protestantesimo, liberando il pensiero dalla tutela della Chiesa, assicurando a tutti il diritto del libero esame, ha. contribuito allo splendido slancio delle scienze e del libero pensiero che tanto ha aiutato l’umanità a svilupparsi in questi due ultimi secoli.
Questo grande impulso dato alle intelligenze doveva favorire lo spirito d’iniziativa nei domini dell’attività pratica. Sappiamo, infatti, quanto l’industria e il commercio si svilupparono negli ambienti protestanti francesi, e che perdita irreparabile fu per la Francia la partenza, dopo la revoca dell’Editto di Nantes, di 200.000 protestanti, che trasportarono altrove le loro industrie e il loro sapere, e fecero la fortuna dei popoli che li ricevettero. Ci è anche nota la parte preponderante, che nella grande industria e nel commercio mondiale
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tengono oggi le nazioni protestanti; e sarebbe interessante studiare la parte avuta dal protestantesimo nello sviluppo meraviglioso delle relazioni economiche attraverso il mondo intero.
Si rimprovera al protestantesimo di essere ostile all’arte; ma questo rimprovero è stato fatto ugualmente al cristianesimo. Se si parla di. arte lasciva e idolatra, di arte libera quanto a morale, il cristianesimo certo, è irriducibile: esso è stato fin dai primi secoli impetuosamente iconoclasta.
Ma chi potrebbe negare oggi, dinanzi a tanti capolavori, la grandezza dell’ispirazione cristiana? Il protestantesimo è stato anche una reazione violenta contro l'arte religiosa pagana: esso resta chiuso all’arte sensuale. Ma è certo che i riformatori non sono stati ostili all’arte per se stessa; éd è ugualmente certo che un gran-numero di artisti del secolo xvx e del principio del xvii, sono stati favorevoli alla Riforma.
Se si studiasse sotto questo aspetto la dottrina dei riformatori, si troverebbe, credo, ch’essi hanno soprattutto temuto che le immagini conducessero all’idolatria. Zuinglio raccomandava di non distruggere mai una vetriata, perchè appunto non si era mai visto alcuno inginocchiarsi dinanzi a una vetriata.
Calvino non è meno violento di Savonarola (e notiamo che c’è stata sempre, fin dalle oiigini della Chiesa, una corrente contraria alle immagini) contro le Madonne pagane della Rinascenza; ma egli proclama che l’arte di dipingere e di scolpire sono doni di Dio. Egli accetta i paesaggi, la pittura storica e le rappresentazioni della storia religiosa; ma protesta contro ogni rappresentazione della divinità.
Lutero ammétte le opere d’arte nei templi. "Come potrei io trovare malfatto di avere dinanzi agli occhi questo crocifisso che ho nel cuore ? ”
È certo che la Riforma, quando sorse, fu simpatica a molti artisti. Le lettere di' Dùrer a Mélanchton sono ammirabili e significative: quantunque Dürer sia morto cattolico, egli parla di Lutero con entusiasmo e pietà.
In Francia, Giovanni Goujon, Pietro Bontemps, Ligier Richier, i Ducerceau, e un gran numero di artisti provinciali furono protestanti; come pure lo furono i più Srandi incisori e ritrattisti del secolo xvi e el principio del xvn.
Come si può dire che il protestantesimo sia ostile all’arte? Ad esso deve la musica
delle cose belle come il corale luterano, il salterio ugonotto, la suonata e l’oratorio; esso ha ispirato le Comtois Goudimel, J. S. Bach, Beethoven, Haendel, ecc., questi principi della musica. Nelle arti plastiche esso conta degli artisti quali Jean GoujOn, Cousin, Pradier, Thorwaldsen e Bernardo Palissy che ha ritrovato l’arte della ceramica; con Rembrandt e la sua scuola, esso ha dato alla pittura quel carattere di sano realismo, di verità d’espressione ed elevatezza, che sono impronte tutte protestanti, e che si ritrovano nei preraffaelliti inglesi e nelle pitture scandinave. Basterebbe del resto, penetrare in paesi protestanti, per vedere quale posto la coltura dell’arte, il gusto del bello, occupino nella educazione e nella vita della classe borghese e quanto la musica e il canto servano di Sollievo all’operaio nella sua dura vita di lavoro.
Perfino nel culto e negli edifici religiosi, in cui il protestantesimo è andato troppo oltre nella sua giusta reazione contro le pompe e lo sfolgorio del culto cattolico, una nuova corrente si va formando: si comincia a capire che è possibile di armonizzare nel culto il bello col vero e con la semplicità, mostrando così che il protestantesimo, grazie al Vangelo e alla vita interiore di fede, porta con sè il principio di ogni fresca energia, tanto nell’arte che in qualunque altro dominio.
Da oltre un secolo, i problemi sociali si impongono con tale acutezza che è d’uopo assolutamente risolverli» se non vogliamo che la nostra società perisca. Non sarà certo la lotta di classi coi suoi odi e le sue rovine, nè il materialismo affaristico col suo inevitabile abbassaménto di caratteri, che potranno risolverli. Sono problemi ben più profondi, e solo lo spirito di giustiz a e d’amore potrà ad essi rispondere. La nostra generazione ha bisogno del protestantesimo.
Sono infatti dei protestanti che hanno inaugurato e provocato la più gran parte delle riforme sociali: abolizione della schiavitù, diritti delle minoranze, letta contro l’alcoolismo e l’immoralità, lotta nel riposo domenicale, casse di risparmio e di pensione, partecipazione agli utili, diaconati, opere di patronato e di riabilitazione. Inoltre, hanno istituito le "Amiche delle giovani”, le "colonie di vacanze”, innumerevoli asili, focolari, circoli, case di riposo per giovani e ragazze, per operai isolati e stanchi, ecc., e tutte queste opere non solo combattono il male morale e materiale, ma preparano un nuovo ordine di cose, in cui la miseria.
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in ciò ch’essa ha di spaventoso e d’ingiusto, non sarà più sopportata, e in cui ognuno potrà liberamente svilupparsi e divenite un uomo, se vuole: in cui la preghiera del Salvatore: " Venga il tuo regno, che la tua volontà sia fatta in terra come in cielo ” sarà al fine realizzata ».
« Questo grande passato ha qualche cosa da dirci. Noi traversiamo una delle crisi più gravi della nostra storia; l’orribile guerra semina dappertutto desolazione e rovina materiale e morale. Ora più che mai il mondo ha bisogno del cristianesimo, dell'ispirazione cristiana, per non cadere nell’abbassamento morale delle democrazie decadenti, e per sorgere migliore da una simile crisi.
Bisogna che le nostre chiese divengano {»iù socievoli; bisogna che esse mostrino a vita sociale cristiana realizzata, come al tempo della Chiesa primitiva. Nói facciamo troppo poco in questo senso. Le nostre chiese protestanti hanno vissuto troppo isolate, troppo estranee le une alle altre: ora esse desiderano di riavvicinarsi malgrado le differenze che le separano. L'alleanza evangelica che si compone di membri di diverse chiese, non basta più, nè bastano più le opere internazionali. Nei paesi anglo-sassoni sono già apparsi dei concilii pan-anglicani, pan-congregaziona-listi, pan-presbiteriani ed anche degli organismi come la Federazione di tutte le chiese libere della Gran Bretagna. Le missioni nei paesi pagani, che cominciano ad esser federate, indicano alle chiese del vecchio continente la via d’unióne verso la quale orientarsi. Ed ecco che nelle società religiose, come nelle società civili, si va elaborando una nuova forma di unità, tanto diversa dall'unità cattolica e dai suoi metodi, quanto la lega delle nazioni libere e federate sognata dagli Alleati, sarà diversa da quella degli Imperi che aspiravano al possesso del mondo, mediante lo schiacciamento e la sottomissione delle altre nazioni. Federazione delle chiese, società delle nazioni, ecco le parole dell’avvenire. Sarà Suesta la vera unione in Cristo, secondo 'io, l’unione nella diversità degl» spiriti, nel rispetto delle coscienze e del le differenti ciñese, che formano la Cristianità. Realizzando questa unione, il protestantesimo risponderà vittoriosamente a quelli che l’accusano di avere spezzato l’unione cristiana. Spingiamo risolutamente la nostra barca verso quelle rive, alle quali il Capo della Chiesa ci vuole condurre ».
Ma con quale titolo ed in quale senso può la «Riforma» ritenere il nome di luterana? In quale rapporto si trovano il Luteranesimo e Lutero? La risposta a questa questione, che c’introduce nel cuore stesso della nostra investigazione sullo spirito e i caratteri della « Riforma », è data sul The American Journal of Theology di ottobre (edito dalla Facoltà teologica del-l’Università di Chicago) da uno studio di W. Dati, del Seminario di Concordia, nel Ìuale è anche trattato un altro aspetto rezioso e significativo dell’argomento stesso, con l’esame dei rapporti fra Lutero e la Chiesa Luterana americana.
L’A. documenta con ricchezza di prove la sua tesi, che anzitutto, a Lutero e ai suoi cooperatori ripugnasse l’idea di considerarsi come fondatori di una nuova scuola teologica, o più ancora di una nuova Chiesa.
Lutero aborrì sempre l’uso del proprio nome in rapporto con quei princìpi evangelici che egli e i suoi amici avevano propugnato.
« Che Lutero sia un furfante od un santo » —- scriveva egli stesso nel marzo del 1522 ad Hartmuth von Kronberg — « Dio può parlare per bocca di Balaam non meno che Ser quella d’Isaia... o per quella di un asino.
guanto a me, io non so nulla di Lutero e non mi curo di conoscerlo. Io non predico mica Lutero, ma Cristo. Che il diavolo se lo porti via Lutero, se vi riesce; ma che lasci Cristo in pace... ».
Tralasciando molti documenti al riguardo. ecco in quali tèrmini i seguaci di Lutero definiscono nel 1580 i loro rapporti con Lutero nella « Forma di Concordia », l’ultima delle professioni di fede degli Evangelici. « Noi crediamo, insegniamo e confessiamo, che la sola norma e il solo criterio, secondo il quale tutti i dommi e tutti i loro maestri dovrebbero essere valutati e giudicati, non è altro che quello delle Scritture profetiche e apostoliche dell'Antico e Nuovo Testamento... Gli altri scritti di dottori antichi e moderni, qualunque sia la loro riputazione, non debbono godere la medesima autorità delle Sante Scritture, ma essere ad esse interamente subordinati, e non essere considerati che come purè testimonianze della maniera, e del luogo in cui, sin dal tempo degli apostoli, la più pura dottrina dei profeti e degli apostoli fu preservata ». Gli autori procedono dichiarando la loro fedeltà ai tre concilii ecume(.6]
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nici, alla Confessione di Asburgo con la sua apologia, e ai tre articoli di Smalcald, e quindi parlano in questi termini degli scritti di Lutero: « Noi riconosciamo il piccolo e grande Catechismo del dottor Lutero, quali sono contenuti nelle sue opere, come una Bibbia del laicato, nella quale si contiene qualùnque cosa che è trattata pili ampiamente nella Santa Scrittura, e che un cristiano deve sapere per la sua salvezza ».
L'autorità di Lutero, pei Luterani non vale se non in quanto egli affermò con nuovo vigore la paròla divina, sola norma direttiva della fede e della pratica luterana. Le radici del Luteranesimo, per la vecchia scuoia dommatica protestante, si affondano in un suolo soteriologico (economia di salvezza) e cristologie©. È vero che l'esperienza patetica di Lutero durante la sua vita monastica si riflette fortemente ' nelle verità cardinali della teologia luterana: tuttavia il Luteranesimo non è per questo un accomodamento alle vedute particolari di Lutero: non è l’universalizza-zione dello sviluppo particolare d’un individuo. L’appello di Lutero al Vangelo non avrebbe afferrato gli uomini in una stretta così poderosa se ¡’esperienze di Lutero... non fossero comuni e normali a tutti gli uomini sinceri con se stessi ».
Segue un’esposizione del Vangelo di salvezza per la fede e la grazia. « Fu Dio a venire, Dio a vedere, Dio a vincere. Gesù mi trovò, Gesù mi raccolse, ed io lo seguii. Jo so di essere passato da morte a vita, ma in qual modo tutto questo sia avvenuto, io non posso riferirlo in dettaglio. È un mistero dell’opera della divina grazia su di me: ma che questa grazia è pronta in serbo per ogni peccatore... e che lo spirito che rigenera il peccatore viene a noi solo per mezzo dell’opera della grazia: di questo io son certo ». In questa fede, che giorno per giorno e ora per ora si appropria la redenzione di Cristo, e che riempie le azioni più comuni dei. credenti di uno spirito di gratitudine e di amore, è riposta la molla principale della vera moralità. Il Lutei a-nesimo si propone di ripetere la vittoria che questa fede guadagnò sul mondo nei giorni degli Apostoli: di trasformare la faccia degli avvenimenti umani nel secolo xx, comegià nel primosecolo; di estendere la sua influenza su tutte le classi sociali e le occupazioni umane... Uomini miopi hanno potuto ripetutamente asserire la sua decadenza; ma esso procede
tranquillamente, senza ostentazione, nella sua opera di riformare, rimodellare, ricercare gli uomini. Esso possiede una giovinezza eterna, una vitalità immortale, una fòrza invincibile ». r
L’A. procede a parlare delle Chiese Luterane in America, del loro sviluppo, della loro fedeltà ncn solo alle dottrine di Lutero, ma anche alla denominazione di « Luterane ». È una pagina interessante di storia del Cristianesimo.
«In Germania, il termine "Luterane", quale titolo ufficiale della Chiesa, divenne labù nel 1817. Strano contributo che il re Federico Guglielmo III di Prussia e ir suo Concistoro portarono ai festeggiamenti per il terzo centenario della Riforma Luterana, quello oel decreto reale del 27 settembre di 3nell’anno, con cui, annunziandosi l'unione elle Chiese riformate e delle Luterane di Prussia in una sola Chiesa Evangelica, si omise nel titolo ufficiale della Chiesa la parola vetusta di Luterana.
L’esempio delle autorità prussiane fu seguito dai governi di Baden, di Nassau, di Waldeck e della Baviera Renana.
Il decreto della Prussia non proibì, invero, l’insegnamento luterano. Per esempio, il " Piccolo Catechismo ’’ di Lutero fu ritenuto nelle scuole primarie governative. Ma si crearono gravi imbarazzi ad un ‘insegnamento esclusivo e distinto della dottrina di I.utero, ed il confessionalismo strettamente Luterano subì un deprezzamento, ' con la fusione violenta della Chiesa Luterana con quella Riformata. Giacché il decreto reale altro non fece che questo: dichiarare una unione senza effettuarla, e solo riuscendo a fondere insieme gli indifferenti di ambo i lati, sia ecclesiastici che laici, gente per cui le diffeienze dottrinali non costituivano difficoltà gravi...
Il decreto del Re di Prussia, stolto nelle sue origini ebbe conseguenze assai dannose. L’individualismo e il separatismo luterano furono riguardati nelle alte sfere con cruccio: e quando questo non bastava, si aggiunsero restrizioni odiose a riguardo dei pastori luterani che, per motivi di coscienza, resistevano al progetto centralizzatore dello stato.
Si finì con l'applicare a questi nonconformisti luterani anche la prigionia e l’esilio. * Gran numero di Luterani fedeli emigrarono, in questo periodo, in America, e vi fondarono comunità luterane. Sotto il govèrno di Federico Guglielmo IV, le
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condizioni in Germania divennero più favorevoli ai Luterani, ed ora esiste in Germania una Chiesa Luterana sotto forma di "chiese libere” indipendenti dal controllo dello StatoNel 1868 si organizzò a Lipsia il vasto ed influente Congresso Generale Luterano. Oltre a ciò vi sono nella stessa Chiesa Evangelica di Stato dei pastori che insegnano apertamente la dottrina di Lutero. Ma il vecchio vestigio del nome Luterano sembra sparito... Sotto le libere istituzioni del Nord America la coscienza Luterana è rimasta liberà di espandersi ».
L’A. rifà la storia delle colonizzazioni luterane negli Stati Uniti da parte di perseguitati o di emigrati di quasi tutti gli Stati del Nord Europa, ed anche da Srovince baltiche e meridionali della iussia, nonché dell’Austria, dell’Ungheria e da Stati della Germania in cui il Luteranesimo era ed è ancora la Chiesa di Stato.
■ Il corpo dei cristiani luterani d’America è, nel suo insieme, sinceramente e intelligentemente devoto ai principii che Lutero e i suoi collaboratori sostennero quattrocento anni fa... Essi hanno compreso, anche in periodi di apparente regresso, l’importanza dei principi fondamentali della Riforma: la salvezza per la grazia nella fede in Cristo e là parola di Dio quale sola norma di autorità... Esiste e va sempre aumentando una speciale letteratura americana luterana. La sola preoccupazione dei Luterani di America è oggi, di proseguire in questo periodo di transizione in una nuova èra la missione ricevuta in eredità dalla fede proclamata sistematicamente in Asburgo nel 1530... ».
Fra i tanti punti di vista sotto cui lo spirito e gli effetti della Riforma sono stati studiati' e interpretati, non è certo il meno interessante, benché rientri in un ordine di concezione che già dette le esagerazioni della Concezione economica della Storia e del Materialismo storico, quello che vuole studiare i riflessi e, a così dire, l’epifenomeno industriale ed economico di essa, nell’accelerazione e sviluppo industriale dei popoli che l’abbracciarono. E questo punto geniale di vista che è studiato profondamente, pur nei limiti di un articolo della rivista The Princeton Theo-logicai Review da Chalfant Robinson, e che riassumeremo qui con una certa am
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piezza, specie per gli spiragli di luce che esso apre su parecchi aspetti dell’etica sociale sorta dalla Riforma.
« Non fu certamente come risultato immediato della formulazione delle dottrine protestanti che si produsse il profondo cambiamento dèlie condizioni industriali dei paesi della Riforma. Più generazioni prima della nascita di Lutero le grandi forze economiche della vita moderna avevano preso forma e consistenza, ma esse si trovavano di fronte la fede religiosa predominante del Cat-tolicismo, che si opponeva ad un intenso industrialismo e commercialismo qual era reclamato dalle grandi città italiane e tedesche.
Il sistema dottrinale dei Riformatori, al contrario, favoriva, anziché ostacolare, le esigenze sempre crescenti dell’industria ».
L’A. passa in rassegna il parassitismo ecclesiastico e monacale del medio-evo, e il vantaggio che le industrie cittadine risentirono dal ritorno al lavoro di numerosi Sreti e monaci allo stato laico, l’influenza ell’atteggiamento ascetico della Chiesa nell’allontanare dal lavoro lucroso, favorire l'accattonaggio da una parte e dissuadere dall’altra la virtù dell’economia e l’abito di tesoreggiare.
■ La Chiesa aveva insegnato che il lavoro non è un dovere: e d’altra parte àveva inculcato vivamente la vita contemplativa... Tutto ciò che distoglie l’uomo dalle pratiche religiose era uno spreco di tempo prezioso. E questa veduta armonizzava con la concezione medioevale delle buone opere: concezione che Lutero non poteva attaccare senza distruggere altresì quella filosofìa della vita che ne formava'la base. Il vasto numero di mendicanti e oziosi che prima e durante là Riforma cagionò tanta imprevidenza economica e apatia industriale,vfu la conseguenza immediata dell’applicazione letterale di questi insegnamenti...
Un contemporaneo di Lutero, Eberlin von Gunzberg dice, per esempio, che se vi è tanta scarsità di moneta nel paese, ciò è perchè solo una persona su quindici lavora; le altre preferiscono oziare. Ed un altro, Sebastiano Frank, dice essere meraviglia che la Germania riesca a sostenersi, visto che neppure la metà, anzi neppure un terzo della popolazione lavora ».
Lutero assalì col suo solito vigore questo sistema di ozio, biasimando anche
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le frequenti feste che i padroni dovevano concedere e che erano «una vera maledizione di Dio », per gli eccessi a cui nei giorni festivi si abbandonavano questi infingardi operai: del che la Chiesa stessa era principale responsabile con la molteplicità delle sue feste di precetto.
Nel suo Appello alla Nobiltà tedesca, Lutero ha queste vigorose parole: «Tutte le festività dei Santi dovrebbero essere abolite, conservando solo la Domenica.., La ragione è che i giorni festivi sono ora profanati da eccessi di libazioni, di giochi e di oziosità e da ogni sorta di peccati. Oltre il danno spirituale che gl’individui ne soffrono, sono evidenti anche due danni materiali: cioè essi trascurano il loro lavoro e spendono più che negli altri giorni; ed inoltre si debilitano il fisico rendendosi inabili al lavoro ». Un’illustrazione caratteristica di ciò è data dalla condizione del lavoro nelle miniere della Baviera nel secolo xvi. Ivi, in un caso, su duecentotto Íforni solo centoventitre erano giorni di avoro; in un altro, di centosessantuno solo novantanove erano di lavoro: e in un terzo, su dnecentoottantasette giorni se ne lavorava solo centonovantatre. La conseguenza di tutti questi fattori era, ad esempio, nell’agricoltura, la riduzione al minimum della produttività del suolo.
Lutero, figlio di contadini, vide bene tutto questo: però i suoi attacchi furono diretti, più che contro lo spreco economico, contro l’immoralità che èra la conseguenza di questa infingardaggine. La sua più alta benemerenza, benché inconsapevole, riguardo all’economia nazionale, consistette nell’avere risollevato, coi suoi insegnamenti religiosi, la dignità del lavoro. La sua preoccupazione, ripetiamo, fu etica anziché economica: ed inoltre, qui come altrove, egli fu l’esponente della propria epoca, giacché il lavoro degli ai-tigiani aveva incominciato già parecchie generazioni prima ad assumere la sua dignità; in ogni città vi erano ghìlde di artigiani e nei centri industriali l’importanza di una persona era determinata dalla sua posizione nel sistema industriale.
: Lutero abbordò la questione aal punto di vista dottrinale: pero i risultati furono economici. La pietra fondamentale del suo insegnamento è il comando biblico: "Mùngerai il pane col sudore della fronte ”. Ed egli commenta: ''Il lavoro dunque non solo non è proibito ma è insistentemente ordinato”. Per Lutero qualùnque
Senere di lavoro che soddisfi a questo ivino precetto è commendevole... " Per tuo mezzo — egli dice nel suo commento al Genesi — Dio opererà qualunque cosa: sia che tu munga una vacca o compia i servizi più umili: le imprese più nobili e le.più modeste saranno a lui ugualmente gradite”. Ed egli insistette che ognuno dovesse vivere delle proprie risorse e del frutto del proprio lavoro. Di qui il suo disprezzo per i monaci "che vengono nutriti dal lavoro altrui ”. " Scegli — egli scrive ancora — « qualche forma di lavoro perchè tu possa mangiare il tuo pane col sudore della tua fronte, e così ubbe-dire al comando: « Non rubare ”. È facile immaginare come dovesse suonare questo insegnamento alla turba di oziosi e accattoni del tempo, e quale resistenza dovesse provocare ».
Al posto delle opere buone della pietà, economicamente inutili, e della elemosina, economicamente dannosa oltreché demoralizzante, pei mezzo delle quali si cercava di guadagnarsi l’eterna salvezza, Lutero sostituì V opera buona per eccellenza, il lavoro industrialmente produttivo: non perchè esso è necessaiio allo Stato, nè perchè è produttivo, ma perchè è un bene in se stesso, cioè perchè è un servizio reso agli altri. Le opere buone divennero per lui il servizio reso a Dio, mentre Vopera buona, il lavoro, apparve a lui come il servizio reso al prossimo.
Lutero in più occasioni illustrò questo suo concetto: « Non occorre che noi lavoriamo per Dio, bensì per il nostro prossimo »; e in altro: «Che voi costruiate nuove chiese è indifferente, purché voi siate utili al vostro prossimo ».
Un altro intimo rapporto correva fra l’ideale ascetica della vita e la mancanza d’impulso alle industrie. Giacché se è cosa colpevole che il corpo goda i frutti del lavoro personale, perchè mai compiere uno sforzo maggiore del minimo necessario a sostenere 1? vita? Anzi perchè mai lavorare? E perchè non vivere piuttosto di elemosina? A queste domande Lutero dà due risposte: prima, il corpo anziché essere estenuato da digiuni e da vigilie e dalla volontaria povertà, deve essere mantenuto in condizioni igieniche per mezzo di un moderato lavoro fisico e in questo egli è d’accordo con gli Umanisti; secondariamente, lo scopo supremo del lavoro è il servizio dell’umanità.. Dall’atteggiamento di Lutero contrario
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all'elemosina e dalla sua insistenza sul dovere di ognuno di lavorare, doveva coerentemente sorgere la questione: E qual uso fare del capitale che risulta dalle economie?
Lutero scrisse più volte su questo argomento. Ma contadino prima di esser monaco, non fa maraviglia che le sue idee su questo punto fossero oscure e le sue conclusioni incerte... Egli non si raffigurava nella sua mente che una semplice comunità di carattere agricolo, e nessun’idea ebbe della legge della domanda e dell’offerta. Per ciò, con tutta la Chiesa medioevale e moderna, egli considerò iF danaro come un valore sterile: e poiché viveva in un tempo in cui il capitale non poteva essere ancora adoperato in vaste imprese industriali, era forse giustificato nel riguardare colui che prestava danaro ad interesse come una specie di usuraio che spremeva il suo vantaggio dalla dura miseria del suo prossimo. È vero che verso il termine della sua vita egli oscillò riguardo alla liceità dell’interesse in alcune occasioni: tuttavia egli rimase sempre fedele al principio che la questione dovesse essere risolta intieramente in base a considerazioni esclusivamente di carattere etico.
Ripetutamente egli dichiara che < È necessario chiedere o dare in prestito senza alcun interesse addizionale: e anche coloro sono usurai, che avendo dato a prestito vino, grano, danaro, e simili, pattuiscono un premio..., o la restituzione di una merce migliore di quella che hanno prestata. Tale condotta è contraria al principio dell’amor del prossimo, e al precetto biblico: * Tutto quello che vorreste gli uomini facessero con voi, fatelo voi a loro ’ ».
È vero che nel 1519, in risposta alla questione del tasso lecito d’interesse, ammette che sia lecito il 4 o 5 per cento: però egli insiste che quanto più sarà basso, tanto più sarà uniforme al volere di Dio e allo spirito di Cristo.
Riassumendo queste applicazioni economiche dell’insegnamento di Lutero, esse possono così esprimersi:
i° Egli si oppone al chiedere e fare elemosina e alla povertà volontaria, e inculca che ogni individuo deve guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
2® Egli approva e predica la laboriosità e l’industriosità; giacché il lavoro è buono . moralmente e conduce al servizio del
prossimo: non rifuggendo dalla conseguenza del lavoro e della frugalità, cioè l’accumulazione di capitale.
3° Egli rigetta, l’ideale ascetico della vita, e fornisce con ciò al lavoro un altro motivo ancora, cioè la soddisfazione dei bisogni del corpo.
4° Benché riconosca all’individuo il diritto di accumulare ricchezze, si Oppone generalmente all’interesse: primo, perchè esso non richiede lavoro; secondo, perchè esso è un mezzo di opprimere il prossimo.
5° Il suo sistema dommatico è solo parzialmente in armonia con le tendenze economiche del suo tempo. In nessun luogo Lutero riesce a conciliare.lo sforzo teso verso l’accumulazione della ricchezza per mezzo dell’industria, col tipo superiore della perfezione cristiana. Fu questo il compito del Calvinismo del secolo xvii, come vedremo ora.
Per il Cristianesimo Medioevale, il mezzo migliore per salire al Cielo era la vita ascetica e contemplativa dei monasteri. I.e naturali risorse del mondo dovevano essere usate soltanto pei bisogni essenziali della vita, e per accumulare proprietà che rendessero possibile la vita contemplativa.
Lo spirito moderno vi contrappone il precetto: Ogni oncia del tuo ingegno, ogni momento del tuo tempo, ogni riguardo di tuo comodo, agiatezza, ricreazione, salute ancora, deve essere dedicata al perseguimento degli affari nel negozio, nell’officina, nell’ufficio, allo sfruttamento di ogni possibile risorsa della natura con ogni possibile ritrovato della scienza.
Senza dubbio, in questo spirito del moderno industrialismo che ha reso l’uomo la creatura di un sistema che si serve di esso per un altro scopo, vi è un vasto elemento di ascetismo. Appunto come il monaco rinunziava ad alcune cose per se stesse appetibili, per far prosperare la sua vit.a spirituale, il moderno uomo di affari rinunzia per lo spirito di affarismo ad alcuni suoi beni, anche quando il successo riportato ha reso superfluo il suo sagri-fizio. E si può risalire da questo elemento di ascetismo della vita moderna con la sua abnegazione e auto-disciplina, attraverso al Metodismo e Calvinismo ascetico, fino al monasticismo medioevale, accompagnato dall'idea che una delle finalità del lavoro è il. servizio della comunità, essenza della carità cristiana.
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Questo nuovo ascetismo protestante ha quattro sorgenti: il Calvinismo,, il Pietismo tedesco, il Metodismo del sec. xvm e il Bat'tismo. I Calvinisti e i Battisti, dapprima nettamente separati, nel sec. xvn si ravvicinano gradatamente fino a differire impercettibilmente nelle sette indipendenti dell’Inghilterra e dell’olanda.
Per quanto differenti per dottrine dom-matiche ed anche per insegnamenti morali, nell’etica pratica e nella'vita giornaliera e ideal’ pratici, queste sette ascetiche protesi ulti quasi coincidevano.
La con ve sione dei Metodisti, l’estasi dei Pietisti, la luce intima dei Quakers, tutte facevano capo al desiderio di una vita santa e ad un impulso di manifestare con le opere il fatto della loro rinascita spirituale.
Pel Calvinismo in particolare, anziché le disposizioni ed emozioni soggettive solo le buone opere oggettive erano prova manifesta dello stato di grazia ed elezione: cioè quelle virtù che tendono a promuovere la gloria di Dio sulla terra: quali la laboriosità, l’economia, la costanza, la perseveranza, l’abnegazione dei propri Comodi e il sagrifìzio dei piaceri e divertimenti e perfino della gioia della coltura in omaggio alla maggior gloria divina. Ora queste virtù sono essenzialmente prò-E rie dell’uomo laborioso e industrioso.
•i fronte a lui sta il quadro del reprobo, che presenta i caratteri della pigrizia, irresolutezza, dedizione ai piaceri del corpo, spreco di tempo e di danaro.
L’ispirazione alle attività industriali e sociali viene data, dunque, nel Calvinismo, semplicemente dall’impulso a promuovere la gloria di Dio in mezzo al mondo. Il lavoro ha il carattere di un servizio a Dio vita durante, di un’associazione degli eletti a Dio nell’esecuzione dèi suoi piani sul mondo e sull’umanità. « Il servizio pubblico è il più gran servizio di Dio... È nell’azione che Dio è meglio servito e onorato. Il bene pubblico deve quindi esser valutato più che il nostro. Ma dopo il bene delle comunità e il servizio di Dio, è lecito tener conto dell’aspetto di nostro vantaggio nella nostra professione,..e lavorare in quella maniera che più tende al nostro successo e legittimo guadagno, subordinatamente ai fini superiori... Voi potete lavorare per divenire ricchi per Dio; non per la vostra carne e per il peccato > (Direttorio Cristiano, specie pag. 448 e seguenti).
Questa idea è bene espressa dall’inno Calvinista: « Lavora, perchè la dotte si avanza ». Lavorai II tuo sabato di riposo è nel Cielo.
Prendi piacere al tuo lavoro. Fa ogni giorno o almeno spesso l’esame della tua coscienza per vedere in che modo tu spendi il tuo tempo, e quale lavoro tu fai, e come lo fai. I.a contemplazione improduttiva non ha valore, e quindi è spregevole.
Nel sistema di Calvino, quindi, non vi è posto per i monasteri nè per i frati mendicanti. La povertà è una condizione di cui non v’è motivo.di sentirsi orgoglioso più che di una malattia 0 di una deformità. Il lavoro è non solo il modo di attuare la vita spirituale, ma è ancora e sopratutto la condizione normale della vita. Su questo. punto, I.utero e Calvino vanno d’accordo. Anche Tommaso d’Aquino sostenne che il lavoro è necessario per legge naturale, per provvedere al sostentamento dell’individuo e della società: ma questa dottrina medioevale non si applicava a chi può vivere senza bisogno di lavorare: ed è questa la gran differenza tra le- due concezioni.
Considerando ora solo l’aspetto economico della dottrina di Calvino, essa condusse ad un aumento qualitativo e quantitativo del. lavoro sviluppando al massimo grado l’abilità dell’operaio.
« ...comprendete quanto è necessario di seguire una professione determinata «er riuscire ad un lavoro soddisfacente.
I lavoro occasionale e avventizio lascia periodi lunghi di ozio. Il lavoro costante e abituale riesce più perfetto, ed inoltre permette di procurarsi gli strumenti e i comodi migliori, è di rendersi così più utili agli altri senza far torto ad alcuno. E questo lavoro riuscirà anche più facilmente e senza spreco di tempo, e più ordinatamente e senza la confusione che sorge dall’ accudire a lavori diversi. Perciò seguire qualche mestiere o professione speciale è la cosa migliore per ogni uomo >.
D’altra parte, all'ascetismo medioevale che restringeva la produzione al minimo fabbisogno, Calvino contrappone la produzione massima come un dovere: • Se Dio ti mostra una via per la quale tu puoi guadagnar danaro in modo lecito, senza danno all’anima tua o a quella di altri, e tu invece segui un’altra via che ti conduce a un guadagno minore, allora tu ti opponi allo scopo e al fine della tua professione, cessando di essere un fedele ammini-
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stratore di Dio » (Direttorie Cristiano, pagina 450).
L’idea che la prosperità materiale dell’individuo fosse la misura dell'approvazione divina non era punto indebolita dal pensiero che essa debba esser condivisa con qualcun altro più bisognoso, ciò che sembrava troppo simile al fare elemosina. Nè la concezione calvinistica opponeva come ostacolo a chi prosperava negli affari, la utilizzazione dello spirito di buona volontà di lavorare in mestieri e lavori più umili da parte di altri eletti che mancavano di una espressione materiale delle benedizioni divine: chè anzi l’unità di scopo e lo spirito di volontaria subordinazione da parte dell’operaio era la base migliore dell’organizzazione industriale.
L’idea che l’uomo altro non sia che un amministratore, ed economo di Dio; idea vitale e centràle nel Calvinismo, faceva si che il Calvinista nulla considerasse come di suo proprio dominio. Un sonno superfluo, una ricreazione che ecceda lo scopo di un necessario rilasciamento della tensione, l’indugiarsi troppo a lungo in circoli e conversazioni vane, il tempo prezioso sprecato « nell'addobbarsi e ornarsi, e incresparsi la chioma, e incipriarsi » o in pasti troppo prolungati... sono tutto sperpero di un tempo che non è nostro e del quale dovremo rendere un conto minuzioso al nostro padrone. Egualmente non è lecito spendere a nostro vantaggio Sroprio quei beni che possediamo da sua arte: il vestiario deve essere sobrio, i pasti frugali, l’abitazione semplice.
Se il freno così imposto ai godimenti materiali produsse l’effetto di lestringere il consumo specie dei generi voluttuari più importante fu certamente la sanzione religiosa del lavoro ininterrotto, sistematico, di ognuno nella propria professione, considerato come il mezzo più alto
di disciplina spirituale, e nello stesso tempo come la più sicura e visibile garanzia di rigenerazione e di genuina fede.
Limitazione dei consumi e legittimazione morale dello sforzo per il guadagno: ecco la via ovvia alla formazione di capitali per mezzo del risparmio: tanto più che la classe che fu più affetta da queste dottrine fu quella industriale. Non è quindi da meravigliarsi dei notevoli e durevoli effetti economici e della prodigiosa efficacia economica del principio protestante che unificò di nuovo quei due elementi della civiltà che erano stati riuniti una sola volta per l’innanzi nella storia dell’Europa, cioè nel caso della Grecia: lo spirito religioso e lo spirito di possesso del mondo materiale. I due elementi si erano trovati uniti o in contrasto, a seconda che la religióne aveva dato o sottratto la sua sanzione ad attività di affari materiali.
« L’adozione' delle dottrine protestanti da parte di nazioni europee ebbe questo risultato, e non fu il minore, che la povertà e la ricchezza si scambiarono il posto nel novero delle virtù, almeno fino a un certo Punto, e che; pur con notevoli riserve, accattone cessò di rappresentare il modello della perfezione cristiana, e venne sostituito in questa funzione dall’uomo prospero e dovizioso ».
La Riforma, volgendo dopo quattro secoli di esistenza il suo sguardo al cammino percorso, allo spirito che ne ha alimentato l’evoluzione, ai caratteri che hanno costantemente contrassegnata la sua opera, agfi effetti che han reso testimonianza alla sua origine e alle finalità sue, può far proprio l'elogio fatto alla pietà come: Utile a tutto, avendo la promessa della vita presènte e dèlia futura (Paolo, I Tini., IV, 8).
G. Pioli.
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RELIGIONI DEL MONDO CLASSICO
V.
1. Nella Classical Rcview (31.4) F. A. Wright fa qualche osservazione di carattere etimologico e lessicale sulle parole greche che servono a denominare l’alimento degli Dei (nettare ed ambrosia) con l’intento di chiarirne la storia e qualche problema che suscita il loro uso, ma i risultati cui giunge non mi sembrano cambiar molto o molto sicuramente le nostre conoscenze su tali nomi.
2. Sotto il titolo Baal in Grecia T. H. Robinson pubblica nella Classical Quar-terly (11.201) un suo interessante studio di cui riferisco i risultati, che confesso mi lasciano alquanto dubbioso, anzi, dirò meglio, scettico*. La complessità del problema e la difficoltà di fare delle obiezioni all’A. senza snaturare il carattere di questa rivista di studi religiosi del mondo classico mi induce a sopprimere gli appunti che mi verrebbero sulla punta della penna. Il R. incominciando dai profeti israelitici e passando poi per il mondo greco e romano, esamina con sufócente larghezza alcune manifestazioni manticlle delle religioni semitiche, greca e romana, e le trova tutte sotto l’influsso siriaco e precisamente con le caratteristiche di quel tipo di religione che si chiama baalismo. La diffusione di questi fenomeni religiosi che si riducono in ultima analisi a delle profezie estatiche e che si riscontrano in varie parti del bacino mediterraneo, si può facilmente asserire che faccia capo per l’appunto alla Siria. Gradatamente essi si spargono verso il N. e si verificano pur nell’Asia Minore; e poiché vi erano vari Baal in Siria, questa forma di religione coinvolge varie divinità sulla sua strada, tanto maschili che femminili. Si avvia poi verso occidente seguendo tre vie: la prima, di diretta importazione fenicia, ci offre un esempio nella Sibilla Cumana; la seconda, che si serve delle isole dell’Egeo come ponte e che Srende i caratteri tipici delle numerose ivinità locali che incontra, ci dà un’il
lustre prova nel culto di Apollo; la terza attraversa la Tracia e associandosi al culto del vino, altra forma del Baal siriaco, produce ne' tempi storici il largo movimento che tutti conoscono.
Le forme femminili che in Siria assume la mantica con la dea Istar o Astarte, che sotto questo aspetto non diversifica da Baal, non sono diverse da quelle che nell’Asia Minore ànno Afrodite, Rea o Dea Bona e si possono pure paragonare con quelle che anno una parte integrale nel culto d’Iside, in Egitto. Così che, nel primo secolo dell’impero romano, questa pratica religiosa era divenuta universale, grazie al pensiero ed al sentimento d’una razza, la semitica, la cui importanza storica è in ragione inversa del numero dei suoi componenti.
3. All’intento di opporsi ad un’affermazione erronea sulle opinioni religiose di Cicerone, emessa dal Tyrell nel suo notissimo quanto apprezzatissimo lavoro sulla corrispondenza del grande scrittore latino, W. D. Hoper nel Classical Journal (13.88) fa alcune osservazioni che, sebbene lascino forse un po’ incerta la soluzione della questióne, ànno ciò nondimeno il merito di mettere in luce un problema che spesso si trascura dagli studiosi dell’antichità per 1 grandi uomini che impersonarono la civiltà greca e romana. Tra i più vari ed i più eccessivi giudizi in senso favorevole o sfavorevole emessi su Cicerone (sono noti quelli del Drumann e del Mommsen), l’A. ricorda quello recentissimo di Hanis Taylor il quale trova in lui non solo un grande oratore, statista, scienziato e via dicendo, ma pur una personalità notevole nella storia religiosa dell’umanità per aver sco-Krto (?) il monoteismo e averlo reso popo■e (?!] in modo da aver aperto la strada al Cristianesimo. Il Tyrell invece (I, p. 40) affermava che in Cicerone si aveva, dal punto di vista religioso, la veduta caratteristica del moderno francese, tanta era la leggerezza con cui egli assegnava a Te-renzia la religione come una sua cpmpe-
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tema, mentre riservava a sé il mondo degli affari. Il qual giudizio, indubbiamente eccessivo, era principalmente fondato su Fam. 14.4 (ñeque dii, quos tu castissime coluisti, ñeque homines, quibus ego semper servivi] e su ad Alt. 4.10 [fors viderit, aut si qui est, qui curet, deus]. L’A. illustra questi luoghi, esamina il presunto agnosticismo ciceroniano e giunge, sfatando il giudizio del Tyrell, alla conclusione che il grande scrittore latino fu uomo di salde convinzioni. E per prova, allega una lettera da lui scritta a Rufo (Fatn. 5.19) nella quale è affermata la superiorità delle doti morali su quelle utilitarie [te, id quod omnes fortes ac boni viri facere debent, nihil putare utile esse, nisi quod rectum honestumque sit, officii].
[Naturalmente con ciò, non si .può dir risolta la questione della religiosità di Cicerone, a mio modo di vedere: occorrerebbe farne un esame particolareggiatq^-più che non sia stato fatto si hora, ed in gelazione alle sue opinioni filosofiche e alle; sue idee politiche, sopratutto avuto riguardo al fatto che un uomo di stato moderno inglese, francese, tedesco o italiano che sia, à una coscienza religiosa ben differente da quella di un uomo di stato romano].
4. M. Vassitch nella Rev. arch. (5.147) ricordando il proverbio serbo « Dio dalle gambe di lana, ma dalle braccia di ferro > già da altri avvicinato, al proverbio latino dii pedes láñeos babent fa alcune osservazioni sull’origine di tali modi di dire, cui venne non a torto riconosciuto una motivazione nell'abitudine di far voto che gli dei siano impediti di allontanarsi dal luogo voluto, mercè dei legami di lana, corda e simili. Cosi in Serbia si userebbe prima di Natale legare le gambe dei genitori per averne le strenne e così pure si spiegherebbe la festa del patrono in Serbia (slava) che non sarebbe altro se non il culto degli eroi, divenuti i protettori delle famiglie sotto la forma delle anime dei genitori defunti.
Ma l’uso deve rimontare molto più in alto: esistono difatti, non solo statue di dei incatenati, ma benanche figurine preistoriche in cui la divinità à la gambe giunte, chiuse in una specie di guaina o fodero, che si restringe sempre più, e le braccia stese, da cui pendono delle catene che toccano il suolo o vi si perdono. Ora ciò corrisponde perfettamente al proverbio serbo e concorda con le credenze che conosciamo di molti popoli. Ma quel che è importante
stabilire è che esse denotano quanto possano servire a spiegare costumi e credenze attuali usi.religiosi preistorici, come aveva del resto già ben visto il Frazer.
5. W. Warde Fowler con la consueta competenza e genialità, prende in esame nella Classical Review (31.163) alcuni passi di Virgilio (Ecl. 5.65; Aen. 3.305; 5.77 segg.) in cui si accenna a duplicazioni di altari o di offerte, per venire alla conclusione che tali duplicazioni dovevano aver per fine di imprimere una particolare enfasi al sacrificio e potevano esser adottate così dai privati come dallo Stato secondo le circostanze, ma a quel che ci consta erano specialmente adoperate nei casi di voti fatti per la f>arentatic,in quelli per la deificazione oppure negli annuali voti del 3 gennaio per la salute dell’imperatore.
6. Nella Riv. Hai. di numismatica (30.11) L. Cesano pubblica uno studio di tipologia monetale su Efesto-Vulcano (Hephaistos-Vulcanus), mettendo in luce il contributo che le monéte portano all'esame de' monumenti rappresentanti Vulcano, sopratutto per il loro carattere ufficiale e chiarendo quindi così problemi che interessano non solo l’arte od il pensiero antico, ma pur la storia de’ culti.
7. In un dipinto vascolare di Pesto esistente nel museo di Como, in cui è raffigurato un Eros alato avente di fronte una sirena, nella forma di uccello a testa femminile e ad ali spiegate — lavoro del iv sec. a Cr. — G. Patroni ne’ Rend. dell'istit. lotnb., ko.13^) con lo studio e la comparazione di vari monumenti, ritiene di poter ravvisare non una delle consuete scene elisiache da lui notate ne’ vasi italici, ma qualche cosa di più. L’Eros non sarebbe il simbolo dell’amore elisiaco o il messaggero altrui, ma colui che forma con la Sirena la coppia amorosa, un’anima amante, maschia. Ciò non toglie però che quest’Eros non sia sincretisticamente un Eros-anima, prototipo degli amorini ellenistico-romani che colgono o intrecciano fiori con le Psichi dalle ali di farfalla. La Psiche difatti dalie ali di farfalla non è che una forma delle prime, come l’anima-farfalla, dell'uccello-anima. ■ E dal lato concettuale l’Eros-eido-lon, amante o sposo elisiaco dell’anima-si-rena, è l'antecessore dell’Eros che celebra le nozze con Psiche su monumenti figurati d’età più tarde; così come nelle credenze e figurazioni d’oltretomba, precorre la speranza chiaramente espressa su sarcofagi ed altri monumenti funebri romani che la
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Psiche liberata dal corpo, trovi nel di là misterioso, il suo Amore ».
8. V. Scheil nella Rev. d'Assyr. et Arch. oricnt. (13.165) traduce e commenta 7 testi funerari trovati nel 1914 in tombe poste nelle vicinanze del palazzo di Dario in Susa, i quali sono il primo contributo che gli scavi ci portano alla conoscenza dell’escatologia susiana dei sec. vi e vii a. Cr. Da essi, e in correlazione alle altre conoscenze che si ànno sulla materia, l’illustre uomo trae le deduzioni importantissime, che riassumiamo: 1® normalmente, per effetto della sepoltura il morto diviene cittadino degl’inferi e cade sotto le giurisdizione di Nergal e Eriskigal, sebbene la sepultura non sia assolutamente indispensabile: la credenza Sull’infelicità e la malignità degl’insepolti non era rigorosamente dottrinale, ma popolare e assecondata per ragioni di pietà e di utilità sociale; 2® occorreva, per arrivare al luogo del giudizio « oltrepassare ■ le tombe, non essendo suffi-cente il seppellimento; 30 nell’inferno un tribunale giudica favorevolmente quelli che ànno meritato di essere trattati mise-ricordemente; 4® questo giudizio, assoluto e irrevocabile, implica l’idea di retribuzione, almeno in maniera secondaria: 5® i mani giustificati sono tranquillati, riposano. Più tardi gustano degli alimenti scelti e specialmente un’acqua che pare ÌK>ssieda delle qualità vitali [si ricordi il atino refrigerium'. cfr. boli. IV, 2]. La credenza che i mani avessero bisogno delle offerte dei viventi sarebbe, secondo lo Scheil estranea alle dottrine e sarebbe stata incoraggiata [Cfr. anche il n. 1] per ragioni di pietà e di convivenza sociale.
9. Sul culto dell’ Eufrate nell’epoca romàna F. Cumont à pubblicato nell’or cessata Rio. di scienza delle religioni (1) (1.93) una breve nota nella quale, a proposito di un frammento di scultura rappresentante un fiume, che trovasi nell’antica Comma-gene, ad un’ora e mezzo a monte di Rum-kalé, sulla roccia della sponda dell’Eufrate e di un altro più chiaro, trovato recentemente e rappresentante l’Eufrate, tra la Siria e la Mesopotamia personificate — accenna al culto di quella grande arteria fluviale, già in vigore da lungo tempo presso gli Assiri, i Babilonesi ed i Persiani e che i
(1) Per equivoco, solamente ora sono stato in grado di vedere questo secondo numero della cosi ben promettente rivista.
Romani trovarono e conservarono quando vi giunsero.
Lucullo, secondo Plutarco (v. Lue. 24), lo trovò gonfio e procelloso, ma durante la notte lo ebbe abbassato, in modo che fu guadabile il mattino dopo, tanto che gl’indigeni, che ritenevano il fiume esprimesse la sua volontà favorevole abbassandosi, adorarono il generale romano come dio ed egli, prima di proceder oltre nella Sofene sacrificò all’Eufrate uno dei tori sacri alla dea persiana Anaiti. Crasso invece nel 55, ne disprezzò gli avvertimenti, quando volle passare il ponte di Zeugma e certamente a ciò si attribuirono le sue disastrose avventure nella guerra contro i Parti.
[E’ noto come il procedere oltre .Ctesi-fonte sul Tigri fosse creduto empio, poiché ivi -erano i confini « fataliter constituti » (v. Car 9. 1-3). tanto che si voleva far passare la morte di Caro, fulminato, come effetto dalla collera divina. Ora non è detto che alla formazione di questa leggenda contribuissero le superstizioni sull’Eufrite, perle quali deve ricordarsi anche-Sen. nat. quaest, 5, 8, io: « ... non circa Eu-phratem praesaga fulmina et deus resi-stentes». Una ricerca in questo senso che completasse quella del C. sarebbe utilissima].
Non ci meraviglia quindi, vedere come dei soldati romani, probabilmente delle legioni siriache e quindi or entali, gli tributassero un culto in un luogo a cui egli manifestava la sua forza, aprendosi in una stretta gola il passaggio con violenza.
10. Aristide Calderina il benemerito editore de’ begli Studi di papirologia il cui II voi. è stato pubblicato recentemente a cura della R. Accademia scientifico-letteraria di Milano, in un breve saggio edito nel volume stesso (p. 103), confrontando un frammento papiriaceo (PO. 1358). del catalogo esiodeo con un frammento eschileo (Nauck 99) mette in luce un nuovo aspetto che nel primo avrebbe il mito d’Europa, aspetto che si rifletterebbe nel secondo, di cui probabilmente come di tutta l’opera tragica sarebbe la fonte. 'Così il mito stesso apparirebbe ■ in due momenti consecutivi e in parte indipendenti: nel primo si tratterebbe di Europa vittima della violenza divina, nella seconda della madre trepidante sulla sorte del figlio [Sarpedonte] e poi dolente sul suo cadavere. Questo secondo aspetto del mito, che...neppure l’arte plastica ha sviluppato, trovava necessariamente il
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suo luogo nel Catalogo esiodeo, dove appunto il poeta si proponeva di citare accanto a ciascuna eroina le glorie maggiori della loro discendenza. Da questa opera forse il mito discese fino al grande tragico di Atene... ».
il. Sebbene i risultati dell’accurato lavoro di M. Radin, pubblicato nel Classical Journal (13.149) siano tali da lasciare negli spiriti più determinati verso una soluzione positiva o negativa dei problemi storici, anziché verso una saggia Posizione di indecisione, che talvolta è unica possibile e sebbene l’argomento sembri riferirsi più a temi letterari che religiosi — per il fatto che la letteratura ebraica è in massima parte per noi religiosa —• credo opportuno render conto brevemente delle conclusioni cui l’A. giunge nel suo studio della conoscenza romana della letteratura ebraica.
Dopo un accenno alle relazioni giu-daico-romane ed all'influsso che i Giudei dovevano successivamente esercitare sul mondo romano e con esso sul moderno e dopo aver proposto i termini della sua ricerca (egli non esclude naturalmente le opere ih greco dal suo studio della letteratura « romana »), l’A. esamina alcuni luoghi di scrittori latini che potrebbero o si vogliono far rimontare a fonti ebraiche (Pséudo. Long, de subli.m. 9. 9, cfr. Gen. 1-3. - luv. 14, 100-04 (Pentateuco?). - Pompeo Trogo (lust. 36, 1-3). -Tac. Hist 5.1.2. - Virg. Ecl. 4, cfr. Isaia ri, 6.8.9; 11. x; Mie. 4, 4. ecc. - Virg. Aen. VI (Nekyia, cfr. Dan. 7-12, Henoch 17 segg. ecc.-Hor. Sat. 1. 99, 100 cfr. I Re, 18,38 e Giud. 7-21. - O vid. Metam. i-ssegg. cfr. Gen. 1-6 segg.; 2-5 segg. - Plut. Quaest. conv. 4, 5-6 che dimostrano l’assoluta ignoranza di testi ebraici) e alcuni monumenti Sompeiani che possono metterci in grado i esaminare se e quali fossero i rapporti di conoscenza tra i Romani ed i Giudei, non dimenticando di porre in luce non solamente i problemi letterari che sollevano i confronti dei testi, ma pur le soluzioni che ad essi potrebbero dare le nostre conoscenze della vita e delle relazioni sociali degli scrittori e del tempo in cui essi scrissero e vissero.
Ad onta di tale esame, anzi per effetto di talé accurata ricerca e ad onta degli elementi che sembrano aver favorito la conoscenza dei Giudei ai Romani (la loro presenza in Roma, la loro attività, i contatti con i Greci che avrebbero potuto
servir, da intermediari) il contributo che i Giudei portarono alla civiltà non era suf-ficentemente conosciuto dai Romani. Indicazioni di comunicazioni tra Romani e Giudei non mancavano, anzi erano abbondanti, ma che queste comunicazioni si estendessero anche alla letteratura ebraica non ci risulta affatto: non possiamo cioè nè ammetterli, nè escluderli, dobbiamo come i giudici romani concludere con un nobis non liquet.
12. L. Salvatorelli nell’or cessata Rii», di Scienza delle relig. [1. 100, cfr. nota al n. 9] con la scorta degli atti de’ martiri, premettendovi alcune osservazioni che tendono a determinare e limitare il valore della sua indagine, tenta di conoscere qual fosse il pensiero de’martiri cristiani intorno allo stato. E dalla sua ricerca egli crede di essere autorizzato a concludere che per essi lo stato, come organismo imperiale e ordinamento supremo della società non esista; esistono bensì degli uomini, ai quali essi obbediscono passivamente fin tanto che quest’obbedienza non è contraria alla legge superiore, divina. Più che un'opposizione tra questi due ordinamenti, si deve vedere in essi una successione, dovendo quello esistente essere sostituito e tolto di mezzo dall’altro che Dio farà apparire quando meglio crederà. Però la loro opposizione non è tanto diretta all’impero del «secolo», quanto all’impero idolatrico, per cui i cristiani appaiono non come oppositori dello stato quanto come contrastanti il culto idolatrico, onde chi vi si opponeva saliva all’opposizione di carattere generale e quindi non nella forma dell'organismo statale antitetico alla legge divina, quanto in quella dell’opposizione all’individuo ed agl’individui che volevano imporre la loro idolatria. L’intesa non poteva venire perciò tra stato e cristianesimo se non nel momento in cui l’individuo (l’imperatore) fosse stato cristiano: il dissidio ideale fra le due leggi, le due civitates avrebbe continuato ma non vi sarebbe stata necessità di continuare la lotta intrapresa.
13- Segnaliamo nella Rev. hislor. del decembre 1916 (voi. 123. 225) una breve memoria di E. Ch. Babut (titolare della cattedra di storia del cristianesimo a Montpellier, morto gloriosamente in guerra nel Belgio il 28 febbraio 1916, acuto e personale ricercatore della storia cristiana del iv e v secolo, sebbene per ciò, com’è
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naturale, non sempre bene accetto ai critici]. Essa è stata il suo ultimo lavoro, al quale à pensato in trincea, indicando a sua moglie i luoghi da ritoccare, presago della sua fine. In essa l’A. si occupa dell’adorazione degl’imperatori e delle origini della persecuzione di Diocleziano con qualche veduta nuova ed importante che mi piace segnalare ai lettori oltre che per la bontà intrinseca della tesi sostenuta per una naturale compiacenza di studioso. [Io riscontro di fatti in questa ricerca, fatta in parte contemporaneamente ai miei studi sul cristianesimo, e probabilmente ignorandoli, una tesi cara al mio spirito e fondata su ricerche costanti e diuturne: quella cioè che la pace della Chiesa non fu, come si sostiene, una vittoria, ma un compromesso. Questa tesi è la sola che può spiegare, del resto, non solo la vita posteriore del cristianesimo, la sua espressione politica, la sua deviazione dalla dottrina del fondatore, ma benanche le ragioni per cui la gueira attuale à messo in luce la nessuna efficacia che esso à esercitato sullo spirito umano, a causa dell’adattamento ch’esso accettò in opposizione ai principi del maestro. Ma di ciò se mai un’altra volta].
Per ora constatiamo come anche il Bahut sia di questa opinione, perchè il suo articolo si chiude con queste precise parole: < Le triomphe de l'Eglise a bien eu quelque chose d’une transaction ». (p, 252).
Secondo l’A-, difatti, l’origine della persecuzione diocleziana dovrebbe riconoscersi nel fatto che Diocleziano impose a tutti i militari l’obbligo delVadoratìo, sul quale — pur esistendo esso in passato sotto alcuni principi e senza negarne i precedenti storici che renderebbero un po’ meno assoluta la tesi dell’A., come egli stesso ammette — si sarebbe avuto nel periodo dal 260 in poi una specie di benevolo’ compatimento da parte dello stato romano. Diocleziano invece avrebbe reso obbligatorio e solenne quell’uso all’intento di rafforzare politicamente l’impero nella sua compagine interna, e sopratutto militare, e si sarebbe perciò trovato contro i cristiani. Però l'indiscutibile esistenza del culto imperiale imposto anche da Costantino e seguaci nel iv e v secolo, non solo nelle sfere popolari ma Éur nel mondo ufficiale ed accettato dalla hiesa, avrebbe determinato in questa una corrente contraria alla celebrazione dei martiri militari e del numero notevole
di essi, attestato da Eusebio, ne sarebbe rimasto appena appena qualcuno grazie a tendenze speciali di chiese locali (Africa). Eusebio stesso — si noti, [ricordando Ìuant’io sostenni altre volte a proposito
i Costantino] — avrebbe cercato di passar se non sotto silenzio, almeno con termini vaghi, questo momento storico, in omaggio al nuovo atteggiamento della chiesa ed alla politica imperiale in vigore, prettamente diocleziana. D’altra parte la chiesa stessa avrebbe accettato questa forma di culto così contraria ai suoi principi, in omaggio all’appoggio datole da Costantino e grazie ai benefici che la nuova situazione le recava.
(Questa tesi, sopratutto dal lato cronologico, come si rileva dalla stessa esposizione dell’A., pur tenendo conto che l’opera è postuma e che egli non à potuto rivederne le bozze, incontra gravi difficoltà, quando si voglia considerare la ra-S’one della persecuzione diocleziana nel-unico ed esclusivo fine di un ristabilimento in tutte le forme dell’adorazione imperiale: ma non è qui il caso di accennare alle obiezioni che si potrebbero elevare. Se però si fa rientrare la motivazione della persecuzione diocleziana in quella serie di fenomeni politici, provocati da cause occasionali, delle quali può pur considerarsi come una delle maggiori Duella esposta dal Bahut, che spinsero alerio e colleglli a riprendere il cammino dei loro predecessori per tentar di ostacolare il cristianesimo — secondo il quadro che di questo di fronte all’impero io delineai altra volta in questa stessa rivista — non si può non accettare con pieno assenso i risultati cui giunge il Bahut.
La pace del 313 non fu affatto una data trionfale per là Chiesa: fu anzi una data tristissima. Essa dimostrava a quale decadenza fosse giunto lo spirito cristiano dopo fulgori innegabili di grandezza e come reazione per l’appunto al massimo dei sacrifici ed al culmine della resistenza, rappresentati dal periodo della persecuzione dioclezianea. La dottrina del fondatóre diveniva lettera morta; come sempre, gli apparentemente vinti vincevano il ferum victorem. Avevano un bell’inneg-giare gli storici della Chiesa, i « pacifisti », i « neutralisti » — mi si consentano queste parole — dell’epoca al trionfo: il trionfo era proprio finito, il Cristo èra dimenticato, la sua dottrina sepolta. Le grandi parole, le falsificazioni, i silenzi sui mar-
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tiri incomodi erano lustre, erano orpelli che coprivano la decadenza e la disfatta!].
14. L’interessante relazione fatta da L. A. Constans nelle Nouv. Arch. d. Miss. Scientif. et liti. 1916, fase. 14, p. 1 segg. sulla missione archeologica del 1914-1915 a Bu-Ghara, l’antica Gigthis, ci fornisce degl’importanti contributi per lo studio della religione durante l’impero. Crediamo sia utile farne cenno.
Innanzi tutto lo studio del tempio che è stato a torto denominato Campidoglio permette di riconoscervi un monumento dedicato a divinità alessandrine, a Giove-Sole-Serapide, con un culto però fortemente romanizzato.
La stessa architettura del tempio lo Srova: essa è classica, ad onta che le tra-izioni architetturali dell’Egitto non fossero ignote a G., tanto che dettero luogo alla fine del 11 secolo e al principio del ni, unite ad altre tradizioni orientali, allo sviluppo d’un’arte locale caratteristica. [Questa tesi per l’appunto io sostenni nella eonferenza sul « palazzo di Diocleziano in Salona » tenuta il 7 giugno 1917 per incarico della Soc. dei cultori di architettura in Roma: esservi stata cioè un’ arte imperiale regionale che ebbe straordinario influsso sullo sviluppo dell’arte romana classica e che specialmente per mezzo dell’Africa esercitò grande efficacia sull’arte ellenistico-romana ; il che permette di spiegarci come di provenienza occidentale anziché orientale le presunte novità dell’arte diocleziano-costantiniana (bizantina poi) che altri voleva invece traessero origini dirette dall'oriente, mentre non sono che il risultato di una fusione delle arti provinciali in un’arte nuova che pur non essendo la cosiddetta arte imperiale dei critici più antichi, è qualche cosa che à un carattere universale, romano, pur conservando i caratteri regionali originari].
Indubbiamente il vedere un culto egiziano, come quello di Serapide ed Iside, Sosto come culto ufficiale d’un municipio n dai primi decenni del 11 secolo (il portico del foro e il grande tempio furono costruiti vivente Adriano) è un fenomeno singolare. In Africa se ne trovano, ma non sono mai anteriori alla 2a metà del 11 secolo e sono d’importazione romana per la preferenza che ebbero per i culti egizi Commodo e Caracalla. Il fatto di G. ci dimostra però che ancor prima tali culti, pur importati direttamente, s’erano ro
manizzati in qualche punto dell’Africa [Nel mio studio « Giove ed Ercole > che vedrà la luce in questo periodico io ò dimostrato per l’appunto che l’assunzione a culti dello stato dei culti egizi troppo facilmente attribuita a Commodo e Cara-calla doveva essere corretta e riveduta al lume di un criterio più generale. Pur senza anticipare le conclusioni cui giungo nello studio stesso, piacemi notare qui come per altra via il C. ottenga quasi gl’identici miei risultati].
Due santuari attigui si notano molto probabilmente consacrati l’uno a Libero Padre, l’altro ad Ercole. E non solo il fatto della loro contiguità, ma quello della raffigurazione della testa di Ercole che porta la corona di pampini ci ricorda l’associazione di Eracle e Dioniso che era stretta sopratutto nella regione della Eiccola Sirte e di cui ci conservan memoria
: monete di Leptis Magna e Sabrata, le quali erano considerate colonie di Tiro, ove Dionisio ed Ercole trovarono l’identificazione con divinità fenicie. Forse per G. si pensava ad una stessa origine.
Interessante pure è il tempio vicino a Sieste nella cui nicchia centrale stava la atua della Concordia, severamente drappeggiata, con nella mano sinistra il cornucopia e nella destra un’asta, la testa velata e coronata di spighe. Sul frontone dell’edicola è scritto Concordiae in Pa[n-theo sacrum], mentre sopra la porta del santuario un’iscrizione ci informa meglio del dedicante e della dedica e ci dà una interessante testimonianza del sincretismo africano del n secolo dell’E. V. dominato dall’idea di fecondità e d’abbondanza. Noi leggiamo cioè per là prima volta l’appellativo di Panthea per la Concordia: Concor[dia]e Pantheae Aug[ustae] S[a-cr(um)]. Il tempio sarebbe stato eretto Sotto Marcò Aurelio; [si può pensare al momento della sua correggenza con L. Vero?].
Un altro tempio conviene ricordare, quello di Esculapio, il dio greco identificato in Africa con il fenicio Eschmun e da Settimio Severo, nato a Leptis, effigiato nelle monete.
Il tempio di Mercurio che è dei primi anni del in secolo, può completare questa nota: esso è interessantissimo artisticamente nel senso già da noi sopra accennato a proposito dell’arte regionale africana del 11-ni secolo e poiché non sarebbe qui il luogo di parlarne sotto questo
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aspetto — sotto quello religioso non ci sono cose nuove a dire — rimandiamo il lettore che ne voglia saper di piò alla descrizione del Constare ed alle sue notevoli conclusioni di carattere generale nel senso già da noi sopra accennato e rilevato.
15.. Il II volume degli Studi della Scuola papirologica editi a cura della R. Accademia scientifico-letteraria di Milano (Hoe-pli, 1917) [ch’io raccomando anche agli studiosi di storia religiosa perchè il repertorio pubblicatovi per lo studio delle lettere private dell’Egitto greco-romano serve Srazie alla sua ricchezza, ad orientare pro-cuamente quanti vogliano servirsi delle lettere stesse per studi di carattere religioso] — contiene tra gli altri studi che non ànno attinenza con l’argomento di questa rivista uno (p. 51 sgg.) di notevole importanza di G. Ghedini sul sentimento religioso pagano nelle epistole private greche de' papiri. [Poco più sopra (n. 3) ebbi occasione di lamentare la mancanza non infrequente negli studi d’antichità delle ricerche sulle religiosità degli uomini maggiori, dei popoli e dei momenti storici: noi siamo come disorientati di fronte ad un problema principe nella storia degli avvenimenti umani. Gli elementi non di rado più lontani o più contrari al nostro modo di vedere o di concepire il divino ed i suoi rapporti con l'umano, sopratutto ne’ tempi primitivi o per lo meno in quelli che sono dà noi lontanissimi, ci lasciano indecisi, ci rendono imprecisi, ci fanno apparire negligenti. Occorre perciò che studi come questo del Ghedini se ne facciano e molti e accurati nell’interesse comune]. L'A. incomincia il suo esame dalla religiosità esplicantesi in formule comuni, in frasi fatte, la cui uniformità non impedisce la veracità del sentimento. Alcune di esse sono notevoli Erchè figurano non di rado nell’episto-'io paolino, sebbene non si incontrino affatto in lettere cristiane: così la formula della preghiera per la salute, seguita dalla comunione di altri in tale voto, così quella unica di Tim. x, 1, 3 che trova riscontro in -simili formule pagane. Non meno interessante è l'invocazione vaga dell’augurio con l’aggiunta dell’intercessione presso una divinità speciale, per lo più Serapide, o le divinità topiche del mittente. La frequenza dell’invocazione del primo fa ritenere al G. che si abbia in tale uso un indizio dell'affermarsi del monoteismo. Altre formule stereotipate
e più sintetiche sono: « con l’aiuto degli dei », « se gli dei vorranno », « grazie agli dei ».
Ma vi sono pur espressioni speciali di religiosità, quali quelle di un tal Nearco che viaggiò molto, raggiunse le credute sorgenti del Nilo, visitò in Libia l’oracolo d’Aminone, che consultò con soddisfazione. Egli va peregrinando di tempio in tempio e prega anche per i suoi amici, i nomi dei quali incide sulle pareti sacre perchè rimangano a ricordo. Costumanza interessante dell’età tolemaica e romana che noi sappiamo essersi conservata e perpetuata nella seguente età cristiana e, quasi quasi, perfino ne’ tempi nostri.
Non meno interessante è l’atteggiamento di corruccio e di minaccia verso gli dei che riscontriamo in alcune lettere, [del quale faccio particolare menzione per collegare questo ricordo antichissimo pagano con quello cristiano, per modo di dire, e con l’altro primitivo di cui feci ampio cenno in questo bollettino. III, 2]. Così un tal Efestione invita Stefano a venire da lui a motivo delle cose accadute e l’avverte, se mancherà all’invito: « come gli dei non hanno risparmiato me, così io non risparmierò gli dei ». Cesi una pia donna, pur temendo che gli dei non l’assecondino, dichiara: « nè prènderò il bagno, nè farò adorazione » [più che di un bagno per lutto, come vuole il Gh., non si- tratterà qui di una cerimonia di purificazione?]. E l’A. vi aggiunge alcune considerazioni interessànti sulle impressioni di Porfirio su tal modo di concepire i rapporti con la divinità e sulla spiegazione [di carattere magico] che ne dà il Cumont.
Un altro scrittore di lettere, Apollonio, è sfiduciato, si ritiene ingannato dagli dei e sebbene giuri per Serapide, dice ài suo corrispondènte: « tutto inganna nella vita, anche i tuoi dei ». Nella qual espressione, io non dubito affatto, come fa il Ghedini, che pensa che l’espressione possa forse riferirsi «a un determinato ciclo di divinità», di vedervi un certo senso se non di sprezzo, di scetticismo pari al ciceroniano « dii, quos tu castissime coluisti » [v. sopra n. 3] od al carducciano « il dio cui tu credevi ». Non meno pessimistica è Ermia che trova inutile « contro le fata dar di cozzo » quando asserisce: « quando un uomo si trova nelle avversità, deve cedere e non combattere ostinatamente contro il fato ».
L’influsso che notoriamente esercitarono i culti semitici sull’Egitto ci appare
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anche nelle lettere con l’uso frequente ed antico dell’epiteto xvptos dinanzi ai nomi divini, quello di ^7«« FT*5» e
simili. Che Iside sia detta uupwvupoc non apparirà strano a chi ricorderà la litania di cui facemmo cenno in boli. Ili, 5 (cfr. sepia n. 14).
Interessànti pure gli accenni a preparativi di feste private-religiose, a templi, a divinità: al qual proposito, per lo studio del sincretismo non è male ricordare come in una lèttera troviamo rivolta una preghiera ad Iside in unione ad Apollo ed agli dei compagni, il che permette al G. di ricordare l’identificazione di Apollo con l’egizio Aroesi, nato da Iside ed Osiride. Roma, secondo l’A., non lascia tracce della sua religione in una regione ove attinge credenze più soddisfacenti alla sua anima (e in parte egli à ragione, sebbene il problema debba esser qui considerato anche sotto altri punti di vista].
Il G. chiude la sua ricerca con 'alcune osservazioni sul monoteismo, quale ci appare da alcune lettere (e sebbene in linea generale egli abbia ragione qualche caso speciale che cita, può lasciar dubbi. Così per non riferirmi che al caso più importante, che la lettera di Psais e Sira sia «significativa dal punto di vista monoteistico 0, a me pare dubbio. Si tratta più che di Dio, di un dio e per il fatto del non ancor compiuto sacrificio dei maiali, del quale è cenno, e per il ringraziamento della salute riacquistata si potrebbe vedervi un accenno al culto di l-ero-hetep = Asclepio, che il G. conosce e ricorda altrove (p. 70)].
L’interesse che offre questo studio del G. ci • fa bene sperare dell’altro di maggior mple ch’egli ci promette sulle lettere cristiane: la scuola papirologica milanese non poteva contribuire meglio di così al progresso dei nostri studi in Italia.
16. In alcune rappresentazioni di animali (bovini, ovini, cavalli) dell’arte celtica, si vedono sulle corna e sui corpi raffigurate delle pallottole, non di rado unite a qualche altro sìmbolo il cui significato solare è riconosciuto da tutti. Cionondimeno, non si è stati d’accordo nell’interpretazione di tali pallottole e si sono date differenti spie-fzioni. Il Deonna, riprendendo in esame
questione nella Rev. archiol., (5.124) e riflettendo soprattutto al valore simbolico delle coma, le quali non possono essere disgiunte in nessun modo da un culto solare più o meno inconscio che va dagli an
tichi popoli orientali alle nazioni d’occidente, passando per l’Egitto, ed è suffragato pure dalle dorature delle corna, de’ zoccoli, delle statue, in genere, che ànno valore solare, conclude còl vedervi dei simboli solari, dei dischi che tendono a rendere più evidente il significato delle semplici corna. A questo proposito, anzi, l’A. abbozza delle interessanti osservazioni che. ànno il carattere di « leggi mitologiche > sull’associazione e la fusione de’ simboli aniconici, umani, animaleschi nelle raffigurazioni religiose e sulla loro importanza per lo studio e la ricerca dell’origine delle credenze religiose, sia nei rapporti artistici, sia in quelli spirituali. Da queste osservazioni e fusioni simboliche, si potrebbero ricavare elementi interessanti non solo per lo studio delle formazioni dei mostri, ma pur per quello dell’evoluzione dei culti; cóme afférmazione fondamentale di queste leggi resta, per esempio, quella già espressa fiù volte dagli studiosi della mitologia, che attributo aniconico desunto dal dio, non è che il dio stesso nella sua forma aniconica primitiva, mentre l’attributo zoomorfico (animale che segue, perseguita o è perseguitato dal dio), non è che la prova dello sviluppo dell’idea religiosa dallo stadio aniconico a quello teriomorfico. E via dicendo.
17. A proposito della breve pubblicazione di E. Demole, Le culte préhistorique du soleil et le citnier des arntes de Genève (Genève, 1917) che tende a dimostrare errata la tesi del Deonna per cui la presenza del sole sullo stemma di Ginevra e sulle monete del xvi secolo sarebbero una prova della sopravvivenza del culto preistorico del sole —- il Demole crede che il trigramma IHS segno dell'adorazione del cuore di Gesù, cominciata nel xv sec., abbia ricevuto a poco a Soco ornamenti di raggi, trasformazione el nimbo antico e quindi sia apparso il sole sulle monete e al di sopra dello stemma di città come un’esaltazione del nome di Gesù —- S. Reinach nella Rev. arch. (5.262) trova inopportuna l’ammissione che il D. stesso fa dell’esistenza di un culto solare, di cui sopravvivrebbero tradizioni innegabili, perchè, checché ne dicesse Déchelette, egli ritiene che l’esistenza d’un culto preistorico del sole sia un’illusione. Esistevano dei riti tendenti a « fortifier le soleil • e alcuni monumenti possono attestarne l’esistenza. [A mio modo di vedere, in forma un f>’ volgare, ma espressiva: se non è zuppa pari bagnato!].
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18. Esistono nei musei e nelle collezioni di Europa alcuni dischi di terracotta, portanti su di un lato raffigurazioni multiple di segni apotropaici differenti, sia tolti dalle attribuzioni e dai culti delle divinità, sia derivati da credenze di carattere astro-logico o magico: così per i primi, si possono citare la clava di Ercole, il caduceo di Mercurio, il tridente di Poseidone, il fulmine di Zeus, le conocchie delle Parche e via dicendo e per i secondi la mano, il nodo, le scale, la chiave, il sole, la luna e simili. Studiandone alcuni più importanti Fr. Cu-mont nella 7?«v. archéol., (5.87) ne stabilisce la provenienza da Taranto e crede di poter vedere in essi dei dischi, o meglio ancora degli specchi magici, che avrebbero servito alle superstizioni religiose dei credenti. È noto, difatti, l’uso che si faceva nelle operazioni magiche dello specchio in cui si diceva apparisse la figura che si voleva evocare o quella che interessava l’avvenire. Non vi è nulla quindi di strano, che si usassero per quest’ufficio anche specchi di argilla, poiché la figura doveva apparire per virtù magica e non per potenza naturale. D’altra parte, un passo di Artemidoro, permette al Cumont di dimostrare che si ritenevano come di terra tutti gli specchi» Ìqualunque fosse la materia di cui erano atti.
Quanto alla data di tali oggetti, riscontrando l’accumulazione dei simboli, il C. non può non ritenerli di un moménto in cui il sincretismo era in vigore. I segni astrologici gli farebbero pensare al momento in cui le credenze astrologiche si diffusero in Italia e poiché fra essi non vi sono oggetti aventi rapporto ai culti orientali, egli li attribuirebbe ad un periodo anteriore al principio dell’impero, quando si iniziò l’espansione de’ culti alessandrini ed asiatici.
19- Più che per la sostanza della cosa, per i lettori che possono trovarlo interessante, segnalo l’articolo di John A. Scott nella Classical Philology, (12, 244) su Ulisse coinè divinità solare, nel quale è esaminata e, naturalmente, sfatata la leg
genda pseudo-scientifica che faceva, sopratutto dopo il Creuzer, di Ulisse una divinità solare. Lo S. critica alcuni dei punti principali della teoria svolta nel 1910 dal professore Me n rad di Monaco e ne discute i risultati, non omettendo poi in fine il consueto scherzo, ormai troppo ripetuto, di ricercare nella storia contemporanea fatti simili che potrebbero avere una simile spie-Szione. Non credo che sia il caso di seguire S. nelle sue considerazioni: sebbene io sia per abito mentale disposto ad esaminare le più assurde ipotesi, e quindi non creda che solamente per il fatto che i miti solari «r il sole àn consumato » come le metafore, sia da bandirne lo studio — credo che il miglior mezzo per lasciarli cadere dal campo scientifico sia se non il silenzio, l’indagare i fatti al lume delle nuove e più recenti teorie. Se queste li possono soppiantare nello spirito nostro, bene, se no lasciamo che chi vuole vi creda, ma non screditiamo la scienza, tentando di gettare il ridicolo su forme ed idee che possono aver avuto, anzi certamente ànno 1 loro difetti, ma ànno pur avuto e ànno i loro meriti e la loro importanza. E poi, d’altra parte, chi ricorda ormai il Creuzer e, quel che è più, il Menrad ?
20. Può servire ad una maggior conoscenza di Virgilio — l’esponente, secondo un competente, il Warde Fowler, della coscienza religiosa del suo tempo — e certo ad illustrazione di altri luoghi del-Y Eneide, il breve studio della L. E. Mat-thei nella Classical Quarterly (n.ii) nel quale si tratta dei fati, degli dei e della libertà umana, prendendo in esame: i « fati » di particolari persone e comunità; la relazione che passa tra gli dei ed i fati; la posizione dell’uomo di fronte a questo conflitto e alle dottrine virgiliane del fato, piuttosto confusa, ma pur non difficile a lumeggiarsi, se ben si consideri il carattere pessimisticoLottimistico del temperamento del poeta; ed, in fine, come episodio principe di tale esemplificazione, il suicidio di Didone.
Giovanni Costa.
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