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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI :: Fasc. III.
MARZO 1917
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MARZO 1917
DAL SOMMARIO : Quinto ToSATTI : Giordano Bruno (con ritratto disegnato da P. Paschetto) - AGOSTINO LaNZILLO : L’ideologia dell ottimismo - ÈVA AMENDOLA : Il pensiero religioso e filosofico di F. Dostoievsky : II. Dubbio angoscioso, tristezza, buio, orrore... - PAOLO PASCHETTO: “ Russia „ (Disegno a tre colori) - Fra Bernardo da Quintavalle : L'Avvenire secondo l’insegnamento di Gesù: II. L'Avvenire di là dalla tomba. -WlLFREDO MONOD: “Segni dei tempi,, - TRA LIBRI E RIVISTE: Rassegna di filosofia religiosa (XI1) - Etnografia religiosa (III) - Varia.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
Via Crescenzio2 - ROMA ----—
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per 1’Estero
Via dèi Babuino, 107 - ROMA AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica la fine di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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Librerìa Editrice " BILYCHNIS '
Via Crescenzio. 2 - ROMA
OPEREiIN DEPOSITÒ:
WILSON Woodrow, Presidente degli Stati Uniti di America, La Nuova Libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo . . . (legato) L. 4
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Questo non è che un libro di discorsi elettorali, scrive lo stesso Wilson nella prefazione. E più avanti soggiunge: « ... il mio libro non è discussione di provvedimenti o programmi: no, esso esprime soltanto il nuovo spirito della nostra politica c chiarisce in termini generali e atti a colpire Fimmaginazione, ciò che dovrebbe esser fatto so noi volessimo ricondurre un'altra volta alla sua piena vigoria di spirito la nostra politica c la nostra vita nazionale, sia riguardo i commerci e le indùstrie, sia per ciò che concerne le nostre famiglie e noi, quali individui: alla purezza e rispetto verso noi stessi, alla forza e libertà originaria. Un invito, dunque, al patriot« e a quanti desiderano essere liberi. La Libertà Nuova è soltanto l'antica, rinfrancata con la forza non vincibile della moderna America ..
Questo volume — più che non abbiano f-tto e stieno facendo le nostre gazzette — ci chiarisce la personalità del Wilson che si è affermata noi recenti Messaggi che la storia non trascurerà.
Non 4 fuori luogo, specie in questi momenti, raccomandare pure la lettura del volume pubblicato parecchi anni or sono dall'avversario politico del Wilson:
ROOSEVELT Th., Vigor di Vita. Traduzione di Hida
di Malgrà. 1905 . . . . . -....... . . . L. 3
PALMIERI P. A., La Chiesa russa, le sue odierne condizioni e il suo riformismo dottrinale, 1908. — Grosso volume in-8, pagg. xvi-760 ...... L. 5
Opera di un cattolico, che propugna il ritomo delle Chiese ortodosse al cattolicismo.
La critica del tempo — il volume fu pubblicato nel 1908 — fu unanime nel giudicare quest'opera come l’unica, specie in Italia, che avesse con -sicurezza di vedute c ordine di sintesi mirabile esposta e dilucidata materia ardua e nello stesso tempo importantissima qual'4 quella in essa trattata. Il I.illerarischcs Centratola! t, protestante, lo disse, persino, un libro unico nella letteratura europea.
Oggi un grande soffio di libertà pervade il colosso russo: che ne sarà della sua Chiesa ufficiale? Quali meravigliose esperienze religiose non ci riserba in un non lontano avvenire quel popolo cosi profondamente mistico? Potrà la Russia « essere veramente, come lo auspicò Vladimiro Solovicv, che sacrificò per essa la sua giovane vita, una Russia degna di chiamarsi la Santa Russia? >
I fatti parleranno. A-noi intanto interessa conoscere le condizioni morali della Russia di ieri, per giudicare con cognizione di causa ed apprezzare nel loro giusto valore i rivolgimenti odierni c futuri.
Consigliamo la lettura del volume.
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BKJ1N5
R.M51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DEL 1* SCVOLATEOLOGICA BATTISTA
■ DI ROMA ■
SOMMARIO:
Quinto TOSATTI: Giordano Bruno ............ Pag. 173 Illustrazione: Ritratto di Giordano Bruno - Disegno di Paolo
Paschetto (Tavola tra le pagine 176 e 177)
Agostino Lanzillq: L’ideologia dell'ottimismo ....... >188
Èva Amendola: Il pensiero religioso e filosofico di F. Dostoievsky. I. Dubbio angoscioso, tristezza, buio, orrore......... » 202
Paolo Paschetto: «Russia». Disegno a tre colori (Tav. tra le pagine 208-209)
Fra Bernardo da QuintavallE: L’Avvenire secondo l’insegnamento di Gesù. - IL L’avvenire di là dalla tomba . . . . . >219
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Wilfredo Monod : < Segni dei tempi » .......... » 232
TRA LIBRI E RIVISTE:
m.: Rassegna ài filosofia religiosa (XIT): Progresso e felicità - Spiritismo e spiritualismo - 1 miti politici - Morale e metafisica - Letteratura religiosa. . .............. . . . . . M.. . . ....... » 239
Raffaele Corso: Etnografia religiosa (III): Il camposanto di Roma Folk-Lore criminologico del Venezuela ........ •...... » 244
Varia: La civiltà del Mediterraneo (G. Costa) - La lotta per l'italianità delle terre irredente (G. C.)......... , ......... ... > 246
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole). . . . 1,00
Giovanni Costa: Critica e
tradizione (Osservazioni-sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa: Impero romano e cristianesimo (con 3 tavole)........1,00
Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi....... 0,60
Luigi Salvatorelli : La storia del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile ...... 0,30
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologelicum di Commodiano; II. Commodiano doceta?) . . . 0,30 Furio Lenzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola e 4 disegni) ........ 0,30
Furio Lenzi : L’autocefalia della Chiesa di Salona (con ir illustrazióni) . . 0,50
F. Fornari: Inumazione e cremazione (Con 6 illustrazioni)........ 0,30
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro . . . . . 0,30
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del-1’«Odissea ».............0,30
C. Rostan : L’oltretomba nel libro VI dell’« E-neide» ......... 0,50
Antonino De Stefano.: I Tedeschi e l'eresia medievale in Italia...........x.oo
Alfredo Tagliatatela : Fu
il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ......... 0,30 F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno).... 0,30 F. Biondolillo: Per la religiosità di F. Petrarca (con 1 tavola)..............0,30
Giosuè Salatiello: Il misticismo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,25
I Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da
Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante ....... 0,30
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti ....... / . 1 —
A. W. Miiller: Agostino Favoroni e là teologia di Lutero ....... 0,30
Arturo Pascal : Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes......... 0,80
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal; II. Voltaire giudice dei « Pensieri ■ del Pascal ; III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred, di Vigny)
con 2 tavole. . . . e. . 0,50 T. Neal: Maine de Biran, o 30 F. Rubbiani : Mazzini e
Gioberti ....... 0,50 Paolo Orano: Dio in Gip-vanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) . .........0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione delta religiosità . 0,30
Paolo Orano : La rinascita dell'anima ....... 0,30
Angelo Gambaro: Crisi contemporanea..........0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo ...................0,30
R. Murri : La religione nell’insegnamento pubblico in Italia..............0,40
Ed. Tagliatatela: Morale e
Religione ....... 1 — Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50 A. Tagliatatela: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20 G. Luzzi : L’opera Spenceriana. ... ...... 0,15 M. Rosazza: La religione
del Nulla (con 6 disegni). 0,30 R. Wigley: L’autorità del
Cristo (Psicologia religiosa) ......... 0,50
James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
T. Faliot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola .......... 0,30
Felice Momigliano: Il Giudaismo di ieri e di domani ......... 0,60
A. G. e Giov. Pioli: Intorno ad un’anima e ad un’esperienza religiosa (In memoria di G. Vitali) . 0,60
Mario Rossi: La Chimica dei Cristianesimo . . . 0,50
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto: Indipendenza . dello S tato e libertà delta
Chiesa..............0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa, e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Sa-tandra). . . ■...... 1 —
Mario Rossi: Razze, Religioni e Stato in Italia secondo un libro tedesco e secondo l’ultimo censimento . . '....... 0,60
j D. G.: Verso il conclave. 0.15
E. Rutili : Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli .......... 0,90
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inèditi di uno
di essi......... 0,15 Paolo »Orano: Gesù e la
guerra......... 0,30 Edoardo Giretti : Perchè
sono per la guerra. . . 0,20 Romolo Murri : L’individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) . . . . . 0,40
Paolo Tucci : La guerra nelle grandi parole di
Gesù.......... 1,00 Paolo Orano: Il Papa a
Congresso ........ 0,50 V; Cento : I) Cristianesimo
e la guerra ....... 0,30 G. Costa: Il «Cristus» della
«Cines» .... ...... 0,3®
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GIORDANO BRUNO
In questa rivista si può e si deve commemorare Bruno, il vero Bruno, tutto intero Bruno, non quello anticlericale, e nemmeno quello di alcuni puri tecnici della filosofia. Intorno a Bruno si sono accanite le ire di parte, e non meno inetta è riuscita spesso l'esaltazione dei fanatici: dell’accanimento con cui i suoi nemici-lo hanno perseguitato anche oltre il rogo.
Cercheremo di scoprire, come ci sarà possibile, la profonda umanità di Bruno. Egli non fu un santo: certamente non lo fu 'nel modo che spesso intese la Chiesa al suo tempo e dopo, innalzando sugli altari tante negative virtù. Fu un uomo, con tutti gli errori e le miserie di un’anima tempestosa, sulle quali e mediante le quali il suo spirito si innalzò gigante per divenire un eroe.
Negli anni passati, intorno alla statua del Nolano in Campo dei Fiori il giorno dèi suo martirio imperversava un baccanale di anticlericalismo rosso v cui corifei erano degli emeriti ragionieri e vinattieri della democrazia romanesca. Il pensiero di questa democrazia intellettuale, non certo tempratosi in troppo diuturne vigilie sui faticosi volumi del Nolano, trovava, ahimè, la sua sintesi nella bolsa epigrafe che un retore d’ingegno appose nel piedistallo della statua di Campo dei Fiori. È naturale che gli anticlericali agitino il nome della vittima contro i carnefici, ma quel nome, su quelle labbra, non è che magni nominis umbra.
La ridda invereconda degli gnomi intorno al rogo del gigante, durata già troppo a lungo, pare accenni a quietare.
Non so perchè, ma più volte passando per Campo dei Fiori mi sembrò sentire il brontolio severo del « nolano filosofo académico di nulla academia » contro le varie teologie, cattoliche — è noto che anche i cattolici ora hanno voluto speculare sulla religiosità di
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BILYCHNIS
Bruno — o positivistiche — non gli hanno forse fatto l'onore di precursore di Flamma-rion, di Sergi, del prof. Marchesini? — che hanno tentato rimettergli il saio monacale delle rispettive confraternite. Più volte mi è sembrato udire la voce grave del « nolano fastidito» ammonire amici e nemici con quei suoi versi: «umbra profonda sumus, ne nos vexetis inepti — nos vos, sed doctos tam grave quaerit opus ».
Con la fiducia di non essere del numero di quegli inepi i, lasciamo i piccoli uomini con le loro ire meschine, e accostiamoci riverenti al rogo del filosofò, al suo spirito infiammalo di eroico furore (i).
l 17 febbraio 1600 una lugubre processione percorre le vie della città eterna. In mezzo a uno stuolo incappucciato di fratelloni della Buona Morte vestiti di grigio sacco, circondato da alabardieri che scansano la folla che si assiepa, preceduto da un crocifisso, vestito del grottesco saio degli eretici dipinto a fiamme, si avanza il filosofo, di piccola statura, scarno e pallido, con la fronte alta, con gli occhi vivacissimi. Era l’anno giubilare, e le vie di Roma rigurgitavano di turbe venute di ogni parte
del mondo; schiere di flagellanti, coronati di spine, con stendardi e croci, si avviavano
alle basiliche, sostavano sulle piazze ad ascoltare prediche ci penitenza, si azzuffavano spesso ferocemente fra loro incontrandosi quelle di opposti paesi o fraterie; commisti ad esse principi, cardinali, che univano il loro fasto all’avvilimento dell'ascetismo più rozzo e fanatico.
Quali saranno stati i sentimenti di Bruno verso quella moltitudine? Il Cristo sulla croce aveva detto: « Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno » — quello Stesso Cristo che così aspre rampogne aveva trovato per i pastori di quel popolo. E prima di Bruno Giovanni Huss aveva salutato con uno sguardo indulgente, dall’alto del palo cui era legato, la vecchierella che aveva portato anch’essa il suo fascio di sarmenti sotto il rogo, esclamando: Sancì a simplicitas. Amo credere che anche il nostro filosofo avrà osservato con sentimenti analoghi la moltitudine inconscia che lo riguardava con orrore, e che le lunghe meditazioni nella solitudine del carcere se gli diedero più preciso il senso della sua personale missione, della profenda irreduci-bilità del suo pensiero alla teologia cattolica, gli dessero insieme una più indulgente comprensione della religione popolare. Verso di questa, del resto, salvo in qualche momento di inasprimento per la vita travagliata cui lo costringeva l’intolleranza del
(t) Questo studio, che fu già letto in forma di conferenza, non ha la pretesa di essere completo, nè di dire cose interamente nuove per chi conosce le opere di Bruno e la letteratura bruniana. Vuole essere soltanto un saggio in ¡scorcio, e contribuire a Ìtorre in rilievo alcuni lati per solito trascurati dell’opera di G. Bruno. Le citazioni sono atte sulle Opere italiane di G. Bruno edite dal I.aterza e sull’edizioné nazionale delle Opere latine curata dal Fiorentino.
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GIORDANO BRUNO
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tempo, e qualche scatto comprensibile in una natura intellettualistica come la sua, egli era stato sempre benevolo e tollerante.
Tra questa folla si fa largo il triste corteo. Giunto al Campo di Flora il filosofo è spogliato, legato al palo. I sacerdoti e i fratelloni con pia e crudele insistenza lo stringono più dappresso; egli li respinge e, natura sdegnosa ed impulsiva, profferisce le sue proteste. Le fiamme lo avvolgono; il fratellone di ciò incaricato gli pone, com’era costume, sotto gli occhi un crocifisso innalzato sopra una pertica, nella speranza che almeno l’ultimo sguardo del suppliziato, commosso a penitenza, si volgesse a implorare la misericordia del Cristo. Bruno torce la faccia dall’altro lato; le sue ceneri sono disperse al vento, e per due secoli quasi scompare ogni sua memoria. La sua memoria, come quella di altri grandi italiani, doveva essere ribenedetta e compresa più tardi in un’altra terra d’Europa prima che fra noi, e, destino anche questo comune a Bruno con altri nostri grandi, ricondotto sfigurato in Italia, il suo nome doveva quasi soltanto servire, nelle piazze e nelle accademie, di segnacolo a sterili ire di parte o di soggetto per aride dissertazioni.
Già altra volta l’umanità aveva mandato a morte un filosofo precursore. Socrate ateniese fu condannato a bere la cicuta. Ma Socrate, in mezzo a uno stuolo di amici, passeggiava libero nel carcere, ragionando serenamente moriva glorioso, in obbedienza alle leggi da lui venerate della sua patria, scevro di strazi, confortato dall’affetto, legando alla sua patria stessa un tesoro di sapienza immortale. Era la sua una eroica eutanasia. Non così .il Nolano iniziatore della filosofia moderna. Solo, macerato dagli strazi di otto anni di orribile carcere, tormentato dalle capziose e infinite disquisizioni dei suoi giudici e dall’arida presunzione dei teologi, in mezzo all’orrore e allo scherno della ignara moltitudine, in un paese in cui non avrebbe avuto alcuna eco la sua voce, saliva il rogo infame. Più volte aveva seco stesso ragionato della probabilità di incontrare una tal morte, è vi si era preparato. Sentite l’amara ironia del Dialogo della Cena delle Ceneri: «dovendo per l’oscuro cielo ritornare alla sua stanza [il Nolano], se non lo volete fare accompagnare con cinquanta o cento torchi, i quali, ancor che debba marciare di mezzo giorno, non gli mancheranno se gli avverrà di morire in terra cattolica romana, fatelo almeno accompagnare con uno di quelli ».
Nel giorno del cimento supremo egli era solo, paurosamente solo, nell’infinito che aveva scoperto nella sua stessa coscienza. <« Quando mi troverò nelle difficoltà e nei pericoli tu 0 animosità (profferì un giorno a Londra) con la voce del tuo vivace fervore non mancare sovente di intonarmi a l’orecchio questa sentenza: tu ne cede tnalis sed conira audentior ito».
Il crocifisso, da cui dicono distogliesse lo sguardo sul rogo, gli richiamò forse alla mente un’altra vittima della intolleranza, che aveva salita la croce per aver richiamato gli uomini a un senso più profondo delle cose dello spirito. Ora invece il « cruciato martire cruciava gli uomini »; contro il Cristo della Chiesa, egli, di là dalle Chiese, partecipe di una vita che esse non possono dare, lanciava là sua sdegnosa protesta. Èra il vecchio mondo, era la Chiesa che pronunziava la sua condanna mandando Bruno al rogo; torcendo lo sguardo dal crocifisso
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Bruno compì un ultimo atto simbolico: una nuova umanità incominciava e aveva preso ormai piena coscienza di sè. Bruno è il primo dei filosofi che si sia posto risolutamente e con piena coscienza non contro il Cristo, ma fuori del cristianesimo teologico: con lui finiva la religione dell'Uomo-Dio, cominciava la religione del Dio-Uomo; finiva definitivamente la speculazione medioevale basata sulla doppia limitazione del cosmo e della mente umana, e cominciava il travaglio filosofico della tormentata modernità alla ricerca dello spirito.
♦ ♦ ♦
Nacque Bruno in- Nola nel 1548, in quella parte dell’Italia dove già erano fioriti i filosofi el atici, e dove aleggiava l'ombra magnanima di Pitagora; di essi Bruno è fratello spirituale, sembra — ed egli lo pensava — che in lui rivivesse qualcosa di quei savi dell’antica Grecia, che sì grande entusiasmo dovevano accendere nella sua mente, tanta è l'affinità mentale che ad essi lo avvince, l'entusiasmo panico che anch'egli porta nella visione commossa della infinita Natura « che rendea divini et heroici gli animi di. quegli antichi Padri ».
Giovinetto quindicenne entrò nel Chiostro domenicano; fu quello il primo passo sulla via del rogo. Non era la sua tempra d’animo pieghevole alle abitudini claustrali: poco dopo la sua professione, smessa la timidità del novizio, usciva sovente in parole ed azioni contrastanti col comune modo di sentire dei frati. Egli stesso dice di sè negli anni giovanili « uomo fastidito, restio e bizzarro, che non si contenta di nulla, • fantastico come un cane che ha ricevuto mille spellicciate ».
E pari alla irrequietezza era l’infinita nostalgia, l’anelito accorato che gli faceva dire di essere « in tristitia hilaris, in hilaritate tristis ». Fin dal primo anno di vita claustrale si incominciò contro di lui un processo per eresia che per allora non ebbe séguito. A diciotto anni dubitava di molti dogmi, e particolarmente della Trinità che interpretava razionalmente, non potendo egli ammettere in Dio altra distinzione se non quella razionale degli attributi (i).t Così pure non poteva concepire che la « Divinità di sua natura infinita potesse fare un supposto solo con la humanità che è di natura finita », onde il dubbio si estendeva al dogma dell’incarnazione. Per queste e altre opinioni gli si ordì un processo. Bruno fuggì in Roma, e di lì, sentendosi minacciato, smesso l’abito di frate, volse alla ventura i suoi passi. Ciò accadeva nel 1576. I dubbi del novizio si erano cambiati in negazione nel sacerdote.
Qui comincia quel doloroso peregrinare di Bruno «che abbandona la patria per non essere costretto di assoggettarsi a un culto superstizioso », errante di una
(1) L’Uno, il Logos e l’Anima erano la triade neoplatonica. Bruno similmente intendeva per Figlio l'intelletto divino, per Spirito l’Amore, l’anima dell’universo.
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Giordano Bruno
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in altra università d’Europa. A Ginevra, dove era recente il rogo di Serveto, sperimentò la intolleranza calvinista, e ne fuggì portando con sè l'avversione ai riformati che spesso prorompe nelle sue opere. Nel 1582 era a Parigi, dove fu tanto l’entusiasmo che eccitò il suo insegnamento, che gli fu offerta una cattedra ordinaria, da lui non accettata per non essere obbligato a sentir Messa come gli altri lettori; ivi dedicò al re Enrico III il «De umbris idearum » in cui, pure attraverso il neoplatonismo, già sono enunciate quasi tutte le idee madri della sua dottrina. Nel 1583, sotto la protezione dell’ambasciatore francese presso la regina Elisabetta andò in Inghilterra, e vi scrisse i diàloghi italiani, che sono la parte migliore delle sue opere. Di là passò in Germania, dove si aggirò per varie università, finché si incontrò finalmente col Mocenigo, che indusse l’esule sempre bramoso dell’Italia a ritornarvi con fallaci promesse di sicurezza e di quiete.
Nel suo animo intanto aveva preso chiara coscienza di sé la nuova filosofia, e la dolorosa missione a lui assegnata, di esserle fedele sino alla morte. Ma ciò non fu senza infiniti contrasti interni ed esterni. Quel che più ci attira in Bruno, il fascino e il mistero della sua figura, è appunto la personalità che anima il sistema, là passione del conoscere, l’ardore nell’affermare le convinzioni, 1’« eroico furore » per cui mai si arresta nella ricerca e nell’anelito verso sempre più alte mete.
« 0 tu (1) — egli esclama nella prefazione del De minimi exislentia — che accendi nel mio cuore mortai? perenni fiamme, e hai voluto che il mio petto si innalzi con tanta luce, si scaldi con tanto fuoco, per cui io, fugate d’ogni parte le tenebre, e domato il peso inerte della mole corporea che mi ritarda, riesco a innalzarmi alle altezze sideree! Il volgo ti dica perciò cieco, o Giordano, privo della luce, privo di mente!... Quante volte me che stavo per cadere, sostenesti con la tua ala, quante volte oppresso dal pesò degli affanni, perchè non mi lasciassi rovinare, in basso, mi contenne il tuo vigore! Poiché mi eri presente rivestito della bellezza dello stellato cielo, fugando le insane nubi della tetra tristezza, scindendo i fantasmi torbidi con espandere quelle ali che rendono splendente il mondo con mille'luci... Perchè dunque professerò furtivamente o timidamente quegli amori che celebra la terra, il mare, il cielo, e la natura madre? Ure fatigalum pectus, am-plius ure! Nempe ita me in lumen ternani convertier unum..Unus eroque octdus totum ». Bruno sacrificò sè stesso alla verità, alla sola verità. « Sa Dio che io nei miei pensieri, parole e gesti, non ho, non pretendo altro che sincerità, simplicità, verità. Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a ehi la natura dona il proprio essere... L’università che mi dispiace, la moltitudine che non mi contenta, una che mi innamora, per cui sono libero in soggezione, contento in pena, ricco nella necessità, e vivo nella morte. Solo per amore di essa io mi affatico, mi cruccio, mi tormento ». E altrove: « Fin dal principio ci proponemmo che
(1) Traduco sunteggiando qua e là liberamente i versi latini di ifruno, spesso sintetici in modo da essere intraducibili.
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invano altri, gridino di chiudere quegli occhi che Dio ci diede aperti e volti in alto e intorno. Ciò che vediamo dunque non dissimuliamo di vedere, e non temiamo di professarlo apertamente, e come vi è continua guerra fra la scienza e l'ignoranza, così sperimentammo dovunque odio, insulti, grida (non senza pericolo talora della vita) dalla stupida moltitudine, concitandola contro di noi il consesso dei graduati padri dell’ignoranza, ma per la mano della verità, con la guida di una divina luce, tutto superammo ».
Mi sono indugiato a citare Bruno perchè nulla vale l’accento passionato di questo eroico italiano « risvegliatore di animi dormenti », che non fu solo un grande filosofo, ma un grande carattere, spirito eroico, raro, unico. Le sue azioni, considerate nel loro complesso, rendono immagine di una forza unica che si va svolgendo senza interruzione fino al rogo. Le ombre che sono mescolate alle luci servono a dare il rilievo a questa personalità gigante. Onde profonda è la commozione con cui leggiamo le parole:
At nos quantumvis fatis versemur iniquis Fortunae longum a pueris ludamen adorsi, Propositum tamen invidi servamus et ausus ... ut mortem minime exhorrescimùs ipsam. Viribus ergo animi haud mortali subdimur ulti, (fie monade num et fig.}.
« Davanti all'Inquisitore di Venezia ove l’ha tratto la perfidia di Zoan Moce-nigo — e sia nei secoli infamato il nome del discepolo spia ed apostata — Bruno è nel vero allorché sostiene che la sua *• dottrina ” non è in conflitto con la " dottrina " della Chiesa. È un’altra cosa: egli non sostituisce religione a religione, una chiesa a una chiesa, ma una “ dottrina filosofica ” a una " dottrina filosofica ” ». Egli non può invocare la dottrina della doppia verità, perchè vi si oppone la sua teoria della conoscenza; ma dove il discorso verte sulla Fede, il Nolano non tradisce il suo pensiero quando afferma che la Fede non si incontra con la sua filosofia nemmeno per esservi discussa; dunque non l’ha offesa! Ma poi Bruno non è un capo di parte, un settatore, un caposcuola che abbia discepoli da istruire. La sua stessa giovinezza, il desiderio umano di un'arca di rifugio ove accogliere la sparsa carovana dei pensieri tumultuanti prodigati negli anni del suo vagabondaggio, l'ansia di curare l’inferma salute, sforzando il suo pensiero, gli consigliano un compromesso, lo inducono a implorare la pace » (1).
È questo appunto che ci manifesta l’umanità profonda di Bruno, che non era un mistico esaltato che corresse al martirio con frenetica ebbrezza, ma un forte carattere che prende gradatamente coscienza di sé, attraverso lotte e dolori infiniti.
(1) A. Labriola, Giordano Bruno. Il significato del suo martirio.
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GIORDANO BRUNO Ò
« Agli huomini di heroico spirito tutte le cose si convertono in bene — disse già il Nolano negli Heroici Furori — et si sanno servire della cattività in frutto di maggior libertade, et Tesser vinto una’ volta convertiscono in occasione di maggiore vittoria ». Nei lunghi anni di prigionia, nei diuturni contrasti coi giudici, nella solitudine della segreta. Bruno acquista piena coscienza dell’equivoco in parte ancora soggiacente alla sua teoria etica: la sua filosofia diviene definitivamente la sua coscienza, sparisce ogni compromesso, tra il vecchio e il nuovo, il filosofo della, nuova dottrina diviene l’eroe della nuova umanità.
Questa coscienza gli fece dire mentre in Roma lo si invitava a ricredersi: « non devo e voglio ricredermi, nè ho materia da ricredermi, e non so Su che cosa debba ricredermi ». E mentre gli si leggeva la sentenza e lo si degradava dal sacerdozio «nihil ille respondit aliud, nisi minabundus: maiori forsan cum timore sen-tentiam in me fertis quam ego accipiani ».
D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio Beltà m’accende, et honesta m’annoda. Che in fiamme et servitù convien ch’io goda, Fugga la libertado et tema il ghiaccio.
L’incendio è tal ch’io m’ardo e non mi sfaccio.
Scorgo tant’aìto il lume che m’infiamma, E il laccio ordito da sì ricco stame Che nascendo il pensier more il disio.
Poi che mi splende al cor sì bella fiamma, Et mi stringe il voler sì bel legame. Sia serva l’ombra et arda il cener mio (i).
• • •
Il bagliore del rogo di Bruno si confonde con l’aurora della moderna scienza.
La voce di Bruno era come il primo grido di gioia della natura che ora cominciava a scoprire se stessa, a conoscersi nel suo valore reale. « Ora che ci è lecito opinare liberamente, spaziare per lungo e per largo, facciamo che non ci siano donati inutilmente gli occhi del senso e dell’intelletto, sicché dobbiamo chiuderli a beneplacito di stolti prestigiatori, e, ingrati verso il benefico dio e la natura, li cacciamo da noi, quasi quésti doni degli dèi non possano consistere con gli altri doni degli stessi dèi. Così memori della divinità che è insita in noi, potremo vedere il nostro animo che può volare nell’immensità, che prima era stretto in questo angusto carcere, donde appena per spiragli e fessure poteva intendere l’acutezza della vista
(r) Iber. Fur. I, dial. 3.
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alle lontane stelle, e le cui ali recise come dal coltello di un’ebete credulità non poteva passare oltre le nubi, poiché fra noi e la gloria degli invidi dèi si frapponeva, fabbricato dalla fantasia umana, un tramezzo più che bronzeo e di diamante:, ora sciòlto dall’orrore dell’infinita mortalità, fatale ira, plumbeo giudizio, incertissima salvezza, parziale amore, Erinni eterne, porte di bronzo, e catene che non esistono in nessuna parte, si avanza sull’aere e nello spazio che contiene i mondi infiniti; per le quali cose reso splendente penetra il cielo... svaniscono le mura delle Sfere; mentre non meno, a noi gli astri presenti di quel che noi siamo ad essi fa la ragione che è in noi profonda e si estolle in alto. Di qui siamo spinti a una migliore contemplazione di questo nume e di questa madre, nel cui seno siamo prodotti e nutriti, onde non più la stimiamo corpo senza anima.
*
Ergo renitebit sanato de corpore diae Nalurae species mundum diffusa.' per amplum.
« Di qui saliamo a scoprire l'infinito effetto di una infinita causa, e siamo condotti per mano alla divinità non come posta fuori, separata, lungi da noi, poiché essa è più intima a noi di quel che noi siamo a noi stessi, poiché essa è véramente il sostanziale centro di ogni sostanza. Di qui finalmente uno fra noi, sebbene solo, per quanto gridante, cantante, sapiente solo a se stesso e alle Muse, potrà trionfare contro le infinite schiere della generale ignoranza ».
Con una di quelle intuizioni che soltanto il genio può avere, seppe Giordano Bruno far sua la dottrina, presentata come semplice ipotesi matematica da Copernico, del moto della terra, e, inquadrandola nella sua concezione dello spazio infinito, e della relatività che ne consegue nei concetti di tempo e di spazio, comprese come veniva a essere rovesciata tutta la medioevale concezione del mondo, che aveva unito strettamente l’idea cristiana, la metafisica platonica e la fisica aristotelica. La terra era immobile al centro dell’universo; su questa tèrra un Dio aveva soffèrto la morte; tutto era stato creato dal nulla per il genere umano; oltre le stelle fisse, immutabili nella volta azzurra era il trono di Dio. In alto il Cielo con le sue gioie, in basso l’inferno con i suoi tormenti. Occorre un mediatore, una rivelazione per giungere fino a quel Dio. Invece la nuova concezióne diceva: l’Universo è infinito, illimitato, senza confini nello spazio. Non vi è firmamento: la terra gira intorno al sole, mondo fra miriadi di mondi. Ma l'uomo non era perciò annientato, non era ridotto ad un atomo in un deserto infinito. È vero, l’universo è infinito, la'vita si incarna ovunque, ma questa vita universale, infinita, è l’essere universale, Dio. La divinità è immanente, l’anima è eterna, perchè identica alla vita universale; su questi due principi si fonda il culto del vero, del bello, la vita eroica, solo degna della eterna vita che anima i corpi (i). « Siccome la divinità discende in certo modo
(i) Si è voluto da taluno fare di Bruno un precursore del feticismo scientifico e del cosidetto metodo positivo. Si senta come a chi gli domandava una conversazione « per in-
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per quanto si comunica alla natura, così alla divinità si ascende per la natura. Cossi siamo promossi a scoprire il vero et vivo vestigio dell’infinito vigore, e abbiamo dottrina di non ricercare la divinità rimossa da noi se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi. Stellam ego substento, a stella substentor et idem. — Et ccelum lento, a calo teneorque vicissim » (i).
L’infinità esteriore del mondo libero dalle sfere diventa simbolo della infinità interiore; con Bruno cessa il grossolano realismo: egli fondò la nuova rappresentazione del mondo sulla natura della nostra percezione e del nostro pensiero, mostrando la necessità di estenderla all’infinito. «Talmente dunque quel Dio come assoluto non ha che far con noi, ma per quanto si comunica alli effetti della natura, et è più intimo alla natura che la natura stessa, di maniera che se non è lui la natura stessa, certo è la natura della natura, et è l’anima dell’anima se non l'ànima stessa. Tutte le cose sono nell'universo, et l’universo è in tutte le cose, noi in quello, quello in noi, et cossi tutto concorre in una perfetta unità. Da questa contemplazione avremo la via vera alla vera moralità, saremo magnanimi, spregiatori di quel che fanciulleschi pensieri stimano, e verremo certamente più grandi di quegli dèi che il cieco volgo adora, perchè diverremo veri contemplatori della storia della natura, la quale è scritta in noi medesimi, e regolati esecutori delle divine leggi che nel centro dèi nostro core sono scolpite ».
La materia è finalmente redenta dall’odio di cui l’aveva coperta il medioevo;
tendere il suo Copernico >» rispondeva idealisticamente il nostro Bruno: « che lui non vedeva per gli occhi di Copernico nè di Ptolomeo, ma per i propri quanto al giudizio et la determinazione; benché quanto alle osservazioni stima dover molto a questi et altri solleciti matematici, che successivamente a tempi et tempi, giungendo lume a lume ne hanno donati principi sufficienti per i quali siam ridotti a tal principio qual non potea se non dopo molte non ociose etadi esser parturito. Ma giongendo che costoro [i puri scienziati, i non filosofi] in effetto sono come quelli interpreti che traducono, da uno idioma all’altro le parole, ma sono gli altri poi che profondano nei sentimenti, e non essi medesimi. Et sono simili a quei rustici che rapportano gli effetti et la forma di un conflitto a un capitano assente, et essi non intendono il negocio, le ragioni et l’arte con la quale questi sono stati vittoriosi, ma colui che ha esperienza et meglior giudizio nell’arte militare... Copernico più studioso della matematica che della natura fla filosofia naturale] non ha potuto profondare et penetrare sin tanto che potesse affatto toglier via le radici de inconvenienti et vani principi! onde perfettamente sciogliesse tutte le difficoltà, et venisse a liberare se et altri da tante vane inquietudini et- fermar la eontemplatione nelle cose costanti et certe... » (La Cena delle Ceneri. Dialogo I passim).
(i) Molti cercano per mare e per terra la scienza: invece:
...mihi non opus est terrarum excurrere fines. Sufficit ut mentem subeam, per seque peroptem Diam prae cunctis lucem, summoque reposcam Ingenio, propria prò maiestate petendam, Illius cupiens vullu speransque beari.
Mirum quam praesto est, mirum quam promptius adstat..
(De imm. et innum.)
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non è nemmeno la mera potenza degli scolastici che riceve da altri l’attualità: la vita le viene dall’interno, le è immanente:
Nani minime tamquam adveniens formator ab alio,
Adstat, ab exlernis qui digerat atque figurel;
Atqui materies proprio e gremio omnia fundit;
Interior siquidem natura ipsa est fabrefactor
Ars vìvens, virtus mira quae pr aedita mente est, ................ex se
Cuncta facit facile, velut ignis splendei et urit;
Ut lux per. totani diffunditur absque labore.
Nani plusquam praesens natura est insita rebus, Seminis e centro fabrefactor spiritus imo. Natura efficiens (i).
« Come l’espandersi del centro si sglomera in una grande circonferenza, lo spirito architetto raccolti d’ogni parte atomi all’intorno governa... fino al giorno in cui si ritragga nel centro, e di là si insinui novellamente per l’ampio mondo, e ciò noi siamo soliti chiamare morte, perchè andiamo in una luce ignota, sebbene sia dato a pochi di sentire quanto questo nostro vivere sia un morire, e questo morire sia talvolta > un assorgere alla vera vita; poiché non tutti da questo corpo salgono, alcuni anche cadono nelle chiòstre di un più grande baratro, trascinati dal loro proprio peso, privi della divina fiamma. Perciò l’animo all’intorno agglomerando i minimi corpuscoli di materia
.......' .se velut invo'vit caco ordine in illis.
Carcere fatali tamquam sibi membra figurane.
(i) De immenso et innum.
E altrove:
• L’anima de mondo et la divinità non sono tutti presenti per tutto et per ogni parte in modo con cui qualche cosa materiale possa esservi, cioè corporalmente et dimensionalmente, ma sono per tutto spiritualmente, come per esempio (ancorché rozzo) potreste immaginarvi una voce, la quale è tutta in una stanza et in ogni parte di quella, perchè da per tutto se intende tutta, come queste parole ch’io dico sono intese da tutti anco se fossero mille presenti, et la mia voce si potesse giungere’ a tutto il mondo sarebbe tutta per tutto. L’anima non è individua come il punto, ma come la voce ».
E più avanti: « Sia pur cosa quanto piccola si voglia, ha ih sè parte di sustanzia spirituale, la quale, se trova il soggetto disposto si spande ad esser pianta, ad essere animale, e riceve membri di qualsivoglia corpo che comunemente si dice animato:' perchè spirito si trova in tutte le cose... ■>.
« ... Et si come il legno da sè non ha nessuna forma artificiale, ma tutte può avere per operatione del lignaiolo, cossi la materia (soggetto del quale, col quale, nel quale la natura effettua la sua operatione) da pei se et in sua natura non ha forma alcuna naturale, ma tutte le può avere per operazione dell’agente attivo principio di natura..; [che] opra dal centro (per dir cosi) del suo soggetto o materia, che è del tutto informe Però molti sono i soggètti de le arti, et uno è il soggetto della natura al tutto indifferente... variandosi le fórme a l’infinito, è sempre una matèria medesima... » (De la causa, principio et uno).
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di modo che in breve si diffonde in tutto questo corpo, poi di nuovo dallo espanso stame riassorbito nel cuore, dal suo centro si effonda nelle aure e aspetti nuove vicende... È dunque la nascita una espansione del centro, la vita il consistere della sfera, la morte una contrazione nel centro. Secondo il modo con cui si comportò in un corpo, è disposta l'anima per averne in sorte un altro »().
Come si vede per Bruno i veri oggetti della conoscenza sono i corpi (la scienza); pervenire alla conoscenza dell’Unità è lo scopo della filosofia. Lo spirito universale si individualizza nell’anima di tutti i corpi, onde l'anima è la causa dell’armonia dei corpi, e non il risultato. In breve, mentre il materialismo vuole che la disposizione molecolare della materia sia la causa della vita e dell’intelligenza, l’idealismo sostiene invece che la vita è il principio formativo e che i suoi sforzi per manifestarsi determinano il formarsi dell’organismo. Così pensava anche Bruno.
L’essere assoluto in sè è inconoscibile, attingibile solo nel silenzio estatico. L’unità non è compresa dal pensiero discorsivo; è conoscibile come rivelata nel mondo.
«Cossi supplirne (l’anima) gli occhi da non vedere quel che massime desidera et gode di vedere, come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per tema che difetto di sguardo, o difettosa parola non l’avvilisca: et questo suol procedere dall’apprensione de l'excellentia dell’oggetto sopra la sua facultà potentiale, onde gli più profondi et divini teologi dicono che più si honora
(1) De minimi exi<lentia.
È ancora: < La mento sopra tutte le cose è Dio. La mente insita in tutte le cose èia natura. La mente che pervade tutte le cose è la ragione. Dio dispone e dà ordine. I.a natura eseguisce e fa. Dio è la monade fonte di tutti i numeri, la semplicità di ogni grandezza, e la sostanza di ciò che è composto, e l’eccellenza che sovrasta ogni momento, innumerabile, immenso. La natura è il numero numerabile, la grandezza misurabile, il momento attingibile. La ragione è il numero che numera, Ja grandezza che misura, il momento che stima.
■ Dio influisce per mezzo della natura nella ragione. La ragione si innalza per mezzo della natura a Dio. Dio è l’amore, efficiente, splendore, luce. La natura è amabile, oggetto, fuoco e ardore. La ragione è amante, in certo modo soggetto che è acceso dalla natura e illuminato da Dio.
« Il senso è un occhio nel carcere delle tenebre, che spinge a fatica lo sguardo come per grate e fori sui coleri e le superfici delle cose. I.a ragione cerne da una finestia osserva la, luce che deriva dal sole c al sole è riverberata, come nel corpo della luna. L’intelletto è un occhio che in campo aperto e quasi da un’alta specola d’ogni parte, al disopra di ogni particolarità molteplicità e confusione c< n uno sguardo d’insieme contempla il sole stesso che rifulge nella distinzione delle apparenze.
• La mente sempre intende uno, come l’immaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facoltà rationale, la quale è composta di tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, l’inferiore col superiore.
Quello che fa la moltitudine nelle cose non è lo ente, non è la cosa: ma quel che appare, che si rappresenta al senso et è nella superficie della cosa » (De minimi exisl. —Her. Fur passim).
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et ama dio per silenti© che per parola, come si vede più per chiuder gli occhi alle pecie rappresentate che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa d, Pitagora sopra quella demostrativa di Aristotile et scolastici dottori » (1).
Non mi è possibile dilungarmi più oltre in questo saggio nell’esporre le teorie bramane, nè posso ora esaminarne il valore, nè, molto meno, vedere fino a che punto esse formino un sistema organico e coerente. Basti l'avere accennato ad alcune delle idee madri della metafisica di Bruno, che mostrano subito quale originalità sia in essa, e di quali conseguenze siano gravidi questi principi. In Bruno, posto al termine del Rinascimento, all'inizio della modernità; tumultuano e fermentano germi di idee nuove non ancora del tutto schiusi, resti di idee vecchie non del tutto spenti. Ma ciò se talora toglie qualcosa alla chiarezza, innalza infinitamente ai nostri occhi la poliedrica grandezza della sua personalità, che si esprimeva in molteplici aspetti, non era sorda ad alcuna voce, serva di alcuna formula, e come un artista incontentabile ritoccava continuamente le costruzioni del suo pensiero. Nell’unità della sua coscienza, nella concretezza del suo sviluppo spirituale, per chi sappia scoprirla, si troverà quella coincidentia opp osi forum, l’unità di quelle discrepanze che tanto hanno turbato molti storici del pensiero bramano. Così sono i grandi, multanimi pensatori, e la loro grandezza più Che dalla rigida concatenazione logica, spesso meramente formale, si misura in ragione dell'efficacia e della ricchezza delle loro idee. E rielle opere di Bruno sono infiniti accenni e intuizioni di dottrine, che nei secoli posteriori soltanto furono elaborate.
Non posso qui che accennarne una sola. Fra gli uomini e gli animali egli non pone che una differenza di grado; tutti gli esseri sono parenti fra loro, e formano una serie continua, dovè l'ultimo anello del grado 1 superiore tocca da vicinò il primo del grado inferiore: vi è insomma úna lègge di continuità. La differenza dunque tra l’uomo e gli animali è in una particolarità organica che permette all’uomo di trarre maggior partito dalla sua intelligenza. Ma lo stesso organismo non è poi che una creazione dello spirito che attinge vari gradi di consapevolezza di sè: l'anima dèi mondo: « viene a giungersi ora ad una specie di corpo, ora ad un’altra, et secondo
(1) Her. Fur. II, dial. IV.
E altrove:
Simpliciter tandem monadum monas una reperto est «uae multum et magnurn complectitur omneque in ista ntegranda means, dans entibus esse. Deusque est
Extans lotum, infinitum, verum, omne, bonum, unum.
(De min. exist.)
Si legga a questo proposito negli Eroici Furori la ispirata spiegazione mistica del mito di Atteone.
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la ragione della diversità di complessioni et membri viene ad bavere diversi gradi et perfetioni d’ingegno et operationi ». E continua con la famosa ipotesi e descrizione del serpente che se si cangiasse in forma umana «intenderebbe, oprarebbe, e camminarebbe non altrimenti che l’uomo, non sarebbe altro che uomo ». Così Bruno, con spirito tutto moderno, parla del moto continuo e incessante della natura, enuncia la legge delle piccole alterazioni insensibili all’occhio, l’antichità immensa della vita sulla terra.
E questi che ho enunciati non sono che esempi. Ciò che forma l’originalità di Bruno in queste ricerche, è lo studio di conciliare il meccanismo con la finalità e la libertà. L’evoluzione è regolata da una finalità immanente; l'atomo, concepito da lui come centro di energia, diviene monade, la provvidenza e la forza attiva della natura coincidono (la provvida natura). Ma basti l’avervi accennato.
Ciò su cui importa soffermarsi un po’ più a lungo è la dottrina etica di Bruno, che è la parte più originale e più moderna della sua filosofia. Egli è il primo che fa derivare la morale non da una autorità esteriore allo spirito, Dio 0 uomo che sia, ma dalla ragione come necessaria e assoluta. Chi opera così è libero, perchè segue le leggi della sua propria natura. Invece al suo tempo, egli lamenta, era considerato atto di pietà soprumana il pervertire la ragione naturale. « In ogni uomo, in ciascun individuo si contempla un mondo universo: il lume intellettuale dispensa e governa in esso, e distribuisce gli ordini delle virtù e dei vizi, quel che per giusto e vero definisce queU’eflìciente lume che addrizza il senso, l’intelletto, il discorso ». (Spacciò della bestia trionfante).
L’idea morale è Concreta solo nelle azioni dell’individuo. La moralità .non consiste nel distruggere gli istinti, ma nel soddisfarli ragionevolmente, nel conciliare tutte le opposizioni in una Unità assoluta. Qui Bruno esprime in termini della sua filosofia ciò che un seguace di Kant chiamerebbe universalizzare la propria azione, e intuisce la legge per cui nell’azione veramente morale la libertà e la necessità coincidono: perchè la volontà non vuole che sè stessa, è libera; perchè il suo contenuto è la ragione stessa, è necessaria. Le cose oscillano da un opposto all’altro: attraverso il mutamento permane l’eternità della legge. Come ciò è in tutta la metafisica bruniana, così è nell’etica. Non vi è piacere senza qualche pena (piacere suppone per sfondo il dispiacere). Ciò rende possibile il pentimento e il desiderio di un grado di vita più alto. Nel nuovo ordinamento del cielo proposto nello Spaccio, il pentimento ha il posto del cigno. « Come il cigno, esso emerge dagli stagni e cerca ottenere con la purificazione lo splendore della purezza. Quantunque abbia per padre l’errore e per madre l'iniquità, esso ha in sè una natura divina, come la rosa sboccia tra le spine, come la scintilla si sprizza dalla dura selce ». Qui Bruno precorre Kant e Lessing: quando l’uomo naviga .nell’Oceano del desiderio infinito è morale (1).
(1)«... Non è cosa naturale nè conveniente che l’infinito sia compreso, nè esso può donarsi finito; perciocché non sarebbe infinito; ma è naturale et conveniente che l’infinito
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L'eroico furore sorge quando l’uomo non si lascia distogliere dalla brama di un alto intento solo perchè vi sono collegati il dolore e il pericolo. Si appaga solo del suo stato l’insensato e lo stolto: « non vi è dilettazione senza amaro; anzi dico di più, che se non fusse l’amaro nelle cose non sarebbe la dilettazione (i). L’insensato quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco intervallo della sua pazzia, allora ha poca o niuna apprensione del suo male, gode l’esser presente senza temere del futuro; gioisce di quel che è et per quello in che si trova, et non ha rimorso o cura di quel che è et può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore del bene e del male. Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è il paradiso degli animali, per quel che dice il sapiente Salomone: " Chi aumenta scienza, aumenta dolore. ” Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento, perchè non gode del presente, come il brutale amore, ma et del futuro, et de l’absente, et del contrario sente l'emulatione, ambitione, suspetto et timore » (2).
£er essere infinito sia infinitamente perseguitato, in quel modo di persecuzione il quale non a ragione di moto psichico, ma di certo moto metaphisico, et il quale non è da imperfetto al perfetto, ma va circuendo per li gradi della perfetione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato nè forma... ».
(1) La morale eroica di Bruno non è ascetica. «Agli huomini di heroico spirito tutte le cose si convertono in bene, et si sanno servire della cattività in frutto di maggior liberiate, et l’essere vinto una volta convertiscono in occasione di maggiore vittoria. Ben sai che l’amore di bellezza corporale a coloro che sono ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle... Dio, la divina bellézza et splendore riluce et è in tutte le cose, però non mi pare errore d’ammirarlo in tutte le cose, secondo il modo che si comunica a quelle... tutti gli amori, se sono heroici, hanno per oggetto la divinità, la quale prima si comuni'a alle anime et risplende in quelle, et da quelle poi. (o per dir meglio) per quelle poi si comunica ai corpi: onde è che l'affetto ben formato ama i corpi e la corporale bellezza per quello che è indice della bellezza dello spirito. Anzi quello che ne innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza. la quale non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza dèi membri e colori. Questa mostra certa sì: s i bile affinità collo spirito ai sei si più acuti e penetrativi, onde seguita che tali più facilmente e intensamente si innamorano... (Her. Fur., 11, 2).
(2)
Se la farfalla al suo splendore ameno Vola, non sa ch’è fiamma al fin discara; Se quando il cervio per sete vien meno Al rio va, non sa della freccia amara; Sé il lioncomo corre al casto seno. Non vede il laccio che se gli prepara: Io al lume, al fonte, al grembo del mio bene Veggio le fiamme, i strali e le catene. . S’è dolce il mio languire Perchè quell’alta face si mi appaga. Perchè l’arco divin sì dolce impiaga. Perchè in quel nodo è avvolto il mio desire; Mi sieno etèrni impacci
Fiamme al cor, strali al petto, a l’alma i lacci.
(Her. Fur., I, 3).
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La. morale non è un precètto. Così l'innocenza non è virtù. L’età dell’oro, il paradiso terrestre sono identiche alla animalità, in quello stato l’uomo non sarebbe nè vizioso, nè virtuoso, come le bestie: si ha l’ozio senza lavoro. L’uomo dapprima è una identità immediata con la natura, poi si oppone ad essa, si distingue, la vince, si riconcilia con lei (1). La caduta, se mai, lungi dall'essere il peccato, era. necessaria perchè l’uomo avesse una storia e divenisse spirito. La veracità, la coerenza con sé e con la natura delle cose è il fondamento di ogni etica. Il dolore del tendere incessante è testimonianza delle aspirazioni ideali dell’uomo.
• Pensi chi vuol che il mio destin sia rio.
Ch’uccide in speme, et fa vivo in desio. Pascomi in alta impresa. Et benché il fin bramato non consegua, E in tanto studio l’alma si dilegua. Basta che sia sì nobilmente accesa (2).
• « •
Così, per mezzo della nuova filosofia, l’uomo rientrava nei suoi diritti, prendeva coscienza della sovranità del suo pensiero, della autonomia del suo essere morale, del valore ideale della vita; l’eterno e il tempo, il finito e l’infinito, Dio e la natura, l’umano e il divino erano compresi in una intima unità ideale. Al dogma ecclesiastico è sostituita la scienza, lettura dei. pensieri di Dio; la conoscenza intima di sè e della natura alla rivelazione esteriore di Dio. La Chiesa aveva detto all'uomo: tu sei malvagio, per salvarti hai bisogno della grazia di Dio. di ubbidire ai suoi comandi da me interpretati.
Bruno, integrando, e dando forma razionale all’intuizione religiosa del Cristo, diceva all’uomo: tu sei divino, e devi col lavoro e con la lotta manifestare la tua infinità; tu hai in te Stesso la legge e la rivelazione di Dio.
Per queste verità Bruno ascese il rogo; per queste verità è più che mai vivo nella coscienza moderna: « La morte di un secolo — egli aveva detto — fa vivi ih tutti gli altri».
Quinto Tosatti.
(1) Io per l’altezza de l’oggetto mio
Da suggetto più vii dovegno un dio, .... et io (mercè d’amore) Mi cangio in dio da cosa inferiore.
(Her. Fur., 1, 3).
(2) Ibid. Basta che tutti corrono; assai è che ognuno faccia il suo possibile...
E altrove: «.Monta, supera, passa ogni sassosa e ruvida montagna, infervora tanto l’affetto tuo da non sentir fatica del lavoro.
Ma sia a te voluttà ».
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L’IDEOLOGIA DELL’OTTIMISMO(,)
I. La conflagrazione e la civiltà capitalistica. — II. Come il progresso apportato dal Capitalismo fosse materiale, vuoto di contenuto spirituale, quindi effimero e dissolvente. — 1)1. L’amore alla vita come forza dissolvente. — IV. La concezione romantica della vita e la decadenza dello spirito cattolico, — V. Le conseguenze della ideologia romantico-ottimista: il neo-maltusianismo.—VI..... la beneficenza — VII........il femminismo. — Vili. Alta importanza della decadenza della tradizione e
della cultura classica. — IX. Le rinascenti forze spirituali di contro alla ideologia dell’ottimismo.
Non bisogna più ingannarsi oramai su ciò che è nascosto in fondo alla cultura socratica: è 1*illusione senza limiti dell'ottimismo. Non dobbiamo più spaventarci se i frutti di questo ottimismo maturano, se la società, corrosa sin nei più profondi strati dall'acido di una simile cultura, presenta a poco a poco,la febbre dell'orgoglio'e dei desideri, se La fede nella felicità terrena di tutti c so la credenza nelle possibilità di una civiltà scientifica si trasfor mano a poco a poco in una minacciosa volontà, che esigo la terrena felicità alessandrina ed invoca i* intervento' di un deus ex machfaa all' «Euripide«.
Nietzsche, Le origini della tragedia, pag. x8§*x86.
yANDO ai primi dell’agosto 1914 scoppiava in Europa la conflagrazione generale, tutto quel mondo politico, sociale c morale che aveva per quarantaquattro anni retto il nostro continente, crollava.
Cataclisma immane e profondo, la società capitalistica parve in quelle ore prime, minare intera; i suoi organismi più delicati e perfetti, frutto di una selezione annosa e di un intenso processo tecnico, sembrarono infranti; col dilacerarsi
violento, a colpi di cannone, della fitta tela di rapporti internazionali che collega-vano strettamente i popoli e le nazioni tra di loro, si temè dovessero definitivamente annientarsi i complessi ed essenziali apparecchi di cui invece vive il mondo contemporaneo: credito, scambi, banche, trasporti, rapporti culturali e scientifici, emigra (.*) Pur dissentendo dall’A. in più d'un punto, pubblichiamo queste pagine che offrono occasione ad uno scambio di vedute su argomenti attualissimi e della massima importanza. Esse fanno parte di un libro di prossima pubblicazione di Agostino Lan-zillo con il titolo: «La disfatta del socialismo».
E il primo capitolo del libro, e descrive lo stato psicologico e morale della società moderna avanti allo scoppio della guerra. Nei capitoli successivi si sviluppa la complessa tesi dell’autore sulle cause determinanti della conflagrazione e si dimostra come questa costituisca una profonda e decisiva disfatta del socialismo politico ed una crisi così profonda degli istitutti sociali da essere l- equivalente della rivoluzione sociale.
E opera densa di pensiero, dialetticamente rettilinea, ed originale nel suo contenuto storico e critico. (Red.)
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V IDEOLOGIA DELL’OTTIMISMO 189
zione, navigazióne. L’equilibrio dei fattori sociali e intemazionali venne turbato dalla guerra fino nelle più profonde regioni e noi avemmo l'impressione che quella rovina fosse per essere duratura e perpetuarsi in un ritorno verso èpoche oltrepassate.
Invece accadde che l’equilibrio venne abbastanza rapidamente ricostituendosi in un nuovo assetto, là società così tragicamente separata nei suoi nuclei componenti trovò, pur nella nuova specie, un adattamento sufficiente ed omogeneo, conforme alle imprescindibili esigenze del conflitto e della conservazione degli elementi essenziali della vita nazionale. Resta così sicuramente provato che l’immane soprastruttura della modernità: concretata nella intensità degli scambi economici, politici e ideali, nella rapidità dei rapporti reciproci fra i popoli, nella compenetrazione dei grandi interessi capitalistici o bancari, nel dominio delle oligarchie finanziarie e industriali; era meno possente di quanto noi si credesse. L’internazionalismo e le forze molteplici che lo costituivano, erano abbattuti dal fiotto impetuoso di forze vitali e storiche, risorte fulmineamente e riprendenti il sopravvento su tutte le artificiose creazioni capitalistiche.
Il capitalismo era assai meno padrone della vita- di quel che egli stesso e noi non credessimo! Il fatto stesso dello scoppio della guerra ha segnato una sua sconfitta, e ignoriamo quanto debba essere profonda ed a quali conseguenze possa addurre.
IL
L'irrompere del conflitto ha distrutto gli elementi costitutivi di tutto uh indirizzo di civiltà, di tutta un’èra che pareva si fosse tranquillamente scavato il letto al suo corso monotono, e fosse destinata a scorrere perennemente fra quelle rive fiorite, piene d’idillio e di elegia.
Il conflitto odierno ha un valore morale e psicologico così vasto che noi non possiamo ancora misurarlo: la guerra fa cadere l’impalcatura storica di tutta una epoca e ci pone faccia a faccia con la realtà della vita, con l’urlo di tutte le passioni primitive e fondamentali.
Gli scrittori borghesi avevano per circa un secolo tentato l’apoteosi del mondo moderno, come quello della pace, del benessere, del « maggior rendimento » del portato più alto dell’evoluzione sociale. La dottrina liberale pretendeva d'averci dato la legge della saggezza e della vera libertà. Là democrazia trionfava nel propugnare all’estremo logico la dottrina liberale, nello sfruttarla, con minuziosa cura, nell’im-porla ai governi e predicarla alle turbe.
Chi negasse il prodigioso apporto che l'età capitalistica, e precisamente il periodo storico che va dalla conquista rivoluzionaria di Napoleone alla guerra odierna, ha dato alla civiltà, negherebbe un fatto storico inconfutabile.
Il secolo sopra definito, ha arricchito la specie nostra di una meravigliosa fioritura di beni materiali e ideali, hà determinato un flusso incomparabile di nuovi elementi di vita, ha offerto al godimento ed allo studio delle sue generazioni un crogiuolo infinito di esperienze e di attività.
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Si potrebbe in una parola, affermare che il secolo capitalistico, contrassegnato dallo'straordinario progresso tecnico e dall'accrescimento vertiginoso dei1 2 beni disponibili, abbia aumentato la felicità materiale del genere umano.
« Nei tempi moderni — scrive il prof. Pantaleoni — le azioni degli uomini sono rivolte prevalentemente alla soddisfazione di bisogni che diconsi materiali, ossia tutti cercano di essere bene nutriti, bene alloggiati, bene vestiti, bene curati' coi riguardi della loro salute, e vogliono potersi trasferire dove loro piace e pare, e divertirsi a modo loro » (1).
Il secolo xix ha dato a questa tendenza, al godimento materiale, lo spasimo di una febbre, e l’incremento del benessere si è verificato in proporzioni mài immaginate. L’¡stesso prof. Pantaleoni, ci dice che in Inghilterra « se prendiamo le mosse dal 1850, vediamo che in 30 anni, cioè nel 1880, il reddito delle classi lavoratrici si è accresciuto in misura tale che riesce ad eguagliare il reddito inglese totale del 1830 In altri termini, le classi lavoratrici si sono trovate a stare nel 1860 precisamente in quella situazione finanziaria nella quale si sarebbero trovate le classi lavoratrici del 1880 Se la ricchezza totale del regno si fosse trovata ad esser loro e le classi lavoratrici del 1896 si son trovate a stare in una posizione pecuniaria più vantaggiosa di quella, che avrebbero avuto i loro padri se avessero potuto espropriare tutti quanti nel 1830 » (2).
Gli storici e gli scrittori democratici, hanno quindi ragione allorché menano vanto di tanta prosperità regalataci dal regime moderno. Ma oggi, nel turbine rivoluzionario dove la guerra ci ha lanciati, possiamo constatare quanto fosse superficiale, apparente, esteriore, estrinseco questo benessere.
E caduto per tutti lo schermo che velava agli occhi degli uomini l’intima essenza del regime capitalistico, l’umanità sente oggi, con crudele verismo, il significato bugiardo che il capitalismo fatalmente trova seco, la dissoluzione che aveva apportato nelle menti e nello spirito.
Al di là del benessere materiale, non v’è alcuna creazione interiore, effettiva, permanente, anzi può dirsi che il benessere sia a spese della sanità etica e della umanità della coscienza.
Oggi possiamo constatare quanto il progresso apportato dal capitalismo in questa sua prima fase, chiuso certamente dalla guerra attuale, sia stato effimero e pernicioso per non aver creato una corrispondente e sana forma di vita morale. Perchè la guerra ha dimostrato che tale forma morale è indispensabile ai fini supremi della conservazione della specie e della trasmissione alle generazioni future degli elementi pervenuti da quelle trascorse. La guerra ha dimostrato che materializzare là vita, vuol dire andar contro la vita, negarla. Che il materialismo, insomma, è un
(1) Pantaleoni Maffeo, Lezioni di Economia Politica - Introduzione. Roma, Casa editrice M. Castellani, Roma, 1914, (in corso), pag. XXVII.
(2) Pantaleoni, op. cit., pag. XXXIV-XXXV.
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distruttore della realtà, un nemico della esistenza individuale e un negatore della storia.
La guerra odierna è un atto d’accusa contro il secolo xix e il secolo xvm che lo ha preparato e réso possibileli problema veramente grave dell'ora presente, è sapere se i contemporanei sapranno comprendere la lezione del destino. Se essi comprendessero, l'immane ecatombe non sarebbe vana.
, III.
La costituzione sociale dell'epoca capitalistica che ci antecede, conteneva i germi del processo di dissoluzione che abbiamo rapidamente riguardato nelle pagine che precedono. Gli elementi dissolventi 'della società nostra, erano implicati alla logica stessa dello sviluppo capitalistico. Non è un’accusa di immoralità consapevole o voluta, che io muovo al regime capitalistico del secolo xix e xx, ma osservo, che questo regime era organicamente corruttore, necessariamente dissolventeTanto è ciò vero che le ragioni stesse di dissoluzione morale agivano egualmente in tutti i paesi d’Europa e di America, quale che fosse la natura e l’indole dei vari popoli, e per quanto diversi essi iossero di costumi, di religione, di tradizioni. Dovunque la società assuma il ritmo della vita capitalistica e il febbrile sviluppo consentito dalla lunga pace, specie dopo il 1870, si manifestano gli stessi fenomeni generali di decomposizione della coscienza, e di perversione radicale del modo d’intendere la vita e di viverla. L’umanità prende ad amar troppo la vita, a dare olfatto di vivere un valore preponderante su tutti gli altri sentimenti e gli altri motivi dell’essere.
È l’abisso.
La forza dell’uomo è nel disprezzo della morte, e non vi è nulla di più profondamente antivitale che l’amore eccessivo e morboso alla vita stessa. Sembra un bisticcio di parole, ma è in ciò l’elemento metafisico più profondo e tenace della storia degli uomini. Perchè l’amore alla vita, quando sia intenso, e dia al fatto di vivere un valore di fine, significa semplicemente amore all'individuo, significa odio alla specie, prevalenza dei diritti dell’individuo, che è per destino e per natura passeggero, ai diritti della specie, che è eterna.
Un tale rivolgimento dell’ordine della natura e del processo storico, non si è mai verificato nel passato con tanta intensità, durata ed ampiezza quanto nell'epoca che consideriamo. Questo attaccamento alla vita è morboso, ed aberrante.
IV.
È una specie di romanticismo delle idee e del costume, perchè pretende dare alla vita una estensione che non ha nè può avere, falsificarne il crudo colore caratteristico trasformarlo secondo il programma teorico che gl’intellettuali hanno composto. È un errore pensare che il romanticismo sia soltanto un periodo letterario.
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Il romanticismo è uno stato di animo, « è una rivoluzióne generale de l’anima umana » (i). La scuola letteraria del romanticismo, fiorita nella prima metà del sècolo xix, non è che un aspetto, notevole ma secondario, di un fenomeno più vasto e comprensivo.
Col trionfo del capitalismo, coll’incremento mai veduto della ricchezza e del progresso esteriore, e come conseguenza di tali eventi, la concezione romantica, invade e pervade tutti gli animi e diventa parte essenziale del modo d'intendere la vita. Prevale l’immaginazione sul concreto, il desiderabile sul reale, il fantastico sul tragico, il Sogno sulla verità. Si scompongono tutti i dati della tradizione e l'illusione e il sofisma diventano insensibilmente il nutrimento abituale delle generazioni moderne.
« Le romantisme (sentiments) polarisait les aspirations et les espérances de l’âme individuelle sur un chimérique idéal de félicité. Le Romantisme (idées) affirmait-comme possible, comme prochain, un ordre social qui, abolissant la dureté naturelle des conditions de la vie, annullant l'égoisme humain, ferait regner le bonheur pour tous. Ces deux rêves creux, généralisations monstrueuses de l'ideé de volupté passive, n’ont aucun sens intrisèque; mais ils portent le témoignage le plus intéressant de la décadence de l'énergie vitale et de la corruption de l’humeur chez les esprits qui les enfantent ou s'en nourissent.
« Il fallait imaginer des forces capables de réaliser le Paradis sur terre, d’inonder de contentement et d’ivresse la sensibilité individuelle, de justice et de bonté spontanées l’état social. Ces déités du romantisme s'appelèrent, l’une Nature, l'autre Progrès. Le Panthéisme en fut la synthèse » (2).
La filosofia dell'evoluzione domina l'epoca nostra. Ed è il trionfo dell'ótti-mismo. Progresso, evoluzione, romanticismo, ottimismo sono termini che si equivalgono, sono prodotti simili dell'¡stesso tempo.
Il regime democratico è l’effetto politico di questa più vasta, concezione sociale. Perchè la democrazia è stata attuata e predicata come uno degli effetti del progresso, e quale una piega dell’eterna evoluzione verso la felicità universale.
È così che si sviluppano una serie di fenomeni sociali la cui origine va connessa logicamente al trionfo di questa ideologia che potremo chiamare in una parola àe\V ottimismo.
Il più importante perchè il più generale e significativo di questi fenomeni è quello della decadenza religiosa, specie della decadenza del Cristianesimo.
Le radici psicologiche della religione cattolica sono nel sentimento della morte, e nel superamento del pensiero della morte, attraverso la prova della vita. L’esistenza è un esperimento di sofferenza, il dolore è la necessità comune e indero8 Lasserre, Le romantisme français, Parigi, 1908, pag. 15.
testo libro contiene la. definizione più esatta, sintetica ed eloquente del fenomeno storico del romanticismo.
(2) Lasserre, op. cit., pag.' 536-537.
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gabile della vita, perchè l’uomo è in terra non per godere, ma per lottare. La dottrina cattolica, e l’insegnamento secolare della Chiesa non fanno che perpetuare questo concetto di negazione austera della vita, nella riaffermazione dommatica di valori spirituali eterni e trascendenti resistenza umana.
La grandezza del Cattolicismo è data precisamente da questa depressione della vita che ha saputo imporre all’umanità. Questo sentimento, attuato con secolare fermezza col sacerdozio, col monachiSmo, con l'esaltazione della verginità, con l’odio della carne, con la minaccia, del peccato, con mille altre forme religiose, è penetrato profondamente nella concezione della vita e costituisce perciò la grande barriera contro la degenerazione sociale. Il Cattolicismo, sollo questo aspetto, può considerarsi una delle forze propulsive più benemerite della storia. li suo merito, nel senso strettamente sociale, consiste nell’aver saputo creare con l’esasperazione del disprezzo della vita, l’equilibrio fra i due poli della esistenza, ristinto e il dovere, e nell’aver quindi santificato il lavoro e l’attività produttrice. IL cattolicismo costrinse l’uomo a guardare la realtà qual’é, a non pascersi di illusioni ottimiste, a sentire l'incubo permanente del male ed a combatterne il perverso influsso. Il contenuto morale del mondo'contemporaneo era in irreducibile contrasto con lo spirito del Cattolicismo : ne era anzi la negazione.
La società moderna spirava felicità e andava lietamente verso di quella. Il centro di gravità dell’essere era spostato nel secolo xix verso la carne. Mentre la macerazione della vita attuata dalla Chiesa Romana annientando l’individuo faceva trionfare la specie, la concezione ottimistica riportava nell’individuo ogni scopo dell’esistenza e trasformava la specie in un mezzo pel maggior godimento dell'uno.
Era il suicidio...
La sconfitta dello spirito cattolico era anche la decisiva sconfitta, a scadenza più o meno breve, della realtà sociale.
V.
L'ottimismo aveva creato già tutta una serie di logiche conseguenze delle prèmesse che esso aveva poste.
Si negavano i diritti della tradizione, si credeva presuntuosamente di pot$r distruggere il patrimonio a noi pervenuto dal passato e di poterlo sostituire coi prodotti moderni, più perfetti perchè frutto di una evoluzione più avanzata. La vittoria sulla religione era ritenuta una vittoria contro l’oscurantismo, perchè il secolo illuminato aveva acceso in terra, al di qua della tomba, la fiaccola dell’ideale da raggiungere. Ed allora occorreva ed urgeva estendere a tutta l’umanità i benefici di tali conquiste dello spirito moderno, e perciò si vanno sempre più diffondendo le predicazioni astratte di giustizia, di solidarietà, di pace universale, d’istruzione popolare. Ed abbiamo insieme le manifestazioni della beneficenza
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del neo-maltusianismo, del femminismo ed abbiamo la decadenza del pensiero classico.
Alcuni di questi fenomeni sono particolarmente importanti come i più significativi del disfacimento organico che aveva pervasa la società contemporanea, in quest’epoca di decadenza religiosa, di romanticismo e di amore alla vita. Il maestro della scuola sindacalista, Giorgio Sorci, ha esaminato in scritti non dimenticatoli (i) il fenomeno della solidarietà, ed ha anche e spesso trattato degli aspetti morali del regime democratico, e delle menzogne intellettualistiche di che esso ama rivestirsi. Per questa parte il contributo arrecato dal Sorel alla critica storico-filosofica del nostro tempo è decisiva ed esauriente: la guerra attuale, non fa a nostro credere, e tenteremo di dimostrarlo, che fornire alle sue tesi nuove prove documentali.
Il fenomeno della depopolazione in conseguenza di pratiche neo-maltusiane è il più appariscente e terribile effetto della filosofia dell’ottimismo che stiamo esaminandi
In Francia, secondo alcune indagini i cui risultati pubblicai nel 1913 Avanti!, il fenomeno si esplica così:
i° Diminuzione ininterrotta e vertiginosa del numero delle nascite.
2° Un modo di distribuzione tale del fenomeno, per cui l’intensità della procreazione nelle differenti classi sociali è in ragione inversa della loro fortuna.Si vede perciò che le famiglie povere procreavano di più, venivano dopo le famiglie agiate, ed in ultimo le famiglie ricche.
La concezione brutalmente egoista aveva raggiunto la massima efficacia.
La depopulazione era diffusa in tutta la Francia. Meno di tutte ne erano colpite le regioni minerarie e marinare. Il proletariato dei minatori e dei marinai continuava ad avere la famiglia. La depopulazione invece era massima nelle regioni agricole e nella classe dei piccoli proprietàri.
Le cause che agivano per questi ultimi — agricoltori e piccoli proprietari fondiari — erano molteplici. Alcuni ritengono che prevalentemente in queste classi la depopulazione deve attribuirsi alla legislazione civile della successione. L’obbligo di suddividere a tutti i figli la proprietà del piccolo campo convince il proprietario a non procreare. L’amore alla terra, radicato profondamente nel campagnuolo francese, prevale sugli affetti famigliari e lo induce a non creare numerosi esseri che per partirsi il ceppo paterno, sarebbero obbligati a venderlo. La questione, come si vede, si collega a complicate vicende economiche e giuridiche che qui non c’interessano. Ma certo è che statisticamente le regioni emi(1) Vedi: Sorel, Degenerazione capitalistica e degenerazione socialistica, (Sandron, Palermo) e Le illusioni del progresso, presso lo stesso Sandron.
Altrove ho tentato di porre in luce questa complessiva e sintetica visione che il Sorel ha del problema sociale moderno nei suoi disparati aspetti economici, ideologici e morali.
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nentemente agricole sono sopra le altre depopulate. In Italia il fenomeno della depopulazione andava manifestandosi nelle regioni settentrionali e particolarmente in quelle confinanti con la Repubblica francése (1). Anche in Germania e perfino in Rùssia le pratiche neo-maltusiane prima della guerra andavano lentamente diffondendosi. Ora è inutile dilungarsi nell'esame dèi fenomeno e sul suo significato etico.
Esso è un sintomo di una gravissima situazione dello spirito e della vita.
Che significa la pratica neo-maltusiana adottata da un intero popolo — come accadeva in Francia — con tale suprema indifferenza e con tanto unanime consenso, quando si pensi che se il minimum della natalità di alcune regioni si fosse generalizzata in tutta la Francia avrebbe fatto sparire in meno di un secolo la razza francese?
Significa che la vita era concepita come un divertimento che bisognava godere il piò possibile e in guisa che nulla venisse ad impedire o diminuire il benessere, e fosse da rinunziare per il benessere proprio alla gioia della procreazione; significa chiudersi nel più gelido egoismo, nella ¡?:ù brutale negazione della vita e del suo eterno divenire.
L’esperienza storica dimostra che i popoli più grandi furono quelli che ebbero delle generazioni che seppero e vollero sacrificare la propria felicità alla felicità delle generazioni future.
In fondo tutto il ritmo del sacrificio umano consiste in questo sentimento di trasfondere nei venturi la parte migliore della propria esistenza.
Negare la profonda verità e bellezza umana di questo sacrificio significa negare le più intime e in grande parte misteriose ragioni della vita sociale.
SS -,
La beneficenza, intesa come filantropia, era un altro aspetto della medesima concezione ottimistica. Se la vita è un bene così desiderabile e degno di essere amato, quale la menzogna intellettualistica e la critica materialistica pretendevano, si comprende, in un’epoca di decadenza e di sentimentalismo ed insieme di ricchezza eccezionale, il fiorire della filantropia, diretta ad estendere a tutti gli esseri il beneficio e la gioia dell’esistenza.
Una visione precisa, classica, realistica della società non può che negare alla filantropia ogni diritto di cittadinanza fra le attività utili e sane della società. La vita è una lotta e il diritto di esistere nasce dalla capacità di vivere, di resistere e di combattere. Chi è debole, imbelle, incapace di lavorare e di contribuire alla produzione non ha nessun diritto di farsi mantenere a spese della collettività, e
(1) V. in proposito uno studio di Achille Necco nella Riforma Sociale, (Torino), della fine del 1913. A questo giovane morto sul campo di battaglia vada il saluto dell'armil...
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tanto meno questa ha dei doveri sociali nqtso l’imbelle 0 l’impotente. Nei popoli pervasi da ideologie guerriere, la concezione filantropica, che è così diffusa nella società contemporanea, avrebbe fatto soltanto ridere.
Eppure è incredibile la perversione dello spirito che la filantropia ha contribuito a creare, concorrendo a quella falsificazione rettorica di tutti gli elementi sociali che vela e nasconde la brutalità dei rapporti fra gli uomini. La filantropia pretendeva infatti contrastare e negare le leggi fondamentali della civiltà, quelle che costituiscono il ritmo del progresso: la lotta per la vita, la lotta di classe, la prevalenza dei più forti, delle energie più sane e vitali. Come tutta la filosofia ottimistica, la filantropia vede l'uomo e non la società, l’individuo e non la classe, non la nazióne, non l’avvenire. Concepisce di guarire le piaghe sociali con sistemi ideati dal razionalismo della classe degl'intellettuali e con affidare allo Stato l’obbligo di tutela e di provvidenza dei miseri e degli inetti. È un assurdo.
E si badi che io sento tutta la differenza che intercede fra la filantropia e la carità. Quella è un rimedio escogitato dal sentimentalismo della ricchezza disoccupata, privo di contenuto etico, mentre questa ha un significato religioso che le dà un valore ed una capacità di redenzione talora sublimi. La carità è il soddisfaciménto di un dovere verso sè stessi, imposto al singolo da Dio, mentre, la filantropia è un dovere della società, astrattamente concepita verso il singolo povero, che per quanto povero ha diritto di vivere e di godere la vita.
VII.
L’età nostra ha dovuto anche essere agitata da una «rivolta femminile-». Qui è la istituzione fondamentale della vita storica che è minacciata: la famiglia.
Sessant’anni or sono Pietro Giuseppe Proudhon, il gigante plebeo, risolveva in un terribile dilemma il problema della donna: courtisane ou ménagère. Oggi l’estremo dilemma può acce tarsi ancora come vero (1). Il problema della donna, cioè la questione dei rapporti sessuali e dell’influenza femminile, è e meglio era, di una importanza veramente capitale per la vita contemporanea. Può dirsi senza altro che studiare sotto questo aspetto la questione della donna, significa studiare l'influenza della donna sulla civiltà attuale. Questione etico-politica e psicologica, complicata da tutta una serie di problemi morali e sociali.
Non è senza importanza il constatare come proprio nel secolo nostro il movimento per la emancipazione della donna e per tutte le altre conquiste Che dovreb(1) È bene chiarire che qui non intendo parlare soltanto del femminismo come problema politico (agitazione prò voto, ecc.) e del chiacchierio che una breve schiera di elette e ricche dame suol fare in vista di particolari rivendicazioni,” quasi tuttefdi natura legislativa e di diritto privato. Parlo del fenomeno femminista come problema più generalmente sociale e umano.
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bero condurci, secondo gli scrittori democratici, al regno ideale dell’amore libero, abbia assunto uno sviluppo sconosciuto affatto nei secoli precedenti. Gli è che la concezione materialistica della vita determina necessariamente come primo e comprensibile effetto logico il rilassamento dei costumi e la corruzione dei rapporti sociali. L’influenza femminile s’accresce proporzionalmente all'allentarsi del costume.
Ed ecco la rivolta femminile.
È accertato che man mano che l’ideologia ottimista conquista i popoli colle lusinghe della evoluzione e le illusioni dell’indefinito progresso, si verifica questo peggioramento nei costumi.
La società capitalistica si è formata con la distruzione violenta di tutti i vincoli che reggevano gli organismi sociali preesistenti. Ha liberato l'individuo dà tutti i legami che lo avvicinavano agli enti dai quali nasceva: famiglia, corporazione, città, ecc.; ha reso possibile l’isolamento dell’individuo stesso in un ambiente assai più vasto e disordinato: ha polverizzalo l’umanità. Questa forma di anarchia si chiama libertà. È un regime liberale egualitario che nel contempo è privo di qualunque forma morale che possa servire da guida e da sostegno al singolo che viene alla vita.
La disciplina morale nel mondo occidentale era stata tenuta per secoli dalla religione cattolica. Per quanto nella storia del Papato non manchino delle pagine che registrano gesta poco edificanti, ed eventi degenerativi, se vogliamo giudicare la Storia del Papato dalla manifestazione dei suoi insegnamenti, dobbiamo riconoscere che essi costituiscono nei secoli una rigida e incrollabile barriera morale.
La linea fondamentale e originale apportata dalla Chiesa al mondo è proprio la forma elica che essa seppe dare ai rapporti sessuali. Il successo più glorioso del Cattolicismo è l’aver dato alla società questa norma morale, e averla saputa imporre alla coscienza di quasi tutti i popoli con una potenza ed una efficacia veramente trascendenti. L’elemento meraviglioso del Cristianesimo è forse sopratutto qui. Il mondo visse e vive sotto il dominio di queste norme, e mentre tutto tralignava, la concezione cristiana dell’amore doventava sempre più salda e profonda.
Il secolo xix ha dato un fiero colpo a questa granitica quadratura morale data dalla Chiesa.
Lo sviluppo dello Stato e l’ampliarsi delle sue funzioni e la sua invadenza in tutti i campi e tutte le attività determina ben presto il cozzo fra Stato e Chiesa. La Chiesa è battuta, in Francia, in Italia, in Inghilterra in Germania. Le sue funzioni sono limitate ed in gran parte assorbite dallo Stato, che è per sua natura incompetente in religione come in morale, come... dovunque. La lotta fra i due poteri è finita con una specie di equilibrio diplomatico e costituzionale, ma le conseguenze morali della disfatta della Chiesa furono ben gravi, una, fra le altre, ci interessa in questo momento: furono distrutti tutti i vincoli che prima delle lotta soggiogavano l’uomo alla Chiesa, e specie quelli che avevano efficacia nei riguardi del costume.
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Ecco la crisi sessuale e morale. Quanto più i popoli sono schiavi della femminilità, tanto più facilmente essi decadono e diventano incapaci di gloria. Quanto più la donna sia madre, meglio concorre alla salute della società e adempie la sua véra missione.
Vili.
La guerra interruppe e causticò un processo di disfacimento avanzatissimo, specialmente in Francia. La degenerazione materialistica aveva conquistato e travolto anche la cultura, la scienza, la critica. L’ideologia dell’ottimismo aveva tentato in Francia di dare vita ad una letteratura, ad un’arte, ad una filosofia democratiche. Il fondamento di tale sviluppo ideologico è l’interpretazione ed il valore che vuol darsi dagli scrittori democr tici alla Rivoluzione francese: non intenderla come un episodio ed una. crisi di transizione da un periodo storico ad un altro, ma come una palingenesi del mondo, come il punto d'arrivo e di partenza di un’èra, di gran lunga più felice delle precedenti. La concezione della democrazia francese si fonda su questo valore fittizio che si vuol dare alla grande rivoluzione, ed ai suoi effetti ideologici e pseudo-filosofici.
L’immane travaglio intellettuale che precedette ed accompagnò la Rivoluzione, fino alla dittatura napoleonica, considerata nel suo ciclo storico, appare come un grandioso fenomeno ed un esperimento straordinario della capacità delle razze latine ad accendersi al soffio di grandi idealità, ma non può essere ritenuta come un- rinnovamento del mondo! Pure nessun grande rivolgimento Storico, se ne eccettui il Cristianesimo, ha avuto tanti effetti ideologici e di così considerevole durata ed intensità, neppure la Riforma, neppure la lotta fra Turchi e Cristiani;
Lo stesso Cristianesimo inspirò nei suoi adepti nei diversi secoli diversa condotta, ed il suo contenuto morale mutò sensibilmente nei secoli di sua esistenza. Il fenomeno rivoluzionario si mostrò invece costante ed immutato, tanto da determinare anche oggi effetti pratici importanti.
Filosofia, letteratura, storia sono da accettarsi o repudiarsi secondo che concordino o contraddicano ai «grandi principi»; al'di fuori di tali postulati ogni portato delle tradizione può impunemente distruggersi.
Con questi criteri era dettato l’insegnamento nelle Università francesi, specie alla Sorbona ed ai medesimi era inspirato l’insegnamento secondario, ed — incredibile a dirsi — anche il primario (1).
(1) Su questo argomento va ricordato un altro magnifico libro di quel Pietro Lasserre, che abbiamo già citato avanti. Si tratta di un’opera più recente: La Doctrine officielle de 1‘Université, Critique du haut enseignement de l’État. Défense et théorie des humanités classiques. (Parigi, Mercure de France, 1913) che vuole e riesce perspicuamente a darci il quadro completo, ed abbastanza sconfortante dèlio stato della cultura e della condizione fatta agli studi nella Francia repubblicana democratica ed a riaffermare l’augusta bellezza della antichità classica e degli studi classici. È un'opera profondamente antigermanica nello spirito e nel tono.
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La cultura è rivolta a preparare dei docili seguaci delle idee democratiche, a dimostrare e far credere ai discepoli che gli eventi e le idee si svolsero fin oggi col fine di attuare il regime moderno, che è il preferibile fra tutti quelli delle passate epoche. È quindi una coltura di parte, dominata da un preciso finalismo politico, inspirata a quei generali principi che andiamo esaminando, e che va decisamente contro tutta la corrente tradizionale del pensiero classico ed umanistico. Il classicismo è infatti in rigida antitesi con il democraticismo, perchè la grandezza del mondo greco-roma no è d ta dall'aver posseduto quei mondi un patrimonio comune d’idee, di sentimenti e di costumi e dall’averlo tramandato gelosamente d’una in altra generazione. Qualunque così latta linea direttiva nel mondo presente è spezzata.
Lo stato democratico non può permettere che esista un pensiero e quindi uña cultura in perfetta antitesi coi principi, in nome dei quali esso esiste, e vuol quindi, usando della propria tirannìa politica, formare una cultura ed una opinione a lui favorevoli.
La scuola è la possente arma che lo Stato adopera per creare un ambiente favorevole alla propria politica ed agire sicuramente, ma lentamente, sulla intelligenza delle giovani generazioni. Il livello della cultura ai tempi nostri è quindi disceso notevolmente, disceso in intensità ed in saldezza ed in qualità, anche quando si estendeva l'alfabetismo e l'istruzione Obbligatoria impartita dallo Stato a tutti i cittadini. La democrazia e la scuola di Stato sono riusciti a creare un tipo medio di « cittadino » imbevuto di pregiudizi e di falsa cultura, e di una mediocrità intellettuale veramente desolata (1).
Il sofisma romanticorintellettuale era la causa di questa inevitabile decadenza culturale, che doveva poi fatalmente risolversi in una decadenza sociale. L’educazione veniva data senza che il fanciullo avesse alcuna quadratura ideale perfetta, ove trovassero armonico posto le nozioni scientifiche o letterarie, o filosofiche che esso acquistava. La scuola clàssica aveva un ideale preciso, determinato: alimentare l'anima dell'uomo, temprandola alla lotta, affinando la di lui mente alla capacità
(1) Il Lasserre, nel libro su riferito, studia ampiamente, due anni avanti la guerra, i perniciosi effetti deH’ÌM/tasso germanico sulla cultura francese (e noi possiamo aggiungere italiana).
« Nella nuova Sorbona, — dice il Lasserre — la filosofia, la storia, le lettere non esistono più, non sono coltivate che di nome. Ciò che ha preso il loro posto si riduce ad un lavoro materiale di bibliografia, di censimento, di enumerazione, di classifica, di documentazione e di erudizione cieca e senza pensiero ».
Lo studio della filosofia è ridotto — secondo il triste quadro che ne dà il Lasserre — alla storia della filosofìa e più alla lettera che allo spirito di essa, senza alcuno sforzo individuale di critica, d’interpretazione e di sintesi; la letteratura è ridotta allo studio aridamente inteso della storia letteraria; lo studio della storia limitato alla ricerca delle fonti, alla enumerazione scheletrica dei fatti.
« È una filosofia — dice il Lasserre — che s’interdice i problemi filosofici, una critica letterària che s’interdice la valutazione delle opere, una storia che s’interdice l'intelligenza degli avvenimenti, una scienza in fine, che s’interdice gli obietti della scienza.. ».
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più alta di cui è capace: alla critica ed al giudizio, preparando in lui lo strumento possente dell'indagine: la logica. j
Ma il classicismo era l’anello essenziale di tutta una corona di forme vitali, costituendi una speciale filosofia della vita.
Il disòrdine contemporaneo non consente affatto una educazione pacata e serena. Vuol preparare rapidissimamente l’uomo a superare le difficoltà materiali della vita e a godere quindi i frutti opulenti del benessere fisico e fisiologico. Tutti gli strumenti psicologici, mentali e morali dell’indagine logica, della critica del carattere sono superflui in un ambiente sociale quasi meccanico, ove l'uomo vive come in un accampamento, e l’aridità dell'anima, e l’ignoranza dei problemi interiori è compensata dal godimento relativamente facile della civiltà e del progresso.
La cultura classica poneva a sè stessa il supremo problema di render capace l’uomo che sapesse comprenderla, di trovare nello studio della filosofia, nell’affinamento del gusto, nella ricerca della verità, quel sollievo dello spirito che potesse compensarlo delle amarezze e delle traversie inevitabili della esistenza mortale.
Ma a che serviva più la cultura classica, quando la società era diretta verso il progresso, e presto avrebbe offerto a tutti i suoi componenti la felicità?
IX.
La società capitalistica europea, che noi tentiamo di studiare nel momento critico che precede immediatamente la soluzione tragica della guerra, era in quell’ora, nella condizione stupendamente scolpita da Carlo Marx, in una sua celebre frase: l’idealismo politico, portato alla sua perfezione, doventa nello stesso tempo il materialismo borghese al suo apogeo.
La fase capitalistico-democratica aveva tentato di attuare un programma razionale di organizzazione sociale. La rivoluzione borghese aveva posto delle premesse elaborate e precise, che si trattava di condurre alle loro conseguenze ultime. Vedemmo quali fossero queste premesse. Le anticipazioni teoriche agli eventi storici sono assai spesso smentite dal responso dei fatti. Le premesse ottimistiche rispondevano a degli elementi reali; innegabili e giustificate. Nessuno vorrà crédere che si possa supporre nei creatori della teorica democratica; una tale potenza divinatoria e vorrà attribuire tanta dose d’ingenuità a chi scrive queste righe!
L'ideologia del progresso, nata come è nata, e perchè doveva nascere, era radicata profondamente nella società contemporanea, tanto profondamente che la stessa rivoluzione psicologica arrecata dalla guerra non è riuscita del tutto a sopprimerla, e sonvi dei partiti che favellano di « ultima guerra », o di « guerra democratica ».
Questa concezione era diventata una filosofia, una W eltanschauung ed aveva alimentato diverse generazioni. L’insegnamento a noi offerto dalla esperienza dei secoli era dimenticato del tutto.
Il mondo trascorse un periodo di antimetafisica, di materialismo, di negazione soddisfatta delle ragioni dell’essere. Questo materialismo non era un portato delle
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correnti filosofiche soltanto, ma era determinato dall’andamento generale della società, era consigliato, suggerito indicato, da straordinaria coincidenza di circostanze Storiche, che concórrevano a renderlo accettabile.
Basta pensare all’effetto psicologico della lunghissima, semisecolare pace universale, basta ricordare come essa armonizzasse col quadro dello spirito democratico e costituisse l'argomento sperimentale più formidabile per le deduzioni ottimistiche!
Da alcuni anni, all’alba del secolo xx una reazione era sorta a contestare tale legittimità di una predicazione antivitale, antireligiosa, antitradizionale, che voleva sommergere e travolgere gli ultimi virgulti ancora verdi e rigogliosi dell’idealismo critico e del sentimento tragico della vita. Questa corrente era incarnata da una eletta, ma brevissima schiera di pensatori e di filosofi, provenienti da razze, da scuole e da nazionalità assai diverse.
Questa resurrezione dei diritti dello spirito, cioè dei diritti della vita, fu chiamata da un pensatore francese: • la victoire de Pascal (i), e l'espressione non manca di chiaroveggente profondità.
« Je suis persuadé — scriveva nel gennaio 1914 Giorgio Sorel, in una sua prefazione al mirabile libro di Edoardo Berth — que, dans quinze ou vinght ans, une nouvelle génération, débarrassée, grâce au bergsonisme, des fantômes construits par les philosophies intellectualistes depuis Descartes, n’écoutera plus que les hommes capables de lui expliquer la théorie du mal; alors on entendra les étudianst crier à leurs maîtres: “ Parlez nous de Pascal ”, comme, au début du xvi siècle, les élèves des Universités italiennes criaient à leurs professeurs, quand ils voulaient mettre à l’épreuve leurs doctrine: “Parlez-nous de l'âme” (2).
La guerra ha dilacerato per sempre il tenue velo dell'ottimismo. La rinascita di Pascal è venuta prima di quanto la profetica voce del Sorel prevedesse.
Il grande William James, alcuni anni fa, aveva lanciato uno squillo precursore: « C’est dans l’héroïsme, nous le sentons bien, qui se trouve caché le mystère de la vie. Un homme ne compte pas quand il est incapable de faire aucun sacrifices (3).
Là rinascenza era stata annunziata da una pleiade di scrittori, di filosofi, di mistici.
Alla base di tutti sta Enrico Bergsbn. A questi uomini la generazione nostra deve una gratitudine imperitura, quanto imperitura è la memoria che noi serberemo delle parole scritte da uno dei più valorosi apostoli della nuova scuola — Carlo Péguy — prima di andare a morire: «Se non dovessi litornare, conservatemi un ricordo, senza lutto. Il dovere che mi reco a compiere vale trent’anni di lavoro ».
Agostino Lanzillo.
(1) Alludo ad un libro di Edouard Berth, Les Méfaits des Intellectuels, (Paris, Rivière, 1514) che basta da solo a porre il suo Autore in un posto onorevolissimo in questa battaglia di rinnovazione spirituale.
(2) Sorel, Préface à Berth. Les Méfaits des intellectuels, pag. XXXVII.
(3) W. James, L'expérience religieuse, trad. franc., i*ed.» pag. 312.
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(Continuazione. Vedi Bilycknis, Uscitolo di gennàio 1917, pagina 5)
PARTE PRIMA
Dubbio angoscioso, tristezza, buio, orrore...
(Brani scelti e tradotti direttamente dal testo russo delle opere di F. Dostoievsky).
< Che pena salire il Golgota! »
. (Delitto e Castigo).
abbiamo bisogno della guerra e della vittoria. Con la guerra e eolia vittoria verrà la nuova parola e comincerà la vita vivente e non le chiacchiere morte di prima; — ma che, di prima! — le chiacchiere morte di quest'ora, o signori.
La guerra purificherà l’atmosfera che respiriamo e nella quale soffochiamo immersi nella impotenza della putrefazione, e nella ristrettezza spirituale. L'atto eroico dell’autosacrificio del sangue proprio per tutto ciò che consideriamo santo è
certo più morale di tutto il catechismo borghese. L’elevarsi dello spirito della nazione per una idea generale è una spinta in avariti e non un abbrutimento.
Il sangue versato ci eleva o no?
La guerra è un processo per mezzo del quale si raggiunge la tranquillità internazionale e si stabiliscono almeno approssimativamente le relazioni alquanto normali fra le nazioni, versando la minore quantità di sangue, colla minor tristezza e colla minima perdita di forze.Certo questo è triste; ma che fai e se cesi dev’essere? È meglio levare una volta la spada dal fodero che soffrire senza fine. La pace di oggi fra le nazioni civili è forse migliore della guerra? No, la pace non è punto migliore. Una lunga pace, e non la guerra, imbestialisce ed inferocisce l’uomo. Una lunga pace genera sempre la crudeltà, la viltà, un rozzo e grasso egoismo e anzitutto un arresto intellettuale. Durante una lunga pace soltanto gli sfruttatori dei popoli s'ingrassanò. È un’idea convenzionale che la pace produca la ricchezza; ciò è vero soltanto per la decima parte degli uomini, e questa decima parte, contaminata dai mali della ricchezza, dalla corruzione e dal cinismo, infetta anche gli altri nove decimi anche se privi di ricchezza. Dal superfluo accumulare di ricchezza in mano di singoli nasce nell'animo di questi ricchi la rozzezza di sentimento. Il sentimento del beilo diventa sete di capricci lussuriosi e di anor-
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malità. La sensualità si sviluppa in un modo terribile. E la sensualità genera la crudeltà e la viltà. L’anima appesantita e rozza del sensuale è più crudele anche 'di un’anima viziata. Spesso un uomo sensuale che sviene alla vista del sangue d’un dito ferito non perdona al poveretto e lo mette in prigione per un misero debito. La crudeltà genera una intensa e troppo vile preoccupazione per una esistenza sicura. Questa preoccupazione vile durante una lunga pace diviene alla ‘fine una preoccupazione panica per l’individuo e si comunica a tutte le classi della società, genera una terribile sete di accumulare e di acquistar denaro il più possibile. Si perde la fede nella solidarietà degli uomini, nella loro fraternità, nell’assistenza sociale, si proclama a voce alta la tesi: « ognuno è sólo e per sè ». Il povero vede troppo bene che cosa è il ricco e qual fratello egli sia per lui ed ecco che tutti si appartano e rimangono solitari. L'egoismo uccide la generosità. Solo l’arte , nei periodi di lunga pace mantiene ancora nella società la vita superiore e sveglia le anime addormentate. Ecco perchè hanno affermato che l'arte può fiorire soltanto nel tempo di una pace prolungata; ma vi è in ciò una enorme inesattezza: l’arte, cioè la vera arte, si sviluppa appunto nel tempo della pace prolungata, perchè essa è in contrasto col sonno »pesante e vizioso delle anime e colle sue creazioni fa appello ad un ideale superiore in questi periodi, genera le proteste e l’indignazione, agita la società e spesso fa soffrire coloro che bramano di svegliarsi e d’uscire dallo stagno mefitico.
In conclusione si ha che una lunga pace borghese alla fine genera quasi sempre la necessità della guerra, la produce da sè come una misera conseguenza,. ma non già per una grande e giusta meta, degna di una grande nazione, ma per qualche effimero interesse finanziario, per la conquista di nuovi mercati, di cui hanno bisogno gli sfruttatori, per l’acquisto di nuovi schiavi, necessari ai padroni dei sacchi d’oro; — in una parola per ragioni che non si lasciano giustificare neppure dalla necessità dell’autodifesa, ma che per contro ri velano lo stato d’animo avido e morboso di .un organismo nazionale».
{Il Diario di uno scrittore).
• « «
« Il delinquente era un uomo intelligente, senza paura, forte e di una’ certa età. Ebbene, credetelo o no, io vi dico che quando saliva sul palco per venire giustiziato piangeva, bianco come la carta. È dunque possibile questo? Non è dunque un orrore? C'è dunque chi piange di sgomento? Neppure pensavo che si potesse piangere di paura; — non parlo del bimbo, ma dell’uomo che non ha mai pianto, di .un uomo di quarantacinque anni. Che cosa dunque succede nell’anima in quell'attimo? fino a quali spasimi è spinta? È un burlarsi crudele ed insultante dell'anima umana, nient'altro.
È stato detto: “ non uccidere ”. Dunque, perchè egli ha ucciso, lui pure deve essere ucciso? No, questo è impossibile. Ho visto questa esecuzione terribile un mese fa e l’ho sempre dinanzi agli occhi. L’ho sognata almeno cinque volte.
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Uno osservò: " È ancora un bene che si mozzi la testa dal tronco d’un colpo solo, senza torturare l’individuo ”. Ascoltatemi! Ecco, voi avete notato ch’è meglio la morte istantanea; tutti notano la stessa cosa, ed è per questo che avete inventato quella macchina, “ la ghigliottina ”. Io invece, proprio dinanzi a quella esecuzione, ebbi un’idea: — E se invece così fosse anche peggio?
Ciò vi fa ridere e vi sembra pazzia, ma se avete un po’ d’immaginazione, anche a voi entrerà in testa una tale idea. Immaginate: è probabile che le sofferenze e le ferite della tortura fisica distraggano il torturato dalla sofferenza psichica, di modo che l’uomo fino alla mòrte è tormentato solamente dalle ferite. Il dolore principale invece con l’esecuzione istantanea consiste forse, non già nelle ferite, ma nel fatto che si sa di sicuro che, ecco... ora... subito... fia un’ora,... poi fra dieci minuti, poi... fra un mezzo minuto... poi adesso, poi in questo attimo... l’anima si staccherà dal corpo e che non vi sarà più un uomo vivo e, che tutto quésto avverrà di sicuro; la cosa principale è che' tutto ciò avverrà con certezza assoluta.
Nel momento in cui il disgraziato mette il capo sotto il coltello e sente questo scivolargli sopra il collo, proprio in questo quarto di secondo egli soffre la più terribile tortura, sapete. E questa, sapete, non è mia fantasia; molti credono che sia così. Io ci credo talmente che vi dirò schiettamente la mia opinione. Uccidere per punire un delitto è senza paragone una punizione maggiore’ del delitto stesso, ¡’esser ucciso' in seguito alla condanna è senza dubbio più terribile che l’esser ucciso dal brigante. Colui che i briganti ammazzano, sgozzano di notte nella foresta od altrove spera senza dubbio sino all’ultimo momento di potersi salvare. Ci sono stati casi in cui con la gola tagliata l’uomo sperava ancora o fuggiva o implorava pietà. Qui invece è strappata del tutto queirultima speranza colla quale è dieci volte più facile di morire; qui c’è la condanna, e nel fatto che non vi è nessun dubbio che si possa scampare alla morte consiste la tremenda tortura e non ve n’è al mondo di più terribile. Prendete un soldato e mettetelo proprio davanti al cannone durante la battaglia ; egli non cesserà di sperare; ma leggete a questo Stesso soldato una sicura condanna a morte ed egli o impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana sia capace di sopportare ciò senza impazzire? Perchè una tale burla crudele, mostruosa, inutile e vana? Può darsi, che ci Sia stato un uomo, al quale abbiano letto la condanna, l’abbiano lasciato torturarsi e all’ultimo momento gli abbiano detto: " Vattene, sei perdonato! ”.
Ecco, un tale uomo avrebbe forse qualcosa da raccontare. Di questa tortura e di questo orrore anche il Cristo ha parlato. No, non si ha il diritto di trattare l’uomo in questo modo». t
{L'Idiota).
* * •
« Ho letto non so dove còme un condannato a morte un’ora prima di morire dicesse o pensasse che, anche obbligato a vivere su in alto, su qualche roccia in uno spazio talmente Stretto da non esservi posto che per i suoi due piedi ed intorno a lui soltanto precipizi, l’oceano, il buio eterno e la solitudine eterna e la tempesta
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continua, preferirebbe essere lasciato là in quel metro di terreno tutta la vita, mille anni, l’eternità, piuttosto che morire subito, subito! Soltanto vivere, vivere e vivere! Nient’altro che vivere! quale verità! 0 signori quale verità! L’uomo è vigliacco, e vigliacco è colui che lo chiama per questo vigliacco ».
{Delitto e Castigo).
• • •
I
« Durante la malattia vaneggiava e gli pareva che tutto il mondo fosse condannato ad essere la vittima di un male orribile, ignoto finora, che dall’Asia veniva per distruggere l'Europa.
Tutti, tutti perivano. L’epidemia cresceva e s’inoltrava sempre più nei paesi. Potevano salvarsi in tutto il mondo solo pochi uomini —- erano questi i puri, gli elètti, destinati ad iniziare una nuova generazione umana ed una nuova vita, destinati a purificare ed a rinnovare la terra, — ma nessuno mai aveva .visto questi uomini, nessuno aveva sentito le loro parole e le loro voci ».
{Delitto e Castigo). ♦ ♦ ♦
« Nel quadro dell’Holbein il Cristo è rappresentato appena appena calato dalla Croce.
Qui vien fatto involontariamente di pensare che se la, morte è così terribile e le leggi della natura sono così forti, come mai allora possiamo vincerle? Come vincerle, se non le vinse neppure Colui che in vita vinceva la natura. Colui che la sottomise, Colui che aveva esclamato: “Talifo Kuti” e la fanciulla si era alzata, “ Lazzaro, esci! ” ed il morto era uscito dal sepolcro?
Guardando questo quadro, la natura ci appare come una bestia enorme, sorda e senza pietà, oppure a dir meglio, molto meglio, come una macchina enorme di ultima costruzione, macchina che senza senso ha afferrato, distrutto ed inghiottito sordamente ed insensibilmente l’Essere il più sublime ed il più prezioso — quel-l’Essere che era per se stesso il solo valore di tutta la natura, di tutte le sue leggi di tutta la terra. Forse la stessa terra fu creata solamente perchè questo Essere apparisse! Il quadro di Holbein dà proprio il senso di questa forza cieca e sfacciata senza nessun riflesso divino, alla quale tutto è sottomesso — e questa im-pressione vi assale contro la vostra stessa volontà.. Quegli uomini che circondano il morto devono avere provato un'angoscia indicibile ed un grande smarrimento la sera di quel giorno, vedendo d’un tratto demolite tutte le loro speranze e distrutta quasi la loro fede. Certo tornarono alle loro case con grande angoscia benché ognuno avesse con sé l’immensa idea che mai più poteva venir loro tolta. E se quello stesso maestro avesse potuto vedere la sua immagine la vigilia della Crocefissione, avrebbe Egli stesso accettato la Croce e sarebbe morto come ora? Questa domanda si affaccia a noi contro la nostra stessa volontà, quando guardiamo quel quadro ».
{L’Idiota). ■
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• • •
«Ascolta una grande idea: un giorno nel mezzo della terra erano tre croci. Uno sulla croce ebbe la fede di poter dire all’altro: “Oggi sarai con me nel paradiso ”. Il giorno finì e tutti e due morirono, se n’andarono e non trovarono nè paradiso, nè risurrezione. La promessa non si era avverala.
Ascolta: quell’Uomo era il più grande sulla terra, rappresentava quel che dev’essere lo scopo della vita sulla terra. Tutto il pianeta con tutto ciò ch’è su di esso non sarebbe che pazzia senza quell'uomo. Nè prima vi fu, nè poi vi sarà uno pari a Lui, mai, mai; è un miracolo solo il pensarvi. Il miracolo sta appunto nel fatto che non vi fu e non vi sarà mai un essere uguale a Lui. E se è così, se le leggi della natura non hanno avuto pietà neppure di quest’Uomo, non hanno avuto pietà della loro propria miracolosa creatura e la forzarono Essa pure a vivere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna... ma allora tutto, il pianeta è una menzogna e si basa sulla menzogna e su una sciocca canzonatura? Dunque le stesse leggi della natura sono menzogna e un vaudeville diabolico? »
(Gli Ossessionali).
* * «
« Non è che non accetto Dio — cerca di capire questo; — non accetto l’universo che Egli ha creato, non posso consentire d'accettare l’universo di Dio. Mi spiego: sono convinto, che tutte le sofferenze saranno sanate e. passeranno, che tutta l’ironica comicità umiliante dei contrasti umani sparirà come un miraggio misero, come una misera invenzione di qualche essere impotente e piccolo, come un atomo dell’intelletto umano euclidico; credo, in fine, che nella fine cosmica, al momento dell’eterna armonia, succederà qualche cosa di così sublime che basterà per tutti i cuori, e potrà pacare tutte le indignazioni, redimere tutte le malvagità degli uomini, tutto il sangue versato, basterà, e non solo si potrà perdonare, ma anche giustificare tutto ciò che è accaduto agli uomini, — che così sia, che così sia, che così avvenga, — ma io non lo accetto e non lo voglio accettare. Avvenga pure che le linee parallele si congiungano e che io questo vegga coi miei occhi: vedrò e dirò che si sono congiunte, ma non potrò accettarlo ».
(I Fratelli Karatnasoff).
• • •
« Volevo parlare della sofferenza dell’umanità in generale, ma sarà meglio parlare soltanto dei bimbi. Prima di tutto, perchè i bimbi si possono amare anche da vicino, anche quando sono sporchi e brutti in viso (però mi pare che non vi siano inai bimbi brutti!). In secondo luogo, non parlerò degli adulti, perchè oltre esser questi ripugnanti e non meritevoli di amore, possono prendersi pure la rivincita: hanno mangiato il frutto proibito e conóscono il bene ed il male e sono diventati simili a « Dio ». E continuano a mangiare questo frutto. Ma i bimbi non hanno mangiato niente e non sonò ancora colpevoli di nulla. Ami tu i bimbi, fratello?
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So che li ami e comprenderai, perchè voglio parlare di loro soli. Se essi soffrono terrib Intente sulla terra, gli è perchè scontano i peccati dei loro padri che hanno mangiato il frutto proibito; — ma questo è un ragionamento dell’altro mondo, incomprensibile al cuore dell’uomo, qui su questa terra. È impossibile che l’innocente soffra per un altro e di più quale innocente! Meravigliati pure di me, Alio-scia, anche io amo terribilmente i bimbi. E nota bene: gli uomini crudeli, appassionati, sensuali, noi i Karamasoff, talvolta amiamo molto i bimbi, i bimbi finché sono bimbi, fino ai sette anni, quando differiscono terribilmente dagli uomini come se fossero altri esseri e di un’altra natura ».
(I Fratelli Karamasoff).
* * *
« Guarda, io confermo ancora una volta e positivamente, che molti esseri umani hanno una caratteristica speciale: il piacere di castigare i figli, ma soltanto i figli. Verso tutti gli altri esseri del genere umano questi stessi castigatori sono benevoli e miti, come europei colti e umanitari. Ma amano assai tormentare i bimbi, amano i bimbi a questo modo. Il fatto che queste creature sono senza difesa è appunto una tentazione pei loro carnefici; la fiducia da angelo del bimbo che non sa dove rivolgersi e dove andare: ecco è appunto questo che infiamma il cattivo sangue del crudele. Certo in ogni essere umano è nascosta la bestia, la bestia della rabbia, la bestia della lussuria, la bestia che gode delle grida della vittima castigata, la bestia scatenata senza nessun freno, la bestia dalle ma-. lattie prese nel vizio, dai reumatismi, dal fegato malato, ecc.
Capisci tu cosa avviene, quando il piccolo essere die non può neppure capire il senso di tutto ciò che gli si fa, si batte eoi piccoli pugni il petticino ansante di singhiozzi, chiuso per castigo nel buio in un luogo vile e freddo e piànge le sue miti lagrime che non sanno di rancore, rivolgendosi al buon Dio per essere da Lui difeso; puoi immaginare questo orrore, amico mio, fratello, [servitore umile di Dio?' Capisci tu a che serve e perchè è creato tanto orrore? Senza questo orrore, dicono, l’uomo non potrà stare sulla terra, perchè altrimenti non avrebbe conosciuto nè il male nè il bene. A che prò conoscere questo bene e questo male diabolico se costa tanto? Ma tutto il mondo della conoscenza non vale quelle lagri-mucce del bimbo rivolto a “ Dio ".
Che m’importa che non vi siano colpevoli? che una cosa venga dall’altra direttamente e semplicemente, che m’importa di sapere questo? Ho bisogno di vendetta, altrimenti distruggerò me stesso. E non la vendetta nell'infinito, chi sa dove e quando, ma la vendetta subito qui sulla terra e che io stesso la veda. Io stesso voglio vedere. Se a quell’ora sarò già morto, che mi risuscitino; perchè se la vendetta si compirà senza di me, sarà una offesa troppo grande. Non ho sofferto collo scopo di preparare colle mie malvagità e colle mie sofferenze il terreno per la futura armonia che servirà qualcun altro. Voglio vedere coi miei propri occhi l’agnello coricarsi accanto al leone e l’assassinato levarsi ed abbracciare colui che l’ha ucciso. Voglio essere presente, quando tutti ad un tratto sa-
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pranno, perché tutto è stato così. Su questo desiderio, sono fondate tutte le religioni della terra ed io sono credente. Ma ecco, qui sono i bimbi: che si farà di loro? L’armonia superiore non vale la lagrimuccia di un bimbo torturato che si batte il petto coi piccoli pugni chiuso in luogo puzzolente e che chiama il “buop Dio”. Nulla vale, perchè le sue lagrimucce non si possono vendicare. Però bisogna vendicarle, altrimenti non vi può essere armonia. Non è Dio che io non accetto, sibbene il suo mondo e gli'restituisco con rispetto il suo biglietto d'entrata».
« Qusta è rivolta - pronunziò Alioscia a voce bassa con gli occhi chini.
« Rivolta? Non avrei voluto sentire da te questa parola - disse Jvan con sentimento ». È possibile vivere con la rivolta nell'anima? io invece voglio vivere. Ma dimmi tu stesso, rispondi: immagina di aver tu stesso eretto l’edificio del destino umano.con lo scopo di rendere alla fine felici gli uomini, di dar loro, finalmente, pace e tranquillità. Ma per questo è forse inevitabile e assolutamente necessario di torturare a morte sia pure una creaturina sola, ecco, quello stesso bimbo che si batte il petto coi pugni? se tu dovessi fondare il tuo edificio sulle sue lagrimucce non vendicate, accetteresti tu di essere l’architetto a queste condizioni? dimmelo, e non mentire ».
« Non accetterei - rispose a voce bassa Alioscia.
« E puoi tu ammettere che gli uomini per i quali tu costruisci la felicità, sarebbero d’accordo di accettarla nonostante il sangue invendicato del piccino torturato? Ed avendo essi accettato, rimanere lo stesso eternamente felici? »
« No, non posso ammetterlo! »
« Fratello - disse ad un tratto con occlù scintillanti Alioscia - tu l’hai detto proprio or ora: vi è in tutto il mondo un tale Essere che potrebbe ed avrebbe il diritto di perdonare? Un tale Essere vi è ed Egli può perdonare tutti e tutto e per lìdio, perchè Egli stesso ha dato il sangue innocente per tutti e per tutto. Tu l'hai dimenticato ed è su Lui che è fondato tutto l’edificio e sarà Lui che acclameranno: " Hai ragione, Signore, perchè le Tue vie ci si sono rivelate " ».
(I Fratelli Karamasoff).
♦ ♦ •
« Ai rettili, la lussuria » (i).
« Io, fratello, sono un tale rettile e questo è detto di me in un modo speciale. E noi tutti, noi i Karamasoff, siamo così ed anche in te, angelo mio, vive questo rettile e genera tempeste nel tuo sangue. Sono burrasche queste, perchè la lussuria è burrasca e più che burrasca! La bellezza che cosa tremenda e terribile! Terribile, perchè è indefinibile e non si lascia definire, perchè Iddio ci ha dato troppi enigmi. Nella bellezza le rive si combaciano, tutti i contrasti vivono insieme. Io, fratello, sono molto ignorante, però ho pensato assai. Troppi, troppi enigmi! Troppi enigmi pesano sull'uomo qui in .terra! Risolvili come vuoi e cerca d’uscire dal buio: ecco tutto. La bellezza! È insopportabile per me il pensiero che
(i) Dalia poesia An die Freude — Alla Gioia, di Schiller.
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RUSSIA
11917.UI)
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perfino qualche uomo superiore di buon cuore e di intelligenza superiore's’inspiri dapprima all’ideale della Madonna e finisca poi coll’ideale di Sodoma. E ancora più terribile è quando qualcuno coll’ideale di Sodoma nell’anima non rinnega l’ideale della Madonna, anzi ne arde di passione nel suo cuore e questo, in verità, in verità, vi dico, arde come nei suoi giovani anni puri. No, largo è l’uomo, troppo largo, io lo restringerei. Ma' che diavolo è questo! Ciò che all’intelletto pare una vergogna per il cuore è pura bellezza. Èvvi bellezza in Sodoma? Credimi, per la maggior parte degli uomini la bellezza sta in Sodoma. Tu lo conoscevi questo segreto sì o no? Il terribile si è che la bellezza non solo è una cosa tremenda, ma è pure una còsa misteriosa. Qui il diavolo lotta con Dio ed il campo di battaglia è il cuòre degli 'uòmini ».
. « Non ho arrossito dei tuoi discorsi, nè dei tuoi atti, fratello, perchè io sono come te. Siamo sempre sui gradini della stessa scala. Io sonò sul gradino inferiore e tu su quello superiore, forse sul tredicesimo. È così che considero la lussuria ed è sempre lo stesso, i gradini sono dello stesso genere. Chi è salito su quello più basso, deve per forza salire su quello superiore ».
« Dunque è meglio non salire per niente? » «Chi lo può, meglio non salire affatto».
« E tu, ti è possibile non salire? »
« Pare, di no ».
(/ Fratelli Far (intasoff).
* • *
« È difficile giudicare la bellezza, la bellezza è un enigma ».
{L’Idiota}.
« • •
«L’anima altrui è un buio, e l’anima russa lo è per tanti, tanti».
« Da noi in Russia, attraverso i secoli, si è formato un tipo superiore di uomo colto: un tipo come non ne sono ancora mai esistiti in nessun luogo e come non «se ne trovano in tutto il mondo: il tipo di colui che soffre il “ dolore universale ” che soffre per tutti ».
{L’Adolescente}.
« Egli emise un debole grido e poi perdette la coscienza... •
Allora cominciò per lui una vita strana.
Ogni tanto quando sentiva poco chiaramente la sua coscienza, gli balenava attraverso la mente ch’egli era condannato a vivere in uno strano e lungo sogno infinito, pieno di strane ed inutili preoccupazioni, di lotte e di sofferenze. Coll’orrore, tentava di ribellarsi alla crudele fatalità che l’opprimeva, ma al momento della tensione massima, della lotta più disperata, una forza ignota nuovamente
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lo sottometteva, ed egli sentiva con la coscienza chiara un’impressione come s’egli perdesse la memoria e gli s’aprisse davanti un nuovo abisso senza fondo e senza uscita ed egli vi precipitasse dentro con un urlo di tristezza e di disperazione.
Alle volte gli balenavano istanti di una felicità insopportabile, annientante; istanti in cui la vitalità spasmodicamente si intensificava in tutto l’essere umano, il passato diventava più chiaro, risentiva il trionfo, risentiva l’allegria, risentiva il sereno momento presente, e con occhi aperti sognava l’ignoto futuro; come quando la speranza inesprimibile cade come la rugiada vivificatrice sull’anima, come quando tu vuoi gridare nella piena dell’estasi, come quando tu senti che la carne è impotente dinanzi a tali impressioni; allora si spezza il filo dell’esistenza e nello stesso tempo tu ti rallegri e gioisci con te stesso, perchè tutta la vita tua si è rinnovata e tu senti la resurrezione.
«E poi il sospetto ricominciava a tormentarlo; ed ecco in mezzo al silenzio notturno nuovamente principiava a mormorare una lunga favola; principiava piano, piano a susurrarla fra sè appena percettibilmente una vecchiétta scuotendo la testa canuta tristemente dinanzi al fuoco spento. Ecco che l’orrore di nuovo l’assaliva: la favola diveniva reale, s’incarnava dinanzi ai suoi occhi tanto da distinguere i visi e le forme delle persone. Ricordava le vaghe fantasie da fanciullo, tutti i suoi pensieri e tutte le sue aspirazioni; tutto ciò che egli già da tanto tempo aveva dimenticato ora s’animava, si componeva, diventava carne, s’innalzava dinanzi a lui in forme ed immagini gigantesche, che si muovevano, s’agitavano. Vedeva sorgere magici giardini lussuriosi, innalzarsi e poi inabissarsi città intiere, cimeteri che gli mandavano i loro morti: E questi ricominciavano a vivere, nascevano, crescevano e morivano. Tribù e popoli intieri s’agitavano ora intorno al suo giaciglio d’ammalato, ogni suo pensiero, ogni sua fantasìa, sterile, s’incarnava nel momento stesso che egli la concepiva. E finalmente, egli pensava non per mezzo di idee astratte, ma sorgevano nella sua mente universi intieri, creature vere ed egli era trascinato, come un granello di polvere, in tutto questo mondo infinito, strano, senza uscita e con lui tutta la sua vita e la sua tumultuosa indipendenza. Tutto ciò l’opprimeva, lo soggiogava e lo perseguitava con eterna ed infinita ironia; egli sentiva come se morisse, come se si distruggesse in polvere e cenere senza risurrezione per l’eternità; voleva fuggire, ma in tutto l’universo non c’era un angolo che lo,nascondesse. Finalmente preso dalla disperazione, riuniva tutte le sue forze, emétteva un grido e si svegliava...
E cosa strana! Gli erano dolci le sue torture, benché sentisse sordamente con tutto l’essere suo che non avrebbe più sopportato una tale veemenza d’impressioni; Vi tu. un istante in cui egli sentì quasi la morie, ed era pronto ad incontrarla come un ospite luminoso, tanto erano tesi i suoi sensi e tale era l’impeto al quale fremeva la sua passione al risvegliarsi. Tale era l’estasi che gli colmava l’anima, che la vita affrettata dalla attività pareva stesse lì per spezzarsi e distruggersi, spegnersi in un attimo e sparire nell'eternità ».
(La Padrona).
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• * *
« L’eternità si presenta sempre a noi còme un’idea che non si può capire, come qualche cosa d’immenso, d’immenso! E perchè appunto assolutamente immenso? Immaginate che l’eternità sia come una stanzetta, qualche cosa, come uno stanzino da bagno di campagna tutta affumicata ed in tutti gli angoli ragni, e così per l’eternità ».
- « » » ' c Castigo).
« Ebbene di solito come dicono? Tu sei malato, dunque tutto ciò che ti appare è null’altro che una fantasia inesistente. Ma questa non è una logica severa. Sono d’accordo che gli “spiriti ” appariscano soltanto a persone malate,ma questo dimostra soltanto che gli “spiriti” non possono apparire che ai malati e non che non esistano. Ebbene, ragioniamo dunque: gli spiriti, le visioni sono, per così dire, pezzi e brani di altri mondi, dove è la loro origine. Si capisce, l’uomo sano non ha bisogno di vederli, perchè l’uomo sano è l’uomo più positivamente terreno e dunque deve vivere solo la vita di quaggiù per mantenere l’ordine delle cose. Ma appena è malato, appena è distrutto il corso normale della vita del suo organismo, subito comincia a manifestarsi la possibilità di un altro mondo e più egli è malato, più contatti egli ha coll’altro mondo; di modo che quando verrà la morte egli passerà subito nell’altro mondo. Se voi credete alla vita futura, potete dunque credere anche a questo, ragionamento ». (Delitto o Castigo).
« Sono un Dio contro la mia volontà e sono disgraziato appunto perchè sono forzato di far valere il mio potere. Tutti sono disgraziati, perchè tutti temono di dichiarare il loro libero arbitrio. L’uomo è stato finora tanto disgraziato e povero appunto perchè temeva di fare valere apertamente il suo libero arbitrio. Lo faceva solo così, di nascosto. Sono terribilmente disgraziato, perchè ho una paura tré-menda. La paura è la maledizione dell’uomo. Ma io mi confesserò liberamente: sono obbligato a persuadermi che non credo a nulla. Comincerò e finirò; aprirò la porta e mi salverò. Solo questo salverà tutti gli uomini e li cambierà anche fisicamente nella prossima generazione, perchè con la forma fisica di oggi, secondo me, l’uomo non può stare assolutamente senza il Dio di prima. Da tre anni sto cercando gli attributi del mio Dio ed ho trovato che l’attributo del mio Dio è il Ubero arbitrio! Solo con questo dimostro, la disubbidienza e la mia nuova e terribile libertà! Essa è assai terribile. Mi uccido per dimostrare la disubbidienza e la mia nuova e terribile libertà». ,
(L Adolescente).
« Provai dovunque la mia forza. Voi me l’avete suggerito per conóscermi. Nell’esperienza sia con me solo, sia con gli altri, come durante tutta la mia vita, questa forza si è dimostrata senza limiti. Ma dove applicare questa forza? Ecco che cosa non avevo mai saputo e nemmeno ora lo so ». , .. , ,.
‘ (L Adolescente),.
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• • •
« Io amo l’umanità, ma mi stupisco di me stesso: più amo l’umanità in generale, meno io amo gli uomini in particolare, cioè ognuno da per se stesso e come individuo. Nelle mie fantasie spesso arrivo a fare dei progetti i più appassionati per servire l’umanità, e forse davvero mi lascerei crocifiggere per gli uomini, se questo fosse necessario, e nello stesso tempo non sono capace di vivere con qualsiasi persona due giorni nella stessa stanza; lo so per esperienza. Appena qualcuno mi è vicino, ecco che là sua personalità opprime il mio animo e limita- la mia libertà. In 24 ore posso cominciare ad odiare perfino il miglior uomo: l’uno perchè mangia troppo tempo a tavola; l’altro perchè ha uh raffreddore ed egli continuamente si soffia il naso. Io divento il nemico degli uomini appena ne vengo a contatto. Invece succede sempre così': più io odio gli uomini in particolare, più s’infiamma il mio amore per l’umanità in generale ».
(Z Fratelli Karamasoff).
• « «
« Gli uomini sulla terra sono soli; ecco il tragico! " C’è sul campo un uomo vivente? ” grida il " divo " russo; grido anch’io; non sono un divo e nessuno risponde. Dicono che il sole dà vita all’universo. Si alzerà il sole; ma guardatelo, non è morto anche il sole? Tutto è morto e dovunque sono morti. Sono soli gli esseri umani, intorno c’è soltanto il silènzio: ecco la terra!
« Uomini, amatevi l’un l’altro» — chi ha detto questo? di chi è questo testamento? Batte il pendolo insensibile, odioso! ».
{La Mite}.
* * *
«Secondo me l'amore cristiano verso gli uomini è sulla terra un miracolo impossibile nel suo genere. È vero. Égli era Dio. Ma noi non siamo dei. Supponiamo che io, per esempio, possa soffrire profondamente, ma un altro non potrà mai sapere fino a che punto io soffro, perchè egli è un altro e per di più è raro che un uomo acconsenta a riconoscere in un altro un sofferente (come se questo fosse un titolo). E perchè non acconsente? Che ne dici tu? Perchè, p. esempio, io ho un cattivo odore opppure ho il viso stupido, perchè una volta, per un caso gli ho pestato il piede. E poi vi è sofferenza e sofferenza: una sofferenza umiliante che mi annienta, per esempio, la fame; allora il mio benefattore l’ammetterà ancora, ma appena la sofferenza è qualche’ cosa di superiore, per una idea, per esempio, non 1 ammetterà che assai raramente, perchè mi guarderà e troverà torse ad un tratto che non ho affatto il viso che, secondo lui, dovrebbe avere un uomo sofferente per una tale o tal'altra idea ».
(Z Fratelli Karamasoff).
« « «
« L’uomo debole non è capace di frenarsi da sè! Dàgli tutto ed egli stesso verrà e tutto ti restituirà; dàgli un mezzo-regno terrestre perchè egli lo possieda, piova a fare così, ebbene? Egli subito si nasconderà, tanto si sentirà piccolo. Dà la li-
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bertà all’uomo debole, ed egli stesso si legherà e te la riporterà. Per il cuore debole anche la libertà non ha sensi»;
Arrabbiato, afferra il coltello, oppure anche disarmato egli ti prenderà per il petto colle mani nude e coi denti egli sarà capace di morderti la gola. Ma ecco che se tu gli dài il coltello in mano ed il nemico si scopre il petto nudo, è certo che allora indietreggerà! ».
(La Padrona).
• * *
« Egli vedeva continuamente in sogno la terribile tirannia senza rimedio che opprimeva il suo povero cuore indifeso: éd il cuore nel petto gli si confondeva e tremava di indignazione impotente. Gli pareva che dinanzi agli occhi dell'anima spaventata, ad un tratto si rivelasse la sua caduta, con crudeltà si tormentasse il povero cuore debole, si spiegasse dinanzi a lui la verità alla rovescia. Quando era necessario, con intenzione si manteneva la sua cecità, si lusingavano con astuzia le inclinazioni inesperte del suo cuore confuso, impetuoso e a poco a poco si tarpavano le ali all’anima libera, incapace alla fine nè di una ribellione, nè di uno slanciò liberò verso la vera vita... » (La Padrona).
♦ ♦ ♦
« Il mistero cos’è? Tutto è mistero, amico, in tutto è il mistero di Dio. In ogni albero, in ogni èrba piccola vi è quello Stesso mistero. Canta l’uccellino e le stelle, tutto il coro di stelle scintilla nella notte; è sempre lo stesso mistero, l’identico. Ma il maggior mistero consiste in ciò che aspetta l’anima dell’uomo nell’altro mondo ».
(Delitio e Castigo).
« « «
« Certo l’uomo ama vedere il suo migliore amico umiliato dinanzi a lui; per la maggior parte l’amicizia si basa sulla umiliazione e quest'è una verità antica nota a tutti gli uomini intelligenti ».
(Il Giocatore).
♦ • *
« Ebbene, Lei mi dà il godimento della schiaviti!. Sì, sì, vi è un godimento nell'ultimo grado di umiliazione e di nullità!
Chi lo sa, forse il godimento esiste anche nel “ knut ”, quando il “ knut ” batte sul dòrso e lacera la carne ».
(Il Giocatore).
♦ ♦ ♦
« Sì... tufo è nelle mani dell’uomo e tutto egli lascia passare dinanzi al suo naso ed unicamente per la sua viltà... questo è un assioma... È curioso, sapete; che cosa temono gli uomini piò di tutto? Il nuovo passo, la propria nuova parola: ecco che cosa temono maggiormente ».
(Delitto e Castigo).
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♦ * •
« Nulla mi disse, mi guardò soltanto silenziosamente...
Così, non sulla terra, ma al di là... le anime buone piangono, soffrono per gli uomini, ma non li rimproverano, non rimproverano. Però è più doloroso, oh tanto più doloroso, quando non rimproverano... ».
, {Delitto e Castigo}.
« « «
«Lo capite; lo capite, egregio signore, che cosa significa, quando non si sa più dove andare? Perchè bisogna che ogni uomo possa rivolgersi a qualcuno ».
{Delitto e Castigò}.
« « «
« Voglio fare un viaggio per l’Europa e, so bene, troverò soltanto un cimitero, ma il più prezioso cimitero, e ciò è anche qualche cosa! Vi sono cari defunti: ogni pietra sulle loro tombe parla di una vita passata, eppure, così calda e di una fede appassionata nel proprio eroismo, nella propria verità, nella propria lotta e nella scienza: so già prima d’andarci che cadrò sulla terra, bacerò quelle pietre e piangerò su di esse, convinto nello stesso tempo, che tutto questo è già da un pezzo un cimitero e null’altro. E piangerò non già dalla disperazione, ma semplicemente, perchè sarò xelice delle mie semplici lagrime. M’ubbriacherò della mia propria commozione. Le piccole foglie gommose di primavera, il cielo azzurro io amo, ecco ciò che amo! Qui non si tratta dell’intelletto, nè della logica, ma dell’amore: amo con tutti i sensi, come si amano le prime forze giovanili ».
(7 Fratelli Karamasoff).
* ♦ • •
« Signori, noi tutti siamo crudeli, noi tutti siamo assassini, tutti facciamo piangere gli uomini, le madri ed i poveri piccoli bambini, ma di tutti — che questo sia deciso fin d’ora — di tutti io sono il rettile il più vile! Che così sia! Ogni ora della mia vita, battendomi il petto, promettevo di correggermi ed ogni giorno commettevo di nuovo le stesse vigliaccherie. Capisco ora, che per le persone come me, ci vuole il colpo del destino per pigliarle come in un tranello e renderle innocue con una forza estrema. Mai, mai io solo, da me stesso mi sarei rialzato! Ma il fulmine cadde. Accetto la tortura dell’accusa e della mia vergogna pubblica: voglio soffrire e mi purificherò soffrendo.
Fratello, in questi ultimi due mesi io ho sentito che in me è risuscitato l’uomo nuovo. Questo uomo nuovo era chiuso in me, ma non sarebbe mai apparso senza quel colpo di fulmine. È terribile! Che m’importa se lavorerò da forzato nelle miniere e per venti anni dovrò scavare nel buio col martello? Non temo affatto tutto ciò; un’altra cosa mi fa spavento ora: che l’uomo risuscitato mi abbia a lasciare! Si può trovare anche là nelle miniere sotto, la terra, accanto a sè, nello stesso forzato e nell’assassino un cuore umano e stringere amicizia con lui, perchè anche là si può vivere e amare e soffrire! Si può farlo rigenerare e risuscitare in quel-
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l’uomo condannato dal cuore gelato per anni e anni, si può circondarlo d’affetto e finalmente tare venire alla luce dall’abisso dèi male un'anima pura, una coscienza da martire, fare risuscitare l’angelo, risuscitare l’eroe! E ce ne sono molti, ce ne sono a centinaia e noi tutti siamo colpevoli verso di loro!
Perchè avevo sognato allora “il bimbo piccino?" Perchè il bimbo è misero. Ciò mi suonò come una profezia in quell’istante. E sarà per il “ bimbo ” che andrò in galera. Per tutti i " bimbi ’’, perchè vi sono bimbi piccoli e grandi. Tutti sono “ bimbi ’’. Ed andrò in galera per loro tutti, perchè bisogna dùnque che • qualcuno vada per tutti. Io non ho ucciso il padre, ma bisogna che io ci vada... Accetto! Tutti questi pensieri mi sono venuti qui..., ecco, qui fra queste mura nude. Sono in tanti là già, ve ne sono a centinaia in quei sotterranei coi martelli fra le mani. Oh, sì, saremo incatenati e non vi sarà libertà, ma allora nel nostro grande dolore risusciteremo di nuovo alla gioia, senza la quale è impossibile vivere ed essere di Dio, perchè Iddio dà gioia; è questo il suo privilegio, così immenso... Potrebbe forse darsi che là, sotto la terra, non ci fosse Iddio? Il forzato non può stare senza Dio; per lui questo è più impossibile che per un altro.
E allora noi, uomini del sotterraneo, dalle viscere della terra, intuoneremo un inno tragico a Dio che dà la gioia! Viva Dio e la sua gioia!. Lo amo! ».
* * * (Z Fratelli Karamasoff).
« Penso: cosa è l’inferno? — Ragiono così: è la sofferenza di non poter più amare. Una volta sola, nella esistenza infinita, non circoscritta nè dal tempo nè dallo spazio, l’essere spirituale nella sua sosta sulla terra ha là facoltà di dire a se stesso: " Io sono ed io amo ’’. Una volta sola gli è stato dato il momento dell’amore attivo, vivente e per questo gli è stata data la vita terrena e con essa, il tempo ed il termine: ebbene? L’essere felice respinge questo dono inapprezzabile, non l’apprezza, non vuole amare, lo guarda con disprezzo e rimane insensibile ».
(Z Fratelli Karamasoff}.
« I nostri bambini, i figli dei disprezzati pezzenti, ma nobili di cuore, cominciano a conoscere la verità su questa terra già all’età di nove anni. I ricchi no: in tutta la loro vita non intuiranno la verità così profondamente, come l’ha intuita il mio piccino. La verità è entrata in lui e l’ha abbattuto per l’eternità ».
(Z Ragazzi}.
« Diventa ricco e tutto sarà tuo e tutto potrai: non vi può essere un pensiero più corrotto di questo ». (Il Diario di uno scrittore}.
« La lite è una forza tremenda per se stessa; la lite, dopo una lunga rottura, porta gli uomini fino all'assurdo, fino alj'oscurarsi e al corrompersi dell’intelligenza e dei sentimenti. Nella lite l'offensore, avendo coscienza di aver offeso, non va a far la pace con colui che è stato offeso, ma dice: l’ho offeso, dunque, debbo vendicarmi ». (Il Diario di uno Scrittore).
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♦ ♦ ♦
« Nelle donne non vi è originalità: questo è un assioma! Ma la donna che ama, oh» la donna che ama, adorerà perfino i vizi, perfino i delitti dell’essere amato. Lui stesso non troverà per i suoi delitti tali giustificazioni quali saprà trovare lei. Questa è generosità, ma non è originalità. La mancanza di originalità è bastata per rovinare le donne ».
(La Mite). .
* • «
« N’era venuto fuori un essere violento che attaccava; non posso dire un essere spudorato, ma disordinato che faceva confondere tutti apposta. La sua naturale mitezza ancora la tratteneva. Quando un tipo come lei comincia ad essere violento benché passi oltre la misura, nondimeno si vede sempre che esso compie uno sforzo, esagera se stesso e non riesce a vincere la purezza ed il pudore. Perciò tipi di quel genere talvolta oltrepassano troppo la misura di modo che chi li osserva non crede ai propri occhi. Invece l’anima abituata alla corruzione attenuerà sempre, farà sempre cose più sporche, ma sotto l’aspetto dell’ordine.e della decenza, avrà la pretesa di parervi superióre ».
r (La Mite).
« « «
« Mi apparve chiaro, che la vita e il mondo dipedevano in certo modo da me.
Anzi si può dire anche che il móndo in un certo senso è creato per me solo: mi farò saltare le cervella ed ecco che il mondo non sarà più o almeno non sarà più per me. Senza dire che forse realmente dopo di me niente esisterà più per nessuno ed appena spenta la mia coscienza, tutto il mondo si spegnerà come uno spettro, essendo proprietà della mia coscienza soltanto e cesserà di esistere, perchè forse tutto questo mondo e tutti questi uomini sono soltanto io stesso ».
(Il sogno dì un uomo ridicolo).
♦ ♦ •
« Ciò avvenne in Svizzera, il primo anno della mia cura, anzi nei primi mesi. Allora egli sembrava del tutto idiota, non poteva neppure parlare bene, talvolta non poteva capire, che cosa gli si chiedeva. Una volta ch’era sulla montagna, era un chiaro giorno di sole. Camminava a lungo su e giù con un unico pensiero che lo tormentava e che non riesciva a esprimere in torma concreta. Sopra di lui c’era il cielo lucente, sotto a lui il lago e intorno intorno un chiaro orizzonte che pareva non avesse confini. Guardava a lungo e si tormentava. Ora ricordava di aver steso le braccia verso questo azzurro chiaro ed infinito e di aver pianto. Si tormentava di rimaner così estraneo a tutto questo. Che universo è dunque questo, quale grande festa eterna, che non ha mai fine e che lo attrae da tanto tempo sin dalla sua prima infanzia ed alla quale non può prendere parte? Ogni mattina si alza lo stesso sole, ogni mattina brilla un arco baleno sulla cascata, ogni sera laggiù lon-
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tano sull’orizzonte, la più alta vetta coperta di neve arde di una fiamma purpurea; ogni piccolo insetto che ronza nel caldo raggio solare “partecipa a tutto questo coro ed ha il suo posto, l'ama ed è felice. Ogni piccola erba cresce ed è felice. Ed ogni cosa ha il suo cammino e conosce questo suo cammino, s’avvia cantando e ritorna cantando; solo lui non sa nulla, non capisce nulla: nè gli uomini, nè i tuoni; rimane estraneo a tutto e come un rinnegato».
* # # (L'Idiota}.
« Che Iddio ti guardi, caro ragazzo, di dover una volta chiedere perdono per una colpa tua a una donna amata! Specialmente se è amata da te, non lo fare, fossi tu anche ..colpevole! Perchè la donna, il diavolo solo sa cosa è, io non vi capisco nulla. Pròva di confessarle la tua colpa e di dirle: " sono colpevole, perdona ", ecco che comincierà una grandine di rimproveri! Mai, mai perdonerà semplice-mente, ma t’abbasserà come un cencio, tirerà fuori ciò Che non è stato mai, prenderà tutto, non dimenticherà nulla, aggiungerà il suo e solo allora perdonerà.
E così fa la migliore, la migliore fra loro. Raccoglierà gli ultimi avanzi e te li butterà addosso: c’è in loro questa brama, in tutte, nessuna esclusa, in questi angeli, senza i quali non possiamo vivere. Vedi, amore, ti dirò sinceramente e semplicemente: ogni uomo dabbene deve essere sotto la pantofola di qualche donna. Questa è la mia convinzione, non convinzione, ma sentiménto. Ma perdono non chiedere mai e a nessun costo».
{I Fratelli Karamasofj).
« Vi sono ricordi da malato, che possono dare un dolore reale; quasi ognuno li ha; però l’uomo se ne dimentica, ma succede, che ad un tratto poi se ne ricorda, forse qualche linea sola gli riviene in mente e poi non se ne può più liberare ».
{Delitto e Castigo).
« Il vero dolore, quello che ci fa profondamente soffrire, rende talvolta veramente serio e fermo perfino un uomo spensierato, sia pure per breve tempo. E perfino i poveri di spirito diventano più intelligenti dopo un grande dolore, non per sempre, si capisce, ma temporaneamente. Quésta è l’azione del vero dolore ».
r {Delitto [e Castigo).
* • * ■ »
« Milioni di uomini si muovono sulla terra, soffrono e se ne vanno senza lasciare traccia, predestinati a non capire mai la verità. Vivono nel pensiero altrui, cercano la parola bella e pronta e l'esempio pronto, s’aggrappano all’idea suggerita.-Gridano che hanno dietro a sè le autorità, che l'Europa è per loro. Fischiano coloro che non sono con loro d’accordo e tutti coloro che disprezzano i pensieri servili e che credono sia bene l’ihdipendenza propria e quella del loro popolo. Ebbene, in realtà queste masse d’uomini che gridano sono predestinate a servire soltanto come mezzo indiretto. Ogni tanto un singolo uomo s’avvicina in qualche modo alla verità o ne ha almeno l'intuizione.
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Sono appunto questi individui unici, che poi tirano tutti gli altri dietro a sè, s’impadroniscono del movimento, fanno nascere l'idea e la lasciano in eredità a queste masse irrequiete di uomini. Tali individui ci sono anche fra noi ».
(Il Diario di tino Scrittore).
• • *
< Vedi: voi vi somigliate assai e fate bene a sposarvi!
Anche prima pensavo che tu finiresti così; che importa se prima o poi? Questo, fratello mio, è un principio da ° uccelletti ”; oh, e non solo questo. Qui è la cosa che attrae, qui è la fine del mondo, è l’àncora, e il rifugio tranquillo, è il punto centrale del mondo. Qui si vive per i maccheroni, i grassi pasticci, «per il “ samovar ” la sera, i sospiri dolci e i “ gilets ” caldi, per i letti riscaldati, ecco tutto ciò, come se la tua anima fosse morta e nello stesso tempo tu sei vivo; ecco due vantaggi in una volta! »
(Delitto e Castigo).
♦ * •
« L'ipocrisia è il tributo che il vizio è obbligato di pagare alla virtù: una cosa assai importante. Per l’uomo che desidera rimanere praticamente corrotto, senza però rompere nell’anima con la virtù ».
(Il Diario di uno Scrittore).
• * «
« La coscienza della nostra completa impotenza di aiutare o di essere in qualche modo utile a sollevare l’umanità sofferente e nello stesso tempo la nostra completa convinzione di 'questa sofferenza dell’umanità può perfino cambiare nel cuore nostro l'amore per l’umanità in odio verso di essa! I signori delle idee, di “ ferro ” non ci crederanno, ma io dichiaro che l’amore per l’umanità non è neppure concepibile nè comprensibile ed è impossibile senza la fede nella immortalità dell’anima umana ».
(Il Diario di uno Scrittore).
Èva Amendola.
Al prossimo fascicolo: Parte II: Luce, speranza, gioia, estasi...
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L’AVVENIRE
SECONDO L’INSEGNAMENTO DI GESÙ
(Continuazione. Vedi Bilycinii, fascicolo di febbraio, pag. 93)
II.
L’AVVENIRE DI LÀ DALLA TOMBA.
In questa seconda,parte dobbiamo esaminare quattro fatti: la sopravvivenza della personalità, la risurrezione, il giudizio, la vita eterna.
1. La sopravvivenza della personalità.
La morte è la separazione dello spirito dal corpo. Nel momento della morte, il corpo, l’involucro dello spirito, torna al gran tutto donde fu tratto, non per estinguersi ma per trasformarsi; lo spirito, il principio vitale, l’io che pensa, sente e vuole, entra in una nuova fase di vita e di attività. La fede in questo fatto è affermata, più o meno esplicitamente, in tutte le religioni. Per l’Antico e per il Nuovo Testamento basti la citazione di un passo caratteristico. Gesù, rispondendo a un’obiezione de’ Sadducei, i quali negavano appunto la sopravvivenza dello spirito, ricorda loro questo passo dell’Esodo: «Non avete letto quel che vi iti detto da Dio: Io son l’iddio d’Àbramo, l’iddio d’Isacco e l’iddio di Giacobbe? Egli non è l’Iddio dei morti, ma de’ viventi », (i)
Alla dottrina cristiana della sopravvivenza due teorie sono state contrapposte, in seno al cristianesimo: quella deWannichilamento de’ malvagi e quella dell’ww-mortalità condizionale.
a) Secondò la teoria deW annichilamento de* malvagi, la pena del peccato consisterebbe nella estinzione della personalità. Secondo alcuni» Iddio, il Giudice supremo, interverrebbe personalmente, infliggerebbe la pena da sè, e con un atto della sua onnipotenza annichilerebbe i malvagi. Secondo altri; invece, l’estinzione de’ malvagi avverrebbe come conseguenza naturale del loro pervicace abbandonarsi in balìa del male. Il malvagio, dicono essi, pecca oggi, ripecca domani, va ruinando a precipizio per la lubrica via della iniquità, e finisce con l’estinguersi. È legge di Dio; ma, siccome essa si applica da sè, naturalmente, Iddio, in questo caso, interviene perchè la legge è sua; ma interviene in modo indiretto.
Il punto debole, in questa teoria, sta, come qualcuno ha giustamente osservato, nella confusione che v’è fatta fra carattere e personalità. Il male fa scempio
(i) Matt., 22, 32; Esodo, 3, 6, 15, 16.
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del carattere, mira a paralizzare nell’io ogni santa energia, ma non distrugge gli elementi essenziali della personalità. Prendete l’uomo più corrotto che possiate trovare; forse ch’e’ non pensa più, non sente più, non vuole più? Tutt’altro! Ei pensa, sente e vuole molto più energicamente di tanti e tanti altri, migliori di lui. Il .male può distruggere il carattere, ma la personalità non può esser distrutta. Come?! Mentre si sa oramai di certo che nell’universo niente si distrugge, io dovrei ammettere che la personalità possa finire nell’abisso del nulla? Del nulla... ma se il nulla non esiste! Mentre il minimo degli atomi della materia è eterno, il mio io sarebbe dunque perituro? Mentre il corpo, l’involucro dello spirito, neppur esso muore ma si trasforma, potrebbe lo spirito essere dannato a morire?
b) La teoria della immortalità condizionale, a rigor di termini, non è che un considerare lo stesso fatto della sopravvivenza da un altro punto di vista. Secondo questa teoria, . l'uomo sarebbe stato creato, non immortale, ma capace di ricevere la immortalità come un dono. Così com’è, l'uomo, alla morte o più tardi, si estingue. L’immortalità è un dono che Dio gli fa per mezzo di Cristo. La vita è in Cristo; e al possesso della vita non si giunge che mediante la lede, per la quale uno entra in comunióne intima, personale col suo Salvatore. 0 « in Cristo » ed immortali, o «senza Cristo» ed estinti. Gli evoluzionisti cristiani presentano la stessa teoria sotto quest'altra forma. La immortalità non è di tutti quanti gli uomini, ma solo di quegli giunti a un dato punto in alto sulla scala della loro evoluzione. Gli esseri, che nella evoluzione della loro personalità sono assorti à quel punto dov’è possibile la continuità della vita, continuano a vivere oltre la tomba; gli altri, e sono evidentemente i più, s'estinguono. È la teoria della «sopravvivenza de’ più adatti » trasportata nel mondo dello spirito.
Qui va posto in rilievo un fatto importante. Se investighiamo l'origine di queste teorie, non tardiamo a scoprire che son sorte dalla necessità di recare un qualche balsamo al cuore de’ credenti atterriti dalla dottrina delle pene eterne. Così, il fascino, che hanno esercitato su.tanti e tanti cristiani, si spiega. Per l’anima invasa dal terrore delle pene eterne una dottrina, come quella dell'annichilamento è addirittura un Vangelo liberatore. Ma vien fatto di domandarsi: Quando la dottrina delle pene eterne sarà abbandonata, continueranno esse ad aver la stessa fortuna? Io ne dubito. Più il pensiero umano riconoscerà alla «personalità» il suo vero valore, e più energicamente che mai sarà tratto ad affermare che l’immortalità non è un dono fatto da Dio a pochi, quasi a costituire un’aristocrazia spirituale, ma il privilegio di tutji.
2. La risurrezione.
L’idea della risurrezione de’ morti esisteva già nel giudaismo degli ultimi tempi, (i) I Farisei l’ammettevano, i Sadducei la negavano; (2) Gesù dette al
(1) Dan., 12, 2.
(2) Atti, 23, 8.
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l’avvenire secondo l’insegnamento DI GESÙ
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fatto delle risurrezione un posto cospicuo nel suo insegnamento, ma non entrò in particolari. Per trovare una vera e pròpria dottrina della risurrezione bisogna scendere a San Pàolo.
Secondo Gesù, la risurrezione è universale. « Quelli che hanno operato bene risusciteranno per la vita; quelli che hanno operato male risusciteranno per il giudizio ». (i)
Come risusciteranno? Gesù non l'ha detto esplicitamente. Ha detto però questo: « Per quelli che saranno reputati degni d’aver parte al mondo avvenire e alla; risurrezione dei morti, non c’è nè sposare nè dare a marito, perchè non posson più morire; son simili agli angeli ». (2) Dov’è immortalità non c’è matrimonio; ed è chiaro: le nozioni di nascita e di morte sono correlative; siccome dove non si muore non c’è neppur bisogno di nascere, il matrimonio non ha ragion d'essere. I risorti poi « son simili agli angeli » perchè hanno un corpo creato immediatamente dalla onnipotenza di Dio. E qui viene San Paolo a chiarir bene le cose: a scartare, cioè, la dottrina materialista della risurrezione della carne e ad insegnare che i risorti son provvisti di un organismo adattato alle nuove condizioni della loro vita: di un « organismo spirituale », ben diverso dal corpo di prima che, separato dal suo principio vivificatore, torna per sempre alla terra donde fu tratto. (3)
Quando avverrà la risurrezione? Nell’insegnamento di Gesù non c’è traccia dell’idea di una risurrezione simultanea della umanità, che debba aver luogo qui sulla terra, in qualche giorno lontano. Che questa idea fosse anzi addirittura estranea alla mente di Gesù è provato dal fatto ch’ei non distingueva neppure, fra «risuscitare » e « continuare a vivere ». I passati di là dalla tomba, per lui, eran tutti risorti. « Che i morti risuscitino, anche Mosè lo dichiarò... quando chiama il Signore l’iddio d'Àbramo, l’iddio d'Isacco e l’iddio di Giacobbe. Or egli non è un Dio di morti, ma di viventi; poiché, per lui, vivono tutti ». (4) I patriarchi, dunque, quando Mosè diceva coteste parole, eran risuscitati, poiché Gesù li cita come prova della risurrezione, confutando i Sadducei che la negavano.
Altre dichiarazioni di Gesù definiscono poi meglio il suo concetto della risurrezione. Egli dice a Marta: « Tuo fratello risusciterà ». Marta gli risponde: « Lo so che risusciterà quando avverrà la risurrezione, nell’ultimo giorno ». E Gesù: « Io son la risurrezione e la vita; chiunque crede in me, quand’anche fosse morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morrà mai ». (5) Marta, dicendo: « Lo so che risusciterà quando avverrà la risurrezione, nell’ultimo giorno » allude alla risurrezione della carne che, secondo i Giudei, doveva avvenire « nell’ultimo giorno »,
(3 b
Giov., 5, 29.
Luca, 20, 35, 36.
1 Cor., 15, 35-54.
Luca, 20, 37.
Giov., 11, 23-26.
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ossia nel giorno in cui il Messia sarebbe venuto a risuscitare e giudicar tutti, (i) Siccome si figuravano il regno del Messia come una cosa terrena, come una specie di glorificato regno di David, è naturale che, per partecipare alle, gioie di cotesto regno, aspettassero una risurrezione tutta materiale. Gesù corregge cotesta idea erronea, e dice: « Io son la risurrezione e la vita; chiunque crede in me, quand'anche fosse morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morrà mài ». Gesù è il Messia e può quindi affermare d’esser lui l’autore della risurrezione messianica; 1’« ultimo giorno » è il tempo oramai imminente, quando, assiso sul trono, ei comunicherà la vita a quelli che la morte va man mano falciando. Torna dunque l’idea della Parusia. Gesù, dal giorno dell’Ascensione, assiso sul trono che Dio gli ha dato, regna come « Risurrezione » e come « Principe della vita » (2) per strappare continuamente al sepolcro le vittime della morte. Così pure nell’altro passo: « L'ora sta per venire quando tutti quelli che sono ne' sepolcri udranno la sua voce e ne verran fuori ». (3) L’ora imminente è l'ora della Parusia, quando Gesù, tornato nella gloria, comincerà ad esercitare la funzione di «dàtor della vita » ai morti i quali, man mano che' muoiono, come dice il testo con modo immaginoso, «odono la sua. voce ed escono dai loro sepolcri».
La risurrezione è dunque un fatto universale, perchè tutti risorgeranno; ma, al tempo stesso, è un fatto che avviene per ogni individuo, all’atto della sua morte. La morte non è che una crisi; l’uomo, in uno stesso momento, muore e risorge.
3. Il giudizio.
I Giudei aspettavano un Messia, che sarebbe stato Re e Giudice ad un tempo. Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento, annunziandone l’apparizione imminente, diceva: « Egli ha la sua pala in mano e netterà interamente l'aia sua e raccoglierà il suo grano nel granaio; ma la pula la brucerà con un fuoco inestinguibile ». (4) Gesù venne, e si presentò, infatti, non soltanto come Re, ma anche come Giudice: « Il Padre stesso non giudica alcuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figliuolo » (5) e « gli ha dato autorità di giudicare perchè è Fi-gliuol dell’uomo ». (6) Gesù è l’uomo perfetto e al tempo stesso il perfetto rivelatore
(1) In questo medesimo senso va inteso Y ultimo giorno nei passi: Giov., 6, 39, 40. 44- 54(2) Atti, 3, 15.
(3) Giov., 5, 28. Per l’imminenza di quest’« ora che sta per venire », confr. Giov. 4, 2!; 16, 2, 25, 32. Qui si può domandate: Se i morti cominciano a risorgere soltanto all'inizio della Parusia, che n'è stato dei morti prima? La risposta è in Giov. 5, 21: • Come il Padre desta i morti e dà loro la vita, così anche il Figliuolo dà la vita a Ìuelli che vuole ». Prima della Parusia, Iddio è stato lui • la risurrezione e la vita ». uesta funzione, Ch’Egli ha esercitata da sè prima della Parusia, alla Parusia Egli affida al Figliuolo.
(4) Matt., 3, 12.
(5) Giov.» 5, 22.
(6) Giov., 5, 27.
61
l’avvenire secondo l’insegnamento DI GESÙ
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di Dio. In lui è mostrato quel che Dio richiede dagli uomini ed è reso evidente l’amore che Dio nutre per tutti: egli è il Sovrano nel regno della Grazia ed ha quindi tutte le qualità necessarie ad essere il Giudice supremo.
Quando avverrà il giudizio? Gesù stesso dichiarò che avrebbe „cominciato ad esercitare le sue ¿unzioni di Re e di Giudice, immediatamente. « Il Figliuol dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo coi suoi angeli, e allora renderà la retribuzione a ciascuno secondo le azioni sue. Io vi dico in verità che alcuni di coloro che son qui presenti non morranno prima d’aver veduto il Figliuol dell’uomo venir nel suo regno ». (1) Il periodo del giudizio cominciò dunque fin dalla prima generazione cristiana.
Nel Vangelo di Giovanni, questo giudizio è presentato sotto l’immagine caratteristica di una scelta, di una crisi, (2) operata dalla Verità stessa esercitante l’azione sua rivelatrice. « Il giudizio (greco: la crisi) consiste in questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenèbre alla luce, perchè le loro opere erano malvage. Poiché chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, per paura che le sue opere siano scoperte e condannate; ma chi pratica la verità viene alla luce, affinchè sia manif esto che le opere sue son fatte in Dio. (3) Gesù è il sole che si leva sull’orizzonte del mondo morale; finché il sole non si leva, le tenebre fanno sparire i profili e i contrasti delle cose; quando spunta il sole, tutto divien chiaro e trasparente. Prima che la luce Venga dal cielo, chi fa il male ha, per le sue ribellioni, non la scusa, ma l’attenuante delle tenebre che lo avvolgevano. Da che Gesù è apparso, non ci son più attenuanti: chi si ostina nel male si giudica da sé, (4) preferendo come fa 1’« operare malvagio » all’« ope-• rare in Dio ». Questo giudizio, o questa crisi, è quindi cosa presente. « Questo, dice Gesù, è il momento del giudizio per questo mondo »; (5) e il contesto ci spiega che, esprimendosi così, e’ pensava alla sua morte. (6) La croce è un giudizio, perchè mette in luce la condizione morale del mondo. L’uomo, crocifiggendo Gesù, si giudica, perchè manifesta il suo sentimento di ribellione e d'inimicizia contro Dio. E quando passa noncurante dinanzi alla croce che ha innalzata, si giudica più apertamente che mai, perchè disdegna la salvezza che la croce gli offre. Il giudizio del mondo comincia, quindi, virtualmente, dal Venerdì santo; effettivamente dal giorno dell’Ascensione: dal giorno che inaugura la parusia del Giudice. In questo senso, Gesù è chiamato il Giudice dei vivi.
Ma, oltre che de’ vivi, Gesù è anche il Giudice de’ morii: il giudice cioè di quelli che, durante la Economia del Giudizio, compiuto il loro corso terrestre, passano
(3
(6
Matt., 16, 27, 28.
Giov., 3, 19; 5, 22, 24, 27, 29, 30; 12, 31.
Giov., 3, 19-21.
È già giudicato, Giov., 3, 18.
Giov., 12, 31.
Giov., 12, 31-33.
62
224
BILYCHNIS
ad ogni istante da questa in un’altra fase di esistenza, (i) A questo giudizio retributivo allude appunto lo scrittore della Epistola agli Ebrei, quando dice ehe « alla morte tien dietro il giudizio ». (2) San Pietro avea quindi ragione di affermare ehe Gesù « è stato costituito da Dio giudice de’ vivi e de’ morti ». (3) Ora, se riflettiamo che il mortale è già giudicato da vivo, o che piuttosto e’ si giudica già da sè in questo mondo, in guisa che nell'altro non gli sarà riserbata sorte diversa da quella che avrà voluto da sè riserbarsi, intenderemo facilmente che Gesù abbia potuto dire: « Chi non crede è già .giudicato », (4) e « chi crede non viene in giudizio ». (5) L'opera del giudice tìe’ morti, nell’ora della retribuzione individuale, dovrà limitarsi ad assegnare a ciascuno il posto che già prima e’ si sarà scelto da sè, con la propria condotta. Con la propria condotta, dico; perchè il criterio del giudizio sarà 1'« opera d'ognuno ». (6) Qui sta l’elemento' nuovo introdotto da Gesù nel concetto giudaico del Giudizio. Tutti i Giudei sapevano che, all’apparire del regno messianico, avrebbe luogo un giudizio in seguito al quale i giusti vi sarebbero introdotti e gl’ingiusti ne sarebbero esclusi. Gesù insegnò che il Giudice avrebbe giudicato tutti, secondo la legge dell’amore. Questo il fatto, che Gesù volle mettere in rilievo nella grandiosa parabola del Giudizio, (7) così malamente frantesa. Cotesta parabola non si riferisce, come molti credono, ad un avvenimento unico, speciale, ma illustra il principio che serve di base al Giudizio di Cristo, oggi, alla fine della vita, in qualunque giorno, in qualunque epoca, in qualunque mondo.
Durante la sua parusia, dunque, Gesù, mentre è il Principe della vita, esercita pure la sua funzione di Giudice. Questa sua funzione e’ la cominciò ad esercitare non appena ebbe preso possesso del suo regno. La prima generazione cristiana e le generazioni seguenti ne videro gli effetti. Anania e Saffira, Elìma il mago. Erode Agrippa, la caduta del giudaismo apostata, Roma, la gran persecutrice, punita con un seguito di imperatori scellerati e con l’invasione de’ barbari, la Storia del mondo, intero sono il commentario eloquente del fatto che « Dio ha costituito Cristo giudico de' vivi ». E al tempo stesso che de’ vivi. Iddio l’ha costituito giudice de’ morti. Di là dalla tomba, tutti i giorni, tutti i momenti, ¡ mortali s’af-follan senza tregua attorno al suo trono per ricevere immediatamente la retribuzione delle loro azioni. Il « Giudizio » (8) o « il giorno del Giudizio », (9) quindi.
(1) Vedi Giov., 5, 24-30, dove è intimamente connesso con l’altro
(7 8 (9
Ebr., Atti, Giov., Giov., Giov., Matt., Matt., Matt.,
9, 27. Confr. 2 Cor., 5, io.
io, 42.
3. 18.
5. 24.
5, 29; 2 Cor., 5, io; Apoc., 22, 12.
, 25, 31-46. Confi. Dan., 7.
12, 41, 42; Luca, io, 14; 11, 31, 32.
il fatto di questo giudizio ultimo d'ogni mortale della risurrezione.
io, 15; ir, 22, 24; 12, 36; Marco, 6, 11. Per
il giudizio dell’ultimo
giorno » di Giov.» 12, 48, vedi quel che abbiam detto deH’wZtimo giorno a proposito della risurrezione.
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L’AVVENIRE SECÓNDO L’INSEGNAMENTO DI GESÙ
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va inteso, non nel senso di un avvenimento simultaneo che i morti delle generazioni passate aspettano ancora e chi sa fra quante migliaia e migliaia d’anni avverrà, ma come un Giudizio ch’è presente e futuro; universale, ma continuo e d’ogni individuo: come il Giudizio di Cristo, che cominciò il giorno dell'Ascensione e finirà quando Iddio avrà dato compimento a tutti i suoi salutari disegni.
4. La vita eterna.
La vita è un problema. Che viviamo, è un fatto; come sia che viviamo, è un’incognita. Si può far la storia della vita; dire che cesa in sè sia la vita, è impossibile. E se la vita che viviamo tutti i giorni è già un problema insolubile, è vano sperare di giunger mai a risolvere con certezza i problemi di quel «donde?.,..» e di quel «dove?... » che precedono e seguono la vita, e sfuggono interamente alla nostra esperienza immediata. Gesù non- ce lo rivelò questo mistero. Egli prese la vita così come gli apparve dinanzi allo sguardo purissimo, divino; ne fe’sentire tutto il valore, ne mise a nudo la corruzione che la rodeva, additò ai mortali il rimedio per arrestare cotesta corruzione e per rinnovare in loro le energie che il male avea svigorite; fu, insomma, non il teologo ma il redentore della vita. Però, se la parola del Maestro che ci riveli cotesto mistero ci manca, abbiam di lui e de' suoi apostoli non pochi accenni, che ci permettono di farci di quel «donde?» è di quel « dove?... » un concetto nel quale possa acquietarsi l’animo nostro.
L’uomo, secondo Gesù (che in questo punto s’attenne essenzialmente al concetto ebraico), è composto di un elemento materiale, di polvere della terra o di carne (i), e dello spirito che vivifica la materia inerte. (2) Questo spirito, nell’insegnamento genesiaco al quale Gesù si riferisce, non è soltanto cosa di Dio, ma è addirittura parte di Dio. Ogni creatura umana che vive, vive perchè ha in sè una particella di Dio, una scintilla di Dio. Noi siam dunque particelle di Dio in involucri mortali; e quel tanto del divino ch’è in noi è eterno, perchè parte di un Dio eterno. Ora, come avvenne quésta incarnazione del divino in noi? Pur riconoscendo i pregi del traducianismo (3) di Tertulliano* i meriti del creazianismo (4) di Clemente d’Alessandria e il valore del generazianismo (5) del Frohschammer, io sto per la preesistenza (6) del grande Origene. Il fatto che questa ipotesi si
(1) Luca, 24, 39.
(2) Matt., 27, 50; Luca, 23, 46;. 8, 55.
(3) Secondo il traducianismo, l'anima si trasmette di padre in figliò nello stesso modo e al tempo stesso che il corpo (¿»er traducem, vel per propaginem). Lo spirita-e il Corpo del neonato sono ugualmente ’ fruttò del matrimonio de' genitori.
(4) Secondo il creazianismo, lo spirito d’ogni individuo è creato immediatamente da Dio, vòlta per volta.
(5) Secondo il generazianismo, l’essere esce completo dalla crisi del concepimento; ma lo spirito si propaga spiritualmente, nello stesso tempo che la materia si propaga materialmente.
(6) Secondo la preesistenza, lo spirito esiste già prima della sua alleanza con un organismo corporeo.
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ritrova in Platone e nella metempsicosi orientale, non mi scandalizza. Quanti lampi del pensiero di Dio ebbe Platone, e quanti n’ebbe ¡'Oriente che cominciano a balenare soltanto adesso alla nostra mente occidentale' Nè il fatto eh’essa fu condannata dalla Chiesa mi turba, convinto come sono oramai che molte eresie condannate dalla Chiesa contengono più verità di tanti dògmi dalla Chiesa, imposti alla credulità de’ fedeli. « Noi siamo progenie di Dio » disse San Paolo, citando Arato e Cleante: « in Dio abbiamo la vita, il moto e l’essere ». (i) Quel tanto del divino per cui siamo, esisteva già prima che fossimo; e, prima d’irìcarnarsi in noi, passò probabilmente per una molteplice successione d’altre incarnazioni. La nostra vera esistenza, quindi, non cominciò, in senso assoluto, allorché venimmo al mondo; ma al mondo venimmo già con una storia; con una lunga storia, ignota a noi, ma non a Lui che tutto sa; con una storia, di cui forse qualche reminiscenza ci traversa di quando in quando la mente, con la rapidità del lampo.
Riflettete un istante alla importanza di questa ipotesi. Il latto della preesistenza di Cristo, che ha dato origine alle teorie più strane e fantastiche, non diventa esso intelligibile e naturale se Cristo non fu l’unico preesistente, ma il « primogenito » (2) della infinita famiglia de’ preesistenti? E se gli spiriti preesistenti, nelle loro successive incarnazioni sono in via di continua evoluzione verso l’ideale che è il Bene assoluto, la incarnazione di Cristo, vale a dire la più alta manifestazione umana di uno spirito perfettamente divino, non appare essa circonfusa di luce nuova dinanzi agli occhi della nostra fede? Le misteriose frasi « il Figliuol dell’uomo » e « il Figliuol di Dio » non sono esse chiarite, se Cristo è così, non un uomo come gli altri, non un figliuolo di Dio come siamo noi, ma l’uomo ideale e l’ideale figliuolo di Dio? E la soluzione del tormentoso problema del male, per esempio, che invano domandiamo alla grande parabola della vita con cui s’apre il libro della Genesi, (3) non è più ragionevole ammettere che si trovi in qualche tragedia avvenuta in umanità preesistenti alla nostra?
L’esistenza è eterna. L’eternità è la visione perfetta di tutta quanta resistenza: visione, che abbraccia il passato, il presente, il futuro. Il tempo è la costante e regolare conversione del passato in futuro: è l’attimo di transizione ira il passato e l’avvenire. Origene considerava la esistenza terrena, non come il principio della nostra storia, ma come la continuazione di un’esistenza precedente; come un capitolo intermedio nella nostra storia spirituale; come la conseguenza logica e naturale della nostra condotta in altre esistenze anteriori. Per lui, la terra'era un luogo di castigo e una casa di correzione. Questo concetto gli spiegava le ineguaglianze fra gli uomini. Se uno vive fra i selvaggi, un altro in mezzo agli splendori delle arti, delle scienze, della cultura, e un altro gode i benefizi spirituali della comunione cristiana, non è a caso, non è perchè Dio abbia delle preferenze per gli uni
Atti, 17, 28.
Rom., 8, 29; Ebr., 2, ri, 12.
Gen., 3.
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l’avvenire secondo l’insegnamento DI GESÙ 227
anzi che per gli altri, ma è il risultato della loro condotta in una esistenza precedente. Ognuno si trova, di qua, nella condizione ch'egli stesso s’è fatta di là. Alla luce di questo concetto, l’attimo della vita presente acquista una solennità ineffabile. Se quest’attimo è l’opportunità che Dio mi offre per applicarmi tutto alla mia propria santificazione e al bene degli altri, se dal come impiegherò quest’attimo dipenderà il mio premio o la mia punizione, il mio progresso o il mio regresso nella esistenza che m’aspetta, le esortazioni del Nuovo Testamento a « condurmi con timore nel tempo del mio pellegrinaggio » (1) diventano più strin-genti che mai.
Per quel tanto del divino ond’io porto in me l’immagine del mio Creatore, io fui fatto capace di pensare, di sentire, di volere. E il mio intelletto, il mio sentimento, la mia volontà, tenuti in costante comunione con Dio, avrebbero potuto fare della mia esistenza un paradiso. Come mai è diventata invece un inferno? A motivo del male, che mi ha contaminato la mente, mi ha corrotto il cuore, m'ha fiaccato ogni energia al punto, che « non so più quello che faccio: non faccio quello che voglio, e faccio invece quello che odio ». (2) Ma ringraziato sia Dio che Cristo è venuto « ad affrancarmi dalla tirannia del peccato e della morte »: (3) Cristo, che dice: « Io sono la vita »; (4) «son venuto affinchè abbiate vita-e ne abbiate ad esuberanza », (5) e « la vita che vi dò, è eterna »: (6) espressioni tutte che riassumono l'idea delle nuove energie spirituali e de' beni eterni che Cristo comunica e assicura a chi. si unisce a lui per quella fede intima, profonda, ch'è un vero diventar con lui una stessa cosa com’egli è una stessa cosa col Padre. (7) « In Dio esistiamo », (8) dice San Paolo; e l’esister nostro è eterno; in Cristo-viwawo, e la nostra vita in lui è anch’essa eterna. Altro è esistere, altro è viveri. L’albero, durante i geli dell’inverno, esiste', quando in primavera un nuovo succo vitale lo pervàde, vive.
• Abbiamo già visto che l’io risorge nell'atto stesso della morte, e che il giudizio ha luogo, per ognuno, nel momento stesso del suo passaggio da questa a un’altra forma d’esistenza; in guisa che l’uomo, morto, risuscitato e giudicato, se ne va « al suo luogo ». (9) Ora, dove sarà questo « luogo »? Mancano i dati scritturali per rispondere. È però-lecito fare delle ipòtesi; ed ecco la mia. Quando in una notte chiara e serena contempliamo il cielo, noi lo vediamo cosparso di un numero infinito di stelle; e se prendiamo un telescopio e fissiamo un punto qualunque della
SI Pietro, i, 17. Rom., 7, 15.
(3 ) Rom., 8, 2.
(4 ) Giov., 14, 6.
(5 ) Giov., 10, io.
6) Giov., io, 28.
7) Giov., 15, 4-6.
8) Atti, 17, 28.
9) Atti, i, 25. »
66
228 BH.YCHNIS
vòlta celeste, là dove a occhio nudo non vedevamo nulla, scorgiamo de’ punti luminosi, che si staccano sul tondo nero dello spàzio con lo splendore di tanti diamanti. Sono altre stelle, ciascuna delle quali dà il suo calore e comunica il moto e l’attività .a un gruppo di pianeti che gravitano intorno a loro. Nessuna cifra potrebbe significare il numero esatto delle stelle. E la cosa mirabile è che, mentre il nostro sistema planetario è rischiarato da Un unico sole, altri sistemi sono rischiarati invece da due, da tre, da quattro soli di differenti colori, che debbono produrre degli effetti d’illuminazione d’una magnificenza inconcepibile. « Chi sa », ’ dice il Flamm'arion, «a quali incantevoli contrasti, a qual magnifico alternare debbon dar luogo un giorno rosso e un giorno verde, che succedono man mano a un giorno bianco e alle tenebre! Chi sa di quale ineffabile bellezza, di quale a noi ignoto splendore debbono, essere rivestite coteste terre lontane! ». (1) Fra questa infinità di mondi che si muovono nello spazio sembra che ce ne sia uno, il quale Sta al centro dell’universo. E perchè cotesto mondo, verso il quale gravitano le stelle infinite, e ch’è senza dubbio il più grande e il più splendido di tutti, non sarebbe là dimora degli spiriti che han raggiunto la perfezione? (2) E chi sa che non esista una specie di gerarchia, fra cotesti mondi innumerevoli, e che cotesta gerarchia non corrisponda ai diversi gradi della evoluzione degli spiriti? «Là dove abita mio Padre ci son mólte dimore », (3) ha detto Gesù. Ora, l’abitazione del Padre è l’univèrso; e le « dimore » son forse appunto cotesti mondi, dove gli spiriti godono d’una felicità proporzionale al grado di sviluppo che hanno raggiunto quaggiù, e da dove s’elevan poi di « dimora » in « dimora » man mano che progrediscono nella vita divina. San Giovanni, in una delle sue visioni, contemplò i martiri nell’atto ch’entravano nella immediata presènza di Dio. Essi, che aveano purificato le loro stole nel sangue dell’Agnello e avean dato la vita per Cristo come Cristo avea dato la sua per loro, tenevano in mano la palma della vittoria finale. Erano gli spiriti eletti, che avean compiuto la loro evoluzione: « perciò stanno dinanzi al trono di Dio, intenti giorno e notte a servirlo nel suo tempio », (4) ch’è il tempio dell’eternità. E io capisco che anche « il Figliuol dell'uomo », « il Figliuol di Dio », « l’Eletto » (5) fra tutti gli spiriti eletti, potesse passare da questa vita nella immediata presenza del Padre. Per lui non c’era più luogo a fasi intermedie. Egli, l’immacolato, il Santo, che era giunto alla pienezza della vita divina, che « s’era reso ubbidiente sino al punto di morire e di morir sopra una croce » (6) per la redenzione del mondo, era naturale che di qui se ne andasse direttamente al Padre. Quivi infatti lo trovano i martiri, che San Giovanni contemplò nella
(i (2 (3 (4
$
Merveilles célestes. Pag. 148.
Decoppet. Les grands problèmes de l’au-delà.
Giov., 14, 2.
Apoc., 7, 15.
Luca, 23, 35.
Filipp., 2, 8.
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l’avvenire secondo l'insegnamento DI GESÙ
229
sua visione: lo trovano « di fronte al trono. », designato ad essere « il loro Pastore » per «condurli alle sorgenti delle acque della vita». (1)
« Ma, Fra Bernardo », mi dirà qualcuno, « con tutto questo tu mi togli la maggior parte della gioia che mi dà la mia speranza cristiana! Se è come tu dici, che mi resta delle grandi promesse d’una felicità perfetta, immediata, dopo le tribolazioni della vita? » Tutto ti resta, fratei mio. « Dov’è lui, anche tu sarai »; (2) e «sarai simile a Cristo, perchè lo vedrai com’egli è»: (3) non subito, però; a suo tempo; quando anche tu sarai giunto a possedere appieno la vita divina. Per ora, ti basti la certezza che, se sarai fedele sino alla fine, quel che troverai di là sarà molto più bello, più grande, più santo, di quel che lascerai di qua; ti basti il conforto della promessa: « Cose che occhio non ha vedute, che orecchio non ha udite e che non sono entrate in cuor d’uomo, son le cose che Dio ha preparate per quelli che l’amano ». (4) Ma come potrei io, che ho una conoscenza così meschina delle cose di Dio, che son così lento a progredire sulla via della santificazione. Che tanto poco posseggo della vita divina, come potrei passare a un tratto nella immediata presenza di Dio dove tutto è perfetto? Che avverrebbe al cieco se, dopo l’operazióne, fosse, non abituato alla luce a poco a poco, ma esposto subito al sole in pieno meriggio? Accecherebbe di nuòvo. E noi come potremmo reggerese, appena nati alla nuova luce di Cristo, fossimo trasportati in un attimo nella gloria della presenza di Dio? E com’è possibile che l’empio, convertito in punto di morte, goda immediatamente della piena visione di Dio al pari del sant’uomo che per quaranta o cinquant'anni lottò le angosciose lotte della fede? Egli avrà senza dubbio il suo guiderdone, ma nel « luogo » che il giusto Giudice gli assegnerà, non in quello dove si trovano i molto più evoluti di lui. (5)
E qual concetto dobbiamo farci della vita che si va così evolvendo, maturando, perfezionando, di fase in fase, di mondo in mondo? Se nell’avvenire l’io rimane io, rimane « persona » e non diventa « cosa », cotesta vita non può essere che una genuina vita dello spirito, ricca di morale attività e fornita di volontà, di libertà, di responsabilità: una vita personale, insomma, con pieno significato morale, com’è la vita presente. Lo so; si dice: «la responsabilità è di questa vita, e nel di là non c’è che retribuzione; di là si gode o si soffre, e nulla più ». E che, in seguito al giudizio, nella vita avvenire noi riceviamo la nostra retribuzione e godiamo
(1 Apoe., (2 Giov.,
•» 7» V(3 b
. M. 3I Giov., 3, 3.
I Cor., 2, 9.
Questa idea’ parrebbe cónti adetta da Luca, 23, 42-43. Si ponga però ben 1 testo. Il malfattore pentito dice: « Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo
mente al testo. Il malfattore pentito dice:
regno! » E Gesù: « Io ti dico in verità che oggi sarai meco in paradiso ». Il malfattore in croce domanda a Gesù una grazia futura: Gesù gli assicura una grazia presente. Tutta la forza, tutto il conforto della risposta di Gesù è in quell’oggi. Quanto poi al paradiso o ades o seno d‘ Àbramo, il malfattore, come ogni altro Giudeo, non poteva intendere, per coteste espressioni, che il luogo dove, dopo la morte, andavano i giusti e gl'ingiusti: quelli per godere, questi per soffrire. Gesù gli promette la immediata giòia de' buoni nell/f do,«.
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230 BILYCHNIS
o soffriamo, non è da porre in dubbio; ma come ■ la retribuzione nel di qua, dov’essa-già comincia, non altera il nostro carattere e ci lascia esseri morali, responsabili, così è da supporre e da ammettere che anche nel di là essa non priverà la vita nostra di cotesto carattere suo.
Che avverrà dunque? Questo avverrà. I bambini, che a moltitudini muoiono senz’aver avuto tempo di decidersi per il bene o per il male, i deboli di mente, i poveri scemi, che non ebbero di qua vera vita morale, tutta la gente che realmente non può credere perchè del tutto priva dell’organo della fede, nel di là avranno il loro posto assegnato in un mondo di principianti, dove il loro carattere, personale potrà cominciare a svilupparsi. La separazióne, già iniziata nel mondo di qua, diventerà, nel mondo di là, più distinta, più evidente che mai; perchè, mentre nel mondo nostro la separazione dei buoni dai malvagi è soltanto morale, e buoni e malvagi continuano a vivere assieme, di là, gli uni saran del tutto separati dagli altri. I buoni continueranno la loro ascensione di móndo in mondo, e vivranno una vita di riconciliazione con Dio e di comunione sempre più intima con Cristo. Sarà una vita, in cui la conoscenza delle vie di Dio e de’ tesori del divino s’andrà facendo sempre più ampia, sempre più profonda, sempre più esatta. Allora conosceremo ogni cosa, nel modo col quale noi siamo stati conosciuti da Dio nel tempo, (i). Sarà una vita attiva e feconda. Quali forme assumerà questa futura attività nostra non è possibile dire; sarà un servire Iddio giorno e notte nel gran tempio della eternità; (2) un servirlo in modo ben diverso da quello nel quale lo serviamo ora, ma sempre a prò delle sue creature e per affrettare il trionfo del suo regno nell’universo. Sarà una vita d’amore. La fede e la speranza, i due angeli consolatori della vita presente, ci accompagneranno fino all’orlo della tomba; quivi ci lasceranno, perchè di là avremo la visione immediata delle cose credute e sperate; ma l’amore continuerà ad accompagnarci, a confortarci, ad ispirarci. L’amore solo è eterno (3) perchè vien da Dio, che è eterno: « Dio è amore ». (4) I malvagi vivranno d’una vita priva di Dio: vita grama, sterile, rósa di continuo dal verme del rimorso, riarsa dalla divampante giustizia di Dio: (5) vita di « tenebre », « di pianto e di stridor di denti ». (6) Anche per i malvagi dovrà esserci una gradazione, perchè, quando lasciano la vita presente, non son tutti arrivati al medesimo grado di corruzione e d’empietà; e anche di là il peccato sarà sempre possibile: il peccato dello spirito, a cui non mancheranno le occasioni per esplicare la sua malefica attività.
E qui s’affaccia un problema. Il giudizio pronunciato al momento della morte dell’individuo è esso irrevocabile? La irrevocabilità di cotesto giudizio io non la posso ammettere. Se tanto i buoni quanto i malvagi, quando passano di là, ri1
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I Cor., 13, 12 Apoc., 7, 15.
I Cor., 13, 13
I Giov., 4, 8.
Marco, 9, 48.
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l’avvenire secondo l’insegnamento DI GESÙ
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mangon « persone », è vero che son separati gli uni dagli altri da un abisso senza ponte; ma, se uno de’ buoni si ribellasse a Dio, è certo che non sarebbe più lasciato nel luogo dove si trova. I buoni rimangono esseri liberi; e della loro libertà si valgono soltanto per servire Iddio; ma, se avvenisse il contrario, è chiaro che l’Onnipotente li costringerebbe a varcare l’abisso. Ora, perchè non potrebbe avvenire il caso inverso? Perchè, se un malvagio si pente. Iddio non lo farebbe passare dal luogo di dolore dove si trova, in un luogo di pace e di gioia? (1) Certo, l'idea che le pene eterne sono senz’ altro la giusta punizione de’ peccati commessi nella vita presente, risolve in modo assoluto il tremendo problema. Ma è un fatto che cotesta soluzione ha sempre arrecato spavento al maggior numero delle, anime credenti. Le dottrine cattolico-romane del Purgatorio e del Limbo e le elucubrazioni protestanti intorno a un possibile « stàdio intermedio » sono state e sono tentativi di confortare coteste anime tremanti. E si capisce. Se le pene sono eterne, dov’è là proporzione fra la pena e là colpa? L’amor di’ Dio che diventa? Com’è possibile esser felici in paradiso quando sappiamo che nell’inferno qualcuno dei nostri cari è tormentato in perpetuo? Ma così non può essere, e così non è. Gesù insegna che la punizione, di là e di qua, mira a educare, a migliorare il punito, e non è eterna; dura, quanto dura il peccato; quando cessi il peccato,, cessa la punizione. (2) •
•E il peccato quanto durerà? Gesù insegna ch’esso potrà avere una durata immensa, tale, che si misura soltanto per età, ma non sarà eterno. Se il peccato non dovesse cessar mai, l’eterno dualismo del bene e del male nell’universo, la tirannia assoluta e perpetua del male su tanta parte dell’umanità non proverebbero che Dio è Stato sconfitto? Ma io non crédo alla sconfitta di Dio; credo al Vangelo, ch’è la proclamazione della vittoria finale di Dio; credo con Origene che anche i reprobi più ostinati saranno alla fine vinti dall’amore di Dio; credo alla « restaurazione universale », al trionfo della longanimità di Dio Ottenuto rispettando la libertà di tutti, al compimento perfetto del programma provvidenziale che San Paolo riassumeva in queste due formule: « Riunire in z Cristo come sotto un capo unico tutte le cose » : (3) « Iddio tutto in tutto » (4).
Fra Bernardo da Quintavalle.
(1) A sostegno di questa idea, vedi 1 Pietro, 3, 18-20; 4, 6.
(2) Vedi Matt., 25, 46. Il passo dice: « E n'andranno questi (gl'iniqui) a punizione etèrna, ma i giusti a vita eterna ». Nel qual passo due cose sono dà notare: 1* che 10 eis kólasin aidnion, che si traduce * a punizione eterna », non vuol dire pròpriamente eterna, ma immensuràbile, che si misura soltanto -per età (vedi Yaidn a proposito della fine del mondo)’, e, molto probabilmente, qui, Yaiónion significa soltanto appartenente all’aiòn méllon, ossia all’età avvenire; nel qual caso, il castigo aiónios sarebbe soltanto la vita o il castigo che segue la morte, in opposizione alla vita presente e ai castighi Che spesso colpiscono i peccatori nel mondo; 2» che il Mlasis (dal verbo kotózo, potare) è il castigo che mira a migliorare, a educare colui che lo subisce. Quando si vuol indicare la punizione che ha per scopo di soddisfare la legge
, o la giustizia offesa, in greco non si dice Mlasis, ma timoria (Ebrei, io, 29).
(3) Efes., 1, io.
(4) 1 Cor., 15, 28. Confr. Giov., 12, 3.2; Atti» 3, 21; Rom., 5,12-21; Filipp., 2, 9-11.
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zi L. JI 1. Ill
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“SEGNI DEI TEMPI,,*?
Se una nube appare al tramonto, dite: « Vuoti piovere!•, Se il vento soffia dal mezzogiorno, dite: « Ü il caldo! •. Ipocriti! Sapete scrutare Vaspetto della terra e del cielo; come mai non sapete discernere ugualmente i segni dei tempi iu cut siete?
Imck, XII. 56 e Marzo, XVI, 3.
Iiorno dopo giórno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, il conflitto lentamente si svolge, come un serpe dagl’innumerevoli anelli. Vi sono Ore di pesante attesa e d’oscurità, in cui l’orrore ci soffoca, in cui l’angoscia ci asfissia; l'atmosfera I d’un globo grondante lacrime e sangue ci diventa irrespirabile. Allora, dal nostro cuore vacillante, si sprigiona un cupo gemito verso la pace, una pace immediata, ad .ogni costo; è il grido del malato che soffoca e domanda una boccia d’ossigeno. Ma la
crisi è passeggera. La voce del' Cristo ci desta; essa ci strappa alla nostra angoscia personale e ci-ricorda che bisogna guardare, non ai nostri piedi, ma al firmamento, per decifrarvi i segni dei tempi.
« La pace immediata e ad ogni costo! «. Formula di tradimento riguardo ai nostri difensori, perchè, sacrificando la loro vita, essi pretendono salvaguardare l’ideale; e non potremmo, senza rinnegarli, acconsentire ad una calma superficiale che sarebbe una tregua momentanea, un semplice armistizio. Uno dei maestri della nostra Scuola domenicale, pura e nobile figura, è caduto testé sul campo di battaglia; i suoi compagni d’arme hanno trovato un taccuino di appunti dovagli aveva scritto i pensieri seguenti: « Non mi si manda a farmi uccidere, offro la mia vita per le generazioni future. Io non muoio: cambio assegnazione ». O generoso amico! la visione dell’avvenire sosteneva il tuo giovane coraggio. Ebbene! lo giuriamo, la tua ferma e serena speranza non sarà ingannata.
(•) Discórso pronunziato a Parigi il 27 giugno 1915.
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Sì, noi sappiamo che la guerra « di consumo » in cui siamo impegnati, ad un tempo tremenda e sublime, odiosa e grandiosa, non avrà prodotto quaggiù alcun risultato definitivo, cioè alcun risultato morale, s’essa produce soltanto lo spostamento delle frontiere. Lo scopo che bisogna raggiungere è un cambiamento di mentalità in Europa. Gli eserciti di preda ñon escono dalle caserme, escono dal cuore umano; .Gesù ha dichiarato che lo spirito di omicidio ha la sua tana dentro i petti. E quindi nessuna pace sarà effettiva fintantoché la guerra attuale, per la stessa sua durata, accumulando le sofferenze, prolungando il martirio, stirando al laminatoio l'agonia delle nazioni, non avrà purificato radicalmente le anime dal pregiudizio guerriero.
I nostri sacri libri raccontano che l’Eterno dichiarò agli Ebrei, nel deserto: « Voi mormorate, reclamate della carne? Sia pure! Ne avrete fino alla sazietà, fino al disgusto ed essa vi uscirà dalle narici! ». Del pari, i dolori dell’Europa si aggraveranno sino a che essa vomiti il militarismo.
Dunque, lo sentite bene, la guerra che rugge quaggiù, sul piano fisico, la guerra materiale (per quanto mostruosa e tonante essa sia) non è essa stessa che un pallido riflesso, un’eco indebolita del silenzioso ed invisibile combattimento che avviene, sul piano morale, tra idee, tra principi; e fintantoché l’altare della violenza non sarà stato rovesciato, disonorato, polverizzato in fondo alle anime, sarà troppo presto, ahimè! per suonare nella notte — daU’Irlanda all’Ural, dall’isola di Heligoland all’isola di Sicilia — sarà troppo presto per suonare il: « Cessate il fuoco! ».
Ma facciamoci coraggio; la lenta progressione dell'ombra sul quadrante solare lavora per la verità che salverà i popoli; ed ogni nuova giornata di massacro è un chiodo in più nel cranio dell’Oloferne guerriero.
In quanto a noi, fratelli, noi che rivendichiamo il Cristo come Maestro supremo, abbiamo il dovere di utilizzare questa lunga prova, questo doloroso purgatorio, per osservare i « Segni dei tempi » e raccogliere gl’insegnamenti solenni dell’ora presente. Bisogna che l’oggi prepari il domani. E mentre lo spirito infernale scava, suo malgrado, il tetro sepolcro dove s’inabisserà la guerra, bisogna* che lo spirito evangelico prepari la culla della Pace, una'culla meno fragile che il cofanetto, di giunco in cui vagiva Mosè alla superficie del Nilo, una culla meno sudicia della mangiatoia di Betleem.
In definitiva, se un'èra nuova deve risplendere per la cristianità, bisogna che il suo cristianesimo subisca una vera e propria rifusione. E anzitutto dal punto di vista morale (1).
1 In certi ambienti s’insorge contro una simile affermazione. Ci si replica: «Aprite dunque gli occhi! Rendete l’onore dovuto al temperamento nazionale.
(1) Quanto segue, che si riferisce direttamente alla Francia, il lettore saprà applicare, colle dovute cautele, all'Italia. (N. d. T.)
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alla qualità del nostro sangue. Senza dubbio, prima della guerra, la Francia aveva cattiva fama all’estero; la si considerava qua e là come imputridita, avvelenata dall'assenzio e dalla pornografia, ròsa dall’ateismo e dalla cancrena rivoluzionaria. E i pessimisti predicevano che la depravazione ci trascinerebbe all’abisso. Vani spauracchi! Al suonare a martello delle campane, il nostro popolo d’un salto fu in sella dietro al vessillo dei Diritti dell’uomo; e, per difendere la Patria in pericolo, ei ritrovò l’entusiasmo dei volontari del 1792 ».
Ammétto tutto questo. Ma dobbiamo noi concluderne che i cavalieri del Dovere avevano torto nei loro avvertimenti? Dobbiamo noi proclamare ch’è indifferente di « vivere secondo la carne », poiché il pericolo stesso ci comunicherà la grazia di « vivere secondo lo Spirito? ». Mille volte no! Non lasciamo -scuotere in noi le stesse assisi della coscienza.
Se la nostra Francia ha stupito il mondo col suo splendido atteggiamento in faccia a Golia, ricordiamoci la virtù nascosta che emana, in ogni nazione, dai « sette mila uomini che non hanno piegato il ginocchio dinnanzi a Baal ». Ricordiamoci altresì che una grande causa ingrandisce coloro che la servono. Anche se indegno quando preso isolatamente, l’individuo è talvolta trasfigurato dallo slancio collettivo della crociata che lo arruola. Ma, sopratutto, non dimentichiamo che certi soprassalti non si ripetono. Caduto in acqua per imprudenza, un uomo può dare il colpo di reni che lo salva; non è una ragione perchè giuochi una seconda volta colla morte: l’organismo sfinito rifiuterebbe di compiere lo sforzo. Dopo tutto, senza le nostre alleanze terrestri e marittime, la nostra patria, indebolita dallo spopolamento, avrebbe dessa arrestato il precipitarsi dell’invasore? Ora, la diminuzione inaudita delle nascite, nel nostro paese, era legata all’immoralità; tanto che il corrompersi dei costumi ci ha per poco gettati nel precipizio.
Quale ammonimento per l'avvenire! Quale appello del Dio santo! Quale compito immenso, sin dà domani, per i. missionari del Dovere!... Ahimè, noi rabbrividiamo d’un’inquietudine patriottica, constatando che la guerra stessa non riesce a svegliare certe coscienze. Veniamo a sapere che la marea dell’alcool — schifosa inondazione! — guadagna villaggio dopo villaggio e continua a salire; il sussidio alle donne dei richiamati si trasforma, troppo spesso, in acqua di morte; intorno alle nostre caserme, alle nostre ambulanze, ai nostri depositi di convalescenti o di mutilati, pullulano le bettole. Ho visto coi miei occhi un uomo ubriaco cadere da un vagone della ferrovia metropolitana sulla banchina: portava l’uniforme del nostro esercito. Altrove, in piena Parigi, un ferito brillo è caduto così malamente che si è riaperta la sua piaga. E questa penosa orgia è accompagnata troppo spesso da una sfrenata licenza dei costumi, propagata, eccitata dall’atmosfera di febbre in cui viviamo e dalla disorganizzazione dei focolari domestici. Varie volte, e da varie parti, ho ricevuto in proposito una documentazione desolante.
Ah! fratelli miei, è dunque in questo modo che la nostra Francia diletta, così valorosa, così generosa, si prepara a rifiorire, dopo la guerra? I discepoli sinceri e intelligenti di Gesù esiteranno dessi più a lungo a predicare l’Evangelo
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del pentimento? Acconsentiranno dessi, d’or’innanzi a un desolante malinteso, a quel vergognoso pervertimento del cristianesimo che si strascica come un gaz asfissiante alla superficie del territorio e secondo il quale un uomo immorale nella sua condotta privata potrebbe però rimanere un uomo religioso?
Capite bene, vi prego, in quale spirito io formulo simili domande. Se seguissi soltanto gl’impulsi del mio cuore, non udreste che parole di ardente simpatia e di commossa tenerezza; perchè soffrite crudelmente, soffriamo tutti in un modo che ci pare, in certe ore, intollerabile; e veniamo insieme in questo santuario, come ci si rifugia in un asilo, per cercarvi aiuto e protezione contro innominabili terrori che sono i fantasmi delle nostre notti. Bramiamo tutti la consolazione e il coraggio. Ebbene! non dubitatene: quelle benedizioni divine sono inseparabili dalla divina verità. Non sul terreno del sentimento e dell’immaginazione» ma sul terreno della coscienza, noi incontreremo il Dio del Vangelo; saremo tanto meglio consolati, tanto più coraggiosi, quanto più obbediremo allo Spirito santo. Ed ecco perchè, nonostante le vostre lacrime, io v’invito ad allargare il vostro orizzonte, a studiare i segni dei tempi.
Ora, meditando sul problema della moralità individuale, in Francia, siamo trascinati nel campo della moralità sociale. Difatti, se le passioni guerriere devono a poco a poco ammortizzarsi nel regime futuro, perchè gli uomini eserciteranno un imperio sempre più conscio sopra i sussulti ciechi dei loro istinti, bisogna almeno che gli usi, le istituzioni, le leggi favoriscano la pacificazione interiore delle anime, invece di eccitare le disposizioni combattive di ogni individuo, quelle che lo isolano e che lo rizzano contro il suo prossimo.
Ahimè! nel secolo scorso una filosofia barbara, quella della «lotta per la vita », ha preteso reggere la società. In nome della storia naturale si è andata a cercare tra gli zoofiti stupidi e fra i carnivori sanguinari la regola che deve presiedere agli scambi normali e alle relazioni morali in un'associazione di creature pensanti. E si è finito coll’esaltare, sistematizzare, codificare, idealizzare un regime di concorrenza illimitata, anarchica che costituiva in piena pace, una guerra civile allò stato crònico, una guerra in sordina la quale, fatalmente, scivolava con tutto il suo peso verso la guerra internazionale.
Forsechè la famosa formula: « Gli affari sono gli affari » non è la tacita confessione che v’è lì un terreno di caccia riservala in cui i principi evangelici non possono avventurarsi che a loro rischio e pericolo ? Qual’è l’uomo di cuore, ad esèmpio, impegnato nel commercio, che non avrà un giorno o l'altro emesso, un gemito di fronte all’obbligo inesorabile di spingere il proprio carro stritolando un concorrente? Qual’è l’uomo intelligente che non avrà sospirato al pensiero dello stravagante spreco di sforzi imposti dal sistema del «ciascun per sè»? Le aspirazioni più fraterne delle anime più delicate sono schiacciate sotto il rullo compressore d’un ideale egoista, che subordina brutalmente l’utilità generale al profitto particolare.
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Ma, se il terreno commerciale è cosparso di rovine e di feriti, è però il campo industriale che rivelava ieri ancora in tutta la sua acuità un tragico stato di guerra. Lì s’affrontavano due eserciti organizzati: capitale e lavoro, impieganti e impiegati, classe contro classe. Allo sciopero decretato dagli operai, e che minacciava l’avvenire dell’opificio, rispondeva, da parte del padrone, la serrata che scatenava lo spettro della fame. Era la lotta visibile, concreta, talvolta sanguinosa, in cui il più debole soccombeva. D’altronde, il conflitto degli interessi antagonistici passa, molto spesso, inosservato; e sono allora macine anonime che stritolano oscuramente l'operaia che fa della « confezione a domicilio » : donna senza difesa perchè isolata, oppure donna carica di figliuoli.
In verità, in verità, una civilizzazione così orientata potrebbe mai godere della pace, d’una pace profonda e definitiva? Scrutiamo i « ségni dei tempi » e cristianizziamo il cristianesimo! Occorrerà che i discepoli chiaroveggenti di Gesù abbiano l’ingenuità, dopo la guerra, di porre nettamente la questione sociale nei nostri Sinodi e nelle nostre Chiese, nelle nostre adunanze di preghiera e nei nostri circoli di studi biblici e finalmente alla tavola della comunione in cui brilla ancora, misterioso — tale un furtivo raggio di luce in qualche quadro di Rem-brandt — il riflesso del comunismo evangelico di Gerusalemme.
La Santa Cena! Quale evocazione! Quale programma! Ah! la cristianità dell’avvenire non sarà soltanto più pura e più giusta, sarà altresì più unita: e per questa via, ancora, servirà, gloriosamente la causa della pace mondiale.
Lavorare all’unione degli uomini... 0 Dio mio! le parole mi mancano per celebrare questa felicità della ragione, questo paradiso del cuore. « Quando sarò stato alzato sulla croce, profetizzava il Cristo, la mia potenza di attrazione raccoglierà intorno a me tutti gli uomini ». Con una tale certezza colui che stava per essere crocifisso poteva sorridere, interiormente, alla crocifissione.
Unire gli uomini, riunire le loro anime, associarle in fasci, raccoglierle in mazzi, in covoni, in grappoli, formare colle loro viventi personalità una collana mistica, una corona spirituale, una costellazione...una famigliai Ma è questa l’opera divina; è l’essenza della Redenzione.
Perchè possiamo noi, malgrado tutto, sopportare l’orrore dei tempi attuali e gli appelli truci e disperati dell'odio che, giorno e notte, muggono intorno a noi come sirene folli — perchè? se non perchè riprendiamo vita, perchè risuscitiamo, non appena l’Unione sacra, quel viatico soprannaturale, queU’elisire d’immortalità, tocca le nostre labbra febbricitanti? Malgrado gli abbaiamenti delle Furie guerriere, siamo consolati, rassicurati, trasformati da una sola goccia- del miracoloso liquore: l’amore fraterno, la riconciliazione dei partiti, l’intesa francese.
Ebbene! ciò che il patriottismo ha potuto realizzare, l’Evangelo sarebbe incapace di compierlo? Tra tutti coloro che invocano il Cristo esiste pure un accordo fondamentale, un’armonia prestabilita. Lo spirito di Gesù è il raggio luminoso che, brillando nella tempesta, fa scaturire dalle nubi, come un sorriso, i sette co-
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lori del prisma, fusi nell’arcobaleno. I nostri protestanti rimarranno dunque divisi?... «L’Unione sacra»: sul terreno politico, sì, ma sul terreno religioso, no?... Fratelli miei, è questo un discendere i «segni dei tempi?».
In realtà, è cosa malinconica e quasi scandalosa di predicare, nella Chiesa, l’unità dei cristiani; perchè dovrebbe compiersi in modp spontaneo, ad un tempo lieto e patetico, irresistibile, non appena due cuori umani battono pel Figliuol dell’uomo. E, da questo punto di vista, l’unione protestante sarebbe un primo passo soltanto; perchè, ai piedi della croce, un cristiano cattolico e un cristiano riformato (quando sono anzitutto discepoli del Salvatore) vibrano dei medesimi sentimenti, palpitano all'unissono, dimenticano i dommi che li separano. Le Chiese elevano barriere, ma l’Evangelo costruisce ponti; e due cristiani sinceri, quando si anatematizzano a vicenda, sono le vittime incoscienti d’una allucinazione.
Per lavorare alla pace del mondo, il cristianesimo dell’avvenire metterà in evidenza queste grandi verità; e, così facendo, abolirà non solo i dissensi ecclesiastici, ma le ostilità nazionali. Non è forse stato l’apostolo Paolo che, nell'Areo-pago, davanti ad un uditorio di Ateniesi, proclamava in questi termini la realtà del genere umano: « Dio ha fatto pascere d’un solo sangue tutta l’umanità? ». In quel discorso di propaganda, in cui il missionario si applicava ad enunciare proposizioni incontestabili, ei non temette di esprimere, come un assioma, quella intuizione magnifica. Era persuaso che la coscienza pagana la sottoscriverebbe di primo acchito. Ma, se così stanno le cose, in che modo caratterizzare la decadenza d’una cristianità che indietreggerebbe davanti a questa affermazione elementare? Ma come! non ardiremmo più ripetere, coi filosofi della Grecia, che l’umanità forma una sola famiglia? Eppure, i savi dell’antichità, in appoggio a questa credenza ammirabile e feconda, si limitavano ad evocare il mistero iniziale della creazione, la porpora d’un medesino fiume scorrente, dalle origini, nelle vene di tutti gli umani; mentre i cristiani, iniziati a ben altre rivelazioni, esaltano la virtù d’un sangue sparso sul Calvario per la salvezza del mondo! Che dico? essi pretendono partecipare, tutti insieme, sulla terra intiera, nel sacramento della Santa Cena, al medesimo sangue- del Redentore. E simili dottrine rimarrebbero sterili per la fusione delle anime, per la Federazione delle Chiese, per la costituzione d’una cristianità universale? Ma non capite dunque che, se mai acconsentissimo, deliberatamente, a dilaniare in questo modo il corpo del Cristo e a squartarlo, commetteremmo il peccato contro lo Spirito Santo, il peccato che non può essere perdonato?
No, fratelli, miei no! Raccoglieremo una delle prime lezioni della guerra; abbandoneremo pregiudizi secolari, malintesi insensati, errori e colpe crudeli. D’altronde, la generazione che sale, in seno alle nostre Chiese, si rifiuterà di calpestare più a lungo il solco delle vecchie carreggiate. Le Associazioni cristiane dei giovani e la Federazione universale degli studenti cristiani sono associazioni internazionali; esse hanno, solennemente, spiegato il vessillo d’un Re pacifico e che vuol regnare sul mondo intero. Coraggio, diletti amici, candidi e arditi pioneri
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dell'èra nuova! Aiutateci, sempre maggiormente, a discernere i « segni dei tempi » è siate benedetti! L’avvenire è al vostro Vangelo.
Termino su questa parola di speranza.
Ricordate uno dei racconti pili drammatici e più consolanti dell’Evangelo: la guarigione del frenetico chiamato Legione. Questo pazzo furioso aveva il suo covo nelle caverne che servivano di sepolcri pei morti. Di là si slanciava, urlante ed ignudo, sugl’imprudenti che si smarrivano da quelle parti. Varie volte si era riusciti ad incatenarlo, ma egli aveva, ogni volta, rotto i suoi ferri. Armato di sassi, coi quali feriva sè stesso, errava sanguinante per i monti e i suoi urli selvaggi salivano, nella notte, verso le stelle. Orbene, Gesù guarì queirindemoniato e lo tra* sformò in evangelista.
Questa conversione non è dessa una parabola adatta alle nostre circostanze? I popoli europei sono paragonabili a quel posseduto: anch’essi delirano, anch’essi turbano con vociferazioni forsennate il silenzio delle campagne; sono rossi per le ferite e soggiornano tra le tombe; essi ben meritano che si applichi loro il nome formidabile tolto ad imprestito dal linguaggio militare degli' antichi Romani : Legione'.
Ma essi incontreranno il Salvatore. Sì, lo credo con tutta l’anima mia, la liberazione è certa e forse prossima. In mezzo alla tempesta fluttua il profumo della tua presenza, o Redentore. Giammai tu sei apparso più necessario alla nostra angoscia, ma giammai abbiamo sentito, in modo così intenso, la tua prossimità. La tua forma benedetta appare già, fosforescente e profetica, tra le nostre-tenebre. Vieni a guarire il pazzo furioso, vieni ad esorcizzare il demone della guerra; e domani — chi lo sa? — domani!... l’Europa, finalmente pacificata, rigenerata, trasfigurata, diventata quaggiù testimone e messaggera dell’Evangelo, propagherà la salvezza fino alle estremità del mondo.
WlLFREDO MONOD.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XIT.
PROGRESSO E FELICITÀ
L’influenza di H. Bergson è stata e continua ad essere così larga éd intensa ed essa si è spiegata in senso sì nettamente spiritualista che un suo giudizio sull'etica ha per noi una notevole importanza. Segnaliamo quindi alcune pagine che di lui pubblica la Rcvue del i°-i5 febbraio scorso: sono un.breve rendiconto di uno studio in due volumi di Jean Finot, intitolato: Progrès et Bonheur; il Bergson accoglie il pensiero fondamentale del Finot e lo fa in qualche modo suo.
■ Quest’opera », egli scrive «è uno studio Senetrante e profondo delle condizioni ella felicità, allo stesso tempo che una affermazione energica della realtà del progresso. La filosofia, dice l’A., è innanzi tutto la scienza della vita. Lungi dall’isolarsi dai suoi con temporanei, il filosofo dovrebbe avvicinarsi ad essi, sondare le loro miserie, le loro gioie e dolori. Egli non abbandonerà, per questo, i grandi problemi metafisici; ma ne orienterà la soluzione verso la pratica; tutto il suo sforzo tenderà alla costituzione di una dottrina che fornisca all’uomo una regola di, condotta e gli serva di sostegno nella vita. La filosofia ci dirà così dove è il dovere; e ci dirà anche dove è la felicità.
« Poiché, secondo Finot, felicità e dovere non differiscono essenzialmente.* Il i° volume dell’opera è consacrato, in gran parte, allò studio dei diversi sistemi di morale che furono proposti dai filosofi antichi e moderni. Essi sono di
visi dall'A. in due categorie, secondo che oppongono la felicità al dovere o, al contrario, considerano la felicità come Io scopo legittimamente assegnato al nostro sforzo. Alle dottrine del primo ge- * nere egli rimprovera d’essere delle pure costruzioni dello spirito, di porsi fuori delle condizioni della realtà, di non tener conto della vita. Alle dottrine del secondo genere, quali sono esposte dai moralisti dell’antichità, egli si associerebbe volentieri, se fossero sempre conseguenti con se stesse, se, partiti alla ricerca della felicità, ; filosofi non si smarrissero il più spesso per via e tenessero conto di tutti gli elementi di questa, in luogo di rimpiccolirne l’idea, o persino di degradarla, come fanno quando riconducono la felicità al semplice piacere.
«Date all'idea di felicità tutta la sua estensione, che è vastissima, e mettetela al suo vero posto, che è altissimo; e troverete che essa è una cosa sola con la moralità. L’esperienza ci mostra che la bontà e l'amore, sorgente di felicità per gli altri, la procurano innanzi tutto a quelli che li praticano. Solo la ricchezza che è il risultato di uno sforzo utile agli altri offre gioie reali. Il lavoro genera una soddisfazione durevole. La vita di famiglia, basata sull’amore e sul rispetto mutuo, fa il più gran bene ai suoi membri. Da ogni parte ci giunge lo stesso monito: ci è impossibile godere di una felicità nobile e durevole, all’infuori di quella del nostro prossimo.
« Il problema del dovere si confonde così con quello della felicità. Ma non si creda che questo secondo sia facile a ri-
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solvere. L'istinto può servire di • guida quando si tratta del semplice piacere; ma la felicità è tutt’altra cosa. Essa non si ottiene che dalla collaborazione dell’intelligenza e della volontà. C’è una scienza della felicità; ed all’approfondimento di essa è dedicato il secondo volume» là parte fórse più originale della opera del Finot ».
Dopo aver tratto da questo alcuni giu-dizii, Bergson continua: « Noi troveremo dunque, ih fin dei conti, che la questione •come esser felici ’ si riduce spesso a que-st’altra: ‘come praticare la bontà’, poiché la reale felicità è la gioia che apporta il ben fare. Impariamo e insegniamo dunque la bontà. Un corso di bontà nei licei? L’idea sembra paradossale; ma il paradosso di oggi è spesso la verità di domani ».
Ridotta così la felicità — in francese bonheur, parola che include già il concetto di bontà —■ ad esser la gioia dell’esercizio del bene, la disputa teorica su questo eudemonismo del Finot, al quale par che consenta Bergson, diverrebbe vana; poiché . certo il compimento del bene non può essere in ultima istanza danno ma vantaggio e gioia di chi lo compie; se è vero che il bene ci è imposto dalle stesse fondamentali esigenze del nostro essere e che essere più pienamente e riccamente è la sola vera felicità di ogni cosa che esiste. E, progredendo per questa via, non si può non trovare che la disciplina morale, con le limitazioni c le inibizioni che essa esige, il dolore virilmente accettato, il sacrificio di qualche o di ogni utilità strettamente personale e della stessa vita fanno l’uomo felice', di quella felicità, diremmo quasi, metafisica, che è appunto la gioia del compimento del bene, del proprio dovere sino all’ultimo, per l’assoluto e quindi universalmente umano valore che esso ha.
Il moralista non dice all’uomo: se vuoi viver bene cerca la felicità; ma sì: ora ti spiego quale felicità devi cercare se vuoi viver bene. Egli quindi critica e risolve in altro la concezione utilitaria ed, eudemonistica della morale. L'ottimismo di J. Finot è, in sostanza, la dimostrazione che la bontà conduce al maggior bene del maggior numero di uomini; e che quelli i quali trovano nella bontà una legge di mortificazione e di, rinuncia amara debbono confortarsi al pensiero della felicità che discenderà per altri dal loro atto; cioè, in definitiva, del bene che è tale per sè e quindi per tutti.
SPIRITISMO E SPIRITUALISMO
Ha suscitato vivissima impressione in Inghilterra un volume dell’insigne chimico Oliver Lodge: Raynund, or Life and dcath (London, Methuen and Co. 1916) in cui sono con grande sincerità e precisione di dettagli riferite esperienze spiritiche nelle quali egli ritiene di avere avuto comunicazioni da un suo figliuolo di 18 anni morto, nella primavera del 1916, al fronte francese. In base ad esse sir O. Lodge crede di sapere che suo figlio, della cui ventura morte l'annuncio gli era stato da£o in forma, ambigua sinché essa non avvenne, ma poi chiarita dall’evento, vive, in comunione con il dottor Myers, il celebre autore del libro sulla immortalità provata mediante lo spiritismo, cd altri « spiriti » affini e segue le vicende dei suoi e della guerra dalla quale la sua giovane esistenza fu travolta e si affatica a cercare, nel linguaggio parziale e frammentario che lo spiritismo consente, comunicazione con quelli che sono di qua.
O. Lodge, uno studioso adusato all’uso minuziosissimo dei più severi metodi di indagine chimica, ha scritto le sue pagine con una candida persuasione di certezza dalla quale molti lettori avidi sembra si lascino persuadere. E la discussione ferve, nei giornali e per le riviste.
Nella Fortnightly Review di marzo uno degli increduli, John Beattie Crozier, espone con linguaggio molto misurato le ragioni di esser cauti, e le riserve che anche i nuovi esperimenti, interpretati nella maniera più favorevole, suggeriscono. Essi, dice il Crozier, non aggiungono sostanzialmente molto alle celebri comunicazioni di Mistress Piper ed al materiale abbondante raccolto e vagliato dalla Società di ricerche psichiche; nè inducono ad abbandonare l’interpretazione data dei fatti più notevoli e più certi come di fenomeni di trasmissione del -pensiero fra viventi. Le vie di questa trasmissione, le cause fisiche che la rendono possibile, i fatti psichici che la accompagnano sono ancora in parte avvolti nell’ombra; ma che essa avvenga, il Crozier ha finito con l’ammettere, dopo lunghe negazioni ed esitazioni. Quanto all’andare oltre, egli suggerisce al lettore: aspetta e osserva; pensaci due volte.
Il ponte fra lo spiritismo e lo spiritualismo non è ancora lanciato; non-si può cioè dire, per molte ragioni, che nelle esperienze spiritiche intervengano davvero per-
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sone morte e che da esse noi riceviamo notizia di un altra forma di esperienza e di vita umana nella quale sieno entrate. E diciamo persone e non spiriti; perchè, a ogni modo, per chi di quel che significa la parola spirito abbia una qualche idea filosofica, è chiaro che non si tratta qui di atti e di rapporti spirituali; ma la persona del morto, invocata a spiegazione dei fatti spiritici, agisce fisicamente, e attraverso mezzi fisici di trasmissione, e deve essere in ogni caso supposta unita a una qualche più sottile materia, a un corpo di quelli che immaginano i teosofi, così ricchi di immaginazione e così ingegnosi, dice il Crozier, a presentare come cause dei fatti i fatti stessi, ai quali Si è dato un altro nome. In ogni caso, quindi, si tratterebbe di una estensione del campo dell’esperienza, di una continuazione, su di un piano di questa che è altro solo per- ragione dei limiti dei' nostri sensi e delle nostre presenti conoscenze scientifiche.
E che di questo, se mai, possa trattarsi, anzi che nemmeno di questo si tratti, in realtà, ma di semplici, per quanto ancora inesplicati, rapporti fra vivi, nel senso comune e corrente della parola, lo mostra un argomento ài quale, osserva il Crozier, non si-è ancora potuto rispondere: il fatto cioè che tutte queste comunicazioni spiritiche, quelle che il I.odge racconta con tanta evidenza e con tanto pathos paterno non escluse, non aggiungono nulla alla nostra conoscenza della vita e delle cose; e sempre esse appariscono indissolubilmente legate alla cultura, al mondo di rappresentazioni e di credenze proprio di chi vi partecipa. Dalle molte insulsaggini, note a chiunque abbia un poco di esperienza spiritica, sino alle più sottili e caute esperienze, l'orizzonte della nostra conoscenza attuale mai apparisce sorpassato; mai si è avuta l’esperienza di un pensiero il quale si aggiungesse davvero, come contributo nuovo, alla somma delle precedenti conoscenze e mostrasse nell'estenderle e integrarle la sua fecondità.
Sicché alcuni suggeriscono esser noi dinanzi a un tentativo, fra le due rive divise dalla morte, di prender contatto attraverso al debole filo, od alla telegrafia senza fili, dei fatti spiritici. E sia. Ma, nell’attesa che il contatto sia stabilito, noi abbiamo ancora il diritto é il dovere di dire che trasmettitore e ricevitore sono pur sempre su questa nostra sponda; e di notare il valore spiritualmente e idealmente
negativo di tutto quello che sinora ci si presenta come venuto dall’altra sponda; e di vedere in esso un giuoco di immaginazione mossa da una pungente e insoddisfatta curiosità.
I MITI POLITICI
Le necessità create dalla guerra dànno luogo ad una larghissima discussione sui doveri politici di oggi e del dopo guerra; ma assai raramente esse si elevano ad una vera importanza filosofica. Sotto questo aspetto vanno segnalati un articolo di Maffeo Pantaleoni nella Vita Italiana del settembre scorso, sui miti politici, e alcune osservazioni che a quell’articolo faceva R. Murri nella Nuova Rassegna, numero 5-20 dicembre.
Ognuno di noi si augura ed auspica una politica rispondente ai veri interessi collettivi. E sta bene; mà quali sono questi veri interessi? «Questi nessuno conosce. La storia paleserà quali essi sieno stati, quando non servirà più agli uomini politici conoscerli ». Neanche la storia, M. osserva, li paleserà; perchè essa arriva troppo tardi, quando la situazione politica dalla cui visione chiara ed intiera doveva emergere l’equilibrio delle volontà nella volontà nazionale e la sintesi sarà già profondamente modificata e risolta in altra situazione; e allo storico, che apparterrà a questa, sarà impossibile ricostruire fedelmente quella. Quel che l'intuizione non seppe non saprà la riflessione.
Ma perchè non può un popolo conoscere i suoi veri interessi? Perchè fra esso e la realtà si frappone il mito, anzi un complesso vario e cozzante di miti politici. « La concezione che le masse hanno degli interessi politici di un paese è facile a essere riconosciuta, perchè è formulata in principa politici, ossia in miti, nel linguaggio di Renan e di Sorel. Sarà il « principio di nazionalità»; sarà la • dottrina di Monroe »: sarà il « mito democratico »; sarà la « concezione imperialista »; sarà « l’autonomia economica » o «il nazionalismo economico»; sarà la « fratellanza dei popoli »; sarà • l’unione del proletariato »; in breve, sarà una qualche balordaggine, quale è connaturale alle emotività ed alla mentalità semi-infantile delle masse, e che è importantissima, perchè non solo ne determina l’azione, ma s impone anche a chi nelle masse vuole influire, essendo la sola porta apèrta nel loro comprendonio.
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A questi miti popolari le classi colte aggiungono poi i loro: c la cosa si complica. E spesso gli intellettuali finiscono per esser presi dai loro propri miti; e ciò è pericolosissimo. Peggio quando « i miti sono ad un tempo antichi, ma ancora vivi nel sentimento popolare, e sono messi in circolazione dalle classi dirigenti, e hanno una lunga parentela con altri miti. Così da noi il 'principio di nazionalità’ è imparentato con parecchi miti della democrazia italiana: è antico, relativamente, ma vivo nel volgo, e per giunta rismerciato dalle classi ■ dirigenti. È perciò una bomba ad alto esplosivo ».
Ora questi caratteri che il prof. P., nota il M., accumula per indicare la massima « virulenza ■ di un mito sembrano essere invece quelli, appunto, che meglio possono garantirci della sostanziale verità di esso. Perchó quando a dar vigore ad un mito si uniscono la tradizione, il sentimento popolari?, la cultura, la parentela con altri miti, io non veggo quali maggiori garanzie si possano avere della rispondenza di esso con la realtà. L’efficacia e la potenza motrice di un mito sarebbero segno di un tanto maggiore pericolo se, per intendere là real-. tà politica e i veri interessi, si potesse e si dovesse fare a meno di miti; se la realtà Sotesse e dovesse esser veduta e saputa irettamente, se il mito fosse all’intelligenza chiara quel che lo specchio appannato o curvo è allo specchio piano e terso.
Ma una realtà politica in sè non esiste; e il mito è l’espressione ovvia e necessaria di quella realtà politica che sola esiste, ed in cui l’interesse si identifica con la coscienza di quell’interesse e questa con il mito che la esprime. Se ci fosse una realtà Solitica in s¿, a parte dalia valutazione e alle mitiche espressioni degli interessati, questa sarebbe la realtà economica, formulabile in misure e numeri e tabelle. Ma la psicologia del popolo tedesco in guerra è esempio tipico del come un interesse economico massimamente perspicuo agisca solo trasformandosi in mito. La merce diventa bandiera, l'interesse nazionale vero è la nazione, l’impero, la guerra imperialistica. 11 resto è astrazione, irrealtà.
In altre parole, il mito non nasce da difettosa visione degli interessi veri di un popolo; nasce dalla natura stessa di questi interessi, che non sono economici, o politici, o territoriali, soltanto o principalmente, ma sono fatto di coscienza, di sentimento, di volontà. In essi un popolo esprime se
stesso; .cioè il suo modo di considerare la vita (cultura), il suo sentimento, le sue aspirazioni. L’interesse suo unico, perchè è il suo stesso impulso e istinto vitale, è di far la sua storia secondo che esso stesso è e si fa interiormente; anche rischiando tutto per tutto, se l’avvenire sognato e intensamente voluto ha una talé vivezza di valóre da render trascurabili e il passato e il presente se non per ciò che m essi invoca e prepara quell’avvenire.
Ma ci sono dei miti popolarescamente Euerili, dei miti febbrili, dei miti pericolosi. Otaìi miti vanno esaminati, caso per caso, per quello che sono; quello che esprimono è interesse vero, ma non l’interesse dei più o il più vero interesse. I war-lraders, gli industriali avidi di protezione, i professori avidi di applausi abusano del mito della « nazionalità »: al loro interesse, prettamente individuale, si associa un altro interesse: l’interesse che hanno molti altri individui a sentirsi più forti, più fieri, pili intensamente vivi in uno Stato forte, fiero, dominatore. Questi secondi non sono vittima dell’inganno dei primi, si trovano d’accordo con essi, e alimentano quegli altri interessi parassitari della esuberanza del loro succo.
L’essenziale è di avere un criterio per valutare e graduare i miti; e che non sia esso stesso un mito; o almeno che sia il mito più vasto, più comprensivo e più veramente ricco. Quelli Che dobbiamo temere, per la unilateralità loro, sono i miti di gruppo, di classe, di scuola; miti particolaristici, e, in quanto tali, pericolosi, anche se si ammantino di universalità. Esempio, il mito dell’« internazionalismo » socialista. Una unione collettiva, internazionale, degli interessi dei lavoratori è un altissimo mito, poiché l’unità vera di interessi così realisticamente diversi e disparati non può esser cercata che in conquiste universalmente umane. Ma nella psicologia del socialista volgare quel mito è un'altra cosa: è il sentimento di avversione di una classe contro, le altre, il .pretesto per ripudiare collaborazioni vicine e vantaggi sicuri ma modesti; vorrebbe essere più che la nazione ed è meno di essa. Il contrasto è fra una realtà piccola, gretta, esclusiva e una realtà più grande, quella che il mito, di sua natura, suggerisce, al-l’infuori della deformazione sua negli incolti.
Così è del mito « nazionale ». In quanto esso dice coordinamento degli interessi
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singoli e di gruppi in una unità più vasta, è sano e fecondo, perchè quel coordinamento non può esser compiuto se non con la virtù di superare se stessi, come individui e come gruppo; diviene pericoloso in quello che assume di esclusivo e di antiumano in chi non sa considerare la sua nazione nell'insieme delle nazioni, o di altre nazioni.
In conclusione: il mito è l'espressione naturale e necessaria degli interessi collettivi, in quanto essi non sono cose ma coscienza e volontà; lo sviluppo normale dei miti tende a superare interessi ristretti in una più ampia sfera di interessi, presentati, in cospetto di quelli, come ideali: i miti più ricchi di verità sono i più universalmente umani, in coscienze che si sieno elevate ad essi con un effettivo processo di risoluzione e di in vera mento, e non li diminuiscano ed impiccoliscano a sé, facendone una menzogna e una maschera.
MORALE E METAFÍSICA
Un teologo francese, A. D. Sertillanges, ha testé dedicato alla filosofia morale di S. Tommaso d'Aquino (La ph. mor., de S, T., Paris, Felix Alean, 1916) un grosso volume. utile forse a chi si muova ancora nell’ambito di quella filosofia speculativa, utile anche a chi voglia fare degli studi comparativi di precettistica morale o profittare delle molte sottili e utili cose dette dal grande filosofo medievale sulla legge morale e sulle virtù, ma che manca intieramente al suo scopo se vuole essere una Si usti fica zione teorica di quella concezione el mondo, cioè della filosofia — senza ag-f;iunte — dalla quale S. Tommaso trasse a sua dottrina morale.
E tanto più correva al Sertillanges il dovere di'istituire questa indagine stretta-mente gnoseologica e metafisica in quanto la morale da lui esaminata ed esposta vuol essere, nella sostanza, una morale razionale; non dedotta cioè, se non per una Sarte, dalla quale il filosofo può prescin-ere, dalla positiva rivelazione di una volontà divina arbitrariamente legislatrice; ma da un ordine naturale, oggettivo, necessario che la ragione scuopre nella stessa natura degli esseri, e da una provvidenza divina che è là sanzione pratica di questo ordine, in quanto ad esso riduce, con i f>remi e con le pene dell’altra vita, la vo-ontà riluttante.
Ora quelle che sono le premesse della filosofia tomistica sono anche le premesse
del Sertillanges; e la sua esposizione, anche quando sembra polemica, non è una analisi critica, ma una ripetizione, in altre parole e con ordine diverso.
Chi voglia un saggio di ciò, legga la pagina breve (41) nella quale fa giustizia sommaria della autonomia della ragione pratica, secondo Kant: » L'obbiezione . non era sconosciuta a S. Tommaso; che se la pone con chiarezza e vi risponde con la sua semplicità consueta. (ia IIac, Q. XIX, art. i®). Che il bene naturale sia oggetto di desiderio, egli dice, non gli impedisce di essere oggetto di rettitudine, visto che il desiderio, bene interpretato, è in noi, come si è detto, il segno delle volontà della natura, quindi anche della rettitudine. ¿Tuttavia, se il bene naturale è oggetto della volontà morale, non è ciò direttamente; ma mediante la ragióne che regola i nostri atti; dunque in quanto sottomesso a questa.
« Il bene naturale in sè è oggetto di desiderio; il bene naturale, in quanto sottomesso alla regola della ragione, diventa causa del bene morale per la volontà che lo abbraccia. La ragione è dunque qui bene autonomo, se ci teniamo all’ordine morale. Essa è sorgente immediata del a moralità. Essa investe l'ordine naturale. Essa dà la legge, in quanto è legge. Quindi si è detto del bene naturale primo: poiché esso non è sottoposto alla ragione, ma è presuppósto dà essa; 0, se si vuole, perchè esso è sottoposto solo, in fatto di ragione, alla ragione della natura, questo bene non appartiene all’ordine morale, se non come principio. Lo si abbraccia necessariamente, come necessariamente la pietra cade al centro. Gli altri beni, voluti per questo, possono riferirsi ad esso bene o male. Che concorrano ad esso è l’effetto della ragione, alla quale Dio ha rimesso l’uomo, nelle mani del suo proprio consiglio... Porre l’oggetto morale sotto la dipendenza della ragione che lo farà, moralmente, quello che esso è: questo solo esige l’obbiezione kantiana ».
Basta un elementare intuito filosofico per vedere che il S. non fa qui che porre, con altre parole, la questione stessa che egli crede di risolvere. Poiché, quando si chiede l’autonomia, dalle cose ci si rinvia alla ragione; quando si chiede la* legge, dalla ragione ci si rinvia alle cose e alla loro realtà naturale e oggettiva.
Nè creda il lettore di trovare esposti e spiegati i fondamentali principi metafisici della- morale tomistica ricorrendo all’altra opera che il S. ha dedicato appunto alla
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filosofia’speculativa di S. Tommaso (Les grandi philosophes, S. Th. d’Aquin, Paris, Alcan, 1910). Poiché, anche qui, la questione fondamentale (la distinzione fra l'atto e la potenza) è a pena sfiorata. Accennato fugacemente alla concezione moderna del divenire, il S. scrive: Costoro negano la distinzione e poi la riintroducono surrettiziamente. « Quindi — e l’osservazione vale contro tutti, valendo contro i più forsennati — il divenire imponendosi alla nostra esperienza, il divenire dovendo essere ammesso, ' necessariamente, sia a titolo soggettivo, sia a titolo reale, sia a titolo apparente, e d'altronde essendo ben chiaro che il soggettivo non è meno reale che il resto e che anche l'apparente conserva tutta la sua realtà d’apparenza, la tesi della potenza e dell'atto può bene esser trasposta, svisata, negata a parole; ma non 5uò essere tutt’affatto respinta. Siamo qui inanzi a uno di quei concetti che toccano il fondo ultimo delle cose... A fortiori essa si impone ad una filosofia realista... S. Tommaso... non permetterà che si tocchi alla teoria maestra del suo sistema. Non si attarderà a dimostrarla, contento di applicarla, ecc. ».
Già, ma anche qui siamo sempre allo stesso punto. La filosofia tomistica e aristotelica è appunto in questione perchè è in questione il suo assunto o postulato fondamentale. E proprio perchè si ammette il divenire, perchè dalla distinzione fra atto e potenza nasce la necessità della sintesi, sorse il nuovo problema, con Bruno, e affatica da tre secoli il pensiero filosofico.
LETTERATURA RELIGIOSA
Il sac. Henry Bremond, ex-gesuita, noto per molti suoi scritti di letteratura varia e di psicologia della coscienza religiosa contemporanea, ed anche per aver assistito. il Tyrrell nei suoi ultimi momenti e celebrate le esequie col rito religioso—don
de poi sorse una grossa questione liturgica, poiché il Tyrrell non aveva fatto alcuna ritrattazione ed era nominalmente scomunicato —- ci dà in un grosso volume (£*Humanisme dévot) il primo frutto di una ricerca che si propone di tracciare la Histoire littéraire du sentiment religieux en France, e sarà divisa in tre periodi. U primo, oltre a questo volume di introduzione generale, che esamina le condizioni religiose della Francia sulla fine del secolo xvi, sarà seguito da tre altri: L’invasion mystique, 1590-1620; Lacónquete mystique, 1620-1650; La rétraite des mystiques, 1650-1700. Seguiranno altre due sene, una sul secolo xviii ed una sul secolo xix.
Il Bremond dichiara di non proporsi un lavoro di speculazione, ma. di letteratura e di storia. » Ce .qui nous interesse présentement, ce n’est pas l’experience mystique elle même, mais la vie mystique. Au théologien, au psychologue d’analiser cette expérience, a nous d’en suivre le rayonnement dans l’histoire et dans les écrits des mystiques».
La distinzione è forse più facile da formulare che da osservare; poiché non si può rivivere un’epoca di così intenso fervore e di così vivi contrasti spirituali per frammenti. non evocare delle grandi figure di scrittori e di mistici come Pascal e Fénélon e M.me Guyon e Francesco di Sales e tanti altri senza entrar nel vivo di queste varie esperienze mistiche e presentarcele nella concreta pienezza del loro significato e valore spirituale e storico.
E non vorremmo che questa premessa metodologica, nella quale il B. ci dichiara di voler fare solo opera di storico della letteratura, nascondesse uno sforzo di, diremmo quasi, parziale incomprensione, per una premessa pratica di ortodossia.
II. primo volume, vasto quadro storico finemente tracciato, si legge con vivo interesse.
ETNOGRAFIA RELIGIOSA
in.
Montenovesi (Ottorino). Il Campo Santodi Roma. Storia e descrizione. (Roma, L’Universelle, Imprimérie Polyglotte, 1915). Lo scopo di questo volumetto è modesto, di dare, cioè, dei cènni storici e descrittivi
del Camposanto romano, che» tra i pochi lavori illustrativi, non trova quello compiuto e riuscito. Questo del Montenovesi non solo rifà la storia della sua origine, che risale all'occupazione francese di Roma (1808-1814); del suo sviluppo, che va dal 1836 ai nostri giorni; dello svolgi-
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mento della polizia mortuaria dal governo pontificio a quello italiano; ma descrive riquadro per riquadro, monumento per monumento, il dolce luogo consacrato alla morte, e che comunemente chiamasi Campo Verano, forse dalla famiglia romana dei veráni. La descrizione completa, dal punto di vista storico, è interessante pel demopsicologo, che nei monumenti, nei ritratti, nelle epigrafi vede forme, costumanze, riti, pensieri che potevano credersi tramontati cogli uomini delle vecchie generazioni. Se i medaglioni e i busti che ritraggono figure femminili, anteriori o di poco fiosteriori al 1870, hanno importanza per a storia del costume, e le epigrafi per i sentimenti pietosi che esprimono e per i vocaboli di arti e mestieri e i termini militari; l’uso di scrivere e graffirc sui sepolcri qualche motto è di particolare importanza psicologica. Ricordandosi della parola adoperata con fortuna da Cesare Lombroso, il Montenovesi chiama tali frasi graffite o scritte sulle lapidi, «palinsesti » del Campo Santo. Tali, però, non possono dirsi le lettere, le cartoline postali, le carte da visita portanti espressioni di affetto e di dolore, indirizzate ai defunti dai superstiti e lasciate sulle tombe. Questo uso, in vigore fino a qualche anno fa, è caratteristico perchè attesta la fede nella sopravvivenza dell’uomo oltre il sepolcro, dal quale risorge, a intervalli, per comunicare coi suoi cari viventi. La leggenda che narra, che allo scoccare della mezzanotte, nei cimiteri, i morti balzino daU’urne e, avvolti in bianchi sudari, si riuniscano per passeggiare e conversare fino al cantare del gallo, non è della Sicilia soltanto. Oltre le lettere, si lasciano ai defunti oggetti, scelti fra le cose che ebbero più care in vita. Una madre porta sulla tomba della sua bambina una scatola con un pulcino di bambagia, un piccolo lume, un ventaglio, una bambola e una letterina, in cui fra l’altro dice: « Quando questa notte lo vedrai (il pulcino), penserai che la Fatina che sempre ti portava i giocattoli, pensa ancora a te ». Questa costumanza, che parla al cuore un linguaggio di mistica poesia, è considerata ordinariamente un avanzo delle civiltà pagane, giacché gli archeologi rinvengono quasi ogni giorno nei «sarcofaghi egizii, etruschi, greci, romani appartenenti a bambini, a fanciulli e talvolta ad adulti, giocattoli e balocchi, come « crepundia », bambole e marionette. Lo scrittore accenna in una nota a questo
riscontro, che potrebbe estendersi ad altri popoli del passato e del tempo attuale per rilevare che quella costumanza, e altre analoghe, più che sopravvivenze pagane sono persistenze di riti funebri primitivi.
Tuttavia fra le gènti incolte, che .vivono nei continenti oceanici, si sogliono seppellire col morto gli abiti, gli arnesi e gli oggetti che in vita gli appartennero, oltre del cibo e dei trofei. In tempi di minor barbarie, l’uomo aggiunge alla suppellettile dell’estinto, la lucerna e l'obolo pel viaggio oltre terreno. Quale l’idea originaria di questo rito quasi universale non è ancora chiaramente dimostrato, ma è certo che, sia che si ricorra per spiegarla alla teoria apotropaica deli’Andree, sia a quella contagionista del Frazer, l’usanza attesta che, come nella natura, anche nel campo dei costumi e delle idee, nulla si distrugge e si disperde, per quanto volgano gli anni e mutino gli uomini; e che, come ógni forma di vita e di civiltà, gli usi hanno le loro età che si evolvono sempre, per apparire con altra veste e meno rozza fra i mortali.
Pasquarelli (NI. G.). Note di Folk-Loré
Criminológico del Venezuela. (Estratto dall’« Archivio di Antrop. Griminale, Psichiatria e Medicina Legale », anno XXXVII, 4); Torino, Bocca, 1916.
La dimora nel Venezuela ha offerto al dottor Pasquarelli l’occasione di spigolare nel campo degli usi e delle superstizioni del popolo della repubblica americana, e di dare al pubblico italiano note e rassegne' di fatti osservati direttamente. Lo scritto che ho sott’occhio è una nota, la quale in veste semplice e modesta informa su alcune usanze e alcuni riti e pregiudizi dei criminali di quel paese, che ha una delle sue caratteristiche espressioni nel llanero, così ben ritratto da V. M. Ovalles. Pur mantenendosi nei limiti della descrizione, il Pasquarelli si riporta, di quando in quando, alle usanze e alle tradizioni dei nostri volghi, e special-mente a quelle della nativa Basilicata. Richiami e confronti tornano opportuni; e non esito a credere che ove fossero approfonditi ad estesi ad altre regioni, e segnata-mente a quelle della penisola iberica, farebbero rilevare che il folk-lore venezuelano, come in generale quello delle due Americhe coloniali, presenta dei capitoli
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che possono considerarsi come variazioni dei corrispondenti europei. Nel dominio del Canada recentemente, sono stati sco-Serti i racconti popolari francesi del tempo i Richelieu, trapiantati colà dai coloni; ncirArgentina, ove il dottor Lehmann-Nitsche lavora alacremente, il fondo delle tradizioni popolari è iberico; e nelle Piccole Italie si sono trapiantati cogli uomini gli usi e i costumi della patria italiana. ■ Ricordiamo che là — scrive l’A. di queste note — su di un cadavere trovato per la campagna si buttano pietre fino a covrirlo, c poi sul mucchio si pianta una rozza croce di legno >. Questo rito, che il Pitré, illustrando l'episodio dantesco di Manfredi, ha riscontrato largamente nelle tradizioni italiane da quelle medioev.ali a quelle del famoso brigante calabrese Nino Martino, non é, forse, da attribuirsi ad importazione europea? Avvalora questa opinione la circostanza che il rito primitivo di coprire il cadavere con mucchi di pietre è seguito dalla cerimonia del culto cattolico di apporre la croce sulla Sreve mora, proprio come si usava nella omagna al tempo del Placuc i.
• Chi sofjre di blenorragia ed è ostinato del male e de le medicine, crede ultima ratio avere contatto con una negra. La blenorragia é ritenuta un riscaldamento, e quindi si giova di rimedi rinfrescanti: e fresche sono appunto le negre da la pelle vellutata ». Non sottoscrivo questa notizia, giacché mi pare che l’osservazione del Pasquarelli non si sia fermata a cogliere tutti i particolari del fatto Altra, a mio credere, dev’essere la ragione del rito magico, che il nostro scrittore scambia con la cura rinfrescante; e probabilmente la ragione è quella stessa da me rilevata nel volume: La vita sessuale, laddove (p. 107) metto in evidenza che il cattivo uso è ispirato al convincimento di liberarsi da un male venereo defiorando una ragazza immacolata e prima dell’appari-zione dei fiori mensili. Il criterio magico si basa sul contatto dell’elemento impuro con quello puro, e sulla facile trasmissione del contagio dal primo nel secondo, come in queirespediente, dal Pasquarelli notato anche nel Venezuela, per cui un infermo di.« carare » (malattia della pelle) crede trasferire in altri il suo male facendogli ingoiare nel cibo una goccia del proprio sangue.
Quella antichissima pratica, di cui parla Catullo nelle nozze di Pclco e di Teti, dicendo: « Nam iliam nutrix orienti luce
revisens, Hesterno poterit collum circum-dare filo », è in vigore nel nostro popolino, ma per il gentil sesso soltanto, non già per l’altro. E mi fa maraviglia leggere in questo opuscolo che, nel Venezuela, essa si esegua anche per gli uomini. Credo si tratti di un errore; e di ciò convincono non solo i riscontri dell’uso nei paesi nostri, ma anche il fatto che, fra i popoli civili, non mette conto di rilevare se un individuo • sia pupillo ancora, o sia già spupillato; mentre interessa conoscere l’onestà d’una fanciulla, e cioè se sia pulcella, o sia invece spulcellata. Non sarà utile, ripubblicando il lavoro, di rettificare queste notizie, l’esattezza delle quali è rigorosamente richiesta nella .scienza demopsicologica che deve avvalersi per le sue interpretazioni, di documenti metodicamente osservati e scrupolosamente descritti. Oso fare questa esortazione al Pasquarelli, che io so diligente studioso, e che con questo opuscolo ha dato alla democriminologia (non è meglio, dire così, anziché folklore criminológico, folklore criminoso, criminologia folklórica?) un nuovo capitolo da aggiungere ai pregevoli lavori sull'argomento, del Lowinstimm, del-l’Evans, dcll’Hellwig. dell'Amalfi.
Raffaele Corso.
VARIA.
Giov. Sansa, La civiltà del Mediterraneo. (Corso di storia generale per gli Istituti : tecnici). Voi. I: dai tempi più antichi all’anno 887 d. C. Napoli, Ditta F. Casella fu G., 1916.
A me non accade facilmente di lodare un libro, sopratutto scolastico, nel campo de’ miei studi, ove in modo speciale l’iri-segnamento conserva ancora quel carattere tradizionale che rende così poco assimilabile dalla media coltura e dalla coltura giovanile l’ampio contrib.uto culturale che proviene dagli studi storici, intesi nel senso più generale della loro concezione. Non si dubiterà quindi assolutamente della lode incondizionata ch’io tributo a questo ottimo lavoro, veramente degno di esser adottato non ne' soli istituti tecnici per i quali è modestamente riservato, ma pur nelle nostre scuole classiche, ove le « storie » correnti per la maggiore non riescono a dare ai giovani, anche infarinati di coltura classica, la metà delle cognizioni e delle concezioni che loroper-
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mette di acquistare il testo offerto dal Sanna. Nè vi sarà alcuno che si meraviglierà di vedermi tributare questa lode ad un libro scolastico nelle pagine di una rivista di studi religiosi: è così larga, difatti, così bene appropriata la parte che l’elemento culturale, e quindi religioso, à nell'economia dell’opera, che non potrei non suggerire proprio qui ai giovani, ed alle persone di media coltura un lavoro che riuscisse meglio a dare un' idea sommaria, se si vuole, ma precisa, ma chiara, ma, per cori dire, movimentata e viva della storia della civiltà mediterranea.
Poiché quello che rende per l’appunto viva questa storia della civiltà che più o meno largamente si svolge intorno alle rive del Medi terraneo, non è solo l’accentramento -fattone dal S. intorno a questo Eiccolo, ma glorioso bacino mondiale, ma enanche — sulla scorta delle maggiori e delle migliori opere scientifiche — il carattere impressovi di universalità che permette al lettore di seguire quasi contemporaneamente, a non lunga distanza di tempo, cioè, lo sviluppo dei vari popoli e il loro ingresso ed egresso nel e dal campo dell’orbita entro la quale si svolge la civiltà mediterranea. Nè questi sono i soli lati entro i quali si afferma la novità 'dell’opera: vi si aggiunge, molto opportunamente. l’esposizione degli, elementi più vitali delle civiltà dei popoli: la religione, le istituzioni, la cultura, i costumi, le arti, in modo che la storia politica non appare più quella noiosa e quasi irrazionale serie di battaglie, di rivoluzioni e di tramutamenti di uomini e di cose che, affidata a cifre per sé incomprensibili, ànno tormentato così a lungo la giovinezza di tanti studenti! Si aggiunga che il S. dei nomi più o meno caratteristici che ricordano istituzioni, forme sociali, usi, istituti giuridici dà in parentesi la spiegazione o il significato, in modo che nuova chiarezza proviene a chi legge da questa buona abitudine scolastica, e nuova attrattiva a proseguire in una lettura che non è densa di nomi incomprensibili, irta di difficoltà volute per dare al libro il carattere scientifico cui anche i più modesti libri scolastici ormai pretendono. Il qual vantaggio poi capita pure al lettore d’una sola pagina, poiché sapienti riferimenti ai paragrafi fondamentali facilitano la comprensione di ciò che potrebbe riuscire difficile.
Insomma un ottimo libro, al quale per chè non appaia ch’io più che studiarlo, l'abbia sbadatamente sfogliato con l’in
tenzione forse di lodarlo per avervi trovata estrinsecata una mia antica idea — farò qualche appunto d'indole generale e, solo in nota, qualche breve osservazione farticolare: la qualcosa spero invoglierà
A. a perfezionare sempre più l’opera sua, anziché convincerlo di aver talvolta mancato al compito prefissosi. (1).
E gli appunti d’indole generale sono: i° bisognerebbe che l'A. accompagnasse le sue esposizioni da una nuova divisione delle ère storiche, lasciando cadere anche nella forma, come à fatto del resto nella sostanza, quelle ormai improprie di M. E., età moderna, ecc., sostituendovi quelle che si impongono, sebbene vadano determinate e definite accuratamente, le ère cioè denominate dai popoli o dalle civiltà che le ànno personificate
(1) Ecco, per esempio, qualche punto su cui mi piacerebbe che VA. ritornasse: p. 147. ove vi è una inesplicabile confusione tra il nomen ed il atguonufi romano.
P. 284, ove non capisco dove l’A. abbia trovato che gli atti ufficiali dell’impero portavano le formule Prìneeps et Sentititi.
P. 207, ove mi sembra eccessivo considerare dell’opera oraziana cerne quasi precipuo lavoro le « tre epistole, che svolgono le norme del ©imporre ».
P. «08, ove la figura del Cristo mi pare un po’ troppo pedissequamente razionalizzata sulla scorta del Renan.
P. 335, ove la personalità di E’.iogabalo è con sommarie tinte nere forse più del giusto falsata ed ove l’A., che è ben informato anche di quisquilie storiche, m n so perchè conservi il tradizionale Alessandro Severo contro l’ormai accordato ed accettato Severo Alessandro.
P. 340, ove non vedo sull’autorità di chi il S. chiamò il Settizonio di Settimio Severo «grande edifizio sepolcrale ».
P. 347, ove vi è una singolare confusione nell'as-serire che Diocleziano ebbe • culto ufficiale come Dìo Sole e, sincreiisticamente, cerne Ctoviot. Nelle stesse pagine accanto a qualche altra lieve imprecisione trovo ancor conservata l'erronea credenza nei quattro prefetti del pretorio già * tto Diocleziano, ormai sfatata dalle iscrizioni.
P. 350,351, ove accanto alla buona concezione che sembra balenare tra le righe dell’adattamento cristiano alla civiltà pagana, dòpo Diocleziano, si trovano alcune concessioni alle teorie imperanti sulla * vittoria » cristiana: e questa incertezza certamente disorienterà lo studente.
P. 3sS, ove mi sembra incito improprio, per lo meno, a dare al lettore un'idea sintetica dell’opera di Ammiano Marcellino il dire che là sua opera storica è « di stile tacitiano »’
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(p. es. mediterranea, semitica (?), ellenica, romana, barbarica, ecc.);
2® bisognerebbe che la cronologia fosse messa maggiormente in evidenza, non con date precise, di cui non sono tenero, nelle opere popolari, ma per mezzo di secoli e qua e là con accenno agli -usi dei calendari ed alle riforme connessevi;
3® bisognerebbe — e questo va più detto all'editore che all’A. — che il libro fosse'munito qua e là di cartine — eli-chés a stampa come nelle opere inglesi, basterebbero — e di illustrazioni degli uomini, dei monumenti e dei luoghi più caratteristici.
Chiedo troppo? mi par di no: il libro acquisterebbe una diffusione alla quale à, è vero, già largo diritto, diffusione che non si limiterebbe solo alle scuole, ma si estenderebbe ad ogni genere di persone. Che se ne senta il bisogno lo sanno bene tutti coloro cui, come a me, è capitato di dover..i. consigliare delle opere straniere o delle traduzioni, o ancor peggio se interrogato per opere italiane, di dover alzare le spalle ed allargare le braccia in segno... di disperazione! Giovanni Costa.
E. Melchiori. La lolla per l’italianità delle terre irredente (1797-1915)- Firenze, Bem-porad, 1916.
Quest’opuscolo» che il prof. Melchior* pubblica sotto gli auspici dell’Unione generale degl’insegnanti italiani per la guerra nazionale, è un buon contributo di carattere specialmente popolare — ed è quel che ci vuole da noi — alla formazione di quella coscienza nazionale antiaustriaca che il lungo periodo di asservimento agl’imperi centrali aveva per opera di governanti, per inerzia di popolo, per nequizia di stranieri, disfatto in Italia.
In genera il lavoretto, ancorché talvolta adoperi luoghi e frasi comuni, è ben fatto e semplice e sufficientemente vario per poter tener attento un lettore che, per la naturale conformazione dello spirito italiano, si offre fin dalle prime pagine distratto; le notizie che vi sono esposte derivano quasi sempre da buone fonti e da sicure informazioni; con felice idea vi si vedono lottare per l'italianità comune e per q uella regionale proprio quegl ‘irredenti che molti ebbero interesse di dipingere come nolenti o malvolenti assertori di un'italianità non politica, ma letteraria. Come dalmata, nell’interesse nazionale e in quello della mia patria, avrei voluto ve
dervi più luminosamente posta in luce l’opera nostra a prò dell’italianità e l'utilità, la necessità anzi, dell’annessione delia nostra regione all’Italia. È vero che il M. potrebbe rispondermi che è si diffìcile attingere per la Dalmazia notizie e ragguagli ed 10 non gli do torto, e potrebbe pur aggiungere che egli à fatto sotto questo aspetto più di quanto non abbiano fatto altri di lui anche — non se ne abbia-a male — maggiori. E non potrei non dargli ragione, tanto più che l'incoscienza italiana si dimostra sotto questo aspetto sempre all'altezza del suo illustre passato. Non si annuncia forse nella stessa collezione diretta dal d'Acandia un volume sulla Dalmazia in cui si raccolgono voci italiane e voci slave? e chi non sa, quando vi vede tra le prime annunciate quella del Salvemini che esse .saranno solo ed unicamente... seconde, "cioè slave? Ma aspettiamo un tal capolavoro di sapienza italica per giudicarlo: così potessi ricredermi sull'opera e sui giudizi... dalmatici di un uomo come il Salve-mini, nel rimanente della sua opera politica e scientifica così altamente benemerito!
E ritornando al Melchiori manifestiamogli la nostra gratitudine per essersi ricordato di noi dalmati anche se incompiutamente/ Nelle operette di carattere-popolare il suo contributo prò Dalmazia entra forse per la prima volta con tanta insistenza ed à quindi il suo valore: io ò ferma fiducia nel buon senso degl’italiani!
G. C.
Avevo appena scritto questa recensione che mi è capitato sott’occhio il bello e assennato articolo di G. Rabizzani nel Marzocco del 1® ottobre: « N. Tommaseo e la Jugoslavia». Esso mi conferma il dubbio 8ui sopra espresso che la collezione della iovine Europa diretta dal d'Acandia è votata alla propaganda slava in Italia tanto che ivi un signor Voinovich, nel dare alla luce una traduzione dichiarata pessima dai competenti di alcune poesie slave del Tommaseo, vuol far passar questo per scrittore nazionale dell'unità jugoslava. Cose che farebbero ridere, se non facessero piangere sull’incoscienza italiana la quale offre uomini, danaro ed editori ad una propaganda nemica!
Teniamo d'occhio, quindi la pubblicazione della collezione sopra... ricordata e intanto rileggiamo ciò che di sano, di vero, di perfettamente vero à saputo dire il Rabizzani. G. C.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma — Tipografia deli’Unione Editrice, Via Federico Ceti, 45
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