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BIÙCHNIS
RIVISTA MENSILE DI STUDI RELIGIOSI
Anno IX. - Fasc. XI
ROMA - NOVEMBRE 1920
Volume XVI. 5
SOMMARIO
L. SALVATORELLI : // pensiero del Cristianesimo antico intorno allo stato, dagli apologeti ad Origene..............333
D. PROVENZAL: Il libro del collare . . 353 |
A. RENDA : La teoria psicologica dei calori 356
M. PUGLISI : Misteri pagani e mistero cristiano........... 372
Per la cultura dell'anima:
A. FARINELLI : Paul Gerhardt (un cantore di Dio e della pura fede evangelica). ..*... 389 |
Note e commenti :
V. CENTO : Il IV congresso italiano di filosofìa . . 396 |
R. MURRI: Il P. P. I. - Il socialismo (rispósta a
Q. Tosatti) ........... 400 1° Congresso Evangelico Italiano . .... 401
Cronache:
Q. TOSATTI: Vita ecclesiàstica e spirituale . . . 402
Rassegne:
r. e p. Studi biblici (XII) ....... 405
Tra libri e riviste:
Q. TOSATTI : Politica e storia ecclesiastica . . . 409
Recensióni-:
Storia delle religioni - Storia del Cristianesimo Psicologia religiosa - Filosofia e religione - Varia 413
Nuove pubblicazioni ........ 416
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BILYCHNIS rivista mensile di studi religiosi
-------- . ------ < < < * FONDATA NEL 1912 ► ► > >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO E DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA - PEDAGOGIA -FILOSOFIA RELIGIOSA MORALE -> QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELI Gl OSO LA VITA RELIGIOSA IN -ITALIA EALLfESTERq ^ ^ - - REDAZIONE: Prof. Lodovico PaSCHÉTTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITT1NGHILL, Th. D., Redattore per l’ Estero ; Via del Babuino, 107, Roma. AMMINISTRAZIONE: Via Crescenzio, 2, Roma.
Vedere annunzio speciale per le condizioni d'abbonamento per il 1921
Corrispondenti e collaboratori sono pregati d’indirizzare quanto riguarda la Redazione impersonalmente alla
Direzione della Rivista “ BILYCHNIS ” - Via Crescenzio 2, ROMA 33
Gli.articoli firmati vincolano unicamente l’opinione dèi loro autori.
.7 manoscritti non si restituiscono.
I collaboratori sono pregati nel restituire le prime bozze di far conoscere il numero degli estratti che desiderano e di obbligarsi a pagarne le spese. Per il notevole costo della carta e della mano d’opera la Rivista non dà gratuitamente alcun estratto.
Alcuni giudizi della stampa su “ BILYCHNIS ”
Il GIORNALE.D’ITALIA: «Bilychnis v'a diventando sempre più... una nobile palestra di studi religiósi c di discussioni filosofiche ».
VOLONTÀ: «Una rivista protestante dèlie più squisitamente italiane per la grande larghezza di criteri e là ricca collaborazione di studiosi anche liberi ».
DIRITTO e POLITICA: «Dotta e diligente rassegna».
REVUE DE L’HISTOIRE DÉS RELIGIONS: «Nella produzione scientifica italiana, così ricca di Tèn- ' fativi interessanti e spesso fruttuosi, la Rivista Bilychnis, edita dalla facoltà teologica battista di Roma, si \è fatta,,' un posto importante e assai personale in ciò che concerne la critica biblica, la storia e psicologia religiosa, la pedagogia, la filosofia religiosa, la morale, la vita religiosa in Italia e all'estero. '. '
« Essa si tiene e tiene i suoi lettori al corrente di tulle le questioni vive, non ignora alcun campo del pensiero religioso ed è là dovunque si discuta un problema morale. Non occorre dire che le polemiche dottrinali trovano in essa un eco, ma penetrando in Bilychnis prendono un tono attenuato e prossimo alla quieta armonia della storia ».
DIE CHR1STLICHE WELT : « Da nove anni i Battisti di Roma pubblicano la rivista mensile Bilychnis ~ la doppia luce della fede e della scienza — che è attualmente la più ricca (die bcstausgestallele) rivista teologica del mondo.
« Dove si trova un periodico illustrato di questa specie? Restando questa rivista nel giusto mezzo essa è scien-,iflca|lEer « religiosa per lettori di media coltura. Essa ha tentato sin dal principio di superare per lettori
e collaboratori i confini del confessionalismo e di rimanere imparziale tra i contrastanti interessi ».
Come BILYCHNIS è giudicata in Francia (dal fase, di maggio-giugno 1920):
« Ce qu ils remarquent aussi c’est l'abondance des collaborateurs distingués que la Revue parvient- à grouper, avec un latitudinarisme doctrinal qui n'est peut-être pas toujours bien compris chez nous, mais qui n’en demeuré pas moins un effort sincère de fraternisation chrétienne dans la recherche de la vérité... ».
« II nous arrive souvent de comparer Bilychnis à Fol et Vie, la première étant pour le public cultivé italien ce que la seconde est pour le public intellectuel français, avec celte différence, que la reçue italienne voit grand et large, tandis que la nôtre a réduit son format et est en peine de collaborateurs';..».
«... jfe 1 ai proposée en exemple a Foi et Vie. Mais celle-ci parait s'orienter autrement, timidement cl étroitement».
3
“Bilychnis” nel 1921
kl 1921 la nostra rivista entra, osiamo dire, trionfalmente nel suo X anno di vita. È nostro proposito di segnare tal data apportando alcuni miglioramenti al nostro programma i quali, mentre non muteranno affatto il nostro antico indirizzo spirituale cui vogliamo rimaner fedeli, ci permetteranno di renderla sempre’ più bene accetta ad .ogni gènere di, lettori. Mentre stiamo concretando una sistemazione di tutta la nostra
parte informativa (rassegne e-bibliografia), un-ampliamento del servizio delle1 cronache, un rinvigorimento delta « cultura dell'anima », che dovrebbe esser eco dell’espressione religiosa di tutte le anime, ma sopratutto di quelle italiane, una più popolare forma degli articoli fondamentali della-rivista e ci proponiamo di Esporre le l’fiièe dì questo lavóro in uno dei., prossimi numeri con elementi sicuri che costituiranno il nostro programma redazionale — riteniamo opportuno preparare i lettori e gli abbonati sin d’ora ai mutamenti di fórma che là rivista assumerà col 1921 appunto per corrispondere ai nuovi intenti ai quali crediamo destinarla. .
Finora abbiamo dato ai nostri abbonati una serie di fascicoli che costituivano all'anno' un complesso di 2 volumi in-8° grande di 480 pagine ciascuno, ossia 960 pagine. In questi 2 volumi abbiamo offerto, accanto ad una notevole messe di notizie e di dati oggettivi, una abbondante e copiosa serie di studi, non di rado illustrati, costituenti una parte assolutamente originale. Il fatto pertiche non di rado o abbiamo dovuto respingere scritti lunghi meritevoli di pubblicazióne o dar luogo a continuazioni che'non erano consentite dall’indole della rivista, ci à indotto a pensare ad una nuova distribuzione della materia di queste 960 pàgine. Per dar luogo cioè a questi studi originali che non possono e non debbono essere esclusi, noi ci proponiamo di dedicare solamente 768 pagine alla rivista propriamente detta e di destinare il rimanente ad una serie di Quaderni, in cui anche, con raggruppamenti tali da costituire dei fascicoli assolutamente completi, siano pubblicati gli studi di maggior complessità è di carattere più scientifico, che. non dovrebbero trovar pósto nella rivista, alla quale rimarrebbero quindi gli. articoli più brevi e più popolari;
I Quaderni, per maggior comodità, saranno editi in-8® piccolo e si pubblicheranno a puntate bimestrali di 64 pagine’l’uno, eventualmente anche con illusi] azioni, o formeranno volumetti di maggior mole, multipli di di 64, secondo se ne sentirà il bisógno. Animalmente in ogni modo saranno pubblicati sei Quaderni sciolti, o legati a gruppi; che costituiranno un insieme di 384 pag, in-8° piccolo.
Gli abbonati perciò non perderanno nulla da quésta nostra iniziativa, anzi ci guadagneranno perchè oltre ai 2 voi. dellarivista, corrispondenti ai 2 semestri dell’anno, di pag. 384 in-8° grande riceveranno i Quaderni, pubblicati elegantemente sulla stessa carta della rivista, illustrati, al)'occorrenza, e costituènti volumi in-8° piccolo per un insieme di 384 pàgine.
Non per effetto della nuova forma che intendiamo dare alla rivista, ma per le ragióni di aumento dèlia carta e delle spese tipografiche che costringono tutte lè Amministrazioni àd elevare il prezzo d’abbonamento. aumenteremo f-abbonamento annuo da L. io a L. 16
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Il
con diritto naturalmente ai Quaderni i quali si venderanno anche a parte ad un prezzo che varicià j&ccndq.Ja loto mole c le loro illustrazioni, ina-clic sarìjsempic.supcriore alle lire 2. § ' -1
Siamo sicuri*che .gli’ abbonati, che ci ànrtò ‘ffn 'qtti ;fcdeì nienti?' ‘acrbmpagnato nella nostra opera fattiva di bene, non ci negheranno il loro appoggio e — mentre prepariamo il programma rcdazionald che pubblicheremo quanto prima, dimostrando ne’ nomi dei .collaboratori c redattori, negli 'articoli che daremo, nei Quaderni che pubblicheremo tutta la nòstra fede' c tutto il nostro impegno di èssere oggettivi e sereni informatori della;vita religiosa d’Italia,c dell'estero —.vorranno inviarci subito là tenute quota -..di' abbona? mento per facilitarci il lavoro di Amministrazione.
LA DIREZIONE'
Abbonamenti pel 1921
Gli abbonati riceveranno nefil921:
i 12 fascicoli mensili di “ BILYCHNIS ”, di pag. 64 l'uno in-8° grande, illustrati, formanti 2 volumi di pag'. 384 l’uno;
i 6 fascicoli bimestrali dei Quaderni di Bilychnis, eleganti volumetti in-8° piccolo di pag. 64 (o, se raggruppati, multipli di 64), illustrati, formanti un* insieme di 384 pagine annue. ¿ty >
Oli abbonati potranno inoltre ottenere a prezzo ridotto:
l’abbonamento cumulativo col “TESTIMONIO”, rivista mensile delle chiese battiste italiane; ’’ ’< ' . •
il bel volume del Cl-IIMINELLI, *'*11 Padre nostro,, e il mondo moderno}
I interessante Opera da noi edita, La Chiesa e i nuoci tèmpi.
Condizióni^: IN ITALIA PER 1 ANNO | PER 6 MESI ESTERO PER 1 ANNQ
“BILYCHNIS” e i Quaderni . . L, 16- 9 — 30 —
“ BILYCHNIS ”, i Quaderni e “ IL TESTI-
MONIO” . . » 18,50 10,50 40 —
*BILYCHNIS11 i Quaderni, “IL TESTI-
MONIO” e i due volumi suindicati >> 24 — | 16 — 45,50
Direzione e Amministrazione di “ BILVCHNIS”
Via Crescenzio, 2 - ROMA, 33
5
— Ill
Libreria Editrice BILYCHNIS - Via Crescenzio 2 - ROMA, 33
PUBBLICAZIONI IN DEPOSITO
■Delie nuove pubblicazioni, appartenenti ai ciclo degli studiTdi cui si occupa la rivista, faremo un brevissimo cenno nel darne 1* annuncio, qualora gli editori alle copie da tenere in deposito 3 aggiungano una in omaggio. Solo pubblicando questo cenno bibliografico assumiamo la responsabilità dell'indicazione dell’opera.
I prezzi segnati non subiscono aumenti e le spedi^oni sono franche di porto. Per gl'invìi sotto fascia, raccomandati, aggiungere cent. 30.
La libreria si incarica di qualsiasi ordinazione di libri in Italia ed all’estero. Essa è l'unica rappresentante in Italia della University of Chicago Press,. \\ I cui catalogo’ viene spedito gratis a richiesta. •
Delle opere segnate con asterisco esistono ancora pochissimi esemplariJ
e
CULTURA DELL’ANIMA
Bulgari R,
Sut prezzi dei presente .Catàlogo aggiungere il 10 % p.er le aggravate spese generali^
(Deliberazione dell'Ass. Tip, Lib. 'Ita!. 15-IV-20 .
FCjiilH * G‘* L A,fal> | Ciarlantini: Problemi dell’Alto
Guardando il soie Rad c^ .'cierkali ! i_a ¿¿chela dele massoni di fronte al prò- l’Austria . . . 6____
blema della scuola. . . 2 - «olpinska A.: .1 precursori
Razionalismo a' Intuizionismo . . . ' 1 —•
. 2 —
Burt W.: Sermoni e'allócu’w z*on'- • ••• 2— ì Losacco M:
>GRATRY A.jLesorgcnîi.con Intuizionismo . . .- . r-,
■ h w?M\?-Se™,er!,a Î!40 Mirtinelli: Per la vittoria mo-Monod W/z L'Evangile du Ro- |
y au me ,
— Délivrances — Il régnera . - n vit . ,-p.
rale . . • p-5°1 Rapini G . 6.50
della rivoluzione russa 6— Maranelli e Salvemini: La questione dell'Adriatico. 6 —
• •• 3-5,° Murri R. : L’anticlericalismo Il tragico quoti- “ ' '
66iiano . . ....
Chiudiamo le 'scuole
5.50
(origini, natura, metodo e
ì ' .. - ■ «— Crepuscolo dei filòsofi 3,50
<3 — Sslence et-.prière; ; . .. 6 — ! p • — — - 00
1 Vienot J. : î’aroles françaises ; fisica „ rancio\
prononcées a 1'oratoire, du scarpa A.^U ¿uota <fclle
Louvre
2,50
i-^ii^ L'ami ■ ■ •
I R»ata io^*e<° <lÌ"ÌCa a"’i »“^“«O'ds ^opuMoìi'pc-j~.nata.x914) ... .. .w .5.— ’tiagogici (|ej. Locke (per la
FILOSOFIA ; ÉJ vo1 ta. traiio'Uo V'
Della Seta’U.: G. Mazzini pen.-i’Von Hiige! F.: Religione ed
scopi pratici) . . . . 1,25 i MURRl R. : Guerra e religione, „ . _. , •*"/’ Voi. HI sangue e l'altare 2 —
Retisi G.: Sic et non (meta- MURRl R.: Guerra e religione.
Vói. II. L’iinperialismo ecclesiastico c la democrazia religiosa . .
2—
; sàtpre . 10 — illusione .’. . .7. f —
GUERRA E ATTUALITÀ .
D£1 Vecchio G.: Effetti morali Àndreief L.: Sotto il giogo . del terremoto in Calabria se- \ della guerra . . . .'..3,50 condo. F. M. Pagano . .2.-- Bois H.: La guerre et la bonne ¿ferretti G.: Il numero e i fan-: conscience ... . . . qm ciulli. capitolo'd’una didat- Brauzzi U.: la 'questione so-ticà dell’inventività, 2 — I ciale .... ; . j __
t Dalla democrazia cristiana al partito popolare- ititi. 5 — Puccini M.: Come ho visto il
Friuli . . 1.. . 5 —
Scarfoglio: 1/Italia, la Iugoslavia c la questione dalmata 0,25
Senizza Gx Stòria e diritti di
Fiume italiana . . .. x — Soffici A.: Kobilek (giornale di
battaglia).............3,50
Stapfer: Les leçons de la guerre
4
Wilson : Un soldat Sans peur et sans reproche (en mémoire de André Cornet^Auquier). 1,30
6
IV
Libreria Editrice BILYCHN1S - Via Crescenzio, 2 - ROMA 33
Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell'Ass. Tip. Lib. Itai. 15-IV-20).
ZANOTTI-BIANCO e CAFFI A.: La pace di Versailles, note e documenti (con 20 carte etnografiche e • politiche)
' io *—
La Chiesa e 1 nuovi tempi 3,50
Raccolta di scritti originali di Giovanni Pioli • Romolo Murri -Giovanni E. Mcille - Ugo Janni - Mario Falchi - Mario Rossi -“ Qui Quondam „ - Antonino De Stefano - Alfredo Tagliatatela.
LETTERATURA
Arcati P.: Amiel . . . ,'a—
Brauzzi U.: I Luciferi . 5 —• Bonavia C. : La- tènda e la notte . ............... 3,50
Chini M. : F. Mlstral . . 2 — Della Seta Ù.: Morale, Diritto c Politica internazionale nella mence di G. Mazzini.
1,50 Dell’Isola M.: Etudès sur ifton-taigne . ...............2,50
Fi Momigliano:' Scintille del Roveto di Stagliene . io—
Gali arati Scotti T.: I<a vita di A. Fogazzaro...........io
Jahier P.: Ragazzo . . 3,50 Lanzillo A.: Giorgio Sorel. x —
Papini G.: Esperienza futurista
3.50
Fanzini A.: Il libro di lettura per le scuole popolari. 2 —
Papini G.: Parole e sangue.
3.50
Sheldon €.: Crocifisso! romanzo religioso sociale tradotto da Sbagliatatela. 2 —
Che farebbe Gesù ?... 2 —
Soffici A.: Scoperte e massacri (Scritti sull’arte) 5 —
Vitanza C.: Spiriti e forme del divino nella poesia di M. Ra-pisardi (conferenze). 1,50
RELIGIONE E STORIA
Buonaiuti E.: S._ Agostino 2,70 » • ■ S. Girolamo 2 —
Cappelletti: La Riforma 6 — CHIMINELLI P.j Gesù di Nazareth .... (in risfampa} — Il Padrenostro e il mondo moderno . 3 —
— Bibliografia della Storia'della Riforma religiosa.in Italia
Còsta G.: Diocleziano . 3— (Profili) Ediz. Formi ggi ni.
— Politica e religione nell'impero romano ..... w. 2 —
Cumont F.: Le religioni orien-tali nel paganesimo romano ........ 6,50
Di Soragna A.: Profezie di Isaia, figlio di Amos. 7,50
Doellingcr I. : Il papato dalle origini fino al 1870 . i5 —
Janni U.: Il dogma dell’Eucaristia e la ragione cristiana 1,25
•••.: La religione cristiana. Manuale d’istruzione religiosa.
4 —
LOISY A.: Jesus et la tradition évangéllque...... 4 —
— "La Religion. .... 5 — 4- Mors et vita .... 2,25 — Epitré aux Galatei. 3,60 z— Là paix des nations . 1,50 Ottolenghi R.: I farisei antichi e moderni . .... 4 —
PETTAZZONI R. : La religione primitiva in Sardegna 6 —
Salvatorelli L.: Introduzione bibliografica alla scienza delle Religioni..... 5 —
—«La Bibbia» Introduzione al-—l’Antico e Nuovo Testamento . . . . . . . . . . 12,50
— Il significato di « Nazareno ........ 1,50
TYRREL G.: Autobiografia e Biografia (per cura di M..
D. Petre) ...... 15 —
A i nostri abbonali non tno-• ròsi L. 10,50 franco di porlo. Tyrrel G.: Lettera confidenziale ad un professore d’an-1 tropologia..........'. 0,501
Vitanza C.: La leggenda del « Descensus Christi ad in-feros » . ..............1,50
Wen'ck F.: Spirito e spiriti nel Nuovo Testamento' 0,75
X. La Bibbia e la Critica. 2 — X. Lèttere di un prete ' mò dentista . . . . 3,50
Là Bibbia (Vers. Diòdati Edizione.1!^) . . . . . .. 2,50
Nuovo Testamento, tradotto e corredato di note e di' prefazioni dal prof. G. Luzzi-1,80 Nuovo Testamento e Salmi (e-dizione Fides et Amor) 3 — Nuòvo Testamento è Salmi ad
.uso dei vecchi . . . •. 2 — I Vangeli e gli Atti degli Apostoli (edizione Fides et A mor) ........ 1,80 I Salmi (Edizione Fides et
Amor) ; ’... .... 1,80 Giobbe, tradotto da G. Buzzi
1,80 Ianni U.: Il culto cristiano ri? vendicato contro la degenerazione romana . . . . 1 — Taghalàtela E.: L’educazione nella Chiesa dei primi secoli
3»5°
Taylor G. B.: Il Battesimo 0,50
• VARIA
Bar Jona. : Ite missa est’ 5 — Cadetti A. : Con quali sentimenti son> .tornato dalla guerra ....... 1,50 Majer Rizzoli E: Fratelli e sorelle (Libro di guerra 19.151918) . . . . .. . . v . 4,50 Meriano F.: Croci di legno 3,50 Niccolinl È.: I contadini e' la
terra........... .. . ...2,50
Pioli G.: Educhiamo i nostri
padroni' ....... 2.50
LIBRI RARI
Calogero Bonàvìa [Corso Pisani. 192. Palermo] offre una BIBBIA riccamente illustrata, rilegata in pergamena, stampata • Lovanii anno 1547 ».
7
ESTRATTI DELLA RIVISTA “ BILYCHNIS „ ===== ISerle —
i. Amendola Èva: Il pensiero religioso e filosofico di F. Dostoicvsky (con tavola fuori tèsto: ritratto del D. disegnato da P. Paschetto). IW» p. 4° • • • Esaurito
2. Bernardo- (fra) da Quin-tavalle: L’avvenire secondo l’insegnamento di Gesù. 19x7# P- 43- • • • • 0.80
3. Biondolillo Francesco: La religiosità di Teofilo Folengo (con 1 disegno). 19x2,
p. 12. j . .. . . . 0.40
4. Biondolillo Francesco: Per la religiosità di F. Petrarca (con una tavola). 19x3, pagine 9...................0,40
5. Cappelletti Licurgo: Il Conclave del 1774 e la Satira a-Roma. 1918, p. io. 0,50
6. Cento Vincenzo: Colloquio con Renato Serra. 1918, p. il. ............... 0,60
7. Chiapponi Alessandro: Con tro l’identificazione della filosofia e della storia e pei diritti della critica.* J918.
9 p. 12..................0,60
8. Corso Raffaele: Ultime vestigi^ della lapidazione (con 2 disegni originali di
.. P. Paschetto). 1917, pagine 11............. Esaurito
9. Corso Raffaele: Lo studio dei riti nuziali. 1917, pagine 9 ...... . . 0,40
io. Corso Raffaele: Deus Plu-vius (saggio di mitologia popolare). 1918, p. 13. .0,75
11. Costa Giovanni: La bat-, taglia di Costantino a Ponte
Milvio (con due tavole e due’' diségni). 1913, p. 14. 1,50
12. Costa Giovanni: Critica e tradizione. Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino. 1914, pagine. 23 ...... 1,50
13- Costa Giovanni: Imperò romano e cristianesimo (con due tav.). 1915, p. 49. 2 —
14. Costa Giovanni: Il «Chri-stus » della ■ Cines ». 1917, p. il ...... . 0,30
15. Crespi Angelo: Il problema '■ dell'educazione (introduzióne).' 1912, p. 11. Esaurito
16. Créspi Angelo: ‘^’evoluzione della religiosità ncll’in. dividuo.. 1913, p. 14. 0,50
17. Dé Stefano Antonino: Le origini dei Frati Gaudenti.
1915, p. 26 . .• . . . 1,50
18. De Stefano Antonino: I « Tedeschi e l’eresia medievale in Italia. 1916, pai .ghie 17 ..... . 1 —
19. De Stefano Antonino: Delle origini dei « poveri lombardi-» e di alcuni gruppi valdcsil 1917, p. 23; 1 —
20. Fallot T-: Sulla soglia considerazioni sull’al di là) con una tavola f. t.» disegno di P. Paschetto). 1916, 14 ....... 0,50
21. Fasu lo ¿Aristarco: Pel IV centenario della Riforma. 1917', p. 18 . . . . . 0,50
22. Fasulo Aristarco: Brevi motivi d’uria grande sinfonia (Della Provvidenza). 1'918, p. 16 . . .... . 0,50
23. Fornichi Carlo: Cenni Sulle più antiche religioni dell’india (con suggerimenti bibliografici). 1917, pagine 15 .... . . . 1 —
24. Pomari F.: Inumazione e cremazione (con quattro ta=“ vele). 1912, p. 6 . Esaurito
25. Gabellini M. A,: Olindo Guerrini: l’uomo e l’artista.
1918, p. 17 .7. . ; . 0.50
26. Gambaro Angelo: Crisi . Contemporanea. 1912, pagine 7 . ...... 0,30
27. Ghignosi P. A.: Lettera' a R. Murri (A proposito di Cri-stianesimo e guerra,). 1910, p. 9............... Esaurito
28. Giretti Edoardo: Perchè sono per là guerra., 1915, p. 11 .... . Esaurito
29. Giulio-Benso Luisa: « La vita è- un sógno-» di Arturo Farinelli. 1917, p. 16. 0,50
30. Giulio-Benso Luisa: La-mennais e Mazzini (con una tavola f. t.: ritratto de! La-mennais). 1918. p. 40.- 1,50
31. Giulio-Benso Luisa: li sentimento religióso nell’opera di Alfredo Oriani. 1918, P- 43............... • x.5°
¡32 . Lanzillo Agostino: Il soldato c l’eròe (Frammenti di psicologia di guerra).
1918. p. 25 •' • • Esaurito
33. Lattes Dante: II filosofo del rinàscimento spirituale ebràico. 1918, . p. 21. 1,25
34. Lonzi Furio: L’autocefalia delia Chiesa di Salona • (con undici illustrazioni).
1912’, p.-i6 1 —
35. Lonzi Furio: Di alcune medaglie religióse dèi iv sé- . colo (con una tavola e quattro disegni). 1913» pagine 21 ..... . 1,50
36. LeopOKt H.: Le memorie apostoliche a Róma e i recenti scavi’di S. Sebastiano (con una tavola), 1916, pàgine 14 . . .’ . . . 0,40
37. Luzzi Giovanni: L'opera Spenccriana. 1912, pagine 7.. JA . . . .’ 0,30 ‘
38. Masini Enrico: La liberazione di Gerusalemme." Salmo. 1917, p. 2 . . 0,25
39. Mcille Giovanni E.: Il cristiano nella vita pubblica.
1913- P- 3i in-320. . 0,25
40. Meille Giovanni e Ada: Gianavello. Scene valdesi in quattro atti. (Disegni e xilografie di P. A. Paschetto), 1918,p. 67 . . 2,50
41. Minocchi Salvatore: I miti babilonesi e le origini della gnosi. 1914, p. 43 . . 1,50
42. Momigliano Felice: Il giudaismo di ieri e di domani.
4916, p. 16 . . .... . 0,60
43. ’MOller Alphons Victor: A-Ìostino Favaroni (f 1443)
generale dell’ordine Agostiniano) e la teologia di Lutero. 1914» P- 17. 0.50
44. Murri Romolo: L’individuo e là storia (A proposito di Cristianesimo e gnor a).
1915. P- 12 • ■ • ■ 0.50
45. Murri Romólo: La reli-5ione nell’insegnamento pub lico in Italia. 1915, pagine 22 ..... - . 0,75
46. Murri Romolo: La « Religione » di Alfredo Loisy.
1918, p. 16 . . . . , 1,25
Sui prezzi del presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spese generali. (Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Ital. 15-IV-20).
8
— VI —
Sili prezzi dei presente Catalogo aggiungere il 10 % per le aggravate spèse generali.
(Deliberazione dell’Ass. Tip. Lib. Xtal. 15-IV-20).
47. Murri Immolo: }GI‘Italiani 9 la libertà religiosa nel sc-cokrxvn. 1918. p. io. 0,50
48. Mutt incili Ferruccio: 11 Scolilo intellettuale di San gostino. 1917. p.. 8. 0,40
49. Razzavi R.: Le concezioni idealistiche del male. 1918, p. 16 1 —
50. Neal T.: Maine de Biran.
• Pcnsieriile.l $$$al/JI h I te fedi (Montaigne, Pascal, Alfred de "Vigny) (con due ta-. voli fuòri; testò); 1914, pagine 30 . . . . . . 1,50 .66. Pcovcnzal Dino: Giuoco fatto. 1917. ì>- 12 . . 0,40 67. Provcnzal Dino: L’anima religiosa di un eròe. 1918,’
8l l^ojsi : Afarioj :ì.a‘4ichinu« J del. Cristianésimo, (con lei • . ronza religiosa). 1916, pa.
gme 9 ....
<M<>
X9J4> p. 9 . ■
0,50
51. Orano Paolo: La rinascita dell’anima. 1912. p. 9. 0,50
52. Orano Paolo: Dio in Giovanni Prati (con-una lettera autografa inedita ed un ritratto). 1915, p. 19. . 1 —
53. Orano Paolo: Gesù c la Guerra. 1915, p. ri.. 0,50
54. Orano Pàolo: Il Papa a Congresso. 1916, p. 12 0,75
55.. Orano Paolo; La nuova coscienza religiosa in Italia.
1917. P- ’
0.50
56. Orr Jafhcs:'La Scienza e la Fede Cristiana (secondo-il punto di vista cónciliato-.rista). 1912, p. 25 . 0,25
57. Pascal Artur* Antonio Ca-' . raccioló: Vescovo di Troyes.
»915. P- 39 • • • - • v—
58. Pioli Giovanni: Marcel Hé-1 bcrt (con ritratto ed un au- j tografo). 1916, p. 23. 1 —
59. Pioli . Giovanni: Inghiltcr-1 ra di ieri, di oggi, di domani. ! Esperienze e previsioni (con sei tavole). 1917, p. 57 1,50
60. Rioli Giovanni: La fede e l'immortalità nel. « MOrs et vita» di Alfredo Loisy (con ritratto del Loisy).
1917. p. 22 . .
0,60
61. Pioli Giovanni: Morata c religione nelle opere di Shakespeare (con cinque tavole) 1918, p. 46 . > . . . 2 —
62. Pioli Giovanni: il cattó; lirismo tedesco e il - centro cattolico »/1918, p. 21 r.25
63. Pioli Giovanni: Lo spirito .della Rifórma c quello della Germania contemporanea.
1918. p. tv . . . . 0.50
64. Pons Silvio: La nuova crociata dei bambini. 1914)
p. 6
Esaurito
65. Pons Silvio: Saggi Pa-scaliani. L II pensiero politico c sociale del Pascal. Il, Voltaire giudice dei
p. 1-2
o.75
68. Puglisi Mario: Il problema mofale nelle religioni primitive. 1915, p. 36 .> :. 1 —*
69. Puglisi Mario: Le fonti religiose del problema del male. 1917, p. 97 Esaurito
70. Puglisi Mario: Realtà . c idealità religiosa (a proposito di un nuovo libro di A. Loisy). 1918, p. 13 1 —
71? Quadrotta Guglielmo:'Religione Chiesa e Stato, nel pensiero di Antonio Sa-iandra (con ritratto e una
- lettera di Antonio Salan-dra). 1916, p. 31 . . r—
72. Qui Quondam: Visione di Natale. Frammentò (con otto disegni di P. Paschètto) 1916, p. 7. . . . . Esaurito
7.3* Qui-Quondam! Cardùcci e il Cristianesimo in un libro
di G. Rapini. 1918. gine 11 . .............
I- Qui Quondam: La viola (Là bruettè) Dalle sarcjises. di Rostand due disegni di Paolo sciietto). 1918, p. 5 .
pa-0.50 Càr-Mu-(con Pa-0,40
¿75. Re-Bartlett:. Il Cristianesimo e lé chiese. 1918. pagine io .
Esaurito
76. Rendei Harris: I tre. a Misteri » cristiani di Wood-brooke (Introduzione e note di.Mario Rossi) (con pn disegnò di P. Paschètto). 1914 p.: 27, in-320 . .0,50
77. Rensi Giuseppe: La ra--gionc.e la guerra. 19x7. pagine 27 . . ..... 0,75
1 78. Rosazza Alai io: Del mètodo nello studiò' della storia delle religioni. 1912,, pàgine 7 . . .... Esaurito : 79. Rosazza Mario: La religione. del nulla (Il Buddismo), (con sei ‘disegni).
191.3/.............. Esaurito
180. Róssi Mario: Versò’ il Con82. -Rossi .Mario; Espcrien.] zc religiose .contemporanc« -, t9i8».P. X3 r • • -, • 0.501
83. Róssi Mario: La ■ Cacciai» della morte » a mezza quaresima ih un sinodo boom«, del ’300 (Note folk!oj\chc). 1918. p. 8 . ‘.»i.1 . ‘.’<«0,50
84. Rossi Mario: I sofismi sulla guerra e la'difesa della nostra latinità (Guerra di religione .0 guerra ecqnomi• cà?). 1918, p. 1
.0.50
85. Rostan C.: Lò stato delle anime dopo la morte secondo il libro XldélFOdis-:sea, 1912. p. 8 . Esaurito
86. Rostan C.: Le; idee religiose di Pindaro. 1914, pagine 9. ' . . . Esaurito
87. Rostan C.: ' L’oltretomba nel librò VI dell’« Énéìde ».
1916, p. 15
0.50
88. Rubbianì Ferruccio: Maz-. zini e- Gioberti., 1915, pagine . Esaurito'
89. Rubbiani Ferruccio: Un modernista del Risorgimento (Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga),. 1917,’ pa-' gine .,23 . . / ; . ’’ 0,60
90. Rutili Ern.es.to: Vitalità ’ é Vita nel Cattolièismó (To'
II) . Crònache'Cattoliche per ; gli anni 1912-1913 Esaurito
91. Rutili Ernesto: Vitalità e Vita.nel Cattoljcistno (JIT, IV, V). Crònache cattoliche .per gli anni 1913 e 1914 (tre fascicoli di pagine compiè^-*
•>, sivc 52).. .
i^o
92. Rutili Ernesto: La 'soppressione dei gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di -essìi' 1914. pàgine 6
0,40
clave. 1913, p-. 4 . . 0,25)' JÒÌ4. p. 10.
93. Sacchini' Giovanni1: I! Vitalismo.'1914, p. 12 ' 0.50
94. Salatici lo Giosuè : Il misticismo1 di Caterina, da Siena (cóli una tavola).. 1912, p. io . . • . .' 0,50
95. Salaticllo Giosuè: I./nina^ nèsimó di Caterina da Siena
• '0,50
9
— VII —
6. Salvatorelli Luigi:'. La] storiò ;d£L Qris(tte.n£simo.ed. i suoi rapporti con la storia I civile; 1913. p. io Esaurito : 7. Scaduto Francesco: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa.' 1913/ p. 25:10-32° . . . * • ; 0,25 8. Tagliatetela Alfredo: Fu il Pascali poeta cristiano? ;(con ritratto del Pascoli e 4 "disegni di P. Pacchetto). 1912,Jp. 11 . ... . 0,75 9. Tagliatetela Alfredo: Il sogno di Venerdì Santo« il sogno di Pasqua (con 4 di-’¿fegni'Originali di Paolo. Pa-schetto): xpx2," p. 8 , 0,25 o. Tagliatetela Eduardo: Morale e religione. 1916, p.40 1 ■ * .
Fattóri. Agostino : Pensieri del l'ora .(Leggendo il « Còllo-lquio*con Renato Scixu ■ di Vincenzo Cento). 19x9. "pagine-13^ ..............0,50
Di Rubba Domenico: La fcdc% religiosa di Woqdrow Wilson. jgrq, P- 29 < ? . 0,5.0 Fra Massco da' Pratóvefdc : Intermezzo sacramentale (A proposito dì Unione delle Chiese- Cristiano). 1*919, pagine 17 \ 0,75
Dell'Isola M. e Prbvenzal Dino: C'è una spiegazione logica della? vita? loìqf-'p. 12 o!,6q Billià SUchelangelo: Il vero uomo. Ì919, p. ’7 ’. . 0,50 Rosgi Mariqr Religione e religioni in'Italia* Secondo l’ultimo ■censi mento. 1919, pa-■g«ne;iX • • >•' 0.50
Cadorna Carla: I ritrovi spiri ititeli di- Vjterbo nel 1541. J9I9» P- .7 • • • • • 0.5° Masini Enrico: Epistolaai fra-itelli di buona volontà. 19,19. ;p. il ; . . . .; 0,50
.Marchi .'Giovanni: Il »Confiteor » ¿dei giovani. 1919, p. 8 . . . 0,50
). Qui Quondam: Dopo-guerra nel clero. 1919. p. 14. 0,60
1. Tacci Paolo: La guerra e te * pace} nel pensiero ¿li, Lutero.' 1919. P- 31 • !• ijo"
2. Pavelini Paolo Emilio: Poesia Religiosa polacca, 1919, pagine <8 ..... . .0,50
tot. Tagliatetela Eduardo: Lo . jpscgnamciito .religioso secondo odierni pedagogisti-italiani: 1916, p. 9 . . 0,50
102. Tanfani Livio: Il fine . dell'educazione, nella scuote
-dei gesuiti. 1918, p. 27 0,75
103. Tosàtti Quinto: Giordano Bruno (con ritratto del Bruno: disegno di P. Paschctto).
1917. p. 19 .... . 1 —
TO4.Trivcro(CamiBo: La ragione e la guerra. 1917, .0450,40
105. Jucci Paolo: La guerra - nelle grandi parole di Gesù.
1916, p. 27 . ... . 1 -~
106. Tucci.-Paolo: Il Cristianesimo c la storia (A. proposito di Cristianesimo . e guerra).-1917, p. 9 ; 0,50
== II Serie =
13. Pioli Giovanni: In memoria del P. Pietro Gazzola. 1919, p. 15 . '. 1,50
14. Provenzal Dino: Ascensione eroica, 1^19, P- H- .0,80
15. Rensi Giuseppe: Metafìsica e lirica. 1919, p." 15 .?. 1 —
16. Falchi Mario: C’è una’spiega-zione logica della vita? 19x9 p. 8 . . . . . 0,40
17. Costa Giovanni : Giove ed Ercole (contributi allo studio della religione romana nell’impero), con quattro, tavole. 1919 .' p . 27 . . 2—
18. (••♦) Mancanze di garanzie nello Schema ,e nel nuovo Codice di diritto- canonico e saggio su. le fonti. 1920 p. 52 -, . . ..... 3 —
19. Della Seta Ugo: La visione .morale della, vita in Lpo■ nardo’ da Vinci. 1919. pà. gine 31 . .. .- . . . 2 ~r
20. Losca Giuseppe: Sensi è pensieri religiosi nella poesia di Arturo Graf fcòn due tavole). 1914-1919. Pagine 40
2 —
21. Nazzari Rinaldo: Intelletto e ragione. 1919: p. 15. 1 -22. Ferretti Gino: Le fedi. Io-idee c*la condotta; 1919, pagine 5Ò . . ..... 2 —
23. Cento Vincenzo: L’Ess.en-za del Modernismo p. 52 3 —24/Minócchi Salvatore : Un’di-singanno della scienza biblica? (I papiri aramatei di Elefantina) pag. 11 . . . 1 —
107. Vitanza Calogero: Studi Commpdianoil 1. Gli Anticristi e l’Anticristo nc I < Carmen apologcticiun i di Com-modiano. IL Gommodiano Do.ceta?, 1915, p.: 15 > . 0,75
108. Vitanza Calogero: L'eresia di Dante. 1915, pagine 13 ... . Esaurito
109. Vitanza . Calogero: Satana nella, dottrina della » redenzione. 1916, p. 19 1 —
110. Wigley Raffaele: I metodi della speranza (Psicologia religiosa). 1913, pagine 14 Esaurito
in. Wieley Raffaele: L’autorità 4 del Cristo (Psicologia religiosa). 1915, p. 39. r —
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25. Corso Raffaele: La ’rinascita della superstizione nel-l’ultima guerra, p. 20 . 1.50
26. Colonna di, Cesarò G. A.: La guerra europea dal punto divista spirituale, p. 15 i^>
27. Arcari P.: Atteggiamenti della pittura religiosa di Eugenio Burnand, p. 14 . 1,50
28. Lùzzi G.: A uno studente del sec. XX è egli ancora possi bile d'essere.. cristian o?
• pag. 12. . . . ' . .... 1 —
29. Momigliano F.: I momenti del pensiero italiano (dalla Scolastica alla Rinascenza) pag. T2n . . . ... . 1.50
30. Thompson Fr.; Il veltro del cielo (Versionedi M. Praz) pag. 8 ........ 1.50
31. Tucci G.: A proposito dei
-, rapporti fra Cristianesimo c Buddhismo p. 12 . . . 1,50
32. Mueller V. A.: G. Perez di Valenza O. S. A. vescovo di Chrysopoli c te teologia di
Lutero, pag. 15. . . .- . 1,50
33. T>;oubetzkoi E.: L’utopia bolscevica ed : il movimento religioso in Russia, p. 15 1,50
34. Momigliano F. : L’ educa-‘ ziónè religiosa di G. Mazzini, pag. io . . .............1,50
35. Formichi C. : La dottrina Idealistica dclle»Upanishad«>, pag. 16 . . . . . . • ; * 2 —
36. Corso Raffaele: Folklore
Biblico, pag. 16 . . 2— *
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BILYCMNIS
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EDITADALLAFACOUÀDELLASCVOLAJs^ asæskTEOLOGICA* BATTISTA* DI* ROMA
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VOL.XVI.5
IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO ANTICO INTORNO ALLO STATO, DAGLI APOLOGETI AD ORIGENE
(Continuazione e fine. Vedi Bilychm*, Ottobre 1990 pag. 264).
IV.
arebbe interessante poter confrontare queste teorie — che filosofi, apologeti e moralisti cristiani hanno esposto nei loro libri, secondo il lavoro riflesso del proprio pensiero —sarebbe interessante, dico, poterle confrontare con lo stato d'animo effettivo della collettività cristiana. Va da sè che le due serie di testimonianze potrebbero anche non coincidere; anzi, è presumibile che una vera coincidenza non si troverebbe quasi mai. I sentimenti spontanei della collettività cristiana, noi li
troveremmo, possiamo credere, ora di qua ora di là dalla linea del pensiero riflesso che abbiamo cercato fin qui di tracciare.
Ma di quésti sentimenti noi non abbiamo testimonianze dirette, se pur non volessimo considerare come tali le dichiarazioni dei martiri cristiani di fronte ai tribunali dell’impero (i). Senonchè, qui incontriamo una grave difficoltà pregiudiziale: quella, cioè, di stabilire se e fino a qual punto tali dichiarazioni, tramandateci dai documenti agiografici giunti fino a noi, riproducano esattamente le parole realmente pronunciate dai martiri. Questa difficoltà tuttavia la possiamo, almeno parzialmente, superare grazie alla critica e la classifica rigorosa di quei documenti, che ha fatto notevoli progressi, da Ruinart in poi.
(1) Riassumiamo qui i risultati del nostro studio Lo Statovnella coscienza dei martiri cristiani (in Rivista di Scienza delle religioni, anno I, 2, 1916, pp. 100-115).
12
334
BILYCHNXS
Se prendiamo la classificazione del Delehaye, nelle Légendes hagiographiques, noi vediamo che possiamo affidarci sopratutto alla prima categoria — la più scarsa — di documenti agiografici, quella degli atti propriamente detti, riproducenti cioè i processi verbali degli interrogatori. Ma anche la seconda e la terza categoria (racconti di testimoni oculari, o comunque di contemporanei bene informati; racconti basati su documenti scritti aventi valore storico) sono da utilizzare, inquan-tochè siamo autorizzati a ritenere che essi contengano in parte le effettive dichiarazioni dei martiri, e in parte la versione che di queste dichiarazioni si era formata nell’ambiente circostante, e che pertanto deve essere considerata anch’essa come esprimente la reazione della coscienza cristiana di fronte allo stato persecutore.
Tuttavia, anche fatte queste avvertenze, si errerebbe se si prendessero le risposte dei martiri come esprimenti esattamente il sentimento medio normale della collettività cristiana nei riguardi dello stato. Esse ci esprimono, invece, il sentimento dei periodi di persecuzione, cioè, checché si sia detto in proposito, di momenti eccezionali. Ma sono tuttavia momenti di particolar valore per noi, in quanto che in essi la comunità cristiana entrava in conflitto diretto e mortale con lo stato, e quindi più chiaramente dovevano venir fuori gli elementi costitutivi del contrasto fra le due società.
Il contrasto fra confessori cristiani e autorità statali era di carattere essenzialmente pratico; esso s’imperniava ordinariamente intorno all’atto del sacrificio agli dei, imposto da una parte, rifiutato dall’altra. Ma spesso non si trattava tanto del culto agli dei dell’Olimpo, quanto del culto al dio presente, all’imperatore; e qui, come è noto ormai a tutti, il conflitto assumeva particolare carattere politico. Se il cristiano cercava di togliere ad esso questo carattere, distinguendo fra sovranità e divinità, ed accettando la prima mentre rifiutava la seconda, agli occhi del magistrato e più ancora della popolazione pagana, la distinzione era impossibile: sovranità e divinità imperiale facevano una cosa sola. Quei pagani di Smirne, che vogliono persuadere il vescovo Policarpo a salvarsi, gli dicono: « Che c’è di male a dire: Signore Cesare, e sacrificare? » (i). Il sacrificio e il riconoscimento di Cesare come Signore fanno per loro tutt’uno. E veramente non per loro soltanto, ma anche per i cristiani, i quali trasportano, come abbiamo già rilevato, al loro Dio e a Cristo questo epiteto di Signore, di Kópw$, come l'altro di So-nìp di Salvatore (2), e negano all’imperatore la «venerazione», non lo riconoscono, cioè> come come Augusto. « Onorare il re, venerare solo il Dio immortale,
dice Apollonio, il martire romano della fine del n secolo (3), analogamente a Do(1) Martirium Policarpi 8a. Dove non facciamo citazioni speciali, il testo citato si ritrova in Gebhardt, Ansgewàhlte Màrlyraden (Berlin, 1902), o altrimenti in Ruinart, A da martyrum sincera.
(2) V. c. III.
(3) Mari. Ap. yj. Anche se questo martirio non fosse autentico, come vuole il Geffcken, Die Ada Apollonii (in Goti. Nachrichten, 1904), le parole citate risponderebbero tuttavia esattamente al concetto cristiano.
13
IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO INTORNO ALLO STATO, ECO. 335
nato, il martire contemporaneo di Scilli: « Honorem Caesari quasi Caesari, timorem autem Deo»(i).
Anche alle dichiarazioni di lealismo e di obbedienza all'autorità costituita dei confessori cristiani ed alle loro affermazioni sull’origine divina di quest’auto^ rità — le une e le altre in conformità alle teorie ufficialmente professate dalle comunità cristiane, e di cui dovremo occuparci più avanti — non bisogna dare un valore più grande di quello che hanno realmente: non bisogna, cioè, interpretarle come il riconoscimento di un valore positivo dello stato. Di questo si può ben dire che non v’è traccia nelle dichiarazioni dei martiri cristiani. Il potere imperiale, in quanto non viene in conflitto con i precetti religiosi, è accettato passivamente, per un puro atto di obbedienza a Dio, ma rimane cosa a loro estranea. Non s'incontrerà mai, credo, sulla loro bocca, una frase come « i nostri imperatori », « le nostre leggi »; il martire cristiano parla abitualmente, ai giudici, delle « vostre leggi », dei « vostri imperatori » (2). Perfino S. Cipriano, il vescovo di Cartagine, uno di quelli che tengono un contegno più legalmente corretto davanti ai giudici, uno di quelli che parlano della preghiera per l’imperatore fatta dai cristiani, dice, parlando di una legge che non è neppure diretta contro i cristiani, e che anzi egli loda: « Legibus v e s t r i s bene atque utiliter censuistis delatores non esse » (3).
Ma il cristiano innanzi ai tribunali non si limita a considerare come cose a lui estranee lo stato ed i suoi ordinamenti: egli oppone altresì alle leggi romane la legge sua, cioè la legge di Cristo, la legge divina. Il punto di partenza della contrapposizione è una questione particolare, quella del culto idolatrico vietato da Dio; e così Pionio di Smirne, al vescovo Polemone, che gli parla del decreto imperiale prescrivente il sacrificio agli dei, risponde? « Conosciamo i precetti di Dio in cui ci comanda di adorare lui solo » (4). ,Qui troviamo contrapposto un precetto particolare ad un altro precetto particolare; ma è facile osservare che in fondo c’è un’antitesi più generale, quella appunto della legge cristiana e divina con la legge statale ed umana. E questo carattere generale viene fuori facilmente, cosicché la negazione cristiana prende l’aspetto di una negazione, potremmo quasi dire, pregiudiziale, della legge imperiale tout couri. Così la martire Crispina, ad Anulino che le parla del sacrum praeceptum da osservare — si osservi quel sacrum, ch’era particolarmente adatto a stimolare la reazione cristiana e a metter di fronte le due opposte coscienze—risponde: «Praeceptum observabo, sed domini mei Jesu Christi»(5). Il precetto, dunque, di Cristo, in generale. Anche meglio Giulio, al giudice che gli fa osservare: « Si pro patriae legibus patereris, haberes perpetuam lauderò» refi) Passio s. Scili. 9. Cfr. Taziano, nel passo‘citato più avanti, a p. 345.
(2), Pionio di Smirne: « Seguite le vostre leggi » (Martirio di S. Pionio, x6ó). Giulio: < Là salute dei suoi re » (Acta s. Julii 3, in Anal. Boll., X, 1891, p. 51). Dasio: « Io disprezzo i tuoi re • (Martirio di S. Dasio, io, in Anal. Boll., XVI, 1897, p. 14). La stessa osservazione si può fare anche per gli scrittori cristiani di questo periodo.
3) Acta S. Cipri ani, 164) Martirio di S. Pionio, ecc., ’32-3.
5) Passio S. Crispinas, 1 (P. Franchi de’ Cavalieri. Nuove note agiografiche [Studi e Testi, IX]).
14
336 BILYCHNIS
plica: a Pro legibus certe haec patior, sed prò divinis» (i). E Saturnino con la semplice parola « lex » (lex sic jubet) indica senz’altro la legge cristiana, come l’unica presente alla sua coscienza (2). Esclusione generale implicita della legge statale, che diviene esplicita nel-suo compagno Telica: « Non curo nisi legem Dei quam didici... praeterquam non est alia ? (3).
Un punto di arrivo, dunque, in questo processo di opposizióne allo stato è la negazione recisa della sua legge, in blocco, di fronte a quella divina. Un altro punto d’arrivo è la sostituzione dell’imperatore celeste al terreno e la negazione di questo. Se già Policarpo di Smirne ci parla di «il mio re, il mio Salvatore» (4), Sperato, il martire scillitano^ dichiara più nettamente: « imperatorem nostrum ob-servamus... agnosco dominum meum et imperatorem regum omnium gentium », e si spinge sino ad affermare: «Ego imperium huius saeculi noncognosco» (5). Così Dasio, il soldato che si rifiuta a far da re nei Saturnali, dichiara: « io non servo un re terrestre, ma un re celeste» (6); e Massimiliano, a Tebeste in Numidia, davanti all’ufficio di reclutamento militare, rifiuta l’arrolamento, come contrario alla sua coscienza, perchè, servendo Cristo, non può servire l’imperatore. «Non accipio signaculum: iam habeo signum Christi Dei mei... non milito saeculo, sed milito Deo meo » (7). Infine la martire Agape, più radicale di tutti. Chiama addirittura « Satana » i re ed i Cesari di cui le parla il giudice (8).
Queste dichiarazioni dei martiri cristiani — che per la natura dei documenti da cui le abbiamo prese, oltre che per il carattere che ci presentano considerate anche in se stesse, possiamo considerare complessivamente come autentiche — hanno per la nostra ricerca un grandissimo valore. Noi ritroviamo qui, nelle manifestazioni effettive di umili gregari della Chiesa, nelle circostanze concrete del loro incontro col potere statale dinanzi ai tribunali, una quantità di elementi che avevamo precedentemente esaminato negli scrittori cristiani. La svalutazione dello stato, considerato come cosa indifferente ed estranea; la proclamazione dell'incompatibilità fra certe funzioni essenziali di questo e la coscienza cristiana (l’antimilitarismo cristiano); la contrapposizione delle leggi cristiane, dell'imperatore dei cristiani, alle leggi e all'imperatore romani; il disconoscimento reciso dello stato come di cosa di questo secolo; l’affermazione, infine, del suo carattere satanico: ecco tutta una serie di elementi della coscienza politica cristiana, che, al lume delle
(1) Acta S. Julii, 3.
(2) Mari. S. Saturnini, ecc. io.
(3) Ibid., 6.
(4) V. sopra, c. III.
(5) Passio ss. Scili., 6. Si noti, però, che mentre l’ultima frase sembra escludere qualunque riconosci mento dello stato, nella precedente si parla di Dio, o di Cristo
“ ,mPcrat?Jc dci re di tutte le genti », il che implica un riconoscimento delle auto-7. terrene, sebbene, naturalmente, subordinate all'imperatore celeste. È uni prova <h piu che abbiamo da fare con un pensiero molto impreciso e ondeggiante.
(6) Martirio di S. Dasio, 7.
(7) A eia S. Mass., 2.
(8) Martirio delle ss. Agape, ecc., 4.
15
IL PENSIERO DEL CRISTIANESIMO INTORNO ALLO STATO, ECC.
337
dichiarazioni dei confessori cristiani, ci appaiono non più affermazioni e speculazioni puramente teoriche (come avremmo potuto esser stati tentati di crederli), ma cóme stato d’animo effettivo e sentimento palpitante della collettività cristiana.
Ripetiamo che la importanza di una simile constatazione è grandissima; ma ci affrettiamo ad aggiungere che non occorre tuttavia esagerarla. Bisógna ricordare quel che abbiamo detto da principio: le dichiarazioni dei martiri ci testimoniano, si, idee, sentimenti, stati d’animo realmente presenti nella coscienza cristiana; ma non possiamo prenderle come indice della coscienza cristiana media, normale. La condizione normale del cristiano nei primi tre secoli, nonostante le esagerazioni apologetiche e non apologetiche, non era il martirio. E pertanto le affermazioni di Sperato, di Massimiliano, di Giulio, di Saturnino, e così via, dobbiamo considerarle non come espressione di quel che si pensava abitualmente dello stato dai cristiani; ma piuttosto delle idee estreme a cui là coscienza cristiana poteva arrivare nel momento dell’aperto conflitto.
Non basta. Le dichiarazioni dei martiri, anche quelle di carattere generale vengono pronunciate in una particolare circostanza; in risposta, cioè, alla ingiunzione dello stato di compiere atti idolatrici (i). L’opposizione allo stato e la negazione di questo non sono dunque opposizione e negazione di uno stato qualunque, ma di uno stato che fa sua la causa dell’idolatria, e di uno stato pagano. Esisteva fra queste due entità — stato e paganesimo — una connessione necessaria per la coscienza cristiana? Questo è un punto su cui le dichiarazioni dei confessori non sono in grado d’illuminarci. Essi non fanno delle speculazioni, e non espongono teorie; essi si trovano innanzi a uno stato di fatto (l'impero romano idolatrico), e si comportano in conseguenza. Ma non si può dire che mostrino di credere esplicitamente che i loro giudici e i capi di questi, gli imperatori, debbano essere necessariamente idolatri ed imporre necessariamente l'idolatria. Potremmo trovarne un indizio nell’espressione « impero di questo secolo » o altre analoghe, che vediamo usate da Sperato e Massimiliano, poiché « questo secolo » è appunto il mondo della idolatria. Ma quelle espressioni non sono abituali, sulla bocca dei martiri cristiani; e, in ogni modo, tolte di peso dal linguaggio escatologico corrente, non ci dicono per sé stesse abbastanza sul pensiero cosciente di chi le adoperava. Per far luce su questo punto — per vedere, cioè, se il cristianesimo concepisse come totale ed assoluto il suo contrasto con lo stato, riguardando questo come indissolubilmente legato col mondo idolatrico — occorre tornare all'analisi del pensiero riflesso cristiano testimoniatoci dagli scrittori.
V.
Sebbene, dunque, la coscienza cristiana tendesse alla costruzione teoretica di un ordinamento socialerpolitico cristiano, distinto e contrapposto allo stato,
(’) .Conviene fare eccezione per i casi di « antimilitarismo cristiano » come, quello di Massimiliano, sebbene anche lì la coscienza di quei cristiani vedesse un elemento di contatto con 1 idolatria.
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e sebbene questa costruzione teoretica trovasse un principio, e più ancora che un principio, di attuazione pratica .nella vita e nella organizzazione delle comunità cristiane, pure la contrapposizione fra l’ordinamento cristiano e quello statale non era, nella concreta realtà quotidiana, totale ed assoluta, ma parziale e relativa. Il cristiano singolo e le comunità cristiane non impugnavano sistematicamente il comando dello stato, ma alcuni comandi singoli, professando, per il resto, obbedienza. Le affermazioni di questa, e di ciò che potremmo chiamare il lealismo cristiano, sono troppo note, perchè occorra qui insisterci. Basterà ricordare come professioni esplicite in questo senso si trovino in quello stesso scrittore cristiano in cui si puc constatare un massimo, diciamo così, di antistatalità: in Tertulliano. Gl’imperatori sono per lui i primi dopo Dio, « ante omnes et super omnes deos » (x) e devono essere riveriti ed onorati come posti da Dio (2); ribelli agl’imperatori non si trovano fra i cristiani: essi sono «de romanis, nisi fallor, id est de non christianis» (3).
Come, ora, il cristiano conciliava queste sue professioni generiche col fatto specifico della disobbedienza a certe leggi, a certi comandi imperiali? La posizione radicale della ignoranza e del rigetto delle leggi statali in genere, al posto delle quali subentra la sola legge di Dio, è, l’abbiamo già avvertito, una eccezione. Normalmente, la via •che batte il cristiano di questi tempi è quella stessa su cui l’avevano preceduto gli apostoli, dichiaranti al sinedrio di Gerusalemme: «Conviene obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (4). Si obbedisce dunque agli uomini fino a che il lóro comando non è in contrasto con quello di Dio. Ma la distinzione — che consiste, dunque, nel graduare l’imperatività delle diverse serie di comandi, e non semplicemente nel sopprimere una delle serie a favore dell’altra — la distinzione, dico, è ancora immediata ,e irriflessa nella comunità gerosolimitana. Dagli apologeti in poi, essa è riflessa e dedotta razionalmente; e il fondamento razionale viene dato dalla filosofia.
Uno dei concetti fondamentali dello stoicismo, come è noto, è quello della legge naturale, cioè razionale, come legge universale e suprema. Essa è la legge di cui Crisippo diceva, nel passo conservatoci dal Digesto, che « è re di tutte le cose divine ed umane, il canone delle cose giuste e delle ingiuste» (5). Questa legge comune, il xoivó; vó$zo$, era equivalente alla retta ragione, al ’ópSò? Xóyo$, che regge e governa l’universo, 0, che fa lo stesso, alla ragione divina: « ratio est recta summi Jovis » (6). Ciò che è giusto, dunque, è tale per natura, non per precetto o convenzione positiva particolare. Crisippo appunto diceva vò Sizacov e» va: za: Sew (7). E la legge naturale è anteriore a qualunque legge positiva: «seclis omnibus ante nata est, quam scripta lex ulla aut quam omnino ci vitas constituía» (8).
1) Ap. 30; efr- Scap., 2.
2) Ad Scap., 2.
3) 35- .
4) Atti degli ap., 5,29 Cfr. Stato e vita sociale, c. IV, pp. 101-02.
5) Dig., I, 3.2.
5) Cic., De leg., Il, 4,10 Cfr. Marco Aur.:: '»ójao; <!?> Xóyo; xowó; «¿vtw tw* voepwv <wwv (In se ipsutn, VII, 9).
(7) Arnim, Stoic. vet. fragni., Ili, 308.
(8) Cíe., De leg., I, 6,19.
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La legge positiva, quindi, prende la sua norma dalla naturale: « Est lex justorum injustorumque distinctio, ad illam antiquissimam et rerum omnium principem expressa naturam, ad quam leges hominum diriguntur » (1).
Ne segue, che la legge positiva non può essere in contrasto con la naturale, principio che i giureconsulti romani, discepoli, su questo punto, ed eredi dello stoicismo, riconoscevano apertamente proclamando con Gaio: « Nec enim naturalis ratio aucto-ritate senatus commutari potuit » (2), e con Celso: « Quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt» (3). Pertanto, può darsi e si dà effettivamente che le leggi positive non siano d’accordo con la legge naturale, ed in tal caso esse non sono giuste. « Jam vero illud stultissimum, existimare omnia justa esse, quae sancita siùt in populorum institutis aut legibus» (4). Esistono dunque lèggi buone e leggi cattive, e il criterio per distinguerle è appunto quello della legge naturale: « nos legem bonam a mala nulla alia nisi naturae norma dividere possumus» (5). Le leggi ingiuste e cattive non possono neppure esser considerate come leggi: « Ex quo intelligi par est, eos, qui perniciosa et injusta populis jussa descripserint, cum contra fecerint quam polliciti professique sint, quidvis potius tulisse quam leges » (6). E conformemente a questi principi, gli stoici, sé dobbiamo credere Plutarco, biasimavano come cattive e stolte perfino le leggi di Licurgo e di Solone (7).
È facile vedere come questo concetto stoico della legge naturale sovrana, e della inferiorità della legge positiva nei suoi confronti dovesse far gioco all’apologetica cristiana di fronte allo stato pagano e persecutore. Naturalmente la legge naturale, per la speculazione cristiana, si identificava con la legge divina, del Logos, ciò che era altresì perfettamente conforme al pensiero stoico; e pertanto — qui entrava in gioco l’elemento specificamente cristiano — con la rivelazione ebraica e cristiana, con la legge di Mosè ed i precetti di Gesù Cristo.
La subordinazione ideale del potere dello stato, e quindi delle sue leggi, ad una legge morale suprema è già implicita in Giustino, là dove egli sostiene che i governanti debbano giudicare « non con la forza nè con la tirannide, ma seguendo la pietà e la filosofia » (8); ed è lo stesso Giustino a proclamare che il Logos è « il più regio ({JatnXwcÓTaTov) e il più giusto dei governanti dopo Dio che l’ha generato » (9). Qui tuttavia non abbiamo la contrapposizione delle due leggi — naturale e divina, positiva e umana — ma piuttosto la critica della legge da un punto di vista morale e religioso: la contrapposizione, potremmo dire, è fra diritto e morale, o fra diritto e filosofia, anziché fra diritto positivo e naturale. Lo stesso vale perTertul?
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4
5
6 ii (9)
Ibid., II, 5,13.
Cfr. Dig., VII, 5,2.
Cfr. Dig., L. 17,188.
Cic., De leg.. I, 15,42.
Ibid., 16,44.
Ibid., II, 5,11.
Plut.» De stoic, rep., 3.
I Ap., 32.
Ibid., 127.
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liano, quando egli, all’obbiezione della proibizione legale del cristianesimo, così risponde: « sine dubio id non debet licere quod male fit, et utique hoc ipso praeiudi-catur licere quod bene fit. Si bonum invenero esse, quod lex tua prohibuit, nonne ex ilio praeiudicio prohibere me non potest quod, si malum esset, jure prohiberet? Si lex tua erravit, puto, ab homine concepta est; neque enim de coelo ruit » (i). Qui abbiamo proclamata soltanto la fallibilità della legge, e quindi, in quel caso, il diritto di disobbedirle: « Legis iniustae honor nullus est » (2) È un atteggiamento prevalentemente negativo, in cui manca la formulazione precisa del criterio positivo per il superamento della legge scritta. Gli elementi di questo, tuttavia, già ci sono: è la giustizia della legge quello che conta, o più precisamente l'equità: « leges... neque annorum numerus, neque conditorum dignitas commendat, sed aequitas sola » (3). Una volta, anzi, Tertulliano fa appello al diritto naturale proprio a proposito della libertà religiosa: « Tamen fiumani juris et naturalis po testa tis est unicuique quod putaverit colere » (4). Non basta: egli contrappone anche la légge divina e. le umane, sostenendo la priorità della prima: « Dum tamen sciatis ipsas leges quoque vestras, quae videntur ad innocentiam pergere, de divina lege ut antiquiore formam mutua-tas». La legge divina in questione è la mosaica; seguita infatti immediatamente Tertulliano: « Diximus iam de Moysi aetate » (5). È la stessa idea di Clemente di Alessandria, che nelle Stromati sostiene la superiorità di Mosè sui legislatori greci (6), e dice che « Mosè era la legge animata, governata dal buon Logos » (7).
Ma anche in questi passi non abbiamo la vera e propria contrapposizione della legge naturale e di quella positiva, e la legge divina (mosaica) appare piuttosto come una legge positiva più antica e perfetta delle altre. È Origene, che invece formula nettamente e svolge il concetto: « Essendo pertanto due le leggi nella loro origine, l’una quella di natura, stabilita da Dio, l'altra quella scritta degli stati, quando la scritta non contravviene a quella divina, è bene che i cittadini non la lascino, preferendo leggi straniere; ma quando la legge di natura, cioè di Dio, prescrive cose contrarie alla legge scritta, vedi se la ragione non dice di voltare le spalle [leti. di dire un gran vale, xaiosw] a c>ò che è scritto e alla volontà dei legislatori, e di seguire Dio legislatore » (8). Origene fa esplicita applicazione di questo concetto ai rapporti fra i cristiani e le leggi statali; giacché, come egli dice, « se è ragionevole preferire nelle altre cose la legge di natura, che è la legge di Dio, alla legge scritta e legiferata dagli uomini in opposizione alla legge divina, come non si dovrebbe a maggior ragione far così nelle leggi che riguardano Dio? » (9). Ciò è quanto dire che se la legge nati} Apoi., 4.
(2) Ad nal., I, 6.
(3) Apoi., 4.
(4) Ad Scap., 2.
(5) 45(6) Strom., I, 26.
(7) Ibid.
(8) Conira Celsurn, V, 37.
(9) Contra C., V, 37.
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furale-divina è da preferire a quella positiva-umana sempre, ciò vale tanto più quando si tratti di questioni religiose. Perciò le disposizioni che prescrivono il culto idolatrico non possono aver valore. « Quali leggi sono quelle secondo le quali Celso vuole che si renda omaggio ai demoni? Se intende parlare delle leggi costituite negli stati, dimostri che si accordano con le leggi divine. Che se egli ciò non può fare, chè anzi neppure fra loro concordano le leggi della maggior parte degli stati, è chiaro che si tratta di leggi che non sono tali, o sono malvage, a cui non si deve obbedire, dappoiché «si deve obbedire piuttòsto a Dio che agli uomini » (Atti 529. » (1) Ed ecco, dunque, che quésto precetto apostolico, autorizzante, anzi imponente, in certi casi, la disobbedienza allo stato, viene giustificato da Origene sul terreno filosofico, identificando la distinzione religiosa fra i precetti divini e gli umani con quella filosofica tra legge naturale e legge positiva.
La legge naturale, pertanto, diviene una proprietà — un monopolio, potremmo quasi dire — dei cristiani: « Noi dunque cristiani, conoscendo la legge che per natura è regina di tutte le cose (2), la quale è la stessa che la legge di Dio, cerchiamo di vivere secondo quella, voltando le spalle alle leggi illegali » (3). Così Origene è in grado di rivendicare altamente ai cristiani il diritto di violare le leggi statali: «è santo violare le leggi stabilite dall’inizio per le varie regioni con leggi superiori e più divine, poste da Gesù, potentissimo » (4). E in particolar modo ribatte il rimprovero di Celso, che i cristiani si unissero in associazioni illegali: « Non è dunque irragionevole stringere patti contro le leggi, quando essi siano per la verità. Se alcuni prendessero di nascosto degli accordi per toglier di mezzo un tiranno invadente il governo della città, sarebbero ben presi; e così i cristiani, sotto la tirannide di colui ch’essi chiamano diavolo, e della menzogna, fanno tra loro accordi contro il diavolo in contravvenzione di ciò che è stato legiferato dal diavolo » (5).
Queste ultime espressioni di Origene sono notevoli. Esse ci mostrano come la distinzione filosofica e giuridica di legge naturale e legge positiva, ripensata da cervelli cristiani, non mancasse di modificarsi e colorarsi in maniera particolare. Per il pensiero pagano si trattava di un rapporto di derivazione e di una scala di maggiore e minor perfezione: le leggi positive derivavano dalla naturale, ma non la mantenevano integra e pura, e l’immistione di altri elementi aveva per risultato ¿’introdurvi dei difetti, delle deviazioni. Il cristiano tende a ^trasformare la distinzione e la graduazione in contrapposizione, introducendovi il dualismo metafisico del bene e del male, di Dio e del diavolo: le leggi positive sono non solo imperfette, ma di origine malvagia, diabolica. Questo dualismo metafisico si combinava naturalmente con là concezione escatologica: le leggi positive imperfette e malvage erano
(1) Cantra C.» Vili, 26.
(2) È una citazione dì Pindaro, che Celso aveva fatta, e Origene riprende, simile del resto, al passo di Crisippo, citato più sopra.
(3) Cernirà C., V, 40.
(4) Ibid., V, 32.
(5) Ibid., I, 1.
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le leggi del «secolo», di questo eone destinato a scomparire. Abbiamo qui lo stesso fenomeno che notammo da principio per la distinzione fra vita politica e vita filo-sofico-religiosa: il pensiero filosofico pagano si limitava ad affermare la superiorità della seconda e la sua difficile conciliabilità pratica con la prima, quello cristiano tendeva invece ad una assoluta contrapposizione e alla radicale negazioni di una delle due a favore dell’altra.
E tuttavia anche qui bisogna ripetere che il pensiero cristiano non è andato sino in fondo, non ha assunto decisamente e mantenuto questa posizione al tutto negativa.
Quando Origene parla di leggi statali diaboliche, si tratta sempre delle leggi che prescrivevano o favorivano l'idolatria, non delle leggi statali in genere. E perciò ci si ripresenta ancora il quesito: ha il cristianesimo del n e del ni secolo ritenuto che esistesse una solidarietà indissolubile fra idolatria e stato? Noi non conosciamo, come argomento per una risposta affermativa, se non il famoso passo di Tertulliano: « Sed et Caesares credidissent super Christo, si aut Caesares non essent ne-cessarii saeculo, aut si et christiani potuissent esse Caesares » (i). Qui, non si può negare, è affermata esplicitamente la incompatibilità fra impero e cristianesimo; ma non ne è detto il motivo; Ritiene Tertulliano, che l'impero debba necessariamente rimanere idolatrico? oppure l’incompatibilità è per lui indiretta, in quanto l’esercizio del potere statale, sia quello delle armi, sia quello della toga, veniva a contravvenire a precetti di Cristo (2) ? Forse i due argomenti non fanno, per Tertulliano, che uno solo. Si noti come egli dice che i Cesari sono necessari al « secolo », sono, cioè, necessari a quell’ordinamento presente, che è destinato a scomparire col .ritorno di Cristo, con la parusia (3). Ma questo ordinamento presente è malvagio, idolatrico, demoniaco, perchè, appunto, il male, l’idolatria, il demonio non saranno vinti definitivamente che con l'avvento dell’eone futuro, del Regno di Dio; e nelle anomalie del secolo presente rientrano naturalmente anche quei mezzi di coercizione statale che Tertulliano ritiene incompatibili con il cristianesimo.
È, dunque, probabile che sia un concetto escatologico quello che fa affermare a Tertulliano l’incompatibilità fra impero e cristianesimo. Ma in questo rinvio del trionfo del cristianesimo alla fine dei tempi Tertulliano rimane isolato. La grande maggioranza dei cristiani non credette affatto che l’impero e, in genere, la società presente dovesse necessariamente rimanere idolatrica. Gli apologeti si rivolgono agli imperatori supponendo ch’essi siano capaci di riconoscere la verità cristiana (tutte le apologie dirette agli imperatori non hanno senso al di fuori di questo presupposto); e Origene formula espressamente l'ipotesi che tutti divengano cristiani, e niente affatto come ipotesi assurda: «Se, come dice Celso, tutti facessero come me, è chiaro che anche i barbari, accedendo al verbo di Dio, diverrebbero giustissimi e mitissimi, e ogni (altro) culto scomparirebbe, rimanendo solo quello cristiano » (4).
(1) Apoi., 21.
(2) V. sopra, c. II.
(3) Il concetto che l’impero durerà quanto il mondo è fondamentale in Tertulliano, come vedremo appresso.
(4) Vili, 68.
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« E se tutti i Romani, secondo l’ipotesi di Celso, crederanno nel cristianesimo, essi pregando vinceranno i nemici, o non avranno neppure da iniziare la guerra, custoditi dalla virtù divina » (i).
Con simili ragionamenti si superava, teoricamente, anche l’altra difficoltà: dell’esercizio dei mezzi coercitivi, contrari ai precetti cristiani, da parte dello stato. Questi mezzi diventavano inutili, se tutti diventavano cristiani. L’esperienza doveva mostrare che non era così; ma allora il cristianesimo si adattò, come di fatto già si adattava nella coscienza dei più, agli eccidi bellici e alle condanne capitali. Intanto, rimane che la pregiudiziale teorica contro uno stato cristiano non trionfò nel pensiero cristiano del tempo: l’affermazione di Tertulliano rimane isolata: isolata, si può aggiungere, in Tertulliano medesimo. L’incompatibilità fra stato e chiesa cristiana, fra legge statale positiva e legge cristiana divina rimaneva parziale; ed era dunque possibile per il pensiero cristiano una valutazione positiva dello stato. Vediamola.
VI.
L’apprezzamento positivo che il pensiero cristiano del il e in secolo, dagli apologeti ad Origene, fa dello stato, si potrebbe designare, se il bisticcio è permesso, come positivo-negativo. Più precisamente, possiamo dire che in esso si consideri lo Stato come una dolorosa necessità, derivante dalla imperfezione umana, conseguenza, a sua volta, della decadenza dell’umanità dallo stato primitivo. L’uomo, così come era stato creato da Dio, e sottoha direzione del suo Verbo, avrebbe potuto vivere in ordine ed in pace, felicemente; ma questo suo stato di perfezione venne meno, ed esso cadde sotto il giogo dei demoni. Penetrò, quindi, nella società umana la malvagità e la corruzione, e queste resero e rendono necessaria resistenza di un potere che, con la forza, tenga in freno i cattivi ed assicuri un certo ordine. Ordine esteriore, come esteriore è la forza dello stato: mentre solo il cristianesimo è capace di ottenere l’ordine interno, dominando non i corpi, ma le anime.
Questa concezione si sviluppa completamente nei padri della chiesa del iv e v secolo, ma i suoi elementi ed anche lo schema costruttivo sono già presenti nel periodo’di cui ci occupiamo. E in essa troviamo, daccapo, commisti e frammisti, elementi religiosi ed elementi filosofici. È religioso, e si riattacca alle credenze ebraico-cristiane (senza che ciò escluda, s’intende, l’affinità e la connessione con credenze di altra origine) il mito di uno stato di perfezione primitiva, come la fede nella capacità del cristianesimo a ristabilirlo. È filosofica — almeno nella sua formulazione logica — l'idea di una legge naturale (di cui già abbiamo parlato) che avrebbe bastato da sola, per la sua azione sulle coscienze degli uomini, a far funzionare nell'ordine e nella pace la società umana, se non fosse stata la degenerazione dell’umanità a render necessarie le leggi positive (imperfette, e talora in opposizione con la legge naturale) e la coercizione esterna. Del resto, il rapporto d'identità fra le due serie di termini: legge naturale e leggi positive, da una parte, assenza dello Stato nella perii) Vili, 70.
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lezione primitiva e coercizione statale posteriore dall’altra, non è ancora ben Chiaro alla mente cristiana di questo periodo; ma, almeno implicitamente, c’è.
Dapprincipio, dunque — ci dice Tertulliano — l’umanità visse sotto il governo di Dio, senza stato: «sub quo (sotto Dio) fuit sine civitatibus aliquando gens homi-num » (i). E Giustino ci spiega come il Logos divino avrebbe potuto fare ciò che non poterono poi le leggi umane (governare, cioè, in ordine e in pace la società degli uomini), con beneficio di tutta l’umanità, se non fossero state le menzogne e le empietà sparse dai demoni (2). Dio infatti aveva sottomesso le còse terrene e gli uomini e dato poi questi in cura agli angeli; ma gli angeli errarono e ridussero l’umanità nella schiavitù dell’idolatria e del vizio (3). Di qui appunto la necessità di un potere esteriore, di una forza coattiva. « Imposuit illi (all'uomo) Deus — leggiamo in Ireneo — humanum timorem (non enim cognoscebat timorem Dei), ut potestati hominum subiecti, et lege eorum astricti, ad aliquid assequantur iustitiae, et mo-derentur ad invicem, in manifesto propositum gladium timentes, sicut Apostolus ait: “Non enim sine causa gladium portât, ecc. „ (ep. di S. Paolo ai Romani, c. 13). Ad utilitatem ergo gentiliu m t errenum re gnu m positum est a Deo» (4).
S. Ireneo ha ragione di appellarsi al testo di S. Paolo, altrove da noi illustrato (5): effettivamente il concetto medicinale, diciamo così, del potere dello stato, è comune ad entrambi. Ma in Ireneo c'è qualche cosa di più che in S. Paolo: egli considera espressamente questa condizione di cose per cui la coercizione statale è necessaria, come di carattere secondario e derivato, come successa a un ben altro ordine, in cui detta coercizione non era necessaria. E perciò nel suo concetto dello stato (che pure è più nettamente positivo che in altri scrittori cristiani di questo periodo, per esempio in Tertulliano) (6) c’è una svalutazione ideale di esso e una sua connessione coll’idolatria che mancano in S. Paolo. Ireneo contrappone nettamente il timore di Dio al timore umano, considera il secondo come un assai parziale sostituto del primo (ad aliquid assequantur justitiae), e dice chiaro che lo stato è fatto per i gentili. I cristiani, cioè — la conseguenza Ireneo non la tira, ma essa è evidente — non ne avrebbero bisogno, perchè appunto posseggono il timore di Dio che è molto superiore a quello dell’uomo. Anarchia cristiana. È lo stesso concetto contenuto nella lettera a Diogneto, là dove si dice (510) che i cristiani « con il loro modo di vivere vincono le leggi ». Le leggi, cioè — quelle penali, che sembrano le uniche considerate da codesti scrittori — sono concepite come dei guerrieri che scendono in battaglia o. si pongono in agguato contro gli uomini malvagi, ma sono vinte dai criri Apoi., 26.
2) I, Apoi., io. 5-6.
3) II, Apoi., 52-4. Cfr. Aten., 25-26.
4) Contra haer., V, 24,2.
5) Stato e vita sociale, c. V, p. 118-20.
6) E da notarc come Ireneo nel passo immediatamente precedente a quello citato (v, 24,1), neghi espressamente'che sia stato il demonio a stabilire <huius saeculi regna» e combatta coloro i quali vogliono riferire le parole del c. 13 dell’Epistola ai Romani alle « podestà angeliche » ed ai « principi invisibili >. Trattasi evidentemente di polemica contro estremisti cristiani.
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stiani con la resistenza passiva della loro virtù. Il cristianesimo organizza lo. « sciopero bianco » della delinquenza e con questo arresta la macchina della giustizia penale. Origene trasporta quest'idea dai rapporti interni a quelli internazionali, nei passi citati più sopra (i), in cui la cristianizzazione dei barbari è considerata come implicante l’eliminazione della guerra c della necessità di difesa per l’impero.
Avevamo dunque ragione dicendo che il concetto positivo dello stato, nel cristianesimo di questo tempo, è positivo-negativo. Lo stato è concepito non tanto come un bene, quanto come una necessità dolorosa; non tanto come produttore di valori positivi, quanto come riparo necessario a dei mali ch’esso è, d’altra parte, incapace di estirpare radicalmente. « Le leggi civili, dice Clemente d'Alessandria, possono forse (si noti il forse) reprimere le azioni malvage,ma neppure i discorsi della fed eri maneado alla superficie, potrebbero fornire una scientifica permanenza nella verità » (2). Qui Clemente ci dà come una scala a tre gradini per raggiungere la perfezione: il primo gradino è costituito dalla legge positiva dallo stato, capace appena di reprimere le azioni malvage, il secondo dalla fede del credente comune, incapace di dare una base «scientifica» alla sua moralità*; il terzo, supremo e definitivo, dalla gnosi cristiana, che realizza, superando la fede del semplice credente (distinzione e graduazione che Clemente ha comune con Origene) il vero gnostico, l’uomo perfetto. Lo stato è dunque al più basso livello.
E così, esso è considerato come qualche cosa di puramente esteriore, come una semplice forza materiale, se anche messa al servizio di esigenze etiche. La sua sfera d’imperio racchiude essenzialmente gli atti e le prestazioni fisiche: « Se il re comanda di pagare le imposte, son pronto a farlo, se comanda di servirlo e di prestargli la propria opera, professo la servitù. Poiché l’uomo si deve onorare da uomo, ma solo Dio si deve temere?. In queste parole di Taziano (3) la reverenza intima dell'animo è cosa che allo stato non spetta. Più radicale e nell’espressione più crudo, come sempre, è Tertulliano, il quale, commentando il «Date a Cesare quel che è di Cesare », dice: « id est imaginem Caesaris Caesari, quae in nummo est, et imaginera dei deo, quae in homine est, ut Caesari quidem pecuniam reddas, deo temetip-sum » (4). Non si potrebbe più recisamente affermare che lo spirito umano e cioè quel che costituisce più propriamente l’umanità e può esser indicato senz’altro col termine uomo (5), è fuori della sfera dello stato e riserbato unicamente a Dio (6).
La tesi è ripresa'da Origene, e il filosofo spiritualista alessandrino va forse anche più là dell'avvocato montañista di Cartagine. Commentando il passò di S. Paolo (Rom. 13), sul potere dello stato, «ministro di Dio per l’ira», egli scrive: «Et si
(«) P. 342.
(2) Strom VII, 3(»9<)(3) Or. ad Graec., 41.
(4) De idolol., 15.
(5) Così fa Tertulliano commentando in altri passi il Quae sunt Caesaris: « Hominem igitur reddi jubet Creatori » (Adv. Marc., IV, 38); < solius autem dei homo » (Scorp., 14).
(6) Il che era poi il significato originario della frase sulla bocca di Gesù. ófr. Stato e vita sociale, c. III, p. 12.
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quidem tales sumus qui conjuncti Domino unus cum eo spiritus simus, Domino dicimur esse subjecti. Si vero nondum tales sumus, sed eommunis adhuc anima est in nobis quae habeat aliquid huius mundi, quae sit ei aliquo alligata negotio, huic praecepta Apostolus ponit, et dicit ut subjecta sit potestatibus mundi ». Segue qui il ricordo del « Quae sunt Caesaris», e poi continua: « Petrus et Johannes nihil habebant quod Caesari redderent; dicit enim Petrus: « Aurum et argentum non habeo» (Atti 3^. Qui hoc non habet, nec Caesari habet quod reddat, nec unde sublimioribus sùbjaceat potestatibus » (1).
Qui è chiaramente affermato il valore esteriore, transeunte, « mondano », dello stato. Solo chi s’impaccia di faccende terrene, solo chi è attaccato ai beni materiali, ha da fare con esso, rientra nella sua sfera e deve pertanto obbedirgli. Ma chi vive nello spirito, il perfetto cristiano, lo gnostico non ha nulla da spartire con lo stato, e non ha altri rapporti che con Dio.
Più precisamente, allo stato non si è soggetti che «ratione peccati», in quanto si fa il male. Come già dicevamo, lo stato ha una funzione soltanto penale: « Qui adhuc de mundo est, et quae mundi sunt sapit, et quae carnis sunt quaerit, necessario subjectus est ministris mundi; subjectus autem, propter iram, quam sibi thesaurizavit ex peccatis... qui subditur, habet in se quod accusetur a conscien-tia » (2). E perciò non solo il cristiano non è costretto a moversi nella sfera del potere statale, ma esso deve tendere assolutamente a rimanerne fuori, a eliminarlo dalla sua vita. Solo in quanto peccatore, solo in quanto compie le opere del demonio, il cristiano può aver che fare con lo stato: ed esso, appunto, deve tendere ad eliminar da sè il peccato,, a scuotere il giogo del diavolo, e quindi ad uscire dalla sfera dello stato: « Quis enim-nostrum de tributis reddendis Caesari contradicit? Habet igitur locus quiddam mystici atque secreti. Duae sunt imagines hominis, una quam accepit a Deo factus in principio, sicut in Genesi scriptum est: «Juxta imaginem et similitudinem Dei »; altera choici, id est terreni, postquam propter inobedientiam atque peccatum ejectus de paradiso assumpsit eam, principis saeculi huius suasus illecebris. Sicut enim nummus atque denarius habet imaginem impera-torum mundi; sic qui facit opera rectoris tenebrarum istarum, portai imaginem ejus, cujus habet opera; quam praecepit Jesus esse reddendam et projiciendam de vultu nostro, assumendamque eam imaginem, juxta quam a principio ad similitudinem Dei conditi sumus. Atque ita fit, ut quae Caesaris sunt, Caesari, et quae Dei, reddamus Deo » (3).
Lunghe pagine ci vorrebbero per sviscerare in tutta la sua importanza questo passo, che, mentre è un cospicuo esempio di metodo allegorico alessandrino, compendia altresì mirabilmente, specie se lo ravviciniamo agli altri passi d’Origene testé ricordati, il pensiero della filosofia cristiana del tempo intorno allo stato ed ai rapporti del
(1) In ep. ad Rom., IX, 25 (la trad, latina è di Rufino).
Bin epist. ad Rom., IX, 30.
Horn. 39, in Lue.
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cristiano con esso. L'interpretazione allegorica qui non cancella il significato letterale, ma l’approfondisce. Rimane fermo il precettò di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, ma si mette in luce la profonda realtà spirituale che soggiace a questa norma di condotta. Cesare è il corpo e Dio Io spirito; Cesare governa questo mondo terreno, soggetto all’influsso del demonio, mentre Dio regna incontrastato sugli spiriti eletti, affrancati da qualunque vincolo materiale. Perciò il cristiano deve pieno rispettò all’autorità statale, che, esercitandosi nella sua sfera, punisce e frena la malvagità (i); ma è il rispetto dovuto a cosa estranea e inferióre a lui. Giacché solo rimanendo implicato nelle cose materiali, solo peccando egli può cadere sotto l'azione statale, mentre il vero cristiano, che vive completamente nel mondo dello spirito, è al disopra dello stato e non può incontrarsi con esso. E perciò il senso più profondo del precetto divino: « Date a Cesare » è che il cristiano deve eliminare da se medesimo tutto quanto potrebbe essere oggetto dell'azione statale, giacché si tratta appunto di elementi d’imperfezione e di peccato, coincidendo sfato e peccato, imperatore e demonio, non nella loro natura — chè anzi il primo rimedio in qualche modo ai guai del secondo (2) — ma nella sfera in cui si esercita la loro azione. Ed Origene veniva a raggiungere, sebbene per diversa via, Tertulliano nell'affermazione d'incompatibilità fra impero e cristianesimo. Origene, cioè, non pensava, come Tertulliano, che i Cesari non potessero essere cristiani, ma riguardava come ideale del cristianesimo rendere inutile e superflua l'esistenza dei Cesari (3).
VII.
Questa concezione di Origene rappresenta l'idealismo cristiano alla sua massima altezza. Ma, per ciò appunto, essa doveva esser qualche cosa di eccezionale nella coscienza cristiana, che, nella sua media levatura e nel suo atteggiamento normale, doveva vedere le cose con occhio notevolmente diverso. Doveva vedere, cioè, piuttosto che l’ideale dell' « anarchia cristiana », la realtà sociale, per cui diveniva veramente benefica la forza di coercizione dello stato, in un mondo nel quale non solo la maggioranza non era di cristiani, ma in seno alle stesse comunità cristiane il livello morale era ben lungi dal rendere effettivamente inutile
(1) Cfr. In ep. ad Rom., IX, 28: « Sed vide ordinationem Spiriti Sancti: quoniam quidcm caetera camma sacculi legibus iudicantur... illa sola de quibus nihil humana lex dixerat et quae religioni videbantur convenire, decernit [parla del decreto del cosidetto Concilio degli Apostoli]. Ex quo apparct judicem mundi partem maximam Dei legis implerc ».
(2) Occorre tener presente questa distinzione per non confondere il pensiero di Origene con quello, p. es.» d’Ippolito, riguardante l’impero romano come opera del demonio. V. sopra, c. II. x
(3) Non ci fermiamo su affermazioni sporadiche intorno alle origini malvagie di certi stati più precisamente di Roma, come si trovano in Tertulliano, o anche! ne)-1 Octaviusdi Mmucio Felice, perchè queste manifestazioni moralistiche — che si ritrovano anche più tardi, p. es., nella stessa De civitale dei agostiniana — non assumono consistenza di una vera e propria teoria intorno allo stato e al suo valore.
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quella forza coercitiva (i). Ancor più lontana si rivelava l’attuazione dell'altro ideale origeniano, quello della cristianizzazione e •della conseguente mansuefa* zione di tutti i barbari, che avrebbe dovuto render possibile di fare a meno di guerre e dell’esercito imperiale.
Si comprende quindi come quei cristiani che non erano abituati a respirar l’aria alquanto rarefatta delle vette filosofiche origeniane, ma vivevano piuttosto nella realtà quotidiana, fossero indotti ad apprezzare l’utilità dello stato in tono più caldo che non quello del filosofò alessandrino, e come quindi sia possibile ritrovare in essi traccie di un apprezzamento più positivo dello stato medesimo, apprezzamento che del resto aveva i suoi precedenti nel più antico pensiero cristiano, specialmente nella lettera di Clemente ài Corinzi (2).
Lo stato, cioè l’impero romano, mantiene la pace, bene sommamente apprezzabile. Ecco una idea che doveva essere molto diffusa nella coscienza cristiana e farne, direi quasi, parte integrante. « Per la vostra prudenza — dice Atenagora quasi al principio della sua apologia diretta agli imperatori M. Aurelio e Commodo — tutta la terra abitata gode di una pace profonda» (i}). Anche Tertulliano, non certo sospetto di simpatie statali, a proposito di quel passo della prima epistola a Timoteo in cui si esorta a pregare per i re e per tutte le autorità, «ut omnia tranquilla sint vobis» (2J, così commenta: « Cum enim concutitur im-perium, concussis etiam ceteris membris eius, utique et nos, licet extranei a turbis [aestimemur], in aliquo loco casus invenimur » (3). Il ragionamento non potrebbe essere più ingenuamente egoistico (e non so, se, letto dai pagani na\V Apologetico tertullianeo, avrà precisamente servito a confutare l’accusa di «odium humani generis» fatta ai cristiani); ma, proprio perciò, dobbiamo ritenerlo assolutamente sincero, e tipicamente rappresentativo della media coscienza cristiana. E possiamo quindi prestar credenza allo stesso Tertulliano quando ci dice che i cristiani pregavano abitualmente non solo «prò imperatoribus, prò ministris eorum et potestatibus », ma altresì « prò statu saeculi, prò rerum quiete » (4).
E pregavano ancora i cristiani, secondo che segue immediatamente in quel passo, « prò mora finis », cioè per il differimento della fine del mondo. La cosa a prima vista parrà strana: o non significava, la fine del mondo, il ritorno di Cristo, quella parusia invocata dai cristiani primitivi con l'espressione Maranatha (5), e il trionfo definitivo del cristianesimo sugli idoli, del bene sul male? Certo, e lo stesso Tertulliano ci ha descritto con vivi, troppo vivi colori il tripudio che il cristiano avrebbe provato nel giorno del giudizio finale: «ille ultimus et perpetuus iudicii dies, ille nationibus insperatus, ille derisus, cum tanta saeculi vetustas et tot eius
(1) Cfr. quel che dice Eusebio nella sua Storia ecclesiastica (Vili, 1), circa lo stato morale della Chiesa cristiana, alla fine del in secolo.
(2) Cfr. Stalo e'vita sociale c. VI. p. 183.
(3) Apoi., 31.
(4) Apoi., 39.
(5) Cioè: «Z/ Signore viene». Cfr. Didachi, io«.
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nativitates uno igni haurientur. Quae tune spectaeuli latitudo! quid admirer? quid rideam? ubi gaudeam, ubi exultem, tot spectans reges, qui in caelum recepti nuntiabantur, cum love ipso et ipsis sui? testibus in imis tenebris congeme-scentes? item praesides persecutores dominici nominis saevioribus quam ipsi flam-mis saevierunt insultantes contra Christianos liquescerttes » (i)?
Dùnque, un gran bello spettacolo: tanto bello che Tertulliano voleva indurre, con l’aspettativa di esso, i correligionari a disertare, intanto, gli spettacoli profani dei circhi e dei teatri. Senonchè, il biglietto d’ingresso, per chi ci fosse dovuto intervenire ancor vivente, era un po’ caro: vogliamo dire, le perturbazioni e le tribolazioni che avrebbero accompagnato la fine del mondo erano ritenute spaventose: tali le aveva dipinte lo Stesso Gesù nella « piccola Apocalissi » dei Sinottici (2). Ed ecco, dunque, i cristiani ridotti a pregare perchè di quello spettacolo toccasse loro godere il più tardi possibile, a pregare, appunto, « pro mora finis » (3).
Ora, la fine del mondo non sarebbe venuta fino a che l'impero romano fosse stato in piedi. Questa credenza, di cui ritroviamo le prime traccie al tempo di S. Paolo — il «ciò che trattiene» (tò xaré/ov), che tiene lontano, cioè, la fine del mondo e la venuta dell’Anticristo della Seconda ai Tessalonicesi (2g) è appunto l’impero — era generale ai tempi di Tertulliano, che vi accenna ripetuta-mente, ma sopratutto nel c. 32 teìY Apologetico: «Est et alia maior necessitas nobis orandi pro Imperatoribus, etiarn pro omni statu imperii rebusque romanis, qui vim maximam universo orbi imminentem ipsamque clausulan) saeculi acer-bitates horrendas comminantem Romani imperii commeatu scimus retardari. Itaque nolumus experiri — ecco chiaramente confessato lo spavento della fine del mondo! — et, dura precamur differii, romanae diuturnitati favemus » (4).
Ed ecco, dunque, sopra due punti almeno, la Chiesa cristiana solidale — coscientemente solidale — coll’impero romano: in quanto, cioè, questo mantiene la pace ed allontana la fine del mondo. In tal modo, l’impero giova altresì alla ■diffusione del cristianesimo: ed Origene ci espone come Dio abbia provveduto a che tutti i popoli fossero ridotti sotto il ^olo governo dei Romani, per la maggior facilità dell’evangelizzazione e della diffusione di una dottrina pacifica, che vietava le vendette dei nemici, e che pertanto non si sarebbe potuta stabilire, se non si fosse posto fine alle guerre e pacificato tutto il mondo (5). È il motivo di filosofia
(1) De spectac., 30. I re « di cui si annunziava ch’erano stati ricevuti nel cielo » sono naturalmente gl’imperatori per cui era stata decretata l'apoteosi.
(2) Che sia o no di Gesù, ora a noi non importa: di lui la credevano certo i contemporanei di Tertulliano.
(3) Cfr. Ad Scap., 3: « Omnia haec signa sunt imminentis irae Dei, quam necesse est, quoquomodo possumus, ut et annuntiemus et pracdicemus, etdeprecemur interim 1 o c a 1 e m esse».
(4) Cfr. Ad Scap., 2: «Christianus nullius est hostis, nedum imperatoris, quem sciens a deo suo constituí necesse est ut et ipsumdiligat et revereatur .et honoret et t VUb'‘ ve^ Cum romano imperio quousque saeculum stabit: tamdiu e n i m
(5) Contra C., II, 30.
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della storia che doveva poi divenire abituale nel pensiero cristiano; ma che si trova già implicito nel passo della Prima a Timoteo (2 w), in cui la tranquillità pubblica assicurata dallo stato è posta in connessione con la conversione di tutta l'umanità voluta da Dio (1).
Ecco, dunque, dei nessi abbastanza solidi fra impero e cristianesimo: il primo giova al secondo. Ma ancor più il secondo giova al primo. Se già nella epistola di Clemente ai Corinzi troviamo accenni al valore civico, diciamo così, delle virtù cristiane (2), il concetto è ora completamente svolto. Già nella prima apologia di Giustino si considera la morale cristiana come collaboratrice delle autorità statali per il mantenimento del buon ordine: «Siamo per voi aiutanti ed.alleati più di tutti gli altri uomini nel mantenere la pace » (3). I cristiani, afferma Origene, sono i più grandi benefattori della pàtria « educando i cittadini e insegnando la pietà verso il Dio guardiano della città (woXiéa) » (4). I cristiani tengono lontani gli assalti dei demoni, secondo Tertulliano: « Quis autem vos ab illis occultis et usquequaque vastantibus mentes et valetudines vestras hostibus raperei, a daemo-niorum incursibus dico, quae de vobis sine proemio, sine mercede depellimus? » (5) Essi pregano sempre per la pace e per la salute del mondo pagano, per ottenere le pioggie, perchè siano evitate o almeno diminuite le avversità, perchè stiano lontani i nemici; così vanta S. Cipriano (6). E queste loro preghiere, secondo Ori-gene, costituiscono per l'imperatore ben più grande aiuto che coloro i quali combattono nell'esercito (7). Sono affermazioni analoghe a quelle dei filosofi pretendenti che la loro predicazione costituiva ben più alta utilità per lo Stato che non una diretta azione politica (8). E come logica conseguenza di tali idee Origene afferma, come abbiamo già visto, che la cristianizzazione dei Romani e dei barbari porterebbe la pace universale (9).
Ma la più esplicita e perentoria affermazione di una solidarietà positiva esistente fra lo Stato e il cristianesimo si trova nel famoso passo Apologia di Melitene conservatoci da Eusebio, che segna veramente il punto di arrivo di tutto un processo del pensiero cristiano: «La.nostra filosofia germogliò dapprima sotto i barbari; poi, essendo venuta in luce fra i tuoi popoli (io) sotto il grande impero del tuo antenato Augusto, costituì massimamente un buon presagio per il tuo regno. Giacché, da allora in poi, crebbe in grandezza e splendore il regno dei Romani, di cui tu sei divenuto erede desiderato e lo sarai col figlio, s e custodi r a i
1 Gir. Staio e vita sociale, c. VI, p. 185.
2 Cfr. ib., p. 186.
3 Ap., 1, 121.
4 Cantra C., Vili, 74.
5 ) Apoi., 37.
6 ) Ad Dem., 20.
7 ) Contra C., Vili, 73.
3) Cfr. sopra, c. II.
9) Cfr. sopra, p. 345.
io) Melitene parla a M. Aurelio.
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questa filosofia allevata col principato e iniziata con A ug u s t o ... E che il nostro verbo si a cresciuto a buon effetto insieme con 1 a b e n e iniziantesi monarchia, ne è gran segno il fatto che dall'impero di Augusto in poi nulla è successo di male, ma invece tutto è stato prospero e magnifico secondo i voti comuni » (1). Inizio del cristianesimo, ed inizio dell'impero; prospero sviluppo dell'uno e dell’altro: ecco il parallelismo affermato con la più grande risolutezza e altresì con la più grande semplicità dall’apologeta cristiano.
Noi travediamo già, in questo passo di Melitene, la futura alleanza del trono e dell'altare: e gli elementi che he formeranno la trama compaiono già fin d’ora, fino dal secondo secolo. Non si tratta soltanto del mantenimento dell’ordine e della sicurezza per la propaganda cristiana da parte dello stato, dell’influenza moralizzatrice e della persuasione all’obbedienza dell'autorità da parte della chiesa. Questi sono gli elementi generici; ma ve ne sono già dei più specifici. Un altro passo di Melitene, conservatoci in siriaco (2), fa appello al potere imperiale perchè « liberi » i soggetti dall’idolatria: « Che c’è di meglio che se il re libera il popolo a lui soggetto dall’errore e con questa opera buona piace a Dio? Dappoiché dall’errore nascono tutti i mali ». Ecco già la tesi del braccio secolare messo a servizio dell’autorità religiosa. D’altra parte, il cristianesimo, con la sua dottrina dell'autorità derivante da Dio, conteneva in sè un elemento nettamente favorevole allo sviluppo dell’impero dal principato romano d'Augusto alla monarchia assoluta orientale di Diocleziano e di Costantino. Se Tertulliano ci dice: «Precantes sumus omnes semper prò omnibus imperatoribus, vitam illis prolixam, imperium securum, domum tutam, exercitus fortes, senatumque fidelem, populum probum, orbem quietum, et quaecumque hominis et Caesaris vota sunt » (3) in questa, che è probabilmente una formula liturgica delle comunità cartaginesi, noi non possiamo non rilevare l’intonazione schiettamente monarchica. E Atenagora, terminando la sua Ambasceria, mette in rilievo che i cristiani pregano per gl’imperatori « affinchè vi trasmettiate secondo tutta giustizia il regno di padre in figlio » ; ciò che significava proclamare, fin dalla metà del secondo secolo, il principio néttamente monarchico della successione dinastica, escludente l’elezione popolare, che pur doveva, almeno formalmente, rimaner sempre in vigore nell’impero romano: significava, cioè, da parte di codesto cristiano della metà del secondo secolo, esser più realista del re (4).
(ri In Eus., Hist. eccl., IV, 26.
(2) Vedilo in Otto, Corpus apòi., IX (fraumm. io).
(3) Apoi.; 30.
(4) Sopra gli elementi « imperialistici » che il cristianesimo aveva in comune con le altre religioni orientali, cfr. il mio studio: «La politica religiosa dell'impero romano e la vittoria del cristianesimo sotto Costantino » (in Saggi di storia e Colitica religiosa Città di Castello, 1914, Vili, p. 101). r 6 ’
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♦ »
Il pensiero cristiano intorno allo stato, dagli apologeti ad Origene, ci presenta una ricca varietà di motivi, varietà che anzi appare, a un primo esame, radicalmente contradditoria, come quella che va dalla classificazione ippolitiana dello stato come cosa satanica alle idée di Melitone sulla concordanza e la collaborazione dello stato e del cristianesimo. Ma anche queste idee più opposte fanno parte, sostanzialmente, di un unico sistema di pensiero, di cui rappresentano gli svolgimenti in senso diverso. Questa unità di pensiero e i conseguenti legami e passaggi fra l'una e l’altra serie di idee e di tendenze noi abbiamo cercato di tener sempre presenti e di mettere in luce nella nostra esposizione; e speriamo di esserci, almeno parzialmente, riusciti? Qui, terminando, vogliamo solo accennare ancora un punto: il fatto, cioè, che nel pensiero cristiano di questo periodo si ritrovano, in genere, gli elementi essenziali delle teorie cattoliche posteriori intorno ai rapporti fra chièsa e stato, dalla idea gregoriana che lo stato deriva dal peccato alla concezione teocratica dello stesso Gregorio VÌI e più del terzo e quarto Innocenzo intorno alla subordinazione alla chiesa dello stato che da quella prende il suo vero valore. Ma non possiamo, naturalmente, svolgere quest’accenno, che ci porterebbe al di fuori dei limiti dèi nostro studio;
Luigi Salvatorelli.
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ella propria autobiografìa, il Darwin si duole di sentirsi la testa ridotta una macchina buona soltanto a raccoglier fatti e ricavar leggi. Da giovane egli aveva amato la poesia, ma poi, perdutane la familiarità, era diventato incapace di leggere un verso, e si riprometteva, se fosse rivissuto una seconda volta, di leggere, almeno una volta la settimana, qualche pagina di vèrsi, per non
privarsi di una delle gioie più pure.
Per mia fortuna, questa recriminazione del grande naturalista mi fu nota quando ero ancora in tempo, sicché ho sempre cercato di udir voci di poeti, per isfuggire al pericolo che la dissuetudine me ne togliesse il gusto. Ma debbo subito dire che questa previdenza di godimenti futuri m’è costata parecchie insopportabili noie presenti. Negli ultimi quattro o cinque anni, quanti intrugli mitridatici ho dovuto digerire, per gustare, appena tre volte, il dono divino! I tre a cui debbo perciò tutta la mia gratitudine sono Diego Valeri, Alfredo Luciani, Guido Pereyra. La differenza profonda ch'è tra questi tre dimostra chiaro che io cercavo poesia, non una scuola, una maniera, una tendenza per cui avessi particolare simpatia. Il Valeri, signore della forma, conoscitore sapiente e scaltrissimo di ogni sfumatura della parola e del verso, si vale’ di questa dote, non com’è vezzo di tanti poetucoli post-d’annunziani, per fare sfoggio di lustrini, ma per tradurre immediatamente le più delicate, le più fuggevoli note della sensazione e del sentimento. Il Luciani, scrittore ancora quasi del tutto inedito, uno degli uomini meno letterati ch’io conosca (se ne offenderà se gli dico che, con tutta la sua laurea, è un mezzo ignorante?) ha trovato nel dialetto abruzzese l’espressione viva e potente della propria anima. Il Pereyra adopra le parole quotidiane alle quali mescola di quando in quando le più dure e ingrate del linguaggio filosofico, eppure (per vie quanto diverse!) riesce, come gli altri due, a scoprire un rivolo di poesia:
Chi apre il libro che L’autore intitola« testamento » (i), nota subito una così straordinaria differenza fra il Pereyra e tutti coloro che oggi fanno poesia in Italia, che vien voglia di guardar la data per vedere se veramente si tratti di una pubblicazione del 1920. Oggi i disperati cercatori di novità mutano gli schemi metrici, la sintassi, l’ortografia; e invece qui abbiamo un poemetto tutto di esametri bali) Il libro del Collare. Testamento di Guido Pereyra. Firenze, Vallecchi, 1920.
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ciati, uguali qualche volta fino alla monotonia; la grammatica è ancora quella dei nostri vecchi e perfino la grafia (se Dio vuole!) è sempre quella tradizionale. Oggi i colori, la luce, le sensazioni visive forniscono i tre quarti del linguaggio poetico» e fra gli strumenti d’arte del Pereyra sembra che la tavolozza sia dimenticata. Òggi, come quasi sempre, del resto, il poeta gode, soffre, canta, piange per amore: e qui l'amore non esiste. Ossia, la donna a cui si allude nella dedica è intimamente la cagione stessa del libro; la cagione, ma non l’ispiratrice. Se ho ben compreso ciò che il poeta con austero pudore (sì, in questo libro c’è del pudore ancora, signori!) vela agli occhi del pubblico, una donna, quella donna, poteva salvare l’anima di chi scrive dalla disperazione e il soccorso di lei non ci fu; perciò il dramma metafisico Si fece, di atto in atto, sempre più doloroso.
Qual’è la sostanza del dramma? Ecco: l'autore, per diventare quello che sono gli altri uomini, un animale eretto che mangia, si veste, parla e ogni tanto pensa, ha sofferto spasimi terribili. Lo spirito gridava in lui volendo vivere una sua propria vita. Nella lotta fra lo spirito e il corpo intervengono familiari ed amici che hanno paura di veder perdersi un uomo, trepidanti per la sua salute fisica, ignari o incuranti della sua salute morale. A lungo andare la lama consuma il fodero: l'uomo passa, emaciato, sparuto, fra i suoi simili che si ritraggono spaventati come all’apparir di uno spettro; se fissassero senza paura quell’ombra, forse vedrebbero brillare nei suoi occhi un riflesso della loro propria anima. Ma ciò aumenterebbe ancora il ribrezzo per la triste figura. Non si sforzano forse, tutti i viventi, di nascondere con la parola il pensiero, col corpo l'anima, con le vesti il corpo; come col sudario nascondono il morto, col feretro il sudario, con la tomba il misterioso risorgere della materia ad una vita nuova?
A un certo momento del doloroso pellegrinaggio, il poeta crede d’aver trovato uno spirito fraterno, legato, come lui, nei soffocanti viluppi della carne; e gli manifesta l’angoscia segreta e piange qualche ora con lui. Poi si accorge dell'errore e riprende il cammino con dentro una spina di più.
Alla fine il dramma si risolve: l’uomo empirico prende il sopravvento. Siete contenti, o uomini? Egli ormai è uno dei vostri; non gli griderete più il crucifigc, non gli darete nè lo scherno nè il fiele; è uno come voi, non vedete? Però (udite, uomini, il però) non vi meravigliate se vi appare davanti curvo, stanco, spossato: egli trascina in sè il più affaticante dei pesi, il peso di un dio morto.
Questo poemetto scritto a sbalzi, durante dieci anni, negli anni che per gli altri sono più ardenti di gioie e di speranze, non è stato dato alle stampe (è facile intendere) per sete di fama. No:’ esso è un ammonimento, esso contiene una di quelle parole immortali che qualcuno pronunzia ogni tanto, dopo avere, per sentirle risonare in sè, pagato moneta di sangue. O uomini, sembra voler dire il poeta, giacché tanti, ma sempre troppo pochi, di voi, lottano per levare il capo dalla vita quotidiana a guardare in alto, nelle regioni dello Spirito, sappiate che io ho fatto il cammino inverso del vostro; io mi sentivo tutto spirito e ho combattuto, ho sofferto, mi sono inchinato umilmente per diventare, uno come voi: nella mia pie-
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•cola anima è passato un brivido della tempesta che dovette scuotere l'anima di Dio quando, nell’ora segnata dalla storia eterna, volle vestirsi di carne.
Ma dipingendo la vita empirica come un adattamento raggiunto a furia di amare rinunzie, il poeta si solleva ancora una volta dalla propria miseria; egli, il caduto, singhiozza che i suoi occhi ricordano e vedono ancora, pur tra le palpebre chiuse, il bagliore del cielo. La sua parola aiuterà così qualche anima a rompere la crosta di materia che la impaccia nel volo e, simile a quei che van di notte, egli, secondo il nòto paragone dantesco, recherà luce per altri, dietro sè, brancolando nel buio.
« Nessuno può immaginare che cosa sia—scrive nella prefazione—- «questa terribile condanna, o peggio la coscienza di questa terribile condanna: per illuminare lo Spirito, restare fuori dello Spirito... Abbiate, abbiate pietà dell'uomo che sente di rimanere fuori dello Spirito! »
Non mi si chieda qual è il valore artistico dell'opera. Troppo spesso, per abbattere un artista, si dice ch’egli fa « della letteratura »■ ma quante volte l’accusa potrebbe essere ritorta ai critici! E a me parrebbe di fare, peggio che della letteratura, della pedanteria, fermandomi a notare le frasi prosaiche, le astrusità filosofiche, le rime opache e grevi, messe lì, con evidente disprezzo della rifinitura che per alcuni costituisce quasi l'essenza stessa della poesia, durante la lettura di un libro che attrae qua e là con immagini luminose ed espressioni potenti, ma più spesso affascina, sgomenta, atterrisce con l’esposizione di un'anima nuda, senza darci il tèmpo, nè il modo, nè la possibilità di aguzzar io sguardo all’analisi.
Dino Provenzal.
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(ContiDuadooe e fine: vedi BifyeUnit, ottobre 1920 p. 280).
II.
La psicologia e le attività dello spirito
CARATTERI DELLE ATTIVITÀ SPIRITUALI attività del nostro spirito è determinata e differenziata r un particolar significato, realizza un interesse, esprime ideale, à quel che potrebbe chiamarsi uh suo coeffi-:nte di dignità.
In concreto ciò è immancabile. La vita della coscienza è a scelta, sì che non esiste un atto che non sia realizzazione ino scopo, e gli scopi individuati e determinati si raggrup-no tutti in poche classi, distinte da indici di dignità. Da
questo punto di vista è lecito mettere in luce alcuni caratteri; che l’eticità, la conoscenza, la religione, l’arte, ecc. ànno in comune. Queste concrete forme non importano tanto come fatti, esistenti in un modo più tosto che in un altro; quanto come azioni che meritano o no di esistere, accettabili o respingibili. La loro dignità è rappresentata ovunque così, come pregio preferibile, come ciò che deve essere, come normalità e coerenza di un fatto in qualche ordine. Nella coscienza morale diventa obbligatorietà e la preferenza assurge a dovere ; nell’attività edonistica à la sua espressione più semplice ed, elementare e si approssima alla necessità, tanto da rendere possibile un successo più rapido e meno incompleto di un’indagine naturalistica, con le scienze economiche, e da diventare ambito termine di riferimento delle esplicazioni a tendenze naturalistiche di ogni altra attività spirituale. Questo carattere di dignità è in talune circostanze psicologiche così accentuato da presentarsi come imperiósa opposizione all’essere della coscienza. La bellezza.
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il bene, il vero sono ciò che merita di esistere contro ciò che urge spesso ostilmente quale essere. Il tu devi esiste in relazione a un ciò tu sei. In tal senso potrebbe dirsi che lo spirito è reale come azione legislatrice; che così esso è essenzialmente sè; che quel che si presenta al soggetto come resistenza, ostacolo, limite, come altro in breve dall'ideale è più tosto il suo non-essere, sebbene necessario perchè la concreta vita spirituale si realizzi.
Gli ideali sono operosi e creatori. Un giudizio valutativo, che esprime la loro natura, informa e così informando crea l’esperienza cosciente, che fuori di questa sintesi, in astratto, potrebbe dirsi la materia su cui l’azione creatrice dell'ideale si esercita. I giudizi «ciò è giusto, è bello, è vero, è utile, è sacro» e viceversa, agiscono come principi realizzatori, in quanto per essi l’esperienza si attua come moralità o bellezza o conoscenza o economia o religione. Comunque si voglia interpretarla, qui è manifesta l’azione d’una scelta, d’un atto dello spirito di carattere selettivo e così creatore.
Intendere quindi un’attività spirituale significa intendere questa sua distinta dignità, in questa sua creatrice azione, in primo luogo come si manifesta alla coscienza del soggettò (aspetto soggettivo) e in secondo luogo come può essere coerentemente compresa in un sistema razionale dell’attività spirituale (aspetto obbiettivo). I due aspetti potrebbero anche non identificarsi, o per lo meno la loro identità non è un dato, ma una costruzione mediata.
LE PRETESE DELLA PSICOLOGIA; IL DUBBIO
La psicologia, quale scienza, può, anzi deve prescindere da un’indagine sull’aspetto obbiettivo. Della validità del bello e del vero e del divino e del bene lo psicologo non vuol saper nulla. Lascia consapevolmente, sebbene spesso nòn senza tacita intenzione ironica, alla speculazione filosofica il compito di determinare quale consistenza essi abbiano oltre la sfera soggettiva. Illusioni o principi reali, trascéndenti o immanenti, essi sono atti di coscienza in un soggetto e per un soggetto; e solo in quanto tali possono divenire Obbietti di studio per lo psicologo.
Tale rinunzia dovrebbe — a quanto sembra agli psicologi — sopire i sospettosi timori delle anime fedeli agli ideali e temperare il geloso esclusivismo delle speculazioni. Lo psicologo, non si presenta come un distruttore di idoli nè vuol rubare il pane di bocca al filosofo. Chiedendo quel che gli spetta, lascia alla fede e ai suoi costruttori metafisici intatto il loro tesoro.
Questa innocenza della psicologia bene spesso diventa insidiosa arma di scettica demolizione d'ogni obbiettiva validità degli ideali. Ma bisogna, per ora, convenire che ciò è dorato a un oblio del limite o della rinunzia convenuti, a un'indebita espansione dell'intendimento psicologico a intendimento filosofico. La psicologia, che restasse fedele al suo carattere di scienza empirica e alle riserve del suo programma, non potrebbe essere responsabile di pretensioni incaute e quindi venire respinta come illegittima dottrina di valori. Bisogna convenire altresì che la sua volontaria limi-
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tazione importerebbe una incompiutezza nell'intendimento, ristretto di proposito al lato subbiettivo, ma non pèr ciò una qual si voglia negazione. Combattere, da questo punto di vista, i diritti della psicologia, è lottare alquanto slealmente contro chi chiede, se non un’alleanza, una pacifica neutralità.
L'aspetto subbiettivo —- e cioè il valore degli atti spirituali quale è presente al soggetto — non può evidentemente essere dalla psicologia messo da parte, così come l’aspetto obbiettivo, senza rinunziare ad una spiegazione della concreta attività spirituale, della moralità, della religione, della bellezza. Tale rinunzia implicherebbe — come tra poco vedremo che per necessità implica — piò tosto che una limitazione, una radicale incompetenza, e quindi una particolare determinazione o un mutamento dell’obbietto psicologico, poiché pur sempre in quelle forme della vita cosciente deve la psicologia trovare un contenuto alle sue riflessioni, anche se le sfugge la loro dignità.
Ora il metodo di riduzione psicologica dei valori riesce a dar ragione almeno della subbiettiva loro espressione o non più tosto impone alla psicologia anche la rinunzia a intenderli pur in tale subbiettivo aspetto e quindi la necessità o di illudersi circa i limiti della sua competenza o di determinare in modo diverso il proprio abbietto e il carattere delle sue spiegazioni? Solo in questo terreno è legittimo un controllo critico, poiché tutti gli psicologi e alcuni filosofi insistono sulla legittimità e sulla possibilità d’una spiegazione psicologica delle attività spirituali valorizzate, almeno in quanto subbiettive forme coscienti (i).
CONSTATAZIONE PSICOLOGICA DEI VALORI
Nessun dissenso può nascere sulla legittimità e sulla necessità d’un esame introspettivo della coscienza, per constatare e distinguere nella vivente sintesi creatrice della vita spirituale la ricca varietà delle sue espressioni. Il dissenso può riguardare l'efficienza conoscitiva delle distinzioni psicologiche così ottenute, l'uso per un intendimento filosofico dello spirito, l'opportunità d'una revisione delle constatazioni fatte.
La rivelazione dell’esistenza di un'attività spirituale qualsiasi non potrebbe altrimenti aversi che per indiretto. Il disprezzo dijmolti filosofi per ogni riferimento a un esame si fatto non può essere giustificato, salvo che non abbia altro senso. Inconsapevolmente o consapevolmente tale esame è la base ed insieme il punto di mira d’ogni specie di riflessione sulla vita dello spirito, e molte deficienze di concezioni filosofiche ànno origine da un uso inconsapevole e per ciò imperfetto e incompleto di esso. Ma questa considerazione non giova gran fatto a eliminare o risolvere il dubbio presentato.
(i) Il problema in Italia è stato studiato in modo sistematico è preciso, con piena consapevolezza della sua importanza, dal De Sarlo in diverse pubblicazioni, ma sopra tutto in un lucido e compiuto saggio compreso nel I voi. dell’opera Psicologia e Filosofia (Firenze-1918). Il De Sarlo con notevoli considerazioni perviene a risultati alquanto differenti dai nostri: riconosce l’insufficienza delle indagini psicologiche, ma queste gli sembrano indispensabili per ogni conoscenza dello spirito.
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Non si deve identificare ogni scandaglio della coscienza con l’analisi psicologica, come non si può identificare ogni osservazione con l’indagine naturalistica. Il poeta, il confessore e il penitente anch’essi, in modo caratteristico, anatomizzano la propria o l'altrui anima; ma ciò solo nell’indeterminato linguaggio ordinario può dirsi analisi psicologica. Scrutare la colpevolezza, contemplare la drammaticità di uno stato di coscienza, cogliere l’eterno senso estetico nel palpito fugace dell'animo è ben diverso che cercare classi, schemi generali, somiglianze o differenze di stati o atti soggettivi. Vi è sempre un elemento intenzionale, che caratterizza e distingue così le varie esplorazioni interiori come le osservazioni delle cose e le dirige su uno più tosto che su un altro aspetto della realtà. Come risulterà qui appresso, l’analisi psicologica è infatti individuata dal particolar carattere dell’obbietto che per essa si offre all’introspezione, correlativo a speciali atteggiamenti e fini conoscitivi.
In ogni modo un esame introspettivo metterebbe in luce l’esistenza distinta delle idealità dei fatti di coscienza; cioè preparerebbe solo la materia per una spiegazione; non sarebbe una spiegazione. Anche ad identificare tutte le analisi interiori e a riconoscere alla psicologia, quale scienza, la competenza per questo primo momento del processo esplicativo il nostro dubbio conserverebbe la sua urgenza. Constatare e descrivere la struttura subbiettiva della realtà spirituale e arrestarsi qui, innanzi alla distinzione dei valori, alla loro origine, alla loro azione non è nel programma di alcun psicologo. La psicologia non vuol essere una descrizione, ma una spiegazione, sebbene nei limiti convenuti. Ora proprio la capacità esplicativa è il punto del dissenso. La necessità e la possibilità d’un’analisi introspettiva di constatazione — specialmente nel suo senso generico sopra accennato — non si discutono. Ma guardarsi dentro non è preambolo di indagine psicologica: con esso si inizia ogni atto cosciente. Diventa inizio di un processo scientifico, se ha modi e fini appropriati a una spiegazione psicologica. L’introspezione dello psicologo non è un qualsiasi esame di coscienza.
Il compito critico sembra condannato a un'equivoca incertezza dalla incertezza di posizione della psicologia, che, pur aspirando a modellarsi sul tipo delle scienze naturalistiche, non à, .come queste, determinati nettamente il suo metodo e anche il suo obbietto. Più che chiedere una risposta al nostro dubbio su la capacità esplicativa della psicologia al concetto di essa, quale scienza, è preferibile costruire questo sui risultati di una diretta indagine; ma ciò, logicamente, urta contro la eventuale resistenza di chi abbia già fissata una qualche concezione.
Se la psicologia si intende, con alquanta indeterminazione, quale scienza dell’attività subbiettiva, in questa generica definizione essa può dire veramente: nihil humani a me alienum puto. Ma qui Si tratta appunto di fissare se una ricerca di tipo scientifico — che cioè si fondi su fatti, che ricerchi la ragione del complesso nel semplice, che riconduca a processi di formazione causale tutte le esperienze, che aspiri alla scoperta di leggi e di cause, mercè metodi naturalistici — possa spiegare quello che vi è di specifico nell’attività spirituale concreta o debba al-
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tomenti limitare i suoi compiti e determinare il suo obbietto. Dire che la psicologia studia l’attività subbiéttiva è dire troppo e troppo poco; è come dire che la fisica studia l’attività dell’oggetto.
INDETERMINAZIONE QUALITATIVA DEI FATTI PSICHICI
Molte ragioni provano che i risultati di una ricerca psicologica, che riduca a fatti indifferenziati o neutri le distinte attività valorizzate, che cerchi la ragione dei valori in una particolare sintesi di elementi psichici» che in fondo si basi sull’esi-stenzialità più tosto che sulla dignità, sull’essere più tosto che sul valore, restano al di qua d’una spiegazione, sia pure dell’aspetto subbiettivo, perchè l'arte, la scienza, la morale, la religione non sono comprensibili quali complessi risultati di antecedenti semplici, in cui sia estranea l’attività creatrice del soggetto, o quali prodotti necessari di condizioni date e indifferenti.
- Non vi è dubbio che in esse l'analisi scopre la presenza di molteplici fatti psichici elementari: emozioni depressive ed esaltative, imagini, simboli, giudizi, aspettazioni, tendenze: ma nella sintesi, che è una specifica qualificazione, originata da un giudizio valutativo, quegli elementi assumono una determinazione propria. Non sono in essa quél che sono fuori di essa, isolati dall'analisi astrattiva, o quel che sono in una sintesi diversa.
Il timore nella religione non è l’astratto timore che fuori di essa lo psicologo può genericamente analizzare; il piacere del bello, l’utilità del bene, la forza del diritto non sono nell’attività estetica, etica, giuridica ciò che sono in una considerazióne .che li isoli e li studi in se stessi.
L’organicità, che nella vita dello spirito è qualche cosa di ancora più unitario, à appunto questo carattere: di essere attività Organizzatrice, specificatrice e quindi così creatrice, in modo che l’uno e il molteplice, il tutto e le parti, la forma e il contenuto siano inscindibili. L’oblio di questo carattere genera le illusioni delle riduzioni.
È sempre possibile ad un’astratta considerazione isolare gli elementi dalla concreta unità in cui sono reali; allora appaiono d’un’identica struttura o d’una medesima qualità o con una medesima funzione; allora essi sono trasformati in componenti indifferenziati. Ma questo isolamento sempre lecito ai fini d'un astratto studio psicologico, non può diventare base d’un’interpretazione del reale concreto, se non nel caso che l’unità sia formazione semplicemente quantitativa o che non si tenga conto di quella specifica dignità, che informa di sè tutta la realtà spirituale e così informandola determina in concreto la natura degli elementi. Vale a dire che il complesso è riducibile al semplice a condizione che si astragga dalla sua specifica qualificazione.
Il naturalismo, perchè rinunzia alle specificazioni delle qualità e sostituisce alla concretezza del mondo naturale quel che gli sembra il suo riposto aspetto, obbiettivo, il moto, riesce a una soddisfacente spiegazione. Il successo dipende dal limite delle sue pretese. Lo psicologismo, come ne imita il metodo, deve imitarne la
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modestia: riconoscere che con le riduzioni psicologiche non spiega l’arte o la religione o la morale, ma il carattere psicologico indeterminato e indifferenziato che essi ànno in comune, e che tutto al più riesce a mettere in evidenza la diversa maniera in cui gli elementi, astrattamente considerati, partecipano all'unità. Il che non è privo di importanza. Ma la psicologia non può dai fatti ricavare il valore, più di quello che la chimica, non possa scoprire con la sua analisi il prezzo. Ex pumicis aquam.
Supposta una realtà psicologica indifferente è possibile ricavarne una differenza morfologica, non una differenza di valore; supposta una originaria distinzione valutativa la psicologia o si arresta d'innanzi a questa irridotta e non spiegata base o deve trasformarsi in una teoria di principi, cioè in filosofìa.
Neppure le leggi naturali sono riducibili ai fatti. Le leggi spiegano l’esperienza, ma non sembra che l'esperienza possa spiegare la validità dell’induzione. Se anche lo psicologo riuscisse a trarre da processi elementari, esistenti a solo titolo di fatto, gli ideali, non per ciò li spiegherebbe, perchè la dignità loro, il dover essere resterebbero sempre fuori della spiegazione. In verità la formazione naturalistica del valore sembra il risultato d’un’obbiettiva analisi psicologica, ma è invece il postulato tacito dell’analisi riduttrice, ignara dei propri limiti.
NECESSITÀ PSICOLÒGICA; DIGNITÀ DEI VALORI.
Un'esperienza, considerata come un fatto o riferita a una serie di fatti elementari e di circostanze antecedenti date, può rivelare senza alcun dubbio un carattere di necessità. La psicologia, anche quando chiuda nell’ambito d’una soggettiva formazione i valori conoscitivi o religiosi o etici, non per ciò li dissolve in un 'processo accidentale. Come non si può farle rimprovero di disconoscere intenzionalmente là loro obbiettiva legittimità — di cui essa si disinteressa, senza negarla — non si può’ farle rimprovero di insidiarne la subbiettiva consistenza con la riduzione a una formazione arbitraria. Essa anzi, appunto per il suo orientamento naturalistico, considerando le creazioni spirituali come risultato d’una sintesi di fattori psichici, che si compone mercè leggi universali, pretende di convalidarle con una causale necessità fondata sulla solida base dei fatti; ciò sembra a molti qualche cosa di più sicuro e di più chiaro che un fondamento aprioristico, sempre in balia delle opinioni.
Questa considerazione à ingannato parecchi, che nella spiegazione psicologica si sono illusi di trovare alla fine una garanzia scientifica dell'esistenza e della validità degli ideali.
Noi sappiamo che cosa pensare del rapporto causale. Ci si è mostrato estrinseco, valido in una successione di fenomeni astratti dalle differenze specifiche. Esso, se non distrugge, non garantisce una propria ragion d’essere del fatto a cui si applica. La necessità che include è ipotetica ed estrinseca pur essa. Il fenomeno si manifesta necessariamente, ma se certe condizioni sono date. In se stesso non à necessità alcuna; splende di luce riflessa. Eliminate le condizioni per cui, secondo la psicologia, l'ideale morale o religioso o un principio della ragione sarebbe sorto, e questi non esisterebbero. Le condizioni alla loro volta esistono a titolo di fatto
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La necessità di fatto è una necessità nel tempo. Ora ciò che non trova in sè medesimo la ragion d'essere, anzi la trova in altro, non è fondato in sè, non esiste per sè; la sua dignità è un risultato e quindi non à o non trova così quella necessità di diritto che sola la garantisce. Nè soltanto la necessità .causale dissolve la specifica determinazione del valore, trasferendo in altro la ragione del suo essere; ma, ancora, contrasta con il carattere della reale esperienza cosciente, quale ci è manifestata dalla medesima descrizióne psicologica.
La coscienza della legittimità almeno subbiettiva del valore, la coscienza d’una dignità che si eleva sino all’obbligatorietà, è qualche cosa che, oltre a distinguersi dalla necessità psicologica, si presenta spesso al soggetto come capace di contrastarla e di vincerla. Gli ideali sono ciò che al soggetto appare opposto a una subbiettiva necessità. La loro legittimità non è un risultato, ma un principio; non presuppone la necessità, ma la libertà; è un oporlet, non un necesse. Non esistono perchè certe condizioni erano date, ma perchè nella loro azione è la ragione e l’essenza del loro esistere. Gli sforzi per risolvere la legittimità nella necessità sono falliti, nè è presumibile che avranno quando che sia probabilità di successo.
Se la necessità psicologica esaurisce veramente la spiegazione d’un valore, questo è virtualmente negato, come tale. È un «latto ». Sul piano della necessità psicologica,stanno anche i disvalori: il male, il brutto, l’errore. La psicologia è indifferente a tale indice distintivo, perchè essa è indifferente al valore. Il giuoco subiettivo degli elementi psichici, nelle ferree determinazioni delle sue leggi causali, spiega Lesserei del male come del bene, meglio quello che questo. La concezione naturalistica dello spirito dissolve le differenze, come la concezione meccanica della natura è al di qua delle qualificazioni.
Appunto le confusioni tra le origini empiriche e il fondamento, tra le cause del fatto — dal quale si astrae il valore che pur in esso si realizza, presupponendolo o trascurandolo — e le ragioni del valore è fonte degli equivoci delle dottrine empiristiche. L’analisi del fatto del pensare scopre elementi con cui il processo conoscitivo à inizio, ma che non per ciò sono la ragione della sua validità. L’analisi di una positiva religione scopre le cause psicologiche, cón cui le particolari credenze e i riti sono determinati, ma che non per ciò esauriscono la ragione d’essere del valore religioso.
DETERMINISMO PSICOLOGICO ; ATTIVITÀ CREATRICE DELLO SPIRITO
Insieme con la legittimità anche quella creatrice attività del giudizio valutativo, per cui i principi si realizzano, realizzando la sintesi qualitativa, sfugge a una scienza, che voglia fondarsi sui fatti. La creazione valorizzatrice non è uno tra i componenti psicologici dell’esperienza o il loro effetto, ma il principio reale che dà loro significato e determinazione.
La psicologia, alla pari delle altre scienze della natura, si pone di fronte alla realtà spirituale come di fronte a una realtà data, compiuta. L'atto creatore può
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essere presupposto, ma non può essere spiegato, perchè non esso, ma la sua creatura è presente allo psicologo. Fatti estetici o conoscitivi o morali o religiosi, ma non le funzioni che li producono offre l’esperienza a una considerazione obbiettivatrice. La ricostruzione genetica della psicologia, in quanto si esamina un prodotto, è ricostruzione d’un accaduto, anatomia d’un organismo da cui è esulata là vita, narrazione d’una storia compiuta. Il valore è scelta attiva; l'esperienza valorizzata può rivelarlo all’analisi riduttrice dello psicologo, ma come residuo irriducibile, che solo un’ulteriore indagine, e non più di tipo naturalistico, potrebbe spiegare.
La psicologia non sempre disconosce il carattere di attività selettiva della coscienza, specialmente dopo l’abbandono dell’associazionismo empirico; ma la scelta diventa un principio di spiegazione in se stesso inesplicato, che si invoca a colmare le lacune del meccanismo psicologico, che si fa intervenire quale fattore di variazione indifferenziata, senza efficacia determinai rice delle concrete forme di esperienza interiore, che si modella sullo schema delle azioni meccaniche. A rigore è per il naturalismo uno scandalo; e la psicologia che si trova d’innanzi a ciò che è già scelto e mai d’innanzi allo stesso scegliere, è invincibilmente tratta a naturalizzare questo caratteristico processo spirituale. Ora lo quantifica riducendolo all’azione del motivo più forte, ora lo meccanizza identificandolo con i procedimenti fisiologici di inibizione, ora lo causalizza riferendo l’interesse selettivo all’attività delle masse appercipienti; in ogni caso lo colloca nel piano degli antecedenti insieme con i dati affettivi, facendone un risultato necessario ed extrarazionale. La scelta è nella psicologia il nome che si dà alla conclusione d’un processo, non è reale libera attività creatrice, che, ove l’indagine non si arrestasse alla constatazione del fatto, ostacolerebbe una interpretazione scientifica della coscienza. La psicologia è invincibilmente deterministica.
I processi pratici debbono per essa esaurirsi in una successione causale di tipo naturalistico. La volontà, che lo psicologo à presente, non presuppone l'azione d’un ideale informatore dell’esperienza, e quindi appare logicamente comprensibile ed è astrattamente comprensibile come una complicazione di processi impulsivi elementari. La libertà invece è il valore etico in atto, che, dovendo la psicologia intendere come prodotto anziché come produttore, sfugge alle sue ricerche. Un volere «dato», in cui non ci sia più o non ci sia ancora o da cui si astragga la legge creatrice, è necessità di fatto. La volontà dello psicologo — risultato di complicazione di processi elementari o attività impulsiva potenziata e complessa — non è la volontà del filosofo, energia legislatrice della ragione. Le difficoltà di intendersi nascono appunto dal riferirsi a due subietti distinti equivocamente indicati con il medesimo vocabolo.
Il coerente tentativo d’una psicologia senz’anima rivela la pressione di queste esigenze naturalistiche. Quegli psicologi, che più vivo ànno il senso della concreta vita spirituale, in verità non intendono spingersi a questa estrema posizione e reclamano il riconoscimento, almeno come postulato, del soggetto attivo. Ma esso è condannato a restare, come la natura del naturalista, un caput wiorluum, a non in-
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tervenire con una reale creazione, che, direi quasi, si inserisca nei processi psichici: un sottinteso senza del quale sembra irricostruibile la vita cosciente, ma con il quale, è insidiata un’interpretazione specificamente scientifica.
LE INCOMPETENZE DELLA PSICOLOGIA.
In conclusione: un'indagine schiettamente psicologica, e cioè chiusa dentro i fatti che l’esperienza rivela, non permetterebbe di parlare di valori, se questi non fossero già noti e presenti alla coscienza dello psicologo, che li distingue quindi per il medesimo titolo per cui un botanico, in quanto è anche uomo, distingue i fiori in belli e brutti. I fatti di coscienza, valutativamente indifferenziati, compongono sintesi in cui l’obbiettiva considerazione scientifica non troverebbe valori o disvalori, se non li distinguesse il suo umano interesse extrascientifico. L’induzione non trova nè nella qualità dei fatti elementari — qualità che è esclusa — nè nel numero delle verificazioni la spiegazione della preferenza. La preferenza del soggetto — che si manifesta con rimorsi, compiacimento, gioia, soddisfazione, ansie, dubbi, dolori — è fatto descrivibile e quindi dato allo psicologo, ma non giustificabile o comprensibile, tranne che l’analisi scientifica non aggiunga ai fatti l'apprezzamento della preferibiljtà oggettiva o soggettiva di alcuni tra essi.
Perfino il carattere di una normalità generica di funzioni è qui per la scienza concetto arbitrario e surretizio.
La normalità è, in vero, la qualificazione meno compromettente in un atteggiamento naturalistico. Essa surroga la distinzione di dignità con un criterio che à qualche carattere quantificabile, giacché sembra possibile fondarlo su un calcolo statistico. Ma una normalità, che sia semplice prevalenza numerica, non può identificarsi con l'essenzialità e la dignità di un fatto, nè essere un criterio sicuro del valóre di un fatto, distinzione valutativa. Il numero degli onesti e dei disonesti non è indice discriminativo della preferibilità dell’onesto e del disonesto; la preferenza di fatto constatabile Statisticamente, ancora una volta, non è la preferenza di diritto. Gli ideali che ci proponiamo non sono, per ciò, senz'altro, gli ideali che dobbiamo proporci.
Una normalità che richiedesse un qualche elemento di legittimità — e tale sarebbe appunto quella usata dagli psicologi per distinguere i valori — nè potrebbe ricavarsi induttivamente dai fatti o dai casi di verificazione, nè sarebbe congrua con la posizione naturalistica. La legittimità del vero di fronte al falso, del bello di fronte al brutto, del bene di fronte al male è indipendente dalla verificazione. D’altra parte lo psicologo, in quanto tale, non deve apprezzare, ma spiegare.
Da ciò deriva che io considero obbietti illegittimi della psicologia non solo processi logici — per cui l’accordo è , salvo rare eccezioni, facile — ma processi estetici o morali o religiosi od anche utilitaristici — per cui l’accordo è più arduo — in quanto la logicità o esteticità o eticità 0 religiosità seno apprezzamenti, implicano una preferenza, sono differenziazioni di valore, che non solo un’indagine di fatti è incompetente a spiegare, ma che provocano confusioni. Per la psicologia
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i processi sono o dovrebbero essese neutri cioè essa li deve studiare appunto in quanto neutri. La specifica qualità valutativa — che in concreto vi inerisce —- lo psicologo, come tale, non la troverebbe, se la sua coscienza umana non ve raggiungesse, con una pericolosa indistinzione dell'oggetto proprio della scienza.
Per verità non si è giunti a parlare di complessi stati psichici logici o ètici, ecc., come obbietti propri e legittimi della psicologia, ma sì di emozioni c sentimenti. È la medesima cosa. Il sentimento è piacevole o doloroso; e basta. Le altre specificazioni non sono proprie della natura affettiva. La ripugnanza kantiana ad ammettere sentimenti morali si deve estendere alle altre classi di sentimenti, pur esse sospette e deve acquistare significato d’una più precisa determinazione del fatto psicologico. Così forse si dissolverebbero come ombre vane le emozioni logiche o religiose o estetiche, cioè il fatto emotivo si presenterebbe nell’astratta purità, che deve essere obbietto dello psicologo, e le descrizioni semiartistiche, che abbelliscono le pagine dei trattati, mostrerebbero la loro inconsistenza scientifica.
In complesso le concrete attività spirituali, anche se si astrae dall'obbiettività del valore che le distingue e le determina, sfuggono all'intendimento d’una psicologia scientifica, come la musica all’acustica o la pittura all'ottica. L'origine, la dignità, la specifica qualità valorativa non solo restano al di fuori della sfera della sua competenza, ma in quanto ne diventino obbietti di indagine si dissolvano in causalità, necessità, morfologica distinzione. Così anche la eventuale obbiettiva validità non è veramente messa da parte, sì invece resa vana, giacché la stessa sua soggettiva espressione è svanita. La psicologia è un reagente dissolvitorc. Le sue riserve, sebbene leali, sono lusinghe insidiose.
IL RISULTATO DELLE RIDUZIONI PSICOLOGICHE
La storia riconferma questa pessimistica conclusione. Recenti e originali indagini di psicologia sperimentale, iniziate dal Binet e rinnovate con ardore dal Marbe, Watt, Ach, Messer, Bovet intorno al pensiero, concludono che il giudizio quale fatto psichico è inesistente. Si trovò un’indeterminata « atmosfera psicologica » in cui esiste, ma non da cui nasce, nè esso. Il pensiero come attività sfugge all’intro-spezione psicologica. Tale constatazione non distrugge la speranza degli psicologi, nè li conduce sempre alle conclusioni che coerentemente essi dovrebbero trarne. Ma è un progresso di chiarezza e lealtà scientifica, che essi oggi confessino la necessità di ammettere fattori non rappresentativi, assenti dal complesso dei «fatti», invece di restare come prima inchiodati nelle vecchie posizioni dell’empirismo, il quale, quando non trovava in fondo alle sue riduzioni l’obbietto della ricerca, lo negava, scambiando l’insuccesso con l’inesistenza o con la mancanza di validità dei valori esaminati.
Sin’ora un relativismo scettico è stato sempre la conseguenza dell’interpretazione psicologica dell’attività spirituale. Gli ideali depotenziati, la finalità irrigidita negli schemi meccanici del processo causale, le dignità livellate nella necessità, chiudono ogni indagine nel cerchio mortale di un soggettivismo, lievito inevitabile d’una larvata scepsi.
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Teoricamente i risultati dell’antropologismo, del filologismo, dell’utilitarismo, del sociologismo, del materialismo storico — che sono le espressioni più o meno dirette e fedeli del metodo delle riduzioni psicologiche e in generale del naturalismo — dànno sempre un bilancio negativo in rapporto al riconoscimento dei principi e della loro validità. Il bilancio è questo: le categorie razionali risolute in abitudini, l’arte nel giuoco delle immagini, la libera creazione del genio nel delirio della follia, la colpa del crimine nel disordine naturalistico delle funzioni, il rapimento mistico nella monoideazione anormale, il processo storico nella risultante di una o più forze elementari, la moralità nel piacere, il diritto nella coazione. Praticamente la vittoria del fatto sul valore, della necessità sulla legittimità, non solo presuppone un torpore spirituale capace di accogliere e ospitare senza resistenze l’implacabile indifferenza analizzatrice del naturalismo, ma è anche possibile fattore di decadenza morale, perchè la conoscenza influisce sull’apprezzamento e l’apprezzamento sulla vita. Nè vale invocare i diritti sovrani della verità, che come l’aratro sul suolo strazia per fecondare. La luce fredda dell’intellettualismo sarebbe sterile anche quando fosse luce di verità, ma, più, è nociva quando si proietta sulla vita dello spirito, per negarne i valori. Il mondo della storia è creazione del soggetto, è espressione degli ideali; e tutto ciò che oscura o distrugge la fede nella loro dignità depotenzia la loro azione e impoverisce la condotta spirituale. Il pensiero à diritti forse insindacabili sulle illusioni moriture della coscienza, al cui tramonto può succedere un’alba più serena e sicura, non sugli ideali che sono funzioni costitutive dello spirito. Di questi esso può solo risolvere nel concetto le subbiettive impressioni nostre, per così inverarli, non per negarli.
LA PSICOLOGIA E L’ESPERIENZA DEVALORIZZATA
Le considerazioni fin qui fatte non autorizzano a proclamare il fallimento della psicologia. Sarebbe un corollario precipitato ed erroneo; in ogni modo lontano dai miei intenti. Mi sembra anzi che esse giovino a determinare con una maggiore precisione quel carattere scientifico della psicologia, a oui essa aspira, sebbene spesso con titoli usurpati illegittimamente.
Il Binet qualche anno fa chiudeva il bilancio degli studi recenti intorno alla, volontà, al dovere, al pensiero con l’amara constatazione che essi «ànno sopra tutto messo in evidenza la nostra ignoranza » e opponeva al vecchio concetto della coscienza una diversa e oscura visione che oggi è lecito intravedere: «un caos d’ombre intersecato da lampi, qualche cosa di bizzarro e principalmente di discontinuo, che è sembrato razionale e continuo solo perchè si racconta, dopo avvenuta, in un linguaggio che pone in tutto ordine e chiarezza, ordine fittizio illusione verbale, che rassomiglia alla vita reale come il ron ron d'una tragedia classica rassomiglia a uno scatenamento di passione ». Una si fatta realtà spirituale sarebbe veramente opaca ad ogni luce intellettuale. Il naturalismo, anche dalle consolidate posizioni dei suoi trionfi, potrebbe fare eco al lamento. Nè i principi attivi delle cose sono trasparenti alle sue indagini, nè lo schema rigido del suo determinismo mec-
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canico risponde alla multiforme attività degli esseri. L’autorevole psicologo francese si è fatto sorprendere da un momento di pessimismo, conseguenza di pretensioni condannate all’insuccesso, ed à obliato che nè le altezze della razionalità, vanamente cercata tra i fatti di coscienza, nè le bassure deH’empirica vita cosciente, con il tumulto del suo flusso perenne e disforme, possono e debbono essere l’obbietto proprio d’una psicologia quale scienza, sì un’astratta attività psichica, che non è forse ancora sufficientemnte fissata.
Sarebbero errori funesti tanto l’ostinata insistenza a conservar ì o trascinare nell’ambito di ricerche appropriate a una scienza, di tipo naturalistìco, problemi che le sfuggono — come l’origine e la validità degli ideali — quanto un ritorno della psicologia ad atteggiamenti speculativi. La psicologia, «ospite provvisoria » della filosofia, non può trovare in questo connubio che disinganni. È de! tutto indipendente dalle particolari concezioni metafisiche un leale riconoscimento della necessità che la psicologia, quale scienza, conservi e sviluppi i caratteri che, come tale, le debbono esser propri. L’interesse per una verità speculativa non deve indurci a pretendere che le conoscenze psicologiche vi si adeguino o a dispregiarne altrimenti i risultati. Che la scienza sia scienza e non contamini i suoi fini e i suoi metodi naturalistici con atteggiamenti speculativi è tanto necessario quanto che la filosofia sia metafisica e non si modelli sul naturalismo. In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni. Non si tradisce, ma si fa omaggio alla conoscenza speculativa, reclamando per la psicologia una più netta posizione naturalistica; nè si tradisce ma si fa omaggio alla conoscenza psicologica, allontanandola dal piano inclinato delle tentazioni speculative. Se indistinzioni vi sono, occorre eliminarle e non accentuarle.
Si suole ripetere che la psicologia occupa un posto intermedio tra le scienze e la filosofìa. Ciò à forse qualche significato, se ci riferiamo al suo obbietto, perchè i fatti deil’anima non sono più la semplice cosa naturale, nè ancora concreta attività dello spirito. Non à significato, se ci riferiamo al suo carattere. Sarebbe dunque quasi scienza o quasi filosofia? L’incerta oscillazione tra un cieco fisiolo-gismo, che le nega uno specifico obbietto, e un fiducioso filosofismo, che la grava di responsabilità e di lusinghe fallaci, cesserà con il progressivo precisarsi del suo compito scientifico.
Di questo il limite conoscitivo sopra illustrato traccia la sfera. La psicologia trova il suo obbietto nei fatti spirituali astratti da ogni valore.
D’ordinario quando si avverte il bisogno di definire la psicologia, l’attenzione è rivolta o alla differenza dagli obbietti o alle differenze dai metodi, propri delle scienze della natura. Il successo non è decisivo neppure da questo lato, sebbene il carattere di soggettività, che cosi genericamente si può determinare, circoscriva abbastanza la sfera dei fatti psichici. Fissate alla meglio le differenze fra ciò che è psichico e ciò che è fisico, si indica l’attività spirituale come terreno di giurisdizione degli psicologi. Per una più precisa distinzione si mette in luce che la psicologia vuole essere scienza di fatti, quasi basti a definire e individuare l’obbietto psicologico la vecchia e utile differenza fra studio dell’anima e studio dei fatti dell’anima.
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Le precedenti considerazioni, l’esistenza di una gnoseologia, d’una logica, d’una etica, di un'estetica — pur essere rivolte a intendere l'attività spirituale — l’orientamento moderno della filosofia come dottrina dello spirito, mostrano l’opportunità di una distinzione dell’obbietto proprio della psicologia dentro la sfera della vita cosciente. Manifestamente non si tratta di scoprire particolari fatti, che coesistono con quelli su cui riflettono le scienze morali e la filosofia, ma di precisare l’aspetto dell'attività spirituale — e quindi il punto di vista o il fine conoscitivo — che si vuole assegnare alla psicologia.
L’attività « psicologica » non può essere che una determinazione dell’attività spirituale, ottenuta con un’astrazione, che ne fissi un qualche aspetto, isolandolo dalla concreta realtà, che è la vita dello spirito. La psicologia, in una parola, deve cominciare col porre il « fatto psicologico », sopra tutto astraendolo dall’attività concreta dello spirito.
L’astrazione dell’obbietto non turberà che gli ignari del carattere delle scienze. Ogni scienza determina il proprio obbietto mercè un’astrazione che,distinguendolo dagli altri obbietti, lo specifica, c così individua il sistema delle conoscenze che vi si riferiscono. La fondatezza, la legittimità, il rigore, il successo della determinazione astrattiva sono le condizioni della fondatezza, della legittimità, del successo della scienza. Nessuno vorrà oggi sostenere vi sia altra origine della distinzione degli obbietti. Quando l’astrazione non riesce sufficientemente ad isolare dalla concreta realtà un obbietto, e cioè non riesce a pensarlo con un concetto distinto, non vi è scienza o di questa sono mal segnati i termini. Esempio: la sociologia.
Per le attività spirituali il lavoro dell'astrazione specificatrice è certo più difficile, ma insieme anche più necessario, perchè in esse e per esse si realizzano quegli ideali, sono operosi quei principi, che formano l'obbietto della filosofia, da cui la psicologia deve distinguersi; perchè ad esse lo studioso è anche insieme interessato quale uomo, sì che gli è più arduo trasformarsi da attore in spettatore, come la scienza richiede. Ciò su cui il lavoro' d’astrazione deve esercitarsi, affinchè l’attività dello spirito si determini quale « fatto psicologico », l’ò appunto si n'ora chiarito : è il valore.
Le rinunzie che impone lo studio di attività spirituali devalorizzate sono certo gravi, ma necessarie per i successi scientifici della psicologia. La conoscenza, la vita morale, l’attività estetica, l’esperienza religiosa, da cui le balde speranze di molti psicologi ànno tratto efimeri tesori e in cui credevano di celebrare clamorose conquiste, offrirebbero alla psicologia la concreta pienezza della loro spiritualità tutto al più per una semplice descrizione; ma per l’esame esplicativo solo il loro scheletro naturalistico, impoverito di distinzioni. Però in compenso la psicologia non si esporrebbe agli insuccessi o ai traviamenti di tentativi illegittimi, non devierebbe sopra tutto dal cammino che la differienziazione progressiva delle conoscenze le à aperto. Rinunziare all’impossibile non è sventura, ma fortuna. La recisa rinunzia delle scienze naturali a intendere la concretezza della realtà fisica, pur essa così ricca di significati, la sua umana qualificazione, fuori della quale esiste solo un’astratta
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quantità, le eventuali energie creatrici e specificatoci, a cui talvolta gli scienziati volgono un timido appello nostalgico, è la condizione del loro trionfo. Esse ànno eliminato, dapprima con lo sdegno sprezzante d'una giovanile liberazione, poi con la serena coscienza della maturità, tutto ciò che nel campo della natura è analogo a quel che sono i principi o i valori o gli ideali nel campo dello spirito. E quando, dimentiche che la loro ricchezza è condizionata dalla limitazione delle loro pretese, ritentano un’incauta esplorazione dell’oceano profondo che ànno abbandonato, i mostri metafisici puniscono le loro audacie, avvolgendole nelle nebbie letali di torbidi vaneggiamenti, che le trasformano in romanzesche rapsodie concettuali.
Astraendo dal valore dell’attività dello spirito si determina quel carattere di « fatto psichico », che soddisfa a tutte le esigenze alle quali deve corrispondere l’ob-bietto di un’indagine scientifica e si presta all’applicazione delle categorie della conoscenza naturalistica. Un pensiero non vero nè falso, liberato dalle incognite dell’obbiettività o della subbiettività; una volontà non buona nè cattiva nè utilitaristica nè giuridica, sottratta alle turbatoci azioni degli ideali; una fantasia senza fini estetici, in complesso un’attività soggettiva costruita di puri stati di coscienza, ciò è l’effettivo terreno di giurisdizione degli psicologi. La posizione psicologica dei fatti spirituali è la coesistenza su un medesimo piano — solo distinti per la struttura e per la funzione genericamente determinata — della percezione e dell’illusione, del delirio e della fantasia, del rimorso e del compiacimento, dell’odio e dell'amore, dell’orgoglio e dell’umiltà, della passione e del carattere morale.
Quando lo psicologismo antropologico collocava sul medesimo tavolo anatomico il criminale e l’eroe, il pazzo e il genio, il santo e l’isterico, non varcava le frontiere del naturalismo per questo crudo livellamento psicologico, ma perchè, ignorando che così le distinzioni di valore si annullavano e che l’obbietto in esame diventava una neutra attività psichica, si illudeva e pretendeva di conoscere le differenze di dignità, perchè si ostinava, come si ostina, a trovare nello schema astratto della coscienza psicologica il valore, prescindendo dai quale è solamente possibile un esame naturalistico.
La devalorizzazione dà all’attività spirituale quell’obbiettività, quel carattere di fatto, quella struttura di composto riducibile, quel procedimento causale, che invece sarebbero incongrui con l’azione creatrice sintetica degli ideali.
Lo psicologo può assumere quell’atteggiamento di indifferenza, caratteristico dell’intelletto, che elimina le valutazioni, poiché nessun interesse umano è più nel fatto che analizza: puro essere senza valore, puro intelletto senza bisogni apprezzativi. L’attività spirituale, vuotata da quell’interna virtù che la crea e la determina, è comprensibile come fatto, estrinsecamente, per quel che rivela nella sua struttura, senza i problemi della sua validità, opachi ad una conoscenza scientifica.
Noi sappiamo che l’obbiettività è appunto questa duplice liberazione, dagli interessi del soggetto conóscente e da eventuali principi interni all’essere.
Gli enigmi delle origini, anch’essi impenetrabili quando si cerchino nell’orbita dei fatti empirici, si semplificano divenendo questioni, più o meno ardue, di co-minciamenti e si fugano gli equivoci di scambiare il primo logico con il primo temporale, il fondamento del valore con l’inizio del fatto, in cui il valore è realizzato
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La decomposizione analitica e la ricomposizione sintetica non presentano disquilibri di compiutezza, perchè nel complesso non ci è di nuovo che la complessità. Non occorre trasferire ai fini i caratteri delle cause e presupporre sottili processi di soggettive costruzioni illusorie per spiegare gli atteggiamenti morali e le categorie della ragione, perchè, eliminati i principi creatori e qualificatori, si ànno qui, come nella natura, risultati o effetti di alcuni elementi e di alcuni antecedenti.
I successi della psicologia patologica sono dovuti non solo alle ragioni comunemente indicate — la vistosità dei fatti morbosi, le spontanee disintegrazioni, i pro-' cessi involutivi ecc. — ma anche a una più adeguata applicabilità delle categorie natta ilistiche, perchè la vita anormale dello spirito da per sè è devalorizzata, non è essenzialmente costituita da creazioni di ideali, sì che non è mai stata occasione agli psicologi di illegittime pretese e di deviazioni dal loro compito. L’anormalità patologica è naturalità: lo spirito è in essa un'eco indistinta.
Consegue che il soggetto, di cui deve parlare lo psicologo, rassomiglia allo spirito o al soggetto, di cui parla il filosofo, come lo scheletro al corpo. Il soggetto psicologico è anima, un essere tra altri esseri, soggettività astratta, fuòri della quale sono le cose e i principi universalmente validi, formazione naturale che è risultato e non principio creatore, schematica generalizzazione dei fatti psichici. È l'io empirico astrattamente concepito. Qui come nella natura l’intelletto costruisce con il processo astrattivo in base ai dati empirici un’idea sintetica, dalla quale esula la ricchezza concreta delle determinazioni e son fissate le note comuni. L’attività del soggetto per ciò, come l’attività della natura nei fatti fisici, è una generica c neutrale unificazione dei processi elementari. Una reale creazione sarebbe incomprensibile, perchè veramente l’anima psicologica è un'inerte idea astratta. A rigore, in una concezione naturalistica, l’appello all’intervento del soggetto, quando non sia riferimento a un’indeterminata e generica unità, come il riferimento dei fisici alla natura, ma ricorso ad una specifica azione creatrice, che si inserisce nel processo formativo, è appello a un deus ex machina, incongruo con la posizione scientifica della psicologia.
Il Wundt esplicitamente dichiara che un soggetto non è necessario per la spiegazione psicologica, che un fatto psichico deve èssere spiegato con un altro fatto psichico. Il prof. Ledere non esita ad additare le insidie d’una tendenza contemporanea che allontana la psicologia da una rigida riduzione dell’attuale al precedente. « La salvezza per questa disciplina — scrive egli — è di curare d’essere più determinista che è possibile-.. Ma che cosa è determinismo vero se non l’affermazione, netta, ' senza restrizioni, che non vi è niente di assolutamente nuovo in ciò che sembra il più nuovo, e la credenza nella possibilità di riportare tutto ciò che sorprende ad un complesso, riducibile a un semplice che non sorprende più? Or non è evidente che in ogni scienza di fatti la parola ridurre non significa altro che spiegare l’attuale con l’anteriore? »
Fatti elementari, processi di composizione, cause estrinseche, se non alla serie psicologica al fatto che si produce, leggi phe descrivano e spieghino, ma non creino: tali sono i legittimi obbietti d’una scienza dei fatti soggettivi. Le resistenze che così lo psicologo incontra per una esauriente spiegazione derivano da un’errata
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estensione dei suoi compiti, da un’imperfetta astrazione e quindi determinazione del suo obbietto. La fatalità di conclusioni scettiche, relativistiche, negative, quando si ostina a risolvere i problemi del pensiero, della moralità, della religione, derivano dairimpossibilità di trovare nel soggetto astratto quell’attività sintetica a priori, di cui questo è in verità incapace.
Gli psicologi della scuola di Wiirzburg o di Parigi, esploratori intrepidi e leali della vita « superiore » dello spirito, sono stati indotti a presupporre processi non rappresentativi, di cui si avvertono solo gli effetti, per spiegare l’origine del pensiero e della volontà, e la maggior parte furono spinti così sul terreno della metafisica.
Ciò gioverà af consolidamento scientifico della psicologia, se approfondirà la consapevolezza delle sue frontiere, se significherà rigoroso richiamo degli esperi -mentatori nel campo appunto degli effetti, se non provocherà una nuova confusione dei domini della scienza e della filosofìa. Una ulteriore insistenza a sorpassare il compito della constatazione di elementi « obbiettivi », a spiegare psicologicamente la natura di questi oscuri processi, che non ànno posto tra i fatti della coscienza, condurrebbe alla disperata conclusione di negarne l’attività e di far assurgere i loro effetti, ora apparsi frammenti o almeno risultati d’una più profonda realtà, a completa ed esauriente realtà.
CONCLUSIONE
Un malinteso interesse per le sorti della psicologia potrebbe interpretare tale determinazione dei suoi limiti come un avvilimento di dignità e una riduzione mortale di contenuto. I falsi tesori non costituiscono ricchezza, ma illusorie pretensioni. La psicologia non à bisogno di una materia di contrabbando per il suo sviluppo. Dentro l’orbita tracciata le restano ardui e ampi obbietti d’indagine; le resta ancora il compito di individuare e sistemare il suo organismo di scienza, ciò che sarà meno difficile quando avrà liberato il suo terreno da quella flora esotica che tuttavia, intristendovi, lo ingombra. Il carattere naturalistico delle sue conoscènze, meglio definito e più rigoroso, l’alienerà sempre di più dalle pericolose tentazioni speculative, ciò che forse placherà gli sdegni eccessivi dei filosofi e in ogni modo collocherà la psicologia al medesimo livello di dignità delle altre scienze. E come già a queste, ad essa si rivelerà un più largo e profondo campo di applicazion pratiche, da cui il vaneggiamento di conquiste gnoseologiche e metafisiche l’aliena.
La capacità di dominio sulla natura non à origine da conoscenze diversamente fondate. I trionfi tecnici dell’uomo cominciano da quando tramontano le pretese filosofiche dei fisici, con la rinunzia a superare il fenomenismo dell’attività della natura. La psicologia solo ora s’apre un sentiero verso un uso razionale delle energie umane, nel quale troverà un altro compenso alle sue rinunzie.
Condizioni d’una conoscenza utilizzabile per usi pratici sono appunto i suoi processi devalorizzati, il suo soggetto indifferente, la sua anima neutrale costruita con l’astratta generalizzazione dei fatti empirici, perchè solo così la vita psichica rivela il suo aspetto astratto di attività strumentale o di energia di lavoro, altrimenti indistinta nella reale sintesi creatrice, che ogn naturalismo vanamente cerca di comprendere o vanamente nega.
Antonio Renda.
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Sommario: iX ¡Imposto importante che ànno recentemente acquistato gli studi sui misteri pagani e sul mistero cristiano — 2. Diversi punti di vista per lo studio dei misteri: indagini filosofiche, psicologiche e storiche. Delimitazione dei loro campi — 3. Le somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano indussero i primi cristiani a pensare che si trattasse di una diabolica imitazione da parte dei pagani; le moderne ricerche inducono a porre l’ipotesi di una imitazione cristiana — 4. Quali sono le somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano e quali le ipotesi per spiegarle — 5. Differenze e somiglianze tra Í Evangelo di Gesù e VEvangelo di Paolo — 6. Carattere sacramentale del battesimo e della eucaristia — 7. Come è nata e cresciuta in Paolo la fede nel mistero cristiano — 8. Origine della cristologia paolina — 9. Perché l’Evangelo di Paolo non fu ripudiato da coloro che più viva conservavano la memoria della predicazione di Gesù — io. Che cosa à guadagnato ¡’Evangelo di Gesù col divenire un mistero — 11. Conclusione sul risultato degli studi recenti intorno ai rapporti tra misteri pagani e mistero cristiano.
i. In questi ultimi anni di studi esegetici e storici, sempre più chiaramente è venuto in luce che il cristianesimo, alle sue origini, affonda e stende le sue robuste radici non solo nel giudaismo — dove la più vecchia scuola di Tubinga voleva confinarlo — ma anche nei culti pagani, e vi attinge vitale alimento. Se questi studi ànno schiuso le porte a confronti talvolta affrettati e troppo arditi, non furono tuttavia sempre infecondi. Essi incitarono gli studiosi a esaminare, con analisi pazienti, il valore di varie ipotesi di infiltrazioni, sostituzioni e sincretismi; a precisare sempre più nettamente la funzione dei miti e riti pagani nel cristianesimo, a rendersi conto della forza di diverse teorie, come quella dello sviluppo del pensiero giudaico nel cristianesimo (Salvador) o della fantasia creatrice di miti (Strauss) e a riconoscere, con visione sempre più chiara, il valido contributo che nella costruzione della scienza biblica e nella storia del cristianesimo offrono l'archeologia orientale, le tradizioni e letterature semitiche e non semitiche, la storia comparata delle religioni.
L'attenzione degli studiosi si è rivolta principalmente agli antichi riti orientali detti misteri, che perdurando alle origini del cristianesimo gareggiano con
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esso nell’entusiastica propaganda; e da R. Reitzenstein (i) ad A. Jacobi (2), da G. Anrich (3) a H. Gunkel (4), da A. Dieterich (5) a C. Clemen (6), da P. Wend-land (7) ai- valenti studiosi che se ne occuparono nel Congresso di storia delle religioni di Leyda (settembre 1912), da W. Bousset (8) ad A. Loisy (9) è stata riconosciuta la singolare importanza che à lo studio dei misteri pagani per la storia del cristianesimo e specialmente per quella delle sue origini.
Si è cercato di sapere se nei primi documenti cristiani il ciistianesimo sia stato considerato come un mistero, se i primi missionari cristiani assimilavano il loro evangelo alle dottrine esoteriche e ai riti che ebbero un così potente influsso su la società greco-romana; e si sono esaminate le somiglianze fra misteri pagani e mistero cristiano per segnarne i limiti, indicarne le cause. Ma un esame minuzioso e profondo delle testimonianze concernenti i misteri pagani e le origini cristiane assorbirebbe molte vite di uomini. Per brevità non ci occuperemo degli studi riguardanti i misteri di Dioniso o di Orfeo, di Eieusi, di Cibele o di Attis, di Iside, o di Osiride o di Mitra; non di quelli intorno ai rapporti tra giudaismo e religioni dell'antico Oriente — che ànno anch'essi una ricca letteratura — ma solo degli studi intorno al mistero cristiano nei suoi rapporti coi misteri pagani.
2. I misteri, i di cui germi si trovano persino nelle religioni primitive, furono, come si sa, riti di iniziazione aventi uno spiccato carattere sacramentale (io). Il segreto al quale i membri dì alcune associazioni furono tenuti (si rammenti la persecuzione di Eschilo per averlo palesato) si doveva sopratutto alla scrupolosa attenzione per la purezza che il culto doveva conservare in contrasto con la contaminazione proveniente dall’esterno. Era dunque un segreto del rito quello che conferiva un’atmosfera sacra all'ambiente e rivestiva i misti, i loro atti e pensamenti di un abito arcano, anche quando questi ultimi nulla contenevano di misterioso.
(1) Die Hellenistische Mysterienreiigionen.
(2) Die antiken Mysterienreiigionen und das Christentum.
(3) Das Antike Mysterienwesen in seinem Einfluss auf das Christentum.
l) Zum Religionsgeschichllichen Verständniss des Neuen Testaments.
5) Eine Mithrasliturgic.
6) Der Einfluss der Mysterienreiigionen auf das älteste Christentum.
Î) Die hellenisch-römische Kultur in ihren Beziehungen zu Judentum und Christentum. ) Kyrios Christus.
9)
una
Les Mystères païens et le Mystère chrétien. Chi volesse, per la storia, notizie di letteratura non più recente intorno a quest’argomento, può trovarne nella Hist. Christ, e anche nel!’¿fisi. Ecclesiast. di Mosheim. Fra i contemporanci agli autori già •ammontati si possono aggiungere: G. Wobbermin, Religionsgeschichtliche Studien zur Frage der Beeinflussung des Urchristentums durch das antike Mysterienwesen e T. Weiss, Urchristentum.
. (,o) Mystères paìens et le Mystère chrètien. Richiamo particolarmente l’attenzione dei lettori su questo volume di A. Loisy, E. Nourry ed., Paris, 1919. Frs. io) sia per la diligente e dotta analisi in esso fatta de! mistero cristiano — analisi che lascia presupporre 1 suoi precedenti studi sintetici su la religione in generale, e particolarmente sul cristianesimo — come per lo studio dei misteri pagani, perchè vi è precisata la posizione di A. Loisy nel campo di tali ricerche in confronto a quella di altri studiosi dei cui lavori m detto volume si tien conto.
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Lo studio dei misteri, perciò, come studio di riti, non offre la scoperta di segrete dottrine — pascolo sempre gradito a una mentalità popolare — ma una conoscenza che à grande importanza nei diversi campi della filosofìa, della psicologia e della storia. Alle indagini filosofiche il compito di dire perchè la fede nell’immortalità si sia formata e sviluppata, meglio che in altri culti, in quelli degli dèi morti e risorti. Alle indagini psicologiche l’esaminare perchè l’idea della salvezza individuale e dell'immortalità abbia vinto gli interessi sociali delle religioni nazionali, e come il sentimento religioso, che aveva favorito e spronato la diffusione dei misteri, abbia trovato completo appagamento nel cristianesimo. Alle ricerche storiche il dire come l’Èvangelo si sia trasformato in mistero, pur conservando tanto la consistenza che aveva ricevuto dal monoteismo giudaico quanto l’ideale morale dovuto alla predicazione di Gesù. Queste ricerche tentano cogliere l'origine e lo sviluppo del mistero cristiano, proponendo varie ipotesi intorno alle cause che ànno determinato le somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano.
Lo studioso perciò, per una proficua indagine nei diversi campi del sapere, deve tener presente questi diversi punti di vista, non potendo egli oltrepassare impunemente i confini segnati dalla natura dell’oggetto che vuole studiare, nè domandare ad una scienza ciò che del medesimo oggetto solo un’altra può dire.
Diremo così che la questione dei rapporti tra culti nazionali e misteri, e più precisamente la conoscenza del perchè il cristianesimo si sia trasformato in mistero, è d’ordine psicologico più che storico; mentre la ricerca del come il mistero cristiano s’innesti nella storia dei misteri pagani, e da essi proceda — almeno nella ideazione generale — è una ricerca che può proporsi lo storico, perchè di sua competenza. Egli potrà dirci se fu la personale attività di Gesù di Nazaret, o la fede che ebbero i suoi discepoli nel risorto, quella che si diffuse nelle popolazioni medi-terranee, ma non potrà farci intendere perchè così avvenne, senza che la sua dimostrazione sia accompagnata da un’indagine psicologica delle esigenze religiose in genere e di quelle dominanti nella cultura di quel tempo in ¡specie. Lo storico ci dirà se fu l’Evangelo di Gesù o il mistero della salvezza, col Cristo suo centro ed oggetto, a convertire i pagani.
3. Le somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano colpirono l’attenzione dei primi, cristiani, e se ne intende facilmente la ragione se si pensa che quei misteri erano allora accessibili a molti, mentre ai nostri giorni rimangono solo oggetto di curiosità per pochi studiosi. Si ritenne però allora, da parte cristiana, che quelle somiglianze si dovessero a diaboliche imitazioni pagane, ed anche questo s’intende facilmente, quando si pensi che per costoro il cristianesimo faceva astrazione dalle contingenze della storia, e, come singolare rivelazione, usciva dalla serie causale che lo precedeva senza dilungarsi negli oscuri meandri delle credenze e costumanze religiose di altri popoli. Così Giulio Firmico parlava di una imitazione della croce cristiana, e Giustino (1) e Tertulliano si meravigliavano che il diavolo
(1) Apologia, I, 66.
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non solo battezzasse i suoi fedeli come i cristiani, ma facesse anche creder loro di venire in tal modo purificati dai peccati, inscenando una imagine della resurrezione.
Noi oggi siamo ben lungi dal conservare il medesimo punto di vista di questi uomini pii. Gli studi intorno ai miti e ai riti pagani ci ànno permesso di rintracciare riti simili a quelli del battesimo e dell’eucarestia, riti di iniziazione(i), quando ancora il mistero cristiano non era nato, sorti e cresciuti in Babilonia, Fenicia, Asia Minore, Grecia, Egitto, Persia; in tempi e ambienti perciò che escludevano nettamente l’ipotesi di una imitazione da parte pagana. Sempre più forte si è fatta invece Ja ipotesi contraria che pretende essere stato il cristianesimo imitatore di culti orientali, o che in qualche modo avesse accolto miti pagani nella costruzione della sua soteriologia e si fosse trasformato in mistero per il metodo di raggiungere la salvezza. Momento importantissimo questo, nella storia del cristianesimo; tema arduo per questioni sottili e complicatissime che richiedono somma diligenza per districarle c risolverle e tatto delicato, onde a ragione oggi i misteri richiamano l’attenzione di valenti studiosi delle origini del cristianesimo. La possibilità di seguire, con una relativa sicurezza, le traccie dei misteri pagani nel mistero cristiano, la possibilità di riconoscere in questo il pensiero dominante e il rito di quelli, tutto ciò a traverso molteplici strati di una vita religiosa estinta, e sotto altro nome perdurante e risorgente, si fa sempre più salda, e sempre più incuora i cercatori ad avventurarsi nella selva delle analisi minuziose, della esegesi più delicata, della storia meno documentata, ma dove le irrefutabili somiglianze che ogni giorno vengono alla luce autorizzano a nuove ipotesi per spiegarle.
4. Vediamo, anzitutto, le principali somiglianze su cui si fondano le diverse ipotesi dei moderni studiosi del cristianesimo:
i° Un dio redentore (subordinato al dio supremo e del quale è talvolta figlio) è oggetto principale del culto.
2° I festeggiamenti per la morte e resurrezione di questo dio avvengono al principio della primavera. C
3° Questi festeggiamenti avvengono dopo tre giorni dalla morte del dio.
4° Gli Evangeli tentennano nel fissare questa data tra il terzo e il quarto giorno, e la resurrezione di Osiride avviene dopo il terzo; quella di Attis dopo il quarto giorno.
5° La morte e la resurrezione del dio ànno valore per la salvezza dei credenti, potendo essi ottenere, per tal mezzo, liberazione dalla morte, rinascita per una vita eterna.
6° Questo valore per la salvezza, che ànno la morte c la resurrezione del dio, viene realizzato per mezzo dell'unione mistica del credente con la deità.
(1) Cfr. Goblet d’Alviella, L'Inilialioti InstiMion Sociale, Magique et Religieuse, in Revue de l'Histoire des religions, 1920.
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70 L’unione mistica con la deità si compie per mezzo dei sacramenti, battesimo ed eucaristia (1).
Quali le ipotesi per spiegare queste somiglianze?
Vi sono alcuni storici e teologi, come Harnack (2) che, riferendosi a Norden (3), Usener, Reitzenstein e ad altri, disgustati delle comparazioni, dubitano della consistenza dei risultati della storia comparata delle religioni (4). Costoro, ■aturalmente, non accordano fede alle influenze dei riti e miti precristiani sul cristianesimo, o almeno raccordano in minima misura. Ma il numero di questi storici si restringe ogni giorno più, mentre sempre più incontestabile diviene la influenza della filosofia greca e alessandrina, l’influenza della mistica pagana sul cristianesimo dei primi secoli.
Altri non negano valore allo studio della storia comparata delle religioni ma, meno conseguenti dei primi, negano che miti e riti pagani abbiano avuto influenza su l'orìgine e sviluppo del cristianesimo. Così M. J. Lagrange (5) il quale, pur sostenendo l’influenza esercitata su culti pagani dal mito di Osiride, nega poi che questo e altri culti abbiano avuto influenza sul cristianesimo. Di queste tendenze è pure C. Clemen, il quale, citando Heinrici (6), ritiene il carattere del cristianesimo primitivo in opposizione al mistero; onde per lui il cristianesimo non è un mistero, ma un antimistero. Egli ammette l'influenza dei misteri su lo gnosticismo cristiano, e quindi su la Chiesa cattolica per escluderne il cristianesimo primitivo al quale attinge il protestantesimo (7). Ma si potrebbe osservare, fra l’altro, che quando il cristianesimo si oppose ai misteri pagani esso era già un mistero.
Vogliono altri, non da un punto di vista storico ma psicologico, sostenere l'assoluta originalità del cristianesimo rispetto ad imitazioni da culti precristiani, considerandolo come frutto di esperienza religiosa indipendente da quei culti e tale da trovare in se stessa la spiegazione del mistero. H. Holtzmann dà questa
(1) Cfr. Martin Brückner, Dey sterbende und auf erstehende Gottheiland in den orientalischen Religionen und ihr Verhältniss zum Christentum.
(2) Ist die Róde Paulus in A then ein ursprünglicher Bestandteil der Apostelgeschichte?
(3) Agnostos Theos. &
(4) Per i compiti cd i limiti della storia comparata delle religioni cfr. : M. Vernes, Les Abus de la mélhode comparative dans l’histoire des religione; L. H. Jordan, Compara-ttve Religion: Its Genesis and Growth; J. E. Carpenter, Comparative Religion; dello stesso. Il posto del Cristianesimo ira le religioni.
» - fi ^é,lanScs d’histoire religieuse; dello stesso. Le sens du Christianisme d’après l hxégèse allemande. M.-J. Lagrange nega, contro Loisy, che nell'impero romano, durante il primo secolo dell’èra nostra, vi siano state quelle credenze che si reputa avere esercitato influenza sul cristianesimo (Attis et le Christianisme, in Revue biblique; 1919) C c contro lo stesso autore esclude (Le mystère d’Eleusis et le Christianisme, in Revue biblique 1919) che 1 misteri pagani abbiano esercitato qualche influenza su Paolo.
(6) Cfr. Inter. Vochenschrift, 1911.
(7) È stato un tema preferito da alcuni protestanti quello di assomigliare il pro testantesimo al cristianesimo primitivo c il cattolicismo al paganesimo dal quale questo avrebbe ricevuto idee, costumanze, riti, feste, ecc. G. Wetter à pubblicato (1917) Eine Untersuchung über hellenische Frömmigkeit, in Shrifter utgifna af Kungl, humanisliska Vetenskaps-Samtundet di Upsala, in cui sostiene -questa tesi.
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spiegazione della teologia paolina, ma non si avvede che si rimane così ben lontani (quando anche si avesse il diritto di chiamare una esperienza religiosa di Paolo la sua dottrina della giustificazione per opera della fede) da ciò che si voleva trovare: la ragione, cioè, delle somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano.
Vi sono poi, per contro, altri storici ed esegeti che nettamente affermano la dipendenza del mistero cristiano dai misteri pagani, di versificandosi fra di loro nel determinarne la misura e il modo (i).
Quelli dell’ipotesi mitologica e della critica radicale, come Bauer, Drews, Steudel, Lublinski ed altri (2) si fondano su miti e speculazioni precristiane aventi per oggetto dèi-uomini morti e risorti, e negano resistenza storica di Gesù, riducendo il cristianesimo a un insieme più o meno caotico di credenze e riti preesistenti. I difetti di metodo in cui cade questa dimostrazione, eia insostenibilità di questa ipotesi in confronto di un’altra più credibile, sono stati già dimostrati (3).
Altri più ragionevoli, come Gunkel, associano il mito di Cristo all’esistenza storica di Gesù. Per essi però, come per quelli di cui abbiamo or ora discorso, il cristianesimo rimane un insieme non bene amalgamato di elementi diversi, fatto, deliberatamente, forse allo scopo di facilitarne la propagazione; un insieme non bene amalgamato, onde i suoi elementi si potrebbero distinguere e separare, avendo conservato il loro carattere originario. Ma costoro non tengono conto del cambiamento di significato, di forma e di carattere che il mito subisce passando da una ad un’altra religione, e anche, col tempo, nella religione medesima.
Questa interpretazione della causa delle somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano, à condotto Reitzenstein ad un'altra ipotesi, fondata, come quella di Loisy, sul valore delle personalità storiche. È questa, senza alcun dubbio, una ipotesi assai più ragionevole.
Le personalità, dice Reitzenstein, riferendosi alle origini del cristianesimo non si devono considerare come intellettuali che nell’interesse della loro propaganda, conoscendo il linguaggio e le idee pagane, adottano ciò che è conveniente, ma si devono considerare (e questa è l’opinione di Loisy e di Heitmuller) secondo l’influenza esercitata dall’ambiente su di esse, influenza tanto più profonda quanto incosciente.
(1) Oggi molti valenti studiosi, fra cui P. Gardner, sono dell'opinione che la visione concreta del paradiso, dell’inferno c del purgatorio — divenuta comune fra i cristiani dopo l’età apostolica —sia stata presa direttamente dagli insegnamenti dei misteri pagani. Il primo a tentare una solida dimostrazione di questa tesi fu il prof. H. Dìeterich nel suo volume Nekyia, dove analizza i frammenti de!)’Apocalisse di Pietro scoperti, come si sa, nell'inverno de) 1886 in una tomba egiziana. Vischer però (Art. Apokaliptik, in Die Relig. ini Geschichle 11. Gegenwart) non vuole riconoscere qui senz’altro rimembranze di culti orfici e dionisiaci, e riferendosi a simili idee contenute nella letteratura apocalittica giudaica, desidera maggiore prudenza nelle conclusioni. Anche R. Perdelwitz (Die Misterienreligion u. das Problem des I. Pctrusbriefes) vuol trovare un’eco dei misteri pagani nelle prime epistole di Pietro con argomenti ingegnosi, ma poco convincenti.
(2) Cfr. J. M. Robertson, Christianity and Mythology, lo stesso, Pagan Chrisis; Van Den Bergh Van Eysinga, Indische Einflusse auf evangelische Erzàhlungen.
(3) Cfr. A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Vorschung; M. Puglisi, Gesù e il Mito di Cristo; J. E. Carpenter, The hislorical Jesus and thè theological Christ.
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5. Dicevo or ora, che agli storici appartiene rispondere se fu l’Evangelo di Gesù, o il mistero cristiano a convertire i pagani; ed è questa una questione che à dato origine a controversie di non poco momento. Essa tende a tracciare una linea che nettamente separa l’Evangelo di Gesù da quello di Paolo: il primo rimasto, per il contenuto, nell’orbita del mondo giudaico; il secondo cresciuto e fiorito in quello orientale e pagano. Quest’esame non poteva aver luogo quando gli storici, dietro le orme della vecchia teologia, vivevano nella comoda fiducia che gli scritti del N. T. offrissero un’unica rivelazione di Dio e che perciò non potessero esistere differenze tra di essi. Ma più diligenti confronti avendo condotto a riconoscere che quegli scritti erano dovuti a credenti diversi, esprimenti la loro fede individuale e le loro particolari aspirazioni, nella forma con cui essi reagivano alla cultura del loro tempo, anno aperto naturalmente la via a constatare differenze e somiglianze fonda mentali fra le due più grandi figure del cristianesimo, fra Gesù e Paolo. Da ciò le domande che i moderni studiosi si pongono: non à forse Paolo oscurato Gesù? Non à egli predicato un nuovo Evangelo ? (1) Gesù aveva annunciato il prossimo regno di Dio e proclamata la necessità del pentimento e della penitenza. Egli diceva essere venuto a compiere l’aspirazione giudaica e già vedeva gli eletti sul suolo rigenerato dalla Palestina, un popolo immortale di santi in una specie di paradiso. Egli stesso si vedeva nel regno divino investito dalla suprema autorità, come l’antico David regnante su la sua tribù. Egli sarebbe stato, per volontà di Dio, l’Unto del Signore, il Messia.
Nulla di tutto ciò in Paolo. Questi predicava invece il mistero cristiano, quel mistero che tante e così visibili somiglianze possedeva coi misteri pagani. Tutta una corona di miti sono stati oggetto di diligenti studi e confronti per conoscere in quanto il cristianesimo rimanga nell’orbita del giudaismo e in quanto ne esca per entrare in quella del paganesimo. E per farlo occorreva anzitutto analizzare il giudaismo stesso e vedere quanti elementi pagani erano già penetrati in esso e quanti al cristianesimo ne vennero per questa via. Le concezioni precristiane del Salvatore, Figlio di Dio, del Vincitore dello Spirito del male, del Taumaturgo, del Re dei rej del Signore dei signori, del Vincitore della morte, del Datore della vita, del Dio morto e resuscitato sono state accuratamente esaminate e vagliate (2).
(1) A questo proposito oltre al recente volume di A. Loisy, Les Myslères patens et le Mystère chrétien e dello stesso autore, TÉpilre aux Galates, si possono anche confrontare le seguenti opere: A. Jülicher, Paulus und Jesus; J. Kaftan, Jesus und Paulus; A. Mayer, Wer hat das Christentum begründet, Jesus oder Paulus?;?. Feine. Jesus Christus und Paulus; M. Goguel, L’Apótre Paul et Jesu Christ; XV. Wrede, Paulus; W. Heit-müller, Zum Problem P. und 1.
(2) Per le influenze tra giudaismo e culti orientali si confronti: M. Brückner, Der sterbende und auferstehende Gottheiland in den orientalischen Religionen, W. Robertson Smith, Die Religion der Semiten; E. Schrader, Die Keilinschriften und das Alte Testament; A. Jeremias, Das Alte Testament im Lichte des alten Orients. Un interessante articolo sugli elementi cristologici nella letteratura ebraica (The precristian Jewsh Christ) à pubblicato A. Campmeier lo scorso anno in The Open Court. Si confronti anche Otto Pfleiderer, Das Christusbild des urchristlichen Glaubens in religionsgeschichtlicher Beleuchtung.
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Senonchè, ammessa nel giudaismo la penetrazione di concetti, miti e culti orientali, il dire che Gesù sia rimasto nell’orbita del giudaismo richiede una ulteriore spiegazione. Se ci fermiamo a considerare semplicemente che Gesù à annunciato la buona novella per la Palestina rigenerata, mentre Paolo à sostituito il Cristo al regno di Dio, la salvezza degli uomini per mezzo della fede nel figlio di Dio venuto dal cielo per redimere gli uomini dal peccato e dalla morte, morendo egli stesso su la croce, allora non vi è dubbio che Gesù non appare uscire dal giudaismo, quando Paolo sembra nettamente staccarsene. Ma vi sono molte questioni da esaminare alle quali qui non posso nemmeno accennare. Due, però, ritengo debbano esser almeno menzionate: da un lato la personalità di Gesù che a stento riescono a contenere dentro i limiti del giudaismo le scarse notizie che di lui ci anno tramandato persone che evidentemente in quei limiti rimasero; dall’altro la eredità storica venuta a Paolo dalla morte di Gesù e dalle concezioni orientali penetrate nel V. T. onde, al disotto e al di sopra delle differenze, si fanno manifeste, a chi ben guardi, le somiglianze fra l'Evangelo di Paolo e quello di Gesù uniti indissolubilmente nella fede verso la paterna bontà» divina, nel valore assoluto della carità, nella ferma speranza della salvezza.
6. L’esame delle somiglianze e differenze tra l’Evangelo di Gesù e quello di Paolo, e specialmente l’esame di quest’ultimo,à condotto a porre tre questioni intorno alle quali si sono affaticati i migliori ingegni fra esegeti e storici del cristianesimo primitivo. Come è nata e ingrandita in Paolo la sua fede nel mistero cristiano? Perchè non fu ripudiato il suo Evangelo da coloro che si supponeva avessero conservata la tradizione autentica di Gesù? Che cosa à perduto o guadagnato questo Evangelo col divenire un mistero? (i).
Ma, prima di esaminare il più brevemente possibile le risposte che i moderni esegeti e storici ànno dato a queste questioni, tentiamo qui rapidamente di gettare uno sguardo su gli studi esegetici che sono, come accennavo dianzi, la preparazione necessaria alle ricerche storiche. Anche qui abbiamo studiosi che s’ingegnano a mettere in rilievo le differenze tra mistero cristiano e mistero pagano, come fanno G. Heinrici (2), J.-M. Lagrange (3), per concludere che si tratta di cose assolutafi) ’Rammento qui. per chi volesse fare ulteriori ricerche intorno a quest’ argomento. alcune fra le migliori opere» venute alla luce dal 1911 ad oggi : A. Deissmann. Paulus. Ein Kultur und religionsgechichtliche Skizze; H. Boehlig, Die Geisteskultur von Tarsös im augusteischen Zeitalter, mit Berücksichtigung der paulinischen Schriften; C. G. Montefiore, Judaism and Saini Paul; J. Weiss, Das Urchristentum; C. H Watkins, Der Kampf des Paulus um Galatien; W. Wrede, Paulus; J. Wellhausen, Kritische Analyse der Apostelgeschichte; Norden, Agnostos, Theos; E. Preusschen, Die Apostelgeschichte; Heitmüller, Zum Problem Paulus und Jesus (in Zeitscrift für die neuetestamentliche Wissenschaft) 1912; A. Loisy, L'Epilre aux Galates; dello stesso. Les Mystères palens et le Mysfere chrélien.
(2) Hellenismus und Christentum.
(3) M¿langes d'histoire reiigieuse; dello stesso. Le Sens du Christianisme d’dprès l'Extgèse allemande.
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mente diverse. Altri mettono in rilievo le somiglianze, per concludere che i riti pa-gani c quello cristiano sono sostanzialmente identici.
Limitiamoci agli studi esegetici che ànno attinenza con l’iniziazione, col battesimo e l’eucaristia. G. Heinrici fa notare a tal proposito che questi sacramenti non ànno nulla da fare con l’iniziazione pagana, perchè qui non si tratta di teurgia, non si costringe il divino, come confessa l’iniziato ai misteri eleusini: èx {tépstoxz, ex xufipdftou wéwwxa, ysyova (1), o come avviene,nelle orgie dionisiache quando i menadi dilaniano la cerva e si cibano delle carni sanguinanti per appropriarsi il dio (2), ma si tratta di un atto di fede: óxaTaxptSfcsTac, chi non crede viene condannato anche se è battezzato (3).
Contro questa affermazione è stato obiettato che il mistero cristiano non è costituito semplicemente da atti di fede, e si potrebbe aggiungere che nel mistero pagano non si tratta semplicemente di teurgia, giacché gli effetti magici di essa postulano la fede in questi medesimi effetti, ed è anzi forse la fede, quantunque non venga domandata all’iniziato, che anche qui opera. Con ciò si è ancora ben lungi dall’avere dimostrata l’identità fondamentale delle due iniziazioni, ma non siamo certo su la buona via se vogliamo con questi o simili argomenti dimostrarne la differenza fondamentale.
Gli studi esegetici su le Epistole paolinc e del IV Evangelo, di cui A. Loisy ci dà un così ammirevole esempio (4) chiariscono i rapporti dell’eucaristia e del battesimo coi misteri pagani. L'Evangelo di Gesù appare qui sotto una interpretazione misteriosofica e naturalmente completato secondo le sue esigenze. Il battesimo, che è la morte mistica del credente (5) e per cui si crede morire al peccato come il Cristo e rinascer con lui in ¡spirito, non può dirsi che differisca, nella sua ideazione è nella sua esperienza, da quanto ànno già istituito tante altre religioni organizzate in sistema di salvezza, e specialmente dai misteri orientali, nei quali la rigenerazione per l’immortalità si riattacca a riti che assimilano misticamente l’iniziato a un dio che muore per resuscitare (6). Lo stretto rapporto che ànno il battesimo con l’euca-, ristia è manifesto in Paolo quando dice che i cristiani sono battezzati in un solo spirito per essere un sol corpo (Ai Corinti, I; XII, 13), poiché secondo lui questa unità del corpo mistico del Cristo appare e si realizza nella cena (Ai Corinti I;X, 17).
È così che Paolo inaugura il lavoro dell’esegesi cristiana trasformando F Antico Testamento in un mito profetico del cristianesimo (7). Il carattere sacramentale del battesimo e della cena è stato messo in chiaro da Heitmüller (8) e meglio ancora
(1) Cfr. U. Lobeck, Aglaophamus.
SCfr. Heitmüller, Taufe und Abendmahl bei Paulus.
Marco, XVI, 16.
(4 ) Cfr. I capitoli Vili, IX, X del suo volume Les Mystères païens et Je Mystère chrétien.
5) Cfr. A. Jacoby, Die Antiken Mysterienreligionen und das Chrisfentum.
6) Cfr. A. Loisy. Les Mystères païens et le Mystère chrétien.
7) Cfr. A. Loisy, Les Mystères païens et le Mystère chrétien.
8) Taufe und Abendmahl in Urchristentum. Cfr. anche J. Reville, Les origines de ¡’Eucarestie; M. Goguel, L‘Eucarestie, dès origines à Justin Martyr.
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da A., Loisy (1). Paolo non materializza la presenza del Cristo al punto d’immaginare una trasformazione fisica del pane e del vino in corpo e sangue di Gesù. Una tale sostituzione della sostanza, come à visto Loisy, non à alcuna ragion d’essere in rapporto allo spirito del Cristo. Ma egli non volatilizza questa presenza e quindi non la considera come una semplice imagihe o una metafora. Gli elementi della cena per Paolo invece — ed è questo un punto essenziale su cui si deve richiamare l’attenzione degli studiosi — sono mezzi di una partecipazione reale allo spirito del Cristo morto e resuscitato. La somiglianza della cena col sacrificio pagano, è inutile negarlo, l’à vista lo stesso Paolo (2) e la videro anche Giustino e Tertulliano; ma questi, come Paolo, l’ascrissero ad opera diabolica àXX’oTt, a SuouCt, Sacpoviotc zac où @sw
Certo non è la tradizione d'Israele, o quella evangelica, che à potuto insegnare a Paolo come il cristiano muoia col Cristo nel battesimo per resuscitare in lui, e come egli nell’eucaristia comunichi con quel medesimo Cristo morto e resuscitato; nè à potuto rivelargli il segreto della salvezza, per mezzo della crocifissione del peccato universale nella carne del Cristo (3). E non basta. Ciò che qui si dice di Paolo può ripetersi per il IV Evangelo e per la I Epistola di Giovanni. Niente sarà mistero, esclama Loisy, se non lo è il cristianesimo del IV Evangelo, niente sarà greco e alessandrino se non lo è il Logos.
E veniamo ora alla prima delle tre questioni sopra accennate: come è nata e ingrandita in Paolo la fede nel mistero cristiano?
7. La questione dell’origine e sviluppo della fede paolina nel mistero cristiano è di natura psicologica e storica; ed anche coloro che, come C. Clemen, P. Gardner, C. H. Watkins e A. Loisy vogliono considerarla solo dal suo aspetto storico, non riescono a circoscriverla in esso, sopratutto per il fatto che l'origine della cristologia paolina non può ignorare la conversione paolina che è un’indagine psicologica.
Osserviamo perciò dapprima l’aspetto psicologico della questione. A guardare i documenti che ci conserva il N. T. Paolo non si convertì al messianismo di Gesù; ma uscito bruscamente dal giudaismo, ch'egli aveva con tanto calore difeso, si gettò •a capofitto nella predicazione del mistero cristiano. Sorge spontanea la domanda intorno all’impressione che lasciarono in Paolo i misteri pagani essendoci noto solo Che egli li giudicava opere diaboliche. Nondimeno è evidente che egli si è lasciato penetrare — Loisy dice senz’avvedersene — dello spirito dei misteri pagani. Quanto alla sua cultura misteriosofica Reitzenstein (4) pretende (e forse questo è un po' troppo) che Paolo non solo conoscesse, ma avesse anche studiata la letteratura re(1) Les Mystères Païens et le Mystère chrétien.
(2) I, ai Corinti, X, 20.
(3) Cfr. A. Loisy, Les Mystères païens et le Mystère chrétien. Per la storia e lo ^sviluppo degli studi esegetici intorno all’eucaristia confronta: K. G. Goetz, Die Abendmahlsfrage in ihre geschichtlicher Entwicklung.
(4) Die hellenistische Mysterienreligionen.
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ligiosa del mondo ellenico. Ora, tra il semplice assorbimento incosciente dello spirita ellenico e la conoscenza profonda della letteratura pagana di quel tempo, vi è una vasta zona dove l’ipotesi di un voluto adattamento alle idee e ai riti pagani può trovare certamente sostegno.
Lo sviluppo della predicazione cristiana segna tre tappe che vanno dal primo gruppo palestinese, predicante a Gerusalemme la fede nel Gesù resuscitato, messia da venire, a un secondo gruppo di giudei ellenisti che, elargata questa fede, l’avevano diffusa in Samaria, nella Fenicia, in Cipro, in Antiochia e forse in Damasco; e finalmente a un terzo gruppo in Antiochia, che ebbe l’ardire di predicare, ai pagani ed ottenne molto successo. Questa comunità elleno-cristiana di Antiochia è anteriore alla conversione di Paolo. Quando Paolo-predica il suo Evangelo ai pagani egli lo riconosce adatto ad essi, mentre trova difficoltà a farlo accettare dai giudei-cristiani. Egli dice che aveva ricevuto il suo Evangelo, dal Cristo in cccasione della sua conversione, senza rendere giustizia ai suoi precursori, ma è molto probabile che abbia realmente da allora concepito l'Essere celeste non come un mito pagano incarnato in un tempo impreciso per riscattare l’umanità dal peccato con la sua morte, sibbene come il Cristo incarnato in Gesù morto e risorto in un tempo a lui vicino e il di cui ricordo era ancor vivo nelle persone che lo avevano conosciuto secondo la carne. Non può dirsi che Paolo sia stato un sincretista, e qui à ragione A. Loisy, ma non si può negare una elaborazione della concezione cristiana primitiva a somiglianza delle concezioni pagane, e che questa concezione ottenne, per mezzo di Paolo, quella forma di cui abbisognava per prender salde radici nel mondo grecoromano. Gli effetti della predicazione e il conflitto coi pagani non potevano che corroborare e ingrandire in Paolo la fede nel mistero cristiano.
8. Gettiamo un rapido sguardo all’aspetto storico dell'origine della cristologia paolina.
È oggi comunemente accettato dagli studiosi che Paolo, prima della sua conversione, credeva in un Cristo vivente dall’eternità e ne attendeva la rivelazione (1). Al momento in cui egli identificò il Gesù storico col Cristo, applicò a Gesù tutta la sua cristologia per darle un fondamento storico. Bisognava però stabilire donde Paolo attinse gli elementi cristologici. Se guardiamo ai risultati delle moderne ricerche intorno quest’argomento non tardiamo a vedere che alcuni ànno ritenuto Paolo le attingesse dalle sue esperienze religiose e dalla cultura giudaica, cioè dalla tradizione; altri, su le orme di H. Gunkel (2), ànno nettamente affermato che la cristologia paolina non può intendersi senza la mitologia pagana (3) e risalendo ai
(1) W Wrede, Paulus; J. Weiss, Christus, Die Anfänge des Dogmas; M. Brückner Die Entstehung der pauhmschen Christologie.
(2) Zum Religionsgeschichtliche Verständnis des N. T.
_ (3) M. Brückner, Die Entstehung der paulinischen Theologie; dello stesso. Die startende und auf erstehende Gottheit and in den orientalischen Religionen und ihr Verhältnis zum Christentum.
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miti astrali ed agrari (1) agli dèi solari e della vegetazione che periodicamente muoiono e rinascono, e, approfondendo un’analisi dei principi su cui si fonda la cristologia paolina, concludono per la dipendenza del mistero cristiano (si deve esaminare se ciò avviene coscientemente 0 incoscientemente) e quindi della cristologia paolina dai misteri pagani (2).
Certo il mistero cristiano è stato elaborato da Paolo a somiglianza dei misteri pagani, e la trasformazione dell'Evangelo in mistero avviene csjn la elaborazione teologica del loro ricordo. Il principio della salvezza, qui in atti costituito dalla fede in una redenzione, è fondato sopra un mito del sacrificio. La fede stessa à per oggetto un dio morente e risorgente, ed è fondata su la partecipazione allo spirito stesso del divino redentore: Zc5 Ss oùUti èyó, © S-p ¿v s.uoi XpcCró? (3). Il battesimo, che per i primi discepoli era simbolo di pentimento e cambiamento di vita, è ora divenuto rito d’iniziazione col quale Clemente Alessandrino lo paragona; la cena, che era la partecipazione dei fratelli al medesimo alimento, allo stesso pane, è ora rito di iniziati. Il Cristo di Paolo acquista lo stesso ufficio che ànno gli dèi sofferenti nei misteri pagani (4).
L’idea dei due capi dell'umanità — quello celeste e quello terrestre — l’idèa del regno universale del peccato dell’umanità per errore del suo primo avo, l'idea che la morte sia conseguenza del peccato, l’idea dell’annientamento del peccato per mezzo della morte del Cristo nella carne peccatrice non sono logicamente meglio costruite dei miti di Osiride e di Attis.
L’attribuzione di un valore espiatorio alle sofferenze del giusto non è estranea, è vero, alla tradizione giudaica; ma qui si tratta di tutt'altra cosa. Paolo non considera il valore morale della espiazione, sibbene la virtù mistica inerente alla morte di un essere divino ed umano che si trova, per la sua doppia natura e per il suo carattere, in istato di portare con sè nella morte il peccato dell'umanità, e di riscattarla, di elevarla con lui nella gloria. La tradizione giudaica non conosceva alcun mito di questo genere: esso à invece riscontro nel mistero dionisiaco, e non è senza analogia coi misteri orfici, quantunque ne differisca per le concezioni della vita, della morte e deU’immortalità. D’altro canto si osservi che gli dèi redentori pagani non salvano dai peccati, ciò che invece costituisce l'anima dell’Evangelo paolino, donde un nuovo atteggiamento morale verso il mondo e verso Dio (5). La Cw-mpia è anche alquanto diversa nei misteri pagani e in Paolo. In quelli la salvezza à in vista la presenza del fato, la necessità, ed è concepita come un characler indelebili; in Paolo
i) O. Pfleiderer, Urchritentum; dello stesso. Das Chritusbild des urchristlichen Glaubens in rehgtonsgeschichllicher Beleuchtung.
2) Cfr. A. LoiSY, Les Mystères païens et le Mystère chrétien.
i) Ai Galâti, II, 20.
À questa concezione specialmente nell’Epistola ai Romani, quando
tratta della giustificazione per opera della fede, e nella prima ai Corinti, quando espone il fondamento delle speranze cristiane.
, (5) Cfr. H. A. A. Kennedy, art. Mysteries in Enciclopaedia of Religion and Ethics
by J. Hastings.
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si tratta invece dell'amore divino rivelato in Gesù. Il battesimo e l’eucaristia non anno in lui quel carattere ex opere operaio che ànno i misteri pagani, ma pongono la fede come elemento indispensabile per l’acquisto del valore spirituale (i).
Allo stato attuale degli studi non è possibile fare un’analisi dettagliata degli elementi che costituiscono la cristologia paolina. Se vogliamo tener presente la cultura religiosa di Paolo anteriore alla sua conversione, come ò avuto altra volta occasione di dire (2), essa ci rivelerà facilmente le sue fonti ellenistiche; se vogliamo tener presente che l'Apostolo si formò proprio in quella parte della Cilicia dove il dio persiano Mitra venne per la prima volta in contatto col mondo occidentale, e dove annualmente si festeggiava il rinascente Sandon (3), scorgeremo senza sforzo le sue fonti orientali. Tuttavia, la conclusione che possiamo trarne è Che la cristologia di Paolo non proviene esclusivamente dalla tradizione rabbinica o dalla mitologia e dai riti orientali, quantunque nell’una e nell'altra attinga. Essa proviene direttamente dalla realtà storica della„predicazione di Gesù, dalla credenza in ciò che egli operò e nella sua risurrezione, credenza che la forte e imaginosa ménte di Paolo à fuso insieme con quegli elementi in una visione religiosa che può dirsi ia sua esperiènza;
9. Ammessa una differenza fondamentale tra l’Evangelo di Gesù e quello di Paolo, era ovvio che gli studiosi si domandassero come mai il mistero cristiano non fosse stato ripudiato da quel gruppo di giudei cristiani che faceva capo a Giacomo, il fratello del Signore. I documenti storici che diano fondamento a una seria spiegazione di questo atteggiamento del gruppo che si accentrava in Giacomo, si limitano a pochi cenni. Le argomentazioni degli stòrici sono qui fondate principalmente su verosimiglianze e analogie. Nondimeno non possono dirsi sforniti di ogni valore. A. Loisy, per spiegare questo atteggiamento, sostiene la tesi che i dibattiti avvenuti fra Paolo e coloro che stavano all’estremo opposto — quelli del primo gruppo palestinese predicante a Gerusalemme, ed al quale abbiamo dianzi accennato - non furono mai puramente dottrinali, e quindi non riguardavano la preesistenza del Cristo, la definizione speculativa della sua missione, l’interpretazione teorica della cena, ma riguardavano semplicemente questioni pratiche. Ora, se anche non abbiamo documenti che provino il contrario, e pochi cenni possediamo che lo confermino, pure sta di fatto che realmente allora i cristiani erano uniti nell'esaltare Gesù, nel?abbellire e completare la tradizione evangelica (4). Ciò si vede ancor più chiaramente, se è possibile, nel IV Evangelo ispirato a una mistica più larga di
(1) Cfr. H. von Soden, Handkommentar zum N. T.; J. Armitage Robinson, St. Paul's Epistle io The Ephesians; A. Dieterich, Eine Mithrasliturgie; R. Reitzen-stein. Poimandres; C. Clemen, Der Einfluss der Mysterienreligionen auf das àlteste Christentum; E. von DobschOtz, Studien und Kritiken; h. Schweitzer, Die Geschichte der paulinischen Forschung; H. A. A. Kennedy, Si. Paul and thè Mystery-Religions.
(2) Cfr. M. Puglisi, Gesù e il Mito di Cristo.
(3) Cfr. A. Jacob y, Die Antiken Mysterienreligionen und das Christentum.
(4) Cfr. M. Puglisi, Gesù e il Mito di Cristo.
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quella paolina, più lontana dal giudaismo, più sottile nell’esegesi. Se Paolo, dice A. Loisy (i), à dato al cristianesimo il rituale del mistero, è tuttavia il IV Evangelo che à costruito definitivamente la personalità del dio di questo mistero, spiegando la missione del Cristo come incarnazione del Verbo eterno. E se teniamo presenti questi elementi che allora dovevano formare l’atmosfera- in cui vivevano i nuovi convertiti, se guardiamo lo scopo precipuo che animava allora i predicatori del cristianesimo, se teniamo presente le influenze orientali sul V. T. e se ammettiamo, con Loisy, che l’autore del III Evangelo sia stato un discepolo di Paolo, abbiamo già in mano parecchi fatti capaci di farci intendere perchè la predicazione paoli na non venne ripudiata da coloro che conservavano pur viva l’antica tradizione dell’Evan-gelo di Gesù.
io. Rimane ad esaminare la terza delle questioni sopra accennate, alle quali gli storici moderni ànno voluto dare una risposta, ossia che cosa l’Evangelo di Gesù abbia perduto o guadagnato col divenire un mistero.
Quantunque una corrente di pensiero protestante, ispirandosi allo slancio della Rinascenza verso l’antichità, abbia tentato sorpassare molti gradi dello sviluppo del pensiero cristiano per attingere direttamente alle antiche fonti e considerare in blocco come una degenerazione tutto quanto la filosofia ellenistica e la Chiesa avevano aggiunto all’Evangelo di Gesù, pure è innegabile che il mistero cristiano, perfezionato nel IV Evangelo, (su questo insistono con ragione gli storici moderni) abbia avuto ¡1 merito di conquistare il mondo antico.
È questo un fatto che non può essere impunemente trascurato e domanda una serena spiegazione. Molti storici sono dell’opinione che il mistero, in luogo di avere alterato, à salvato l’Evangelo di Gesù; ma l'averlo salvato e diffuso nel mondo pagano non vuol dire che l’abbia perfezionato. Non è questo il caso in cui l’albero si riconosce dai frutti; e le titubanze degli storici nel portare con tal metodo il loro giudizio sul valore assoluto del mistero cristiano, sono bastevoli a mostrarci che si trovano fuori di strada.
Al centro di questa questione sta il dibattito intorno al valore universale del cristianesimo. Si dice che l’Evangelo di Gesù, facendosi un mistero, si è fatto una religione universale. Ma le condizioni che he permisero la diffusione non entrano nè devono entrare nella formazione del criterio del suo valore, il quale non dipende dalle contingenze storiche, ma dal contenuto della fede che appaga esigenze religiose di uomini, di razze e nazioni diverse. Si può ammettere che il ricordo rimastoci della predicazione di Gesù si riferisca precipuamente agli interessi del popolo ebreo, quantunque la formula di Matteo, come à notato giustamente P. Wernle (2), sia stata: per il bene dell’inanità. Si può ammettere che la predicazione di Paolo, fatta ai gentili, non tenga conto di quel limite nazionale, ma è chiaro che con essi non lo poteva. Non credo invece si possa ammettere con Loisy, che il mistero
(1) Les Mystères païens et le Mystère chrétien.
(2) Jesus.
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cristiano abbia elargata l'idea di Dio: mentre la concezione che di Dio ebbe Gesù, Dio padre di tutti gli uomini e provvidenza benefica, che à cura dell'uccellino come del giglio del campo, xai ó warùp ó oùpóvto; Tpéosc aura (i), che fa splendere il sole su tutti, sopra i buoni e sopra i malvagi (2) e rispètto al quale tutti gli uomini sono figli e quindi tra di essi fratelli et? y^p sorcv up.<5v ó wa-r/jp ó oùpavw; (3) non guadagna certamente nulla col mistero.
Ciò che è realmente ingrandita nel mistero, rispetto alla primitiva concezione cristiana, è invece l’idea del Cristo. Il mistero cristiano, per il fatto della vita e dell'insegnamento di Gesù, riceve un carattere morale e una bellezza che non avevano mai avuto e-i.-on potevano avere i vecchi miti di Dioniso, di Demeter, di Cibele, d’Iside, di Mitra. Qual contrasto, avverte giustamente Loisy, tra la passione di Attis, di Osiride, di Dioniso e quella di Gesù! Ma l'inferiorità dei riti pagani rispetto a quello cristiano è evidente .Ivi il dio pagano, a differenza di quello cristiano, subisce e accetta di morire e resuscitare in altri, ma non cerca la morte per il bene dell'umanità. Il dio pagano, a differenza di quello cristiano, acquista la sua salvezza per opera di riti che altri dèi ànno istituito e dei quali egli profitta. L’inferiorità degli dèi pagani è più visibile per l’altezza morale e religiosa della figura storica del Nazareno, che mancò ai vecchi miti, ed è costituita dal fatto che nel mistero cristiano Gesù è oggetto e alimento di commozione religiosa, nutrimento di speranze e di ideali che giudei e pagani non conobbero, sorgente di ricchezza morale tendente a inarrivabili altezze. Gesù offre un altissimo ideale di giustizia sociale, un esempio di fede religiosa eroicamente vissuta: ecco gli elementi che dànno la sua superiorità rispetto ai misteri pagani e il carattere di universalità che in eguale pienezza quei misteri non ebbero.
Si dice che l'iniziazione, i misteri, prepararono i culti universali perchè sostituirono alla nazionalità, come fondamento religioso, la comunità delle credenze e dei riti; ma non si tien conto che non la comunità delle credenze, sibbene il loro contenuto è ciò che dà loro il carattere di universalità (4). Negli elementi di carattere universale che contiene la religione di Gesù, nella universalità del suo esempio nel suo slancio di amore, di speranza e di fede non più autonome, ma interdipendenti nella vita dello spirito, è il valore universale del cristianesimo.
11. Da quanto abbiamo esposto possiamo tirare alcune conclusioni. Si deve escludere la negazione pura e semplice di influenze pagane sul cristianesimo, ma si debbono distinguere tra le influenze quelle dirette che i primi predicatori cristiani ricevettero dai misteri pagani, dalle altre influenze indirette dovute all'atmosfera in cui erano diffusi quei misteri, e alla loro tenace sopravvivenza presso il popolo.
(1 Matteo, VI, 26.
(2 Matteo, V, 45.
(3 Matteo, XXIII, 9.
(4 Cfr* M. Puglisi, Religioni nazionali e Religioni universali, in Riforma Italiana, 1918; dello stesso. Le religioni orientali nel paganesimo romano, ivi.
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Le prime possono essere state poche per il contrasto tra paganesimo ecristianesimo(i), ma le ultime devono essere state considera voli (2). La spiegazione che può fornire l’esperienza religiosa non è da accettarsi come spiegazione delle somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano, ma non è da rigettarsi in quanto tien conto di un coefficiente importantissimo della nascita e dello sviluppo del cristianesimo. La spiegazione delle somiglianze che si fonda su la meccanica assimilazione delle idee, se tien conto di una delle leggi psicologiche che regolano la formazione e diffusione di miti e leggende, se trova la sua applicazione anche all'origine e sviluppo del mistero cristiano, quando isolatamente applicata, svaluta la innegabile importanza che le personalità storiche ànno nei grandi movimenti religiosi (3). L’ipotesi della azione incosciente o deliberata di queste personalità storiche, attingenti largamente nella tradizione religiosa, va integrata con l’altra ipotesi che cerca una causa comune allo sviluppo e al propagarsi dei misteri pagani e del mistero cristiano. Un’amalgama di miti creati dalla fantasia sta indubbiamente in fondo ai misteri; fantasia creatrice sorretta da esigenze spirituali, amalgama divenuta man mano oggetto di fede e di speculazione religiosa.
, Tanto per la ragione delle somiglianze tra misteri pagani e mistero cristiano.
Per la diffusiona del mistero cristiano bisogna poi tener presente che esso, meglio di altri riti, appagò quelle esigenze individuali che le religioni nazionali, miranti solo a interessi comuni, lasciavano insoddisfatte,♦ e meglio rispose alle esigenze morali ed estetiche (4). I misteri, come diceva Isocrate, assicuravano a coloro che vi erano ammessi le più dolci speranze, non solo per la fine di questa vita, ma per tutti i tempi. E il mistero cristiano meglio di altri
(1) È questo un argomento favorito da coloro che negano recisamente ogni influenza pagana sul cristianesimo, e lo è stato anche da un pezzo. Cfr. Berger, Die-tionnaire de théologie dogmatique, liturgique, canonique et discipiinaire, art. Mystèrè.
(2) Cfr. P. Gardner, art. Myslertes in Enciclopaedia of religion and ethics by Hastings; G. Anrich, Das antike Mysterienwesen; K. Lake, The Earlier Epistles of Si. Paul. Una prova dell’azione dei culti pagani sui movimenti religiosi nei primi anni dell’era nostra, si à negli elementi intellettuali che, rifiutati dall’ortodossia cristiana, trovavano benevolo asilo presso gli gnostici, fieri della loro o conoscenza delle segrete verità.
(3) Giustamente G. Wetter, nel suo studio dei rapporti tra ellenismo e cristianesimo (Eine Untersuchung über hellenische Frömmigkeit in Skrifter utgifna af Kungl. humanistiska Wetehskaps-Samfundet di Upsala) mette in rilievo lo sviluppo psicologico della religione, del quale sviluppo la storia del mistero è un episodio che trova la sua spiegazione nella specifica natura della coscienza religiosa, nella sopravvivenza dell’ele mento pagano presso i primi convcrtiti al cristianesimo.
(4) Notevole è il fatto che la primitiva arte cristiana sorse sotto la diretta e innegabile influenza dell’arte religiosa orientale. Si rammentino solo le terracotte precristiane rappresentanti la Madonna col bambino che regge su la sinistra e benedice con la destra (Istar) e le primitive rappresentazioni del Cristo sotto l’aspetto di un pastore Siovanetto come Attis, Adone, Mitra. Anche il Cristo con l’agnello pare una imitazione i Ermes Erioforo. Imagini queste che non si riferiscono alla vita di Gesù, ma a ciò che- si conosce di quei miti precristiani. A proposito dell’arte religiosa, rammentiamo qui di passata l’origine orientale di alcune feste,- non per la data (ciò che non avrebbe rapporto con l’arte), ma per la maniera di celebrarle.
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assicurò al misto la vita beata oltre la morte. In ciò la causa principale della sua diffusione. Si aggiunga che le comunità fortemente influenzate da elementi greci e orientali, e più ancora le comunità della Grecia, della Siria, dell’Asia Minore attendevano che Paolo parlasse un linguaggio a loro intelligibile. Egli stesso, lo dice ai corinti (I, 9, 20 e segg.), è divenuto giudeo per i giudei e pagano per i pagani; e io ripete Clemente Alessandrino esortando i gentili: Venite e vi mostrerò i misteri del Verbo nella forme dei vostri misteri. I nuovi convertiti, dal canto loro, portavano tenaci abitudini di pensiero e di rito che non potevano esser sostituite da ciò che fosse apparso completamente diverso. La predicazione cristiana, quindi, doveva arricchire, abbellire, avvivare quelle concezioni e quei riti se voleva trionfare. Ed è ciò Ohe avvenne.
Da quanto ò potuto qui rapidamente esporre, spero anche un’altra conclusione di ordine diverso possa trarsi.
La storia del mistero cristiano non è, come può sembrare a prima vista,, pascolo di oziosa curiosità. Le indagini storiche sul N. T. non tolgono il suo valore religióso, come le analisi chimiche dei raggi solari nulla tolgono alla loro efficacia e bellezza. La storia del mistero cristiano offre anzi, nei diversi campi della filosofia, della psicologia e della storia, oggetto di feconde considerazioni. Il mistero del dio sofferente per l'umana redenzione, del dio partecipante, nelle sue creature, al doloroso sforzo per elevarsi e perfezionarsi, è una concezione di valore religioso che trova, nel problema del dolore, la sua espressione filosofica. Il valore psicologico del mistero trova la sua espressione nell’invocazione a un dio che conosce le sofferenze, nel sospiro dell’anima verso la redenzione e la rinascita, verso la estinzione delle colpe in cui la tormenta del mondo travolge, nell’anelito verso la resurrezione purificata, verso la vita eterna in un mondo migliore. Quando la storia schiude i confini delle origini del cristianesimo e penetra nel vasto campo in cui il suo mistero attinse vigoroso alimento, essa svela allo psicologo e allo storico il palpito dell'anima universale che in uno sforzo supremo tenta sottrarsi al dolore per raggiungere la beatitudine celeste. La storia del mistero cristiano insegna la perenne azione del pensiero filosofico sui vecchi simboli e su le vecchie credenze. Storia antica e sempre miova quella dell’impulso del pensiero filosofico che sospinge la religione oltre i margini tradizionali, verso nuovi orizzonti e nuove forme, ma dove spesso, travolta, perde la via, finché non la ritrovi alle fonti onde nacque, per progredire.
Mario Puglisi.
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PAUL GERHARDT
(un cantore di Dio e della pura fede evangelica)
edemmo (2) nella lirica di Lutero, così terribilmente concisa, sdegnosa di parole, il vangelo pratico dell’uomo forte, corazzato a tutti i colpi, che canta le glorie di Dio, trionfatore nella lotta e nella pugna, armato più di sdegno e d’odio che d'amore e di pietà. Il verso incide. Ricordi il verso fortissimo di Dante. Le
espressioni sono tronche, recise, saltuarie, nude, crude; hanno la movenza, il ritmo, la energia talora brutale dell’espressione popolare. La libera espansione è espressione dell’interiore turbamento, delle procelle scatenate in cuore, dei turbini che si sollevano. È mancata la calma a questo apostolo della religione nuova. È mancato altresì il piacere vero alla vita, l’amorevole amplesso della natura. E vinceva, colla serietà sgomentevole degli intendimenti e il deliberato agire su di un piano di battaglia trincerato, vinceva la tristezza, una concezione triste e cupa della vita.
(x) Crediamo interessante far conoscere a una più vasta cerchia di lettori questa bellissima lezione tenuta dal prof. A. Farinelli nel 19x8 ed ora edita nel volume pubblicato a cura degli amici e dei discepoli del maestro in occasione del suo cinquantesimo corso di lezioni (L’opera d’un maestro, quindici lezioni inedite e bibliografia degli scritti a stampa, Torino, F.lli Bocca, 1920, p. 370. L. 22). N’eH’inserirla in queste pagine ringraziamo il maestro e gli editori per aver voluto assentire alla nostra preghiera di pubblicazione, avvertendo che molti essendo i nostri lettori che non conoscono il tedesco, abbiamo creduto, bene affidare al dottore E. Rutili la versione dei testi citati nell’originale, e sostituirli con la traduzione italiana. (AF. rf.D.).
(2) Questa lezione, l’xi* del corso, seguiva alla breve caratteristica della lirica di Lutero, stampata nella Rivista d'Italia del 19x8.
Quando Lutero dettava i suoi carmi spirituali, Albrecht Dürer incideva, raccolto in sè e meditabondo, la sua « Malinconia ».
I problemi religiosi, al primo sviluppo e avanzare della Riforma, parevano assorbire tutti i problemi dell’anima. Per tutto un secolo la lirica del popolo germanico, quando non si concède agli oziosi svaghi e trastulli, o agli esercizi retorici degli umanisti, quando insomma è vera fiamma, che si accende in cuore, ama trasfondersi tutta nel canto spirituale. I.a passione individuale, l’amore che avvince due cuori, dimentichi del cielo, il rigoglio di vita che è nella natura, tutto è trascurabile, quando non tuona la voce divina. Il poeta lirico pare debba incorporarsi, Br necessità, in un pastore delle anime.
esempio di Lutero era contagioso. 1 carmi suoi ebbero una diffusione rapida, portentosa. E generarono via via, in un baleno, intere turbe di nuovi cantici e di nuovi inni. Pensate alla moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci operata da Cristo. Le poche cifre che indicai nell’ultima lezione vi esprimono la voga del canto spirituale nel popolo che accolse la Riforma, voga che degenerò in vero contagio e delirio.
Inutile insistere sulla poca efficacia dei nuovi Canzonieri, che pullulano tra le genti germaniche, indicare come si spartisse tra i devoti, salmegginoti le lodi di Dio e le verità evangeliche, l’eredità lasciata da Lutero, tentare insomma, una caratteristica di versificatori e teologi senza nerbo, senza personalità vera e senza vera vita. Togliamo alcuni nomi da queste turbe di sacri cantori, che muo-von guerra al profano c gridan reterno, e la fallacità dei beni e piaceri mondani; ricordiamo: Georg Witzel, autore di odi ecclesiastiche e di salmi cristiani, Caspar Querhammer, Christoph Schweher, Caspar
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Ulcnberg, Paul Speratus, di cui ancora si canta il carme « Es ist das Heil uns kommen her », Nikolaus Decius, Erasmus Alberus e Burkard Waldis, attivi questi ultimi, per fortuna, anche fuori del campo religioso e dogmatico, e non sempre inneggianti al cielo, due umanisti di valore; ricordiamo ancora: Nicolaus Hermann, Bartholomäus Ringwaldt, pur noto come autore del dramma « Speculum mundi », e, sul chiudersi del '500, Philipp Nicolais di cui i devoti protestanti ancora ritengono il canto « La voce della sentinella grida forte dall’alto del baluardo: All’erta! », e quello, certo più poetico: « Come bella splende la stella mattutina, riflettente la grazia e la verità del Signore », Johann Heerman, Martin Rinckart, Josua tegmann, e due altri cantori evangelici, attivi nel secolo di Martin Opitz, Georg Neumark e Joachim Neander.
Una figura emerge tra qiìesti facitori di inni e cantici per i bisogni della Chiesa riformata e rifatta, e per la salute dei devoti, un’anima di vero poeta, che vibra poesia nel sentimento e riconosce in Lutero il suo maestro; ma non copia, non imita, non s'addestra, non s’esercita, e risponde solo alla voce del suo cuore, capace di trasfondere nel verso, con spontaneità e naturalezza immediate, il suo mondo: Paul Gerhardt. Quando dal cantico di Lutero si passa al cantico di Gerhardt pare che cessi ogni turbine e ogni tempesta nel cielo, e non vi sia più scroscio di fulmine e rumoreggiare di tuono. Alla forte anima del duce, corazzata d’acciaio, Paul Gerhardt oppone l'anima sua mite, dolce, serena, c non pertanto infiacchita e languida, una tenerezza insolita nei difensori ostinatamente battaglieri della purissima fede, una tenue voce, che non sa le tempeste, e che pur penetra e s’insinua nei cuori di chi l’ascolta. E fu pur lui a suà volta maestro Paul Gerhardt; e da un suo canto mille altri carmi derivarono.
Ad una tensione spasmodica dello spirito, generata da quel continuo armarsi ed agguerrirsi per durare nella lotta e vincere e trionfare, succede un desiderio di pace e di quiete. A nuove sommosse e burrasche l’animo non reggerebbe. Per fortuna, le conquiste maggiori erano compiute; bisognava ora mantenerle. Erano conquiste solide. Cessavano le minaccie di cedere terra e di cedere spirito. Il gregge evangelico aveva una vita sua propria, determinatissima; era schie
rato con compattezza di fronte al gregge maggiore dei cattolici. Gerhardt non ode più frastuono d’armi e gridi di guerra; pensa che le ire, gli sdegni, i tumulti debbono cadere, le dissonanze debbono cedere alle armonie, e debbono sciogliersi le nubi gravi e torbide, perchè placido sui destini umani splendesse il sole. Ha un’individualità sua spiccata, che non tutta osa trasfondere nel canto. E, come non conosce la rigidezza degli asceti, neppure conosce le ardenze e le consunzioni dei mistici. La vita, maledetta dagli apostoli più accesi, veste le sue rose, e appare degna d'essere vissuta.
Come a Paul Gerhardt trascorresse Suesta vita, appena ci è noto. Qualche ebole notizia ci è pervenuta. E sappiamo che non sempre fu tranquillo, che pur sofferse il poeta gravi dissidi e turbamenti. Veramente, la vita più intensa eia quella che si svolgeva nell’eremitaggio dell’anima; le vicende esteriori, delizia dei biografi, poco possono interessare lo storico, quando non si allacciano intimamente alle vicende interiori. Ricordiamo la patria di Paul Gerhardt: Gràfenhainichen, presso Bit-terfeld. Non dovevano soffrire penuria i parenti suoi. Il padre era sindaco. Della madre non è rimasta memoria, e pare desse alla luce il figlio verso il 1608. Si segnalano parecchie tappe degli studi del Gerhardt, probabilmente indirizzato prestissimo alla santa teologia: la scuola provinciale di Grimma, e, in seguito, l'università di Wittenberg, frequentata, sembra, verso il 1628. Poi, per più anni, non si ha più luce. Un documento ce lo rivela attivo nel 1643 a Berlino, come «stu-diosus » di teologia. Tardi sembra essere Siunto a un impiego stabile. E, quando, opo un tirocinio di maestro ed istruttore in casa del legista Barthold, verso il 1651, fu stabilmente eletto a sermoneggiatore delle turbe, correvano già le poesie sue, non tutte devote, e già si divulgavano per le stampe. A mezzo il secolo 17° cresce di dignità il parroco, predicatore e Eoeta. È nominato diacono alla chiesa erlinese di San Nicola. E rimane qui attivo, rispettatissimo per circa un decennio. Sopraggiunse un editto del principe regnante, inteso a sopprimere il dissidio tra riformisti e luterani, ed a moderare lo zelo soverchio dei predicatori; e l’uomo di pace vede tuttavia tra i due contendenti un abisso; non si piega ad una nuova missione di tolleranza; gli è
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caro il suo culto, come gli è cara la libertà; rifiuta di sommettersi all’editto, e perde l'impiego. Non possiamo giudicare bene e serenamente di questo passo, che schiera il mite uomo, inconciliabile di fronte agli avversari; ma è certo che, più che ad un grido di passione, ubbidiva alla vopc della sua coscienza. La rottura col suo principe non fu acerba. Nè pare soffrisse Gerhardt, nei tardi anni, grandi privazioni. Un duca di Sassonia gli passava una pensione annua. Nel 1668 gli giungeva la nomina ad arcidiacono a Lùbben. Nove anni dopo, settantenne, moriva.
Stentiamo oggi, lontani come siamo da quell’ardore di fede viva, che infiammava gli spiriti più raccolti e profondi dei seguaci di Lutero, scossi noi appena dal pensiero all’eterno, all’anima e a Dio, stentiamo a comprendere, in tutta l’intimità, la poesia religiosa di questo secentista luterano, pastore di anime e zelante predicatore. La fede sua era il suo mondo. Calava raccolto entro questo mondo. Vedeva palpitare di vita quanto per noi appena sembra avere respiro di vita. 11 sentimento è intero, intatto, profondo. Si accora, si addolora, si intenerisce, si esalta il poeta per le vicende del suo Dio. A Dio riferisce tutto quanto ha vita nella natura. Effondersi, premere dal cuore il suo inno o la sua elegia, intonare la sua prece, è per lui irresistibile bisogno. Non studia, non combina, non forbisce e non lima il verso. Se le immagini da sè non si affacciano, egli non le cerca. Neppure gli occorrono immagini per l’espressione immediata e naturale di quanto ferve al suo interiore. Nemmeno al nostro Manzoni bastava il vivo sentimento religioso, per porre poesia spontanea, naturale, unicamente poesia, nei suoi inni sacri; in questi inni è attiva assai la mano dell’artista, e debole è il soffio animatore e creatore di vita del poeta. Sono ricercate le immagini: < Qual masso che dal vertice | di lunga era montana », eco. Nulla di ricercato, nulla di artefatto, che non abbia radice e vita nel sentimento stesso, nei canti e nelle làudi di Paul Gerhardt. L’artista è inattivo, e può incrociare le braccia e languire, quando è all’opera il poeta.
A Paul Gerhardt aveva concesso il suo buon Dio uh cuore estremamente sensibile, una delicatezza inaudita di sentimento. Un nulla può colpire, intenerire, c muovere l'onda del canto. Ma conve
niamo che la ristrettezza di questo mondo, tutto di pietà e di devozione, e il ripetersi inevitabile delle medesime effusioni liriche, genera certa uniformità e monotonia nel verso, sempre sincero, frutto sempre di immediata ispirazione. Stanca quella lira che vibra all’infinito i medesimi accordi fondamentali. Le variazioni stesse, ricchissime, di questi accordi producono noia e tedio. Guai se non ci raccogliamo noi stessi, per virtù di astrazione, in quell’intimo mondo da cui è sorta a P. Gerhardt la poesia sua. Nei sacri inni e nei cantici non vedremmo calore e ardenza vera di sentimento. L'ingenua semplicità, il candore dell’anima, toglierebbero un sorriso alle nostre labbra,.scettiche e profane.
La forza di questo cantore di Dio e della pura fede evangelica sta tutta nella intensità e intimità profonda degli affetti. Canta con una sottil voce, ma determinatissima, mentre Lutero fremeva, tuonava, ruggiva ccn voce possente. Lutero solleva un coro; P. Gerhardt muove l’anima dell’uomo isolato, perso sulle spiaggie romite, chiuso in sè e tutto invaso dal suo Dio. Ha perso di vigore e s’è infiacchita la rigida tempra. L’età eroica è tramontata. Tace il gran coro. L'inno s’abbassa e si raddolcisce in elegia. A due individualità così diverse, come Lutero e Paul Gerhardt, conveniva diversissimo sfogo. E avremmo gran torto di pretendere da un poeta l’espressione di una individualità che non è la sua; immaginare Gerhardt impugnare la lira vibrata dà Lutero. Doveva cantare Lutero per una tribù intera di devoti: « Noi crediamo tutti in un Dio » « Il nostro Dio è una fortezza potente » « Conservaci, ó Signóre, nei tuoi precetti »; doveva cantare P. Gerhardt per dare libero sfogo ail’anima sua e mettere pace alla sua coscienza: « Se Dio è con me, non importa che tutti siano contro di me, con la voce e col cuore io ti canto ». « Non dovrei cantare il mio Dio? ». Da un campo di guerra, ove le trombe dei militi echeggiano alte c sonore, ci induciamo ora a un campo isolato, in cui l’uomo non ha di fronte che sè medesimo; altrove si troverebbe a disagio. Ed è necessità di vita la solitudine.
Diversissima la tempra d’uomo e di poeta da quella del grande maestro e duce, ma, infine, il canto doveva pure scaturire dalle medesime sorgenti di vita. Ispirazione continua doveva pur trarre P. Gerhardt dai sacri Vangeli, dalla Bibbia.
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Rifà pur lui, Gerhardt, rifonde, trasfonde, ricrea, col calore dell’anima sua, il salmo antico. Come ricreasse, e dai fortissimi versi biblici traesse molte strofe dei carmi suoi spirituali, bene dimostra un giovane, Eugen Aellcn, in una tesi recente, Quellen und Stil der Lieder Paul Gerhardts, (Bern, 1912). E qui è pure seguita, con buon discernimento, l'ispirazione tolta ad altri canti: di Johannes Arnd, mite nell’animo, dolce e sereno, com’era Gerhardt; di Paulus Eber, di Bartholomaeus Ringwald; qui pure si studia l’influsso della lirica di un altro maestro di rime e di detti leggiadri, d’amor sacro e d’amor profano Martin Opitz. Ritengo pur io che al meraviglioso e celebre canto del Gerhardt « Nun ruhen alle Wälder » giungesse sug-Seri mento dal canto assai meno poetico
ell’Opitz:
« La notte s’avanza dando libertà agli uomini e agli animali ed adducendo la desiderata pace. Solo i miei tristi pensieri mi assalgono. Magnifica splende la luna e con essa le piccole stelle d'oro, tutto è tranquillità fin dove si stende lo sguardo; solo io sono immerso nella tristezza ».
P. Gerhardt riprende i salmi e li allarga comunemente. Il sentenziare forte, altero, e energico si riduce, spesse volte, a mite esortazione. L’antica voce non mai illanguidita nel canto di Lutero — <r Conservaci, o Signore, nei tuoi precetti » — ora è voce dimessa, supplichevole, che tacita si solleva a Dio. Ed è illanguidito, nel triplice verso, il verso lapidario del duce: « Deh fa che di continuo la tua diletta parola risuoni chiara e bella nei confini della nostra terra ». Mancano le scosse, mancano gli impeti, mancano i rapimenti audaci. Il mite animo non crea che un verso molle. Si diluisce e si raddolcisce per istinto, per bisogno di natura, non per debolezza e languore d’ispirazione. Talora la mitezza e serenità producono la prosa, l’umilissima, pedestre prosa, che invade il verso, che serpeggia nella poesia, da cui si aspettava ardenza di sentimento, vita di contrasti e di dissidi. La chiara e limpida parola, la dolcezza del’ ritmo suppliscono alla robustezza e all’energia. Deve esserci misura in tutto — « Alles Wirkliche gehorcht dem Maas », poteva già dire Gerhardt, preludendo a Goethe. Non mai un’aspirazione alle altissime vette, non mai veri sgomenti nell’anima, per i precipizi che dovrebbero valicarsi. Al cam
mino dell'uomo sono risparmiati gli abissi. Sempre sereno e turgido s’inarca su di lui il cielo. Sempre splende il sole sul giorno placido che corre. E quando il giorno s’ammorza, e cadono le ombre, sempre fiammeggiano all’alto le stelle.
Miracolo davvero che un tremito, un turbamento si comunichi al verso, che riproduce il fòrte salmo, in cui è gridata la potenza e maestà divina! Diceva il salmo: ■ La sua ira non dura che un momento — ed egli ha piacere alla vita — il suo pianto dura quanto la sera — ma sorge la gioia al mattino ».
E. Paul Gerhardt foggia su quel salmo il suo verso, d'insolita forza:'
• Dìo ha mani paterne e punisce con clemenza: la sua collera cessa presto, il suo cuore è pieno di grazia e vuol soprattutto il nostro bene. Alla sera si piange, ma i primi raggi del sole ci ridonano tutto il coraggio ».
Diceva il salmo: « 1 tuoi flutti si muovono frementi e qua si abbassano e là si sollevano — e tutte le tue onde dei mari passano su di me ».
E Paul Gerhardt allarga, ma non infiacchisce la forte immagine:
* I flutti della tua collera si gittano veementi contro di me; la tua giustizia ed il tuo sdegno mugghiano come il mare profondo ed immenso,-le tue onde si sollevano e mi scaraventano con frementi marosi giù negli abissi ».
Diceva l’apostolo, nell’epistola romana: « Poiché io son certo che né morte, né vita, nè angeli, né principato, nè forza, nè il presente, nè l’avvenire, non le alture, non 1 precipizi, nessuna creatura può disgiungerci dall’amore di Dio ».
E Paul Gerhardt, commosso, sente in sè veemente la forza del divino amore, e, pur ampliando l’evangelica parola, raddoppia le negazioni e foggia due strofe gagliarde:
« Mentre il mondo è destinato alla ruina, tu per me resti eterno; nè fuoco, nè percosse, nè martiri, possono separarmi da te. Nè fame, o sete, o miseria, o tormento, o ira di potenti, potranno indurmi ad abbandonarti.
« Nè un angiolo, nè piaceri, nè un soglio, nè magnificenze, nè amori, nè dolori, nè angustie, nè, pericoli, nulla, per piccolo o grande che sia, potrà strapparmi dalle tue braccia e dal tuo seno ».
Comunemente, le ire di Dio, sollevate, minacciose, si placano. Vince clemenza e vince pietà. Trionfa l'amore. Tutte le
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ferite si rimarginano. Così delicata è la mano del poeta, che le fascia e' le medica. Nel sacro canzoniere di questo seguace di Lutero, pieno di mitezza, di tenerezza e di candore, ritrovi talora un'eco della semplice e schietta Musa del popolo. Le movenze ed espressioni popolari, care a Lutero, pure si impongono al Gerhardt; si insinuano all'orecchio; vanno al cuore; agiscono per la loro immediatezza. Sono voci schiette, elementari di natura, voci di Dio, trasfuse nelle voci dei semplici e degli umili. Il poeta ha la visione del Redentore, trascinato al suo calvario, trafitto da spine. Apre gli occhi; vede; vede davvero; vede rinnovata la scena della passione; e gli sanguina il cuore. Ecco le ferite, ecco la corona di spine, il volto pallido, smunto, lacero, tutto il corpo consunto, languente, la maestà divina trascinata nel fango, le luci che fulgevano agli occhi, ora spente. Non è costrutta la scena della pietà; si'è rinnovata spontanea alla fantasia e al cuore del poeta; e il verso che la rende deve colpire per la sua semplicità estrema e l’estrema evidenza:
« Salute a te, o capo pieno di sangue e di ferite, di dolori e di vituperi, o capo coronato per burla di una corona di spine, o capo che avresti dovuto esser decorato del più alto onore e di ogni ornamento e che sei invece fatto segno ad ogni scherno !
« Come sei sputacchiato, come sei pallido, o nobile viso, dinanzi a cui trema e teme ogni grande potere del mondo! Chi ha così orribilmente malconci i tuoi occhi, ai quali nessun fulgore poteva paragonarsi?
• 1 colori delle tue gote e la magnificenza delle tue rosse labbra sono spariti del tutto; il terreo color di morte ha tutto pervaso, ha tutto rapito, tutte le tue forze sono all’estremo.
« Tutte le tue sofferenze, o Signore, sono da me causate; quanto tu hai sopportato è tutto per mìa colpa. Guardami! Ecco qui il meschino che ha meritato la tua collera; concedimi, o misericordioso, uno sguardo benigno.
« Riconoscimi, o mio custode, o mio pastore prendimi teco! Da te, sorgente di bontà, ogni bene mi è stato concesso, la tua bocca mi ha dato ristoro con latte e dolcezze, il tuo spirito mi ha fatto dono di molte gioie celestiali.
• Voglio stare a te dappresso, non dispregiarmi: non voglio dipartirmi da te! Quando il tuo cuore verrà meno, quando il tuo cuore sarà per mancare nell’ultima agonia dì morte, io vorrò stringerti fra le mie braccia, raccoglierti nel mio grembo.
• Sarà per me fortuna se nella tua passione
potrò trovar la mia salute. Ah, potessi io, tesoro mio, sacrificarmi qui sulla tua croce! ah, quanto darei con gioia la mia vita!
«Ti ringrazio dal profondo del cuore, Gesù, amico diletto, per la tua agonia mortale, pel tuo amore infinito- Deh, fa che io ti resti fedele; che quando dovrò morire la mia fine sia con te.
• Qualora io dovessi separarmi da te non separarti tu da me; alla mia ora estrema sii presso di me e quando il terrore pervaderà il mio cuore liberami dalle angustie, tu che sai che cosa sia tormento ed angustia.
• Appariscimi come protettore e consolatore nell’ora del trapasso, lasciamiti vedere confitto in croce, poiché voglio figgere in te i miei sguardi e premerti, pieno di fede, contro il mio cuore; chi cosi muore, muore felice! ».
Ora è bene scossa la « feste Burg », tanto vantata da Lutero. Agli attacchi furenti non resisterebbe. Agguerrita debolmente, ha bisogno di soccorso, bisogno di Dio. Aprirà Iddio le braccia, e sorreggerà il suo servo fedele nel pericolo estremo. Dov'era fanfara trionfale, ora è un dire dimesso, un pregare, un invocare, un gemere, un sospirare. Sul volto impietrito è discesa la lagrima. Ma se l’indomita energia è cessata, è pur rimasta, con la fede incrollabile, la fiducia nella bontà e misericordia divina. Non pubi cadere. Non puoi essere distrutto. Su tutto il tuo errare in terra, o fragile creatura divina, vigila all’alto l’onnipossente Iddio. Dio provvede a tutto. Fende i nembi, getta fra le tenebre i suoi raggi di luce. — Avanza adunque fidente sul tuo calle. Il cammino è tracciato. Ed hai il cielo per guida.
E questa dura terra, dove l’uomo posa il piede, e che percorre tra ansie e affanni, prima di giungere al varco estremo, non è per P. Gerhardt così tetra e squallida, come l’era per gli asceti e i devoti del Medio Evo tormentoso. Veste il suo verde; reca i suoi fiori; e s’allieta ed esulta di tanto sereno dei cieli. E non è un male la vita, sebbene ti avvenga di riempirla di pianti e di sospiri Ñon deve apparirti come un’ombra o un sogno fuggevole. Offre i suoi piaceri e allettamenti. E, siccome tutto il creato porta l’impronta divina, puoi illuderti di pregustare, nel peregri-naggio tuo fatale, il paradiso in terra. Ad ogni puntura al cuore è tolta l’àma-rezza; s’annida in ogni dolore una stilla di piacere; il male è indispensabile al trionfo del bene; il peccato e la colpa sono scala alla salute eterna, stimolo al virtuoso
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agire. Opera, in contrasto a Dio, Mefi-stofelc; ma, senz’avvedersene, aiuta pur lui al conseguimento della vittoria divina.
Nel mondo cupo di Lutero per più spiragli è entrata la luce; e ondeggia serena qua e là; desta il piacere alla vita; scaccia il pensiero, che martira, la malinconia, che stringe e distrugge. E siccome non è vano il nostro vivere, tutto quanto ci' circonda, e ride o piange al sole è degno di un palpito della nostra anima, degno d’essere osservato, goduto, o sofferto. La poesia di questo devotissimo pastore d’anime grida la morte unicamente all’insensibilità e all’indifferenza; ravviva ogni particolare di questa nostra fugace esistenza. Sacra al poeta è pure ogni gioia della famiglia. Stolto se non apri gli occhi e non ti nutrì della divina luce, che dovunque si spande per l'universo, e dovunque è riflessa. Stendi le membra irrigidite, e scaldati al sole: «Esci dal chiuso, o cuor mio, ed allietati, in questa estate diletta, dei doni di Dio ».. Vedi; fioisci; esulta. Tutto è in festa. Tutto grida armonia e la bellezza dei cieli. Tutto è in fiore. E il poeta pone nel suo canto l’immagine di questo fluire di vita; ravviva quello che apparentemente è disanimato; umanizza, direste, la natura. La terra accoglie, festosa, il suo bel manto verde: < Il narcisso ed il tulipano appaiono infinitamente più belli che la seta di Salomone ». Si solleva all’alto, spandendo all’aer puro il suo canto, l'allodola. E monti e valli e colli e piani risuonano del canto dell’usignolo. Il cervo veloce, « das leichte Rch », scende dai boschi al piano e salta tra l'erba profonda: '
• I ruscelletti mormorano sulla sabbia e colorano le proprie sponde con ombrosi mirti; dappresso si distendono i prati e risuonano tutti dei gridi gioiosi dell’armento e dei suoi pastori.
• L'instancabile sciame delle api scorrazza qua c là alla ricerca del prezioso nettare. Il dolce succo della vite cresce e s'afforza ogni giorno più nel suo debole arbusto.
« Il grano cresce prepotentemente, con gioia grande di tutti, che celebrano la grande bontà di Colui che cosi abbondantemente ci ristora e di tanto bene fa dono agli uomini ».
Come si sente il piacere a questo. vigore nuovo di vita! Tutte le energie sono deste nel cuore della natura, e nel cuore del poeta altresì. Come può tacere, quando tutto canta e tutto esulta? « Io canto quando tutto canta, e il tono che più si
eleva promana dal cuor mio ». Canta; apre ogni valvola del sentimento; e métte, ove può, nella sua « Laus vitae », immagini e sembianze di moto e di vita; anima il suo dolce idillio, quel paradiso che è pure precipitato in terra. In altro canto è questa fine e delicata immagine della rosa:
« La rosellina che ride in primavera e*fa pompa dei suoi colori, viene fiaccata dalla pioggia e la sua testina penzola; ma quando il sole riappare si risolleva e torna ad essere l’ornamento e la regina di tutti i fiori ».
Il buon pastore non rimane genuflesso all’altare di Dio, ma si muove, con forze intatte, senza maceramenti e turbamenti, aperto il cuore sempre alla speranza e alla contemplazione attiva, affettuosa e fervida della creazione divina. Quaggiù è, per necessità, un riflesso della bellezza eterna che è nei cieli. Come distogliere lo sguardo da quanto lo colpisce, intorpidire i sensi, quando si scotono e fremono al magico soffio della vivida natura! La vita è bella. Il mondo è bello. Tu ci concedi, ©Dio, di peregrinare con tanto amore su questa povera terra. Quali meraviglie ci prepari all’al di là, nelle tue ricche sfere celesti, nel tuo castello dorato? Quale sublime piacere, qual viva luce sarà mai nel giardino di Cristo? Cóme dolce suonerà qui il concento dei mille e mille Serafini! Se già qui fossi! Se già toccato avessi il tuo tròno, ò dolce Iddio! E innanzi a te portassi il mio salmo! È una intimità affettuosa, che commuove, un’estasi, un candore di fanciullo,« un amore vivo della dolce terra, trasfuso nella viva fede. Bello con lui percorrere questa terrestre aiuola, vestita d’incanti, riscaldata dal sole, l’aiuola che dovrebbe stringerci fratelli, c non farci feroci; bello cantare, con quésta guida delle anime, le lodi a Dio e ai cieli.
Prendiamo nota di questo sentimento individuale che si palesa nella lirica religiosa. L’individuo si afferma al cospetto del suo Dio, e grida il dramma dell’anima sua. Il respiro di quest’anima si comunica alla natura esteriore, che acquista calore e vita, che esulta, piange e ride col poeta medesimo. Batte le ali ampie il sentimento umano, e si spande per l’universo. Il mondo si allarga. Chi studia il sentimento così detto della natura dimentica troppe volte che il trionfo maggiore della natura profana è appunto negli inni allo spirito
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
divino dei vati più ingenui, che hanno la religione tremante in cuore, e non scorrente all'epidermide. Come in Simon Dach, contemporaneo a P. Gerhardt — a cui pur troppo non possiamo concedere speciale attenzione — in Simon Dach, che stringevasi alla natura, come a sua intima confidènte, e vedeva monti, campi e valli, e alberi e fiori e nubi e stelle piangere del suo pianto, ridere del suo riso (— « I cespugli ed i prati sono intristiti, pallidi e morti » —, esce a dire una volta; c ancora: « I cespugli, i campi, la foresta e le pietre sono malati •), e inneggiava all’amore, entrato nelle viscere della natura, e operante ognora, sicché, per virtù • sua, rinverdiscono c ringiovaniscono le selve e cantano gli uccelli, e si muove la selvaggina, e gli alberi recano frutti, c l’erba cresce dopo la pioggia — come in Simon Dach, l’osservazione della natura in P. Gerhardt è viva, mossa da affètto, acuita dal sentimento .del reale. Ed è nella lirica del Gerhardt un mondo idillico nuovo, che sorge e s’anima accanto al mondo religioso, un mondo che ritroveremo più vivo ancora, e con incanto e allettamento maggiore nella lirica dello Spec. È già qui un preludio alla sensibilità finissima, all’accoramento e struggimento per ogni fenomeno di natura, che colpisce nei romantici.
Nessun languore, tuttavia, nessun dissidio acerbo. Dio non permette lo strazio nell’anima del credente. Trema un sorriso anche entro la lagrima. E l'elegia al giorno che frigge, al calare delle ombre, agli alti silenzi, che si posano in terra, al dormire del mondo, nella sua mollezza e dolcezza, fortifica ancora il sentimento, e culla lo spirito, che posa sicuro in grembo a Dio:
■ Tutto ora riposa, le foreste, gli uomini, gli animali, la città ed i campi: ma voi, mici sensi, vigilate!, voi dovete attendere a ciò che al vostro Creatore piace.
• Dove sei andato, o sole? La notte ti ha cacciato via, la notte nemica del giorno. Va, va pure: un altro sole, il mio Gesù, la mia delizia, splende luminoso nel mio cuore.
« Il giorno se n’è andato: le stelline d’oro splendono sull’azzurra volta del cielo; cosi sarò anch’io quando il mio Dio vorrà chiamarmi da questa valle di pianto.
< Il corpo anela al riposo: dispoglio con gli indumenti il simbolo della mortalità: in cambio il Cristo mi rivestirà dell’abito di gloria e di magnificenza ».
Tralascio alcune strofe del notissimo « Abendlied » (Canto della Sera).
• Ed ora, o stanche membra, distendetevi sul desiato giaciglio: verrà giorno che bisognerà prepararvi, pel vostro riposo, un letticciuolo nella terra.
« I miei occhi stanchi si chiudono: che ne ¿allora del corpo e dell’anima? Prendili tu nella tua grazia, perdona le loro colpe, tu occhio e custode d’Israele.
« Distendi le tue ali, o Gesù, e copri, come vigile chioccia, il tuo pulcino. Se Satana vuole azzannarmi, fa che il tuo Angeletto gli gridi: Non devi recargli offesa!
■ A voi pure, o miei cari, non avvenga oggi pericolo o danno alcuno. Dio vi faccia dormir beati, circondi egli il vostro letto delle armi d’oro c delle sue angeliche schiere ».
Veramente, a questo spirito devoto Dio può concedere un sonno beato e tranquillo; Dio, che a tutto provvede, vigila su questo « Jammersthal », la valle di pianti e di sospiri, che pur veste il suo verde, ed ha pure il suo dolce incanto. E si capisce come milioni di voci, dal ’600 in poi, intonassero, a ristoro e conforto dell'anima, gli inni e i cantici del Gerhardt, rinvigoriti o raddolciti ancora dalle note dei musicisti migliori; si capisce come agissero sull’anima e la fantasia di Goethe, che da un'immagine del Gerhardt: « Fino a quando dovrò, misero, mangiare il pane bagnato di lacrime?» derivava il commovente e forte canto di Wilhelm Meister: « Chi non mangia il suo pane bagnato con le proprie lacrime, chi non conosce le notti doloranti passate piangendo sul suo letto, egli non può conoscervi, o celesti possanze ».
Tra i ricordi più vivi della fanciullezza, Hcbbcl segnala, nel « Tagebuch », la lettura dell’« Abendlied » del Gerhardt, che S rotondamente lo scosse; dieci volte dice i aver ripetuto, piangendo, alla madre i meravigliosi versi:
« Le stelline d’oro splendono sull’azzurra volta de cielo ».
Arturo Farinelli.
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IL IV CONGRESSO ITALIANO DI FILOSOFIA
LA SEDUTA INAUGURALE
Come Bilyohnis annunciò a suo tempo, nei giorni 25-30 settembre, per iniziativa della Società filosofica italiana, si svolse in Roma il IV congresso di filosofìa, che, per l’eletta schiera degli intervenuti, per l’importanza delle relazioni, c per l’elevatezza dei dibattiti, resterà determinante nella storia del pensiero filosofico italiano. Sopratutto notevole fu il posto che in esso fu dato al problema religioso.
Alla seduta inaugurale intervennero tra gli altri S. E. Benedetto Croce, Ministro della P. I., S. E. Rossi, Sottosegretario di Stato, il Sindaco di Roma Senatore Apolloni. i Senatori Fano, Tamassia, Polacco, Ciamician, Credaro, l’on. professore E. Calò, i proff. Gentile, Sergi, Raffaele, Di Legge, Cesareo, Castel nuovo, Co-lozza. Vacca, Enriques, Limentano, Montesano, Resta, Mieli, Fazio, Almayer, ecc.
Aprì la seduta il ministro Croce, il quale nobilmente e austeramente rilevò l’importanza del Congresso, mentre le convulsioni della vita sociale e nazionale parevano meno atte ad una serena accolta di pensatori e studiosi. Seguì il prof. Erminio Troilo, della Univ. di Padova, segretario della Società filosofica e infaticabile organizzatore del congresso, il quale fece la relazione dell’attività dell’Associazione filosofica, durante la guerra, e commemorò i due soci che eroicamente offersero la loro vita alla Patria— Venezian e Pelazza — e gli insigni pensatori di cui nel frattempo si è dovuta lamentare la perdita, soffermandosi specialmente su Roberto Ardigd, di cui mise in rilievo l'im
portanza storica, la consistenza della dottrina e l’elevatezza morale.
CULTURA E FILOSOFIA
Tenne poi il discorso inaugurale il professor Bernardino Variscosul tema: Cultura e filosofia.
La frase stereotipata: è impossibile riassumere il discorso, non è qui precisamente, una frase. Stimo però possa riuscire utile rilevarne lo spirito fondamentale, il cui significato trascende i limiti di qualsiasi congresso. Il Varisco con quella sua sottile ironia che ricorda l’insinuante persuasività socratica, discusse l’opinione così allegramente diffusa che la filosofia non serva a nulla di realmente utile, o che i professori di filosofia servano solo a fabbricare... professori di filosofia! La filosofia è la vita stessa guardata, non nella sua particolarità, ma nel suo complesso, che la fa esser degna di chiamarsi, precisamente, vita umana. Ogni uomo esercita una professione, si agita per risolvere problemi pratici di carattere economico famigliare, politico, ecc. Può esaurirsi qui la sua vita? O non piuttosto ciascuno di noi sente che la vita non può tutta concludersi nel cerchio delle operazioni cotidiane intese a procacciarsi e ad accrescere il benessere fisico? Orbene, le scienze fisiche, chimiche, agrarie, ecc. sono realmente utili in quanto, mirando a conoscere un qualche lato della realtà, contribuiscono, insieme, ad accrescere quella somma di comodità materiali, nella cui preoccupazione si accentra gran parte della vita sociale e politica. Ma non tutta la vita umana. Alle
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NOTE E COMMENTI
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domande supreme, che anche il più umile o il più immerso negli affari, in momenti di tragica angoscia si pone, le scienze non rispondono, perchè non possono rispondere. Tutto il sapere matematico, come tale, può riuscirmi inutile per affrontare il menomo dolore.
A queste domande, che sono poi, per tutti, consapevoli o no, i massimi problemi, procura di rispondere la filosofia; la quale, appunto, è l'attività dell’uomo, non in quanto medico, avvocato, meccanico o politico, ma in quanto uomo. Rendersi conto del proprio valore di uomo, cercar di chiarire, non questa o quella via che noi possiamo seguire nella vita, ma il perchè della vita, costruire una regola al proprio agire, può esser giuoco vano?
Forse, invece, quella che alla mente volgare appare come un strazione, è la vera c più concreta pratica. Nonfoc-corre esser filosofi per sentire il valore fondamentale di questo assunto, c intuirne la portata, anche da) punto di vista sociale.
Il Varisco è stato ascoltato con una attenzione che si faceva sempre più intensa e che aveva qualcosa di veramente religioso. Il suo discorso, mentre segna una tappa decisiva nello sviluppo del suo pensiero (che ya sempre meglio imponendosi alla considerazione, non degli orecchianti, ma dei veri studiosi di filosofia), riuscì a far penetrare in tutta l’assemblea un vero palpito di supcriore vita spirituale. . E bene fece il prof. Enriques ringraziando il Varisco della sua profonda relazione a nome di tutto il Congresso, il quale ritenne che la migliore discussione da farsi su di essa era meditarla e ripensarla.
FILOSOFIA E RELIGIONE
Un contributo decisivo all’orientamento del Congresso verso la valutazione del fatto religioso fu la comunicazione del prof. E. Buonaiuti, sui rapporti tra Filosofia e Religione nella cultura contemporanea.
Egli tratteggiò preliminarmente le divergenze che corrono tra la filosofia medievale e la filosofia moderna, nel modo stesso di porre il problema speculativo, e i rapporti dello spirito umano col reale; e mirò a dimostrare che le forme più recenti dell’idealismo, nelle quali la religiosità è concepita come una forma inferiore della vita dello spirito, in quanto pura
coscienza dell’oggetto, di fronte a una sintesi dell’atto filosofico, sono risultato logico dell’evoluzione filosofica, quale si è venuta svolgendo da Hegel in poi. Ma, in pari tempo, il Buonaiuti ha inteso sostenere esser codesta una posiziono di equilibrio instabile; e non poter segnare lo stadio definitivo della speculazione applicata al fatto religioso. 11 relatore ha insistito neH’affermarc che è vano affrontare il problema dell’essenza della religiosità, senza un costante risalire alle fonti storiche della religiosità stessa. Il discorso del prof. Buonaiuti ha dato motivo a una interessantissima discussione, cui parteciparono i professori Enriques, Valli, Fazio, Almayer e Pagano, ai quali tutti brillantemente rispose il relatore. E così ampia e vibrante fu la discussione che con essa si volle chiudere la seduta.
Nella seconda giornata — destinata alle comunicazioni — il prof. Giovanni Vacca svolse nella mattinata il tema Filosofia e morale confuciana in cui il chiaro studioso ebbe modo di fare arguti e interessanti ravvicinamenti tra alcuni ■ periodi che si potrebbero dire... bolscevizzanti della storia cinese, c lo stato d’animo che la civiltà nostra attraversa, e l’influenza di azione e reazione che su di essi esercitava il confucianesimo, nei vari adattamenti subiti nel corso dei tempi.
Efficacissima per acutezza di indagine e per brillante scioltezza di forma fu la comunicazione del prof. Luigi Valli: Lo spirito filosofico della razza ariana.
Nel pomeriggio il prof. Antonio Pagano lesse la sua dotta relazione: L’intuizione intellettuale come momento dell'alto del giudizio, in cui l’oratore, esponendo c criticando i principi dell’idealismo attuale, trovò modo di inserire una sua personale posizione di pensiero, che si rivelò assai prossima alla concezione varischiana.
Seguì un cortese e interessante dibattito di principi tra il Varisco c il Pagano.
RAZIONALISMO E MISTICISMO
Discorrendo di razionalismo e misticismo, il prof. Enriques dell’università di Bologna, segnate le caratteristiche di ciascuna forma dello spirito (imposizione della ragione sulla realtà, il razionalismo — annullamento del soggetto nell’oggetto, il misticismo), si sforzò di mostrare, valendosi di testimonianze colte dal pe-
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BILYCHNIS
riodo pitagorico-eleatico, c dall’idealismo tedesco de! sec. xix, che tra esse non vi è vera opposizione, anzi che ciascuna di esse è insieme preparazione e conseguenza dell’altra.
Nei corso della sua dissertazione trova modo di riaffermare la sua concezione positivistica e scientifica della filosofia, che gli è poi serratamente ribattuta dal Varisco, il quale mette in evidenza come le scienze, presupponendo la realtà spezzata nei suoi elementi, e quindi cogliendo ciascuna una astrazione della realtà, non possano cogliere l’Unità. come tale, la cui indagine è appunto il campo della filosofia.
Non filosofia astraila, dunque; anzi pienamente concreta, in quanto, anziché estraniarsi dalla esperienza è nulla più che una sistemazione razionale deirespericnza.
Il prof. Buonaiuti discute il concetto che elei misticismo ha enunciato l'Enriques; in quanto, egli disse, misticismo non è annullamento, anzi più alto ritro-. vamento dell’io in Dio. E quanto a! misticismo naturalistico che l'Enriques aveva attribuito a Francesco d’Assisi, il Buonaiuti obbietta che la natura è colta umanamente dall’asceta umbro, e non come espressione della vita naturale o scientifica. Al l’interessante dibattito parteciparono poi il Baratone, il Gali ucci, il Trafelli ed altri.
LA REVISIONE DEI PRINCIPII DELLA SCIENZA
Il prof. Aliotta parlando.su questo tema à esposto la critica dei criteri di verità scientifica, di una verità piena e definita, fuori .di qualsiasi creazione spirituale, secondo cui lo spirito altro non dovrebbe fare che <* scientificamente » conoscere. L’Aliotta, pur accogliendo in linea generale, i risultati di questa critica dissolvitrice, ne mette in evidenza gli eccessi, e combatte la teoria opposta • che fa consistere il vero nella pura soggettività della esperienza immediata, per cui ogni elaboratore concettuale la falsificherebbe ». La realtà, afferma l’Aliotta, non può esser manipolata a nostro arbitrio, l’attività costruttiva del singolo ha un limite, essenzialmente legittimo nell’attività degli altri, attuandosi un superiore accordo collettivo.
Resta confermata la concezione pluralistica del mondo « per cui non esiste un unico punto di vista eterno,... ma
una realtà dinamica che risulta dal complesso delle vedute innumerevoli dei vari soggetti di esperienza, che hanno ciascuno una diversa prospettiva spaziale c temporale ».
ARTE E RELIGIONE
Il dibattito forse più dialetticamente determinativo si ebbe nella quarta giornata in cui Giovanni Gentile svolse la sua importante relazione sul tema: Arte e Religione. In sostanza il Gentile riaffermò la sua nota posizione della risoluzione de! momento artistico (puro soggetto! c del momento religioso (puro oggetto) nella filosofia, e cioè nel ¡xmsiero come atto puro, che, dunque, è la vera e unica realtà dello spirito. Lo spirito umano non è contemplazione, se non in quanto è azione. L’arte è il chiudersi che lo spirito fa entro se stesso; non però un se stesso astratto, chè un soggetto privo di qualsiasi oggettività concreta è impossibile. Ricordata la dottrina del Vico che mette in opposizione il particolare della Poesia coll’universale (iella Filosofia, nota l’opinione cheli! Vico ha ri-5nardo al corpo, a ciò che rappresenta V altro ella nostra coscienza. Ma, in reai tà, il nostro corpo non è qualcosa che si possa amputare dal nostro « íoj», ma intimo al nostro essere spirituale.
L’arte è intuizione del soggetto del giudizio: ma non ancora giudizio, e cioè universalità. La religione invece è di fronte all’oggetto come puro oggetto. Orbene, la posizione trascendentalistica, al pari di quella prettamente naturalistica, ponendo un altro da sè, al di fuori dell’attività creatrice dello spirito, sopprime in sostanza la libertà del soggetto.
I-a sintesi sta nella filosofìa che risolve in sè il momento soggettivo e il momento oggettivo. >
La profonda esposizione del Gentile detta con caldo impeto di convinzione e con smagliante magistero di forma, suscitò una vivace discussione, che si protrasse fin nella seduta pomeridiana, c alla quale presero parte il Varisco, l'Aliotta, il Valli, il Buonaiuti e il Calò.
L’imprescindibile esigenza dello spazio mi vieta di riassumere come vorremmo l’interessante dibattito. Mi limiterò ad alcune delle principali obbiezioni degli oppositori.
I! Varisco notò come ciascun singolo Sia già sintesi di elementi oggettivi. Per
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affermare se stesso come oggetto l’uomo deve affrontare la oggettività. È vero artista, non chi si isola dalla vita circostante; chi la penetra e rivive, imprimendovi il segno della propria genialità.
11 Valli crede che alla religione non sia assolutamente necessario il trascendente; il rapporto tra l’individuo e la Divinità è, appunto perchè rapporto, intima e insopprimibile comunione.
Il Buonaiuti nega che il bambino sia sotto il dominio della pura soggettività: anzi, il mondo gli si presenta come una forza di contrasti, di cui egli tenta impadronirsi. Nega egualmente che la dottrina della grazia annulli il libero arbitrio, in quanto essa costituisce un superamento della dottrina razionale del libero arbitrio, per una affermazione più alta della libertà, illuminata dalla grazia divina.
L’Aliotta osserva che, se la filosofia nega la trascendenza, deve però rendersi conto del suo valore psicologico. Lo spirito non può costruire il suo oggetto, senza aver coscienza del trascendente; orbene, la coscienza del trascendente non può aver luogo nell'idealismo assoluto.
Il Calò afferma che nel bambino non può esservi la posizione del soggetto come puro soggetto; c che, sia nelrarte, come nel sentimento religioso, non vi ha semplice esplosione pressoché istintiva, ma anche intenzione, consapevole ' volontà costruttiva. >
L’interessante dibattito —- in cui si mostrarono tutte le posizioni del pensiero di fronte al problema religioso,, che si rivelò come il centro della speculazione attuale, nelle sue più opposte sistemazioni — fu concluso da una sobria replica del Gentile ai suoi oppositori.
LA FILOSOFIA E IL PROBLEMA SOCIALE
11 prof. Rodolfo Mondolfo, dell'università. di Bologna, nota come mentre nell’ultimo quarantennio mancò ai conflitti, che sporadicamente si verificarono, un’idea centrale avvivatrice; oggi, invece, questa idea si ha neWinternazia-nalismo. Oggi si tende a spostare la volontà, da creatrice dei fatti, a passiva esecutrice delle predisposizioni ambientali, dominate dal concetto di forza. Il problema è ora se la dittatura del proletariato debba essere premessa o conci usionc del novus ardo da instaurare. Accennato come ogni dittatura sia inizialmente costretta a usare la forza, riafferma i concetti fondamentali del socialismo essere la giustizia e l'eguaglianza, illuminate dalla universalità umana. Nel fondo di questa lotta grandiosa, malgrado certe sue fatali intemperanze, c’è una grande esigenza di libertà. La classe colta ha il dovere di assecondare e dirigere le lotte economiche del proletariato, attuando l'ammonimento di Carlo Marx: «il proletariato ha da esser l’arma della filosofia, come la filosofia l’arma del proletariato ».
LO STATO, LA SCUOLA E LE CLASSI
L’on. prof. G. Calò afferma che la scuola traversa una crisi di coscienza che si complica con la crisi generale dello Stato. Critica la concezione astratta-‘mente liberalistica dello Stato, in contrapposizione a quella nazionale. Oggi non si tratta di difendere una unità geografica, ma una unità nazionale; si impone una austera disciplina nazionale. Difende, contro la tesi cattolica, il diritto dello Stato a dare un’istruzione coerente a’ propri fini; e mostra come il decadere della scuola sia determinato, da un lato, dall’indegno disinteresse del Paese, e, specialmente, della così detta classe dirigente; e, dall’altro, dalla scarsa disponibilità finanziaria. Esamina quindi la proposta del gruppo che fa capo al Gentile circa l’esame di Stato, mostrandone le manchevolezze e i pericoli. Riafferma di contro alla estrinseca libertà della scuola, la più vera e feconda libertà nella scuola. Infine si augura che sul tumulto delle forze che si contendono il dominio dello Stato, si imponga vigorosamente il concetto della superiore sovranità dello Stato, in cui il sentimento religioso può trovare la sua più libera estrinsecazione.
LA SEDUTA FINALE
Presieduta dal prof. G. Tauro, si tenne il 30 settembre la seduta di chiusura del IV congresso italiano di filosofia 11 professor E. Troilo rilevò il magnifico svolgimento del Congresso, superiore a qualsiasi aspettativa, c il vibrante interesse delle relazioni e dei dibattiti.- Notato come si riunisca ad Oxford un congresso
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filosofico tra francesi, inglesi e americani, con la gentile esclusione degl'italiani, (1) disse che noi possiamo altamente affermare che il valore di quel congresso non potrà superare il nostro, in quanto l’Italia ha riconquistato il primato sul pensiero europeo. Mandò infine, a nome di tutto
(0 Su. questo congresso secondo il programma trasmesso rileviamo le seguenti notizie, sulle quali tra breve ci proponiamo di ritornare.
Vi parteciparono ('American Philosophical Association, 1'Aristotelian Society, la Britysh Psychological Society, la Société française de philosophie. Il discorso inaugurale fu detto da Begson
il congresso, un saluto reverente a Bernardino Varisco, anima diritta c operosa, sommo decoro della filosofia italiana: la cui nobile figura ha dominato tutto il Congresso. >
V. Cento.
sopra il tema Creazione o il Nuovo; altri temi; Aspetto filosofico della teoria generale della relatività; l’uso della intelligenza più adatto a farci conoscere la natura (Boutroux); le relaxioni tra la religione e l’etica; La funzione di nazionalità.
Al Congresso dovevan prendere parte oltre i nominati, Langevin, Lindeman, Edward Le Roy, Linósa v, Gilbert Murray ccc.
IL P. P. I. - IL SOCIALISMO
(risposta a G. Tosato)
Stg. Direttore,
Il numero ultimo (settembre) di Bilych-nis pubblica una recensione di Quinto Tosatti, del mio recente volume: Dalla democrazia cristiana al Partilo popolare italiano, nella quale, cne pure ò cosi cortese e benevola, sono due punti che non posso lasciar passare senza osservazione.
L'uno è la sorpresa del Tosatti per avere io scritto che il partito popolare italiano, pur attraverso le sue ambiguità ed incertezze, serve la causa della autonomia dello spirito.
Persisto più che mai in questa opinione. E da quando scrissi quel giudizio mi pare che parecchie cose siano venute a darmi ragione: il tentativo, cauto ma persistente, che il partito fa per non lasciarsi irretire nel vecchio conservatorismo, e le delusioni parecchie che ò venuto apprestando agli amici dell’ordine che fa loro comodo; le diffidenze e le ostilità, che rinascono e crescono, contro di essi, della parte conservatrice della gerarchia ecclesiastica; il fatto che, per definire le attuali loro domande in materia scolastica, essi si sono rivolti all'on. prof. Antonino Anile, che è un idealista.
So le molte cose che potrebbe oppormi l’amico Tosatti. Ma badi, egli, che per me non si trattava di giudicare degli uomini e un loro programma contingente c il valore spirituale assai scarso dei loro accorgimenti politici; ma la effettiva portata storica di un processo nel quale astuzie o reticenze di uomini contano poco, e che nella sua profondità ricongiunge il partito popolare di oggi (politicamente autonomo) alla democrazia cristiana d i ieri. Da un punto di vista, il costituirsi del partito popolare è — ed io l’ho detto — il più recente segno dell’impoverimento spirituale del cattolicismo in Italia; e si può osservare con rammarico che una grande religione storica, la quale avrebbe dovuto darci in questo momento quelló che forse è essenziale per la salvezza «l’Italia, un grande e vivo afflusso di fresca religiosità, sobria, laboriosa, buona, fraterna, non ci ha invece dato che... un partito politico di più, e nuove cupidigie e nuovi odii e nuovi opportunismi. Ma, da un altro punto di vista, questo stesso affondarsi di una tradizione religiosa ne "li interessi e nella lotta politica non va disgiunto dalla manifestazione rinnovata dell'esigenza di riavvicinare i valori politici c lo Stato ai valori spirituali ed etici.
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Non per nulla si rimprovera ai popolari, dai clericali della tradizione, di fare appello al cristianesimo, invece che al cattoli-cismo.
L’altra cosa, che non vorrei lasciar passare sotto silenzio, è « la formidabile antipatia e paura che ho per il socialismo ».
No, amico Tosatti. Tu sai come è equivoco, oggi, quel termine « socialismo •; e molti miei scritti, dalle origini al volumetto: Socializzazione, stanno a mostrare in che senso c quanto sono anche io un socialista.
Ma c’è, sì, qualche cosa nel socialismo storico di oggi ‘che mi fa paura; ed è, per dirlo in breve, la sproporzione, esistente nel proletariato organizzato c nella massa, fra la potenza politica che essi si trovano ad avere in mano e la loro preparazione spirituale al comando. E quando penso ai pericoli di tale immaturità, non penso agli interessi di questa o ciucila classe, ma all'unità nazionale c alla nostra tradizione di cultura e, soprattutto, alle innumerevoli sofferenze umane che, per anni ed anni, uno sfacelo economico e politico diffonderebbe fra noi, colpendo specialmente gli inconsapevoli c gli innocenti.
Ma di questi pericoli una assai più grande parte di colpa che non al proletariato spetta alle classi dirigenti ed agli uomini che, negli ultimi decenni rappresentarono e diressero i nostri grandi istituti pubblici, religiosi e civili. E, se ci sono uomini in Italia che per dire ad essi le loro colpe non hanno aspettato l’esperienza drammmatica della guerra e del dopoguerra, uno di essi, e di quelli che più hanno pagato di persona, sono lo.
Ed ora mi perdoni il lettore di Bilychnis l’aver io parlato di me, accordandomi le attenuanti dell’essere io stato chiamato in causa e della importanza oggettiva del-l’argomento.
Roma, ottobre 1920.
Romolo Murri.
»
io CONGRESSO GENERALE EVANGELICO ITALIANO
Mentre stiamo ultimando la preparazione di questo fascicolo, si svolgono qui in Roma i lavori del I Congresso generai'' evangelico italiano. Riserbandoci di parlarne ampiamente nel prossimo numero, ci limitiamo per ora a rilevare l'importanza dell’avvenimento. È la prima volta che tutte le forze evangeliche italiane partecipano ad una adunata generale, senza distinzione di denominazioni, di amministrazioni, di tendenze. E quanti partecipano a questa adunata sono sotto l'im-prsesione che il movimento evangelico costituisce una reale forza spirituale e morale tutt’altro che «trascurabile». Argomenti molto importanti si stanno discutendo c si votano deliberazioni che non mancheranno di portare notevoli conseguenze por l’ulteriore sviluppo dell’evangelismo italiano.
Ecco gli argomenti del programma:
Per un risveglio nella vita spirituale (signor G. Cervi).
Il Protestantesimo e l'anima italiana (signor V. Nitti).
Le Chiese evangeliche di fronte alla legge (prof. D. Jahier).
L’opera del laicato in Italia (sig. T. Celli).
Concentrazione delle forze evangeliche in vista dei nuovi tempi (prof. L. Paschetto).
Letteratura e giornalismo evangelici (capitano C. Rapicavoli).
L’istruzione e l’educazione in Italia (professore E. Tagl¡alatela).
Per i giovani (prof. C. R. Demichelis).
L’atteggiamento degli evangelici in quest’ora solenne di ricostruzione sociale (dottore A. Fasulo).
L’azione delle chiese evangeliche in rap-g’tq alle relazioni internazionali (sig. P.
vilacqua).
Il Congresso, inauguratosi la sera del 9 novembre nel Tempio Evangelico di piazza Cavour con un elevato discorso del sig. E. Giampiccoli, Moderatore della Chiesa Valdese, tiene le sue sedute regolari nel salone della R. Accademia Filarmonica Romana, in via Ripetta 105, e si chiuderà la sera del 12 novembre con una adunanza generale nel Tempio di via XX Settembre. I delegati presenti oltrepassano i 500.
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VITA ECCLESIASTICA E SPIRITUALE
IL CATTOLICISMO
A COSTANTINOPOLI
Fedele al principio che l’ateismo non è articolo di esportazione, la Francia ha sempre continuato a proclamarsi in Oriente protettrice delle popolazioni cattoliche del Levante. Così incoraggiò a stabilirsi a Costantinopoli, a Smirne, in Siria i preti e i frati che essa cacciava dal suo territorio. I quali non cessaiono di considerarsi francesi e di svolgere un’opera intensa di propaganda. Questo lavorio ha avuto, tra l’altro, per risultato, la creazione de) Grande Libano.
1 Tedeschi si resero conto di questo fatto, e l'ambasciatore Wangenheim all’inizio della guerra consigliò al Governo turco l'espulsione di tutti i religiosi francesi a Costantinopoli, c suggerì alla Porta di entrare in rapporti diretti con la Santa Sede Però la Santa Sede, fedele al principio che. durante la guerra nudasi dovesse innovare, lasciò sempre in sospeso la questione dei rapporti diretti. Oggi il Governo turco ha ri-Creso le trattative, senza ottenere o, almeno nora, alcun risultato. Nel frattempo le autorità francesi si giovano di ogni occasione per riaffermare il titolo di difensore dei cristiani di Oriente, al quale pretende sempre il Governo di Parigi, ma che nelle circostanze attuali della Turchia sembra un anacronismo privo di senso. Saprà il Vaticano, c avrà l’energia necessaria, per respingere le pretese francesi, oppure sacrificherà alle sue aspirazioni concordatarie gli interessi del cristianesimo orientale?
Non è possibile per ora prevederlo: il lavorio diplomatico attorno alla Segreteria di Stato è in questi giorni attivissimo, per quanto occulto c discreto...
VERSO L'UNITÀ DELLA
CHIESA ORTODOSSA?
Come la Delegazione apostolica, cosi anche il patriarcato greco ortodosso del Fanar si trova alla vigilia di gravi decisioni. Il capo della Chiesa ortodossa, I. B. Germano cercò con molta abilità di guadagnarsi il favore del Governo giovane turco; questa sua politica, seguita da tutta la nazione greca posta sotto il dominio ottomano, gli permise di superare momenti difficilissimi. Ma al momento dell’armistizio, cessate le paure e le preoccupazioni, fu un tolte generale contro il Patriarca che venne deposto; contemporaneamente Fanar ruppe ogni rapporto col Governo turco, proclamandosi centro nazionale autonomo, e giungendo fino a inalberare sulla sede patriarcale lo stendardo con l’aquila bizantina.
Oggi, dopo due anni di vacanza della sede patriarcale, si riparla della successione. Ma questo avvenimento dà luogo a dibattiti appassionati in tutto il mondo ellenico.
Dal 1453 il Patriarca greco di Costantinopoli è considerato funzionario ottomano, dipende direttamente dal Ministero dei culti, e la sua nomina è regolata da un’apposita legge. Oggi le autorità del Fanar 'intendono emanciparsi da ogni controllo delle autorità turche, però mentre gli ambienti ufficiali vorrebbero che il nuovo
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CRONACHE
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Patriarca avesse poteri c giurisdizione non oltre i confini attuali della Turchia, due partiti greci, il nazionale e il popolare, vorrebbero che il nuovo capo fosse veramente ecumenico, cioè estendesse la sua autorità su tutte le chiese greche ¿’Oriente, comprese quelle del regno ellenico. Il Governo di Atene appoggia questa corrente, come mezzo eccellente per realizzare l'unione almeno religiosa e morale di tutti i greci irredenti a quelli della madre patria.
Ma oltre la resistenza passiva degli ambienti gelosamente conservatori del Fanar, si oppone a questa corrente anche il Governo turco il quale, basandosi sui trattati, sulle leggi e sulle tradizioni precedenti. sostiene che il Patriarca còme funzionario ottomano,, deve essere suddito ottomano, e la sua autorità non potersi estendere oltre" i confini dell’impero. Infine un Patriarca ecumenico, per essere veramente tale, dovrebbe essere nominato da un Concilio ecumenico, al quale dovrebbero intervenire i patriarchi di Gerusalemme, Antiochia, /Messandria, Atene, dai rappresentanti le Chiese ortodosse serbe, rumene e russe; e non si vede come un tale Concilio sia possibile nelle condizioni attuali.
IL CLERO NELLA REPUBBLICA DEI SOVIETY
Sotto questo titolo Marcel Cachin, di ritorno dalla Russia, ha descritto nella Humanité le condizioni della Chiesa nella Repubblica dei Soviety russi.- Riassumiamo qui a titolo di documentazione quanto scrive il Cachin, che servirà a distruggere molte leggende; Inutile aggiungere che la valutazione e l’interpretazione dei fatti devono considerarsi come idee personali dell'illustre leader socialista francese, il quale, d’altronde, si occupa soltanto del lato esterno del problema religioso russo.
* • •
« La politica dei Soviety di fronte alle diverse chiese sj è ispirata alle idee tradizionali del socialismo che noi abbiamo le mille volte affermato nei nostri 'congressi e nella nostra propaganda.
« Il risultato ottenuto dopo tre anni non è privo di importanza. Senza dubbio i sociologi non mancheranno di ricordare giustamente che trattandosi del sentimento religioso l’esperienza deve essere prolungata. Tuttavìa numerosi indizi permettono di constatare fin d’ora che una saggia politica del governo operaio laggiù
ha trovato la soluzione pratica del problema.
« In Russia non è stata condotta alcuna campagna speciale contro le numerose religioni che si disputavano le anime dei fedeli. Si è lottato direttamente e vigorosamente contro i proprietari capitalisti, contro i militaristi; i politici borghesi e reazionari. Di fronte a clero ecco l’attitudine del nuovo governo: nello stesso tempo che si sono espropriati i grandi domini dei nobili, e dèi grandi proprietari terrieri, sono stati nazionalizzati anche, senza eccezione, gli immensi beni dell’alto clero e le terre dei conventi. Noi abbiamo visitato nei dintorni di Mosca l’antico magnifico dominio dell’arcivescovo di Mosca. Esso appartiene oggi al Soviet della capitale, il cui presidente è Kamcneff. Di questo dominio sono state fatte due parti: nella casa del vescovo si è istituita una scuola per fanciulli, che ora giuncano nel parco già riservato al riposo di quel prelato. Il resto della proprietà è divenuto una fattoria gestita cooperativisticamente, a pascolo, per alimentare i dispensari dei fanciulli di Mosca.
»Tutte le chiese sono state separate dallo Stato, c i ministri del culto non ricevono alcun compenso dallo Stato. Così pure l’insegnamento è sottratto a qualsiasi influenza clericale. Ma tutte le chiese sono rimaste aperte. A Mosca, secondo l'antico detto, se jic contano quaranta volte quaranta; ogni mattina per tempo, nel silenzio della città, le loro campane a carillon chiamano i fedeli agli uffici, così in ogni altra città la chiesa ortodossa si innalza con le sue cinque cupole colorate e dorate, sormontate dalla croce sulla mezzaluna, e alcuni agglomerati di diecimila anime possiedono ancora ben sedici chiese! Sontuosi tesori vi sono conservati da secoli. Questi tesori vi sono stati rispettati dopo essere stati inventariati; quelli dei conventi espropriati sono stati attribuiti all’amministrazione delle belle arti, ma nulla è stato asportato o danneggiato.
• L’idea direttrice della politica russa resterà la stessa: si lasceranno aperti i santuari finché vi saranno credenti che ne abbiano bisogno. Anche le manifestazioni pubbliche della religione nelle strade sono rispettate; le cappelle piene di iconi e di ceri ai crocicchi delle vie restano aperte. Vi sono perfino delle officine di operai credenti, come la grande fabbricarti’armi di Tuia, che hanno chiesto che fosse conservata nella fabbrica la cappella della Vergine coi suoi ceri accesi: i ceri seguitano
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ad ai dere per rispetto alle idee dei lavoratori antibolscevichi ivi occupati.
« Si sono costituiti dei Soviets di credenti ai quali il potere soviettista centrale assicura nella misura del possibile gli oggetti indispensabili per l’esercizio del culto; ciascun Soviet li ripartisce poi fra i suoi membri. Trattasi soprattutto della cera, del pane per la comunione e del vino per la messa, poiché gli ortodossi comunicano con tutte due le specie. Sebbene in Russia sia proibita qualunque bevanda alcoolica o il vino sia ormai del tutto scomparso, pure i Sovicty di credenti ricevono il vino che è riservato a loro e ai malati.
« Vi è a Mosca, alla porta del Kremlino, un santuario della Vergine molto rinomato, al quale da secoli si va in pellegrinaggio da ogni parte della santa Russia. Il santuario è restato aperto. Però dirimpetto ad esso è stata scolpita questa iscrizione: la religione è l’oppio del popolo. Ecco un tratto caratteristico del contegno dei rivoluzionari. Qualche tempo fa con gran pompa fu annunziata dai popi della città una manifestazione religiosa: si chiamavano i fedeli ad adorare il reliquiario di San Serafino, oggetto di particolarissima venerazione. I bolscevichi lasciarono fare liberamente la processione. Nel bel mezzo della festa pero fu aperta davanti alla folla la tomba delle reliquie. Essa non conteneva che paglia e cotone. Si presero fotografie e filrns cinematografiche, e fu divulgato con centinaia di migliaia di copie il racconto dell’incidente.
• La religione fu assai potente in Russia fino a questi ultimi anni. Gli osservatori più acuti affermano che la sua decadenza è ormai rapida. Di giorno in giorno essa perde terreno. Alcuni popi divengono anzi apologisti del governo dei Soviety, che dichiarano molto supcriore al precedente e aggiungono: ' Il sole della libertà che si è acceso sul mondo non si estinguerà. Se non noi, i nostri figli almeno vivranno liberi in una unione di fraterna uguaglianza ”. Questo è il linguaggio che tiene per esempio il pope Nitrograne Petroli il quale, d’altronde, pagò assai caro sotto il terrore bianco di Dcnikine la libertà di proposizioni così sovversive ».
IL MESSAGGIO DEL LORD-MA YOR DI CORK Il testò defunto lord-mayor di Cork, il 20 settembre, nel pomeriggio, ha dettato a sua sorella un lungo messaggio
ai suoi compatriotti, che riproduciamo qui nel testo (salvo due paragrafi che hanno un valore più propriamente politico) per l’interesse che desta questo straordinario caso, non interamente nuovo è ver<> negli annali della psicologia religiosa e • della agiografia, sebbene esso eccella per l’unione della esaltazione patriottica c del fervore religioso.
« In nome dei miei compagni prigionieri a Cork, c in mio nome personale, desidero esprimere agli irlandesi del mondo intero tutta la nostra gratitudine per l’aiuto prezioso che ci hanno prestato nelle nostre prove, facendo dire, secondo le nostre intenzioni, un gran numero di messe e di preghiere. Questo appoggio morale ci ha sostenuto, ne sono persuaso, in un modo sopranaturale. Sono già quaranta giorni che i miei compagni non hanno preso alcun nutrimento; come accade che io sia ancora in vita? Io non arrivo a spiegarmelo per mezzo di cause naturali. Dopo cinque giorni di digiuno c ventiquattro ore di viaggio io sono giunto a un grado di spossamento tale che fu impossibile alimentarmi per forza, tuttavia saranno domani quaranta giorni dacché io non avrò preso alcunché, e sebbene io sia in uno stato di debolezza estrema, tuttavia conservo il Sieno possesso delle mie facoltà. Io attri-uisco questa resistenza alla forza spirituale che attingo nella mia Comunione quotidiana c che mi dà inoltre qualche energia fìsica, come pure alle preghiere e alle messe ferventi celebrate alla mia intenzione. È chiaro che é la medesima forza che sostiene i miei compagni che digiunano da più tempo ancora. Io credo che Dio sia intervenuto direttamente a ritardare un poco la tragedia, per un suo arcano disegno. Io credo che non sia soltanto per salvarci che Egli è intervenuto, ma che, nella sua bontà, ha agito così neH’interessc dei nostri nemici...
« Noi siamo in pace con Dio c non vogliamo male ad alcuno; invoco la benedizione di Dio su tutti quelli che ci hanno aiutato con le loro preghiere. Io credo che Dio protegga il nostro paqge c che, per la sua volontà divina, una soluzione è prossima. Io sono convinto che noi impegniamo attualmente la nostra ultima battaglia per la libertà, e che Dio nella sua giustizia ci darà la vittoria completa e che il nostro paese riprenderà in un avvenire prossimo il suo luogo fra le nazioni del mondo ».
Quinto Tosatti.
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STUDI BIBLICI
XII.
UN CURIOSO VANGELO APOCRIFO
Molti racconti di storia evangelica,oltre i quattro che leggiamo nelMww» Testamento t furono scritti e divulgati anticamente nella chiesa cristiana; sia per pascere devotamente l’ingenua e insaziabile curiosità del popolo, sia per accreditare tra i fedeli come tradizionale e venerabile qualche pia credenza nata di fresco, ovvero anche contrastata dai teologi, nel fertile campo della fede idealizzatrice perenne delle persone e delle credenze sacre. Vari di quei racconti, germogliati la più parte in Oriente e scritti nella lingua greca, sono giunti con alterazioni e lacune fino a noi ; e dagli studiosi vengono designati con il nome ambiguo di « vangeli apocrifi ». La prima edizione critica dei testo greco, oppure latino, di quegli scritti, un tempo tanto letti e venerati, fu curata dall’insigne studioso tedesco C. Tischendorf, e pubblicata a Lipsia un mezzo secolo fa. Quella raccolta novera ventuno apocrifi ; ma poi furono trovati e stampati cospicui frammenti di altri; così che la devota letteratura popolare dell’antico cristianesimo si presenta agli studiosi con ampiezza bastevole a costituire un importante sussidio per la indagine storica delle dottrine e delle pratiche cristiane.
Nella raccolta predetta si legge per primo un apocrifo greco intitolato : « Nascita di Maria, la santa Madre di Dio, la gloriosissima Madre di Gesù Cristo ». Veramente dalla tradizione manoscritta il titolo originale, se mai vi fu, non resulta con certezza ; quindi si può accettare, sull'esempio della chiesa greca medievale, quello comune di « Protevangelo di Jacopo». Di questo apocrifo greco, conser
vato in più che cinquanta codici, furono trovati alcuni frammenti in un libro di papiro rinvenuto nel 1904 in Egitto, che vennero pubblicati dal p. E. Pistelli nel volume I (anno 1912) dei «Papiri della Società Italiana». Poiché tali frammenti chiamarono la sua attenzione di papirologo su di questo vangelo apocrifo, il prof. Pistelli s’indusse a studiarlo e a tradurlo in italiano per il colto pubblico; aggiungendo alla versione opportune notizie introduttive e brevi note fi). Giovandoci di questa prima versione italiana, condotta sul testo greco ricostituito dal Tischendorf, vogliamo dare un sunto di tale narrazione antichissima, meritevole d’essere conosciuta.
c • •
Come è scritto nelle storie delle dodici tribù d’Israele, c’era un uomo di nome Gioacchino, molto ricco, che portava doppie le sue .offerte. Ma un giorno gli fu detto : Non li è lecito di portare per il primo le tue offerte, poiché tu non hai generato figli in Israele. Gioacchino si addolorò avendo trovato nei registri delle dodici tribù che tutti i giusti avevano procreato in Israele ; e senza lasciarsi vedere dalla moglie si recò nel deserto ; piantò ivi la sua tenda e digiunò quaranta giorni e quaranta notti dicendo tra sé:
(r) Z/ Protevangelo di laeopo. Lanciano. Ca-rabba, 1919; pp. 124, L. 2; di questo lavoro del dotto padre Ermegildo Pistelli già si fece cenno, con meritata lode, nel nostro periodico, fascicolo di agosto (1920), p. 159 s.
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Non andrò a mangiare e a bere finché il Signore non mi abbia visitato. — Intanto Anna, sua moglie, piangeva la sua vedovanza, e la sua sterilità. Un giorno però si tolse la veste di lutto, si lavò il capo, indossò la veste di sposa e verso l’ora nona scese nel giardino a passeggiare. Sedè ai piedi di un alloro, e alzati gli occhi vide in essi un nido di passerotti; il che la mosse a lamentare la sua infecondità. Ma un angelo venne a dirle che diventerebbe madre e che in tutta la terra si parlerebbe della sua creatura. Infatti Gioacchino ritornò a lei ; e nel nono mese partorì una bimba, a cui pose nome Maria. Come ebbe un anno Gioacchino fece in casa un grande invito, e la presentò ai sacerdoti che la benedissero augurandole un nome celebrato in eterno. Compiuto il terzo anno Gioacchino e Anna, in adempimento della promessa fatta a Dio, condussero la loro figliuola al Tempio in offerta; il sacerdote la baciò, la benedisse, la fece sedere sul terzo scalino dell’altare; il Signore mandò la sua grazia su lei, ed essa danzò ai suoi piedi e tutta la casa d’Israele la amò. Maria stava nel tempio del Signore come una colomba domestica e prendeva il suo cibo dalla mano di un angelo.
Quando ebbe dodici anni, fu tenuto un consiglio da’ sacerdoti, per vedere che dovessero fare di lei ; affinchè non avesse a macchiare il santuario del Signore. E al sommo sacerdote entrato nel luogo Santissimo a interrogare il Signore, apparve un angelo dicendo : — Zaccaria, esci fuori e raduna quelli del popolo che sono vedovi ; portino ciascuno una verga, e a chi di loro il Signore mostrerà un prodigio, di questo Maria sarà sposa. — Uscirono i banditori per tutto il paese della Giudea, la tromba del Signore echeggiò e accorsero tutti i vedovi; tra quali, gettata l’ascia, anche Giuseppe. Il sommo sacerdote con le verghe di tutti entrò nel santuario e pregò; uscendo le rese a loro e non v’era in quelle alcun segno prodigioso, ma ecco che dall’ultima verga, presa da Giuseppe, uscì una colomba e si posò su) capo di questi. Ciò vedendo, il sacerdote gli disse di prendere la vergine de! Signore sotto la sua custodia. Giuseppe si schermì dicendo: — Ho figliuoli e son vecchio, mentre lei è una fanciulla; che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli d’Israele. — Se non che, ammonito dal sacerdote, la prese e le disse: — Ecco, ti ho ricevuta dal tempio del Signore, e ora ti lascio nella mia casa e me ne vado a lavorare alle mie costruzioni, e poi tornerò da te ; il Signore ti custodirà. —Avvenne che Maria, uscita con la secchia ad attingere acqua, udì una voce che diceva: — Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te, benedetta tu fra le donne. —. Guardatasi intorno con timore, tornò a casa ; si mise a sedere sul suo sgabello e prese a filare la porpora per un velo de) tempio; il quale lavoro a lei era stato dato dal sommo sacerdote. Mentre filava, un angelo del Signore stette davanti a lei e le disse: — Non aver paura, o Maria, poiché tu hai trovato grazia in faccia al Padrone di tutte le cose; e concepirai della sua parola. —
Dopo di che ella andò a visitare sua cugina Elisabetta e stette con lei tre mési : aveva sedici anni quando si avverarono questi misteri. Nel sesto mese fu trovata incinta da Giuseppe tornato da’.suoi lavori. Al suo rimprovero ella pianse e disse: — Sono pura e non conosco uomo. — Mentre pensava come dovesse comportarsi, un angelo apparve a istruirlo, e continuò a custodire Maria. Se non che uno scriba entrato in casa di Giuseppe e accortosi della gravidanza di Maria, denunciò la cosa al sommo sacerdote. Questi li fece chiamare e mosse loro forte rimprovero; non menò buona la loro risposta e disse: Io vi farò bere l’acqua della prova del Signore, e farà manifesti i vostri peccati ai vostri occhi. E presa l’acqua della prova la fece bere a Giuseppe, e lo mandò al monte ; e ne ritornò integro. La fece bere anche a Maria, e la mandò al monte; e ne ritornò integra. E tutto il popolo restò stupito che in loro non era apparso peccato. E Giuseppe riprese con sé Maria e lieto se ne tornò a casa.
Venne l’ordine dall’imperatore Augusto di fare il censimento di tutti gli abitanti di Betlemme della Giudea. Giuseppe diceva tra sé : — Come farò inscrivere questa fanciulla? Come mia moglie? Mi vergogno. Come mia figlia? Ma lo sanno tutti che non è mia figliuola. — Nondimeno sellò l’asina e vi fece sedere Maria; suo figlio conduceva l’asina per la cavezza, e Giuseppe li accompagnava. E quando furono a tre miglia, Giuseppe si voltò, e vide lei triste e disse tra sé : — Certo quel che è in lei la fa soflrire. Un’altra volta la riguardò, vide che rideva e le disse: — Maria, che hai, che vedo il tuo viso ora ridente ora mesto? Ella rispose: — Vedo due popoli, uno che piange e uno che gioisce. — Giunti a mezza strada Maria disse a Giuseppe: — Fammi scendere dall'asina, perchè quel che è in me mi fa forza per venire alia luce.— La fece scendere, e poiché il luogo era deserto la fece entrare in una grotta :• lasciò presso a
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lei i suoi figliuoli, e andò in cerca di una levatrice ebrea nella terra di Betlemme.
A questo punto il racconto fa parlare Giuseppe in persona prima così. — Io Giuseppe camminavo e non camminavo più; guardai la volta del cielo e la vidi immobile; guardai all'aere e vidi l’aere attonito e gli uccelli del cielo fermi ; guardai nella terra e vidi posata lì una scodella e degli sdraiati intorno e le loro mani nella scodella; e quelli che masticavano non masticavano più; e quelli che prendevano il cibo non lo alzavano più; e ciucili che lo portavano alla bocca non ce lo portavano più; ma i visi di tutti eran rivolti su in alto; ed ecco che delle pecore condotte al pascolo non andavano avanti ma stavano ferme, e il pastore alzava la mano per percuoterle con la verga, e la verga restò ferma in alto; e guardai la corrente del fiume, e vidi le bocche dei capretti li sull'acqua, e non bevevano. E in un momento tutte le cose ripresero i loro movimenti. — Con questa descrizione della immobilità repentina di tutta la natura, si vuole additare la solennità del momento in cui nacque Gesù miracolosamente.
Giuseppe incontrò una levatrice e la condusse alla grotta. Una nube luminosa ricopriva tutta la grotta; la nube si dissipò, e allora apparve nella grotta una gran luce; a |X>co a poco questa luce svanì fino al momento che il Bambino apparve e venne e prese la mammella da sua madre Maria. La levatrice uscita dalla grotta s’imbatti in Salome e le disse: — Nuovo miracolo ho da raccontarti : una vergine ha partorito e il suo seno è verginale. — Salome rispose: — Se non introdurrò il mio dito e non scruterò il «seno» di lei, certo non potrò credere che una vergine ha partorito. E la levatrice entrò e disse a Maria: —- Mettiti giù, c’è intorno a te una quistione non poco grave. — E Salome introdusse il dito, e mandò un urlo e disse: — Maledetta sia la mia empietà e la mia incredulità, che ho tentato il Dio vivente, ed ecco la mia mano presa dal fuoco si distacca da me! — S’inginocchiò e pregò Dio dicendo: — Rendimi ai miei poveri, poiché tu sai, o Signore,- che nel tuo nome io prestavo le mie cure, e la mia mercede la ricevevo da te. — Un angelo apparve e le disse: — Salome, ti ha ascoltato Colui che tu'to può ; accosta la tua mano al bambino e sollevalo, e sarà per te salute e gioia. — Così fece e così fu.
Giuseppe si preparava a partire di là quando arrivarono dei magi che dicevano : — Dove è il nato re de’Giudei? poiché abbiamo visto la sua stella in oriente e siamo venuti per
adorarlo. — Erode li chiamò e disse loro : — Andate e cercate, e se lo trovate, venite a dirmelo, affinchè anch’io vada e lo adori. E i magi guidati dalla stella andarono alla grotta, videro il bambino ; e trassero fuori dalla loro bisaccia dei doni, oro, incenso e mirra. Ed essendo stati avvertiti dall’angelo di non passare da Erode, per altra via se ne tornarono al lor paese.
Erode poi, accortosi che era stato burlato dai magi, infuriato mandò dei sicari, dicendo loro : — 1 bambini da due anni in giù, uccideteli. — E Maria saputo ciò prese il suo e lo pose in una mangiatoia di buoi. Ed Elisa-betta saputo che si cercava Giovanni, presolo sali sulla montagna é si guardava attorno dove nasconderlo; e non v’era alcun luogo. Allora disse a gran voce: — Monte di Dio, accogli una madre con il suo figliuolo ! — poiché Elisabetta non poteva più salire. E il monte subito si aprì e l’accolse. E vi penetrava una luce per loro; e un angelo li custodiva. Erode mandò da Zaccaria a dirgli : — Dove hai tu nascosto il tuo figliuolo? — Rispose : — Io sono un servo di Dio e sto sempre nel tempio del Signore; non so dove è il mio figliuolo. — Erode di nuovo mandò a dirgli : — Di’ la verità, sai che il tuo sangue è sotto la mia mano. — E Zaccaria rispose : — Io sono un martire di Dio se tu versi il mio sangue. — I sacerdoti andarono all’ora del saluto e non si fece loro incontro secondo il solito Zaccaria con la benedizione. Poiché tardava, furono presi da timore; ma unu di loro fattosi coraggio entrò e vide presso l’altare del sangue rappreso, e udì una voce che «liceva : — Zaccaria è stato ucciso, e il suo sangue non sarà cancellato finché non venga il suo vendicatore. — Ne diede notizia agli altri sacerdoti, i quali fecero risonare di gemiti le volte del tempio e si stracciarono da cima a fondo le vesti. Non trovarono.il corpo di Zaccaria, ma trovarono il sangue di lui diventato come pietra.
Lo seppero tutte le tribii e lo piansero tre giorni e tre notti. Io Jacopo — così testualmente scrive la conclusione — che ho Scritto questa storia, essendo avvenuti in Gerusalemme dei torbidi quando morì Erode, mi ritirai nel deserto finché questi torbidi a Gerusalemme furono cessati, glorificando il Signore Iddio che mi diede la grazia e la sapienza per scrivere questa storia.
Con questa conclusione l’autore vuol farsi credere un ebreo cristiano di Gerusalemme e contemporaneo dei mirabili eventi racconTf«—'ÌWr nìijniifT . * — tr--
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tati ; dato che sia stata scritta proprio da lui. Chi gli prestò fede pensò naturalmente a uno dei due apostoli nominati Jacopo; e ai più sembrò che si dovesse intendere Jacopo il minore, che presiedette alla chiesa ebreo-cristiana di Gerusalemme fin dopo l’anno 60.
'l'ale ipotesi è palesemente assurda ; e dobbiamo contentarci di dire, come osserva anche il Pistelli, che circa l’autore nulla sappiamo, neppure il nome. Anzi, non a uno bensì a più autori si deve attribuire questa narrazione come è pervenuta a noi. Adolfo Harnack stima che le tre parti, in cui si può distinguere il Protevangelo, siano diverse di autore, di origine e di tempo. Che che sia di questa ipotesi, una cosa è certa, che nel quarto secolo il Protevangelo si leggeva già tal quale l'abbiamo noi ed ha contribuito a stabilire nella chiesa cristiana la credenza alla verginità di Maria anche nel parto. Appunto questa credenza volle presentare come storicamente fondata chi narrò l’episodio della levatrice e dell’incredula Salome nella grotta di Betlemme. Se alla fede cristiana non si reca offesa con aggiunte, possiamo concedere al prof. Pistelli e ad altri che questo vangelo apocrifo divenne popolarissimo tra gli antichi cristiani anche perchè « nulla conteneva che potesse offendere l’ortodossia» (p. r8). Al tempo di Tertulliano, e anche molto dopo l’ortodossia teologica non implicava ancora la credenza alla verginità di Maria nel parto; come pare non fosse una bestemmia contro la fede cristiana al tempo di San Paolo il parlare di Cristo « nato da una donna normalmente» (Calali, IV, 4); se la frase pao-lina va intesa cosi.
Anche a far sorgere alcune feste del calendario cattolico contribuì questo vangelo apocrifo ; quale la < Natività » di Maria, la sua -Presentazione» al Tempio, nonché la festa di san Gioacchino e quella di sant’Anna. Queste tre ultime feste furono soppresse, come mal «documentate», dal papa san Pio quinto nel 1568 ; ma pochi anni dopo furono ristabilite per far piacere ai devoti piamente irritati. Il predetto decreto di soppressione
si voleva richiamarlo in vigore al tempo di Benedetto decimoquarto ; ma fu lasciato negli archivi vaticani per non turbare il devoto femmineo sesso del mondo gesuitico. Come dice anche il Pistelli, « si venne, per gradi, a questa singolare conclusione, che la Chiesa cattolica ha da una parte considerato e considera questo libro come un “apocrifo” privo di valore storico, dall’altra ne ha accettato tacitamente, cioè senza citarlo ufficialmente, alcuni fatti considerandoli come consacrati e accertati da una tradizione venerabile e antica » (p. 46).
Forse di x conclusioni singolari » nel « sacro deposito » vigilato dai teologi cattolici romani ce n’è più di una.
Alla moderna cultura importa ricercare, anzi che le questioni di teologia bizantina, le ispirazioni che, come accenna pure il Pistelli, dal Protevangelo trassero i nostri grandi artisti. Le figurazioni della vita di Maria dipinte da Giotto nella cappella degli Scrove-gni di Padova, dall’Orcagna in Orsanmichele e da Taddeo Gaddi nella cappella Castellani in Santa Croce a Firenze derivarono dalle narrazioni di quell’apocrifo divenute popolari. La stessa cosa si dica della Presentazione ai Tempio dipinta dal Tiziano, delle Nozze di Maria dipinte da Raffaello ; e di tante altre opere d’arte. In un musaico che è in Santa Maria Maggiore a Roma, si scorge pure Sa-lome con la mano inaridita. Anche ai fantastici racconti della fuga di Gesù in Egitto (dei quali il Pistelli dà in appendice un saggio tratto dall’apocrifo latino detto il « Pseudo Matteo ») si sono ispirati grandi artisti ; come il Correggio nel suo capolavoro, la « Madonna della scodella» che si ammira nella Galleria di Parma. E quando i nostri occhi si posano maravigliati sulle divine opere dell’arte italica ispirate dai racconti popolari della ingenua fede antica, non c’ importa più di sapere se tutto il Protevangelo sia privo di valore storico: è tutto immortale.
r. e p.
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POLITICA E STORIA ECCLESIASTICA
LIBERA CHIESA IN LIBERO STATO ( i )
Per l'autore di questo libro — di cui molti capitoli sono articoli già comparsi nella Re-vite des deux mondes — l’Europa libera è l’Europa quale è uscita dal Trattato di Versailles, anzi una Europa nella quale la Francia goda di una incontrastata egemonia politica ed economica. Secondo il Goyau « il trionfo del diritto per mezzo delle armi, nell'ultima guerra, ha cambiato la fisonomía del mondo... Nel dominio internazionale come in quello economico gli uomini tendono a liberarsi dalla concezione materialista dello struggle for life per sottomettere le loro relazioni all* idea suprema della giustizia ».
Molte convergenze esistono fra le aspirazioni che spingono le vecchie e nuove nazioni a formare una società, e le antiche dottrine dei canonisti cattolici sui rapporti tra i popoli. Reagendo contro delle teorie che furono opera e fonte di iniquità, l’umanità cristiana rompe con una falsa nozione della libertà uscita dalla filosofia del secolo xvin ; cosi pure con una falsa nozione della sovranità politica nata dal paganesimo del Rinascimento e dal neopaganesimo germanico, e viene a trovarsi d’accordo con una potenza intellettuale e morale che molti avevano da lungo tempo perduta di vista: la Chiesa romana.
Il libro del Goyau si propone di mostrare
(i) Georges Goyau, L’Église libre dans l’Europe libre. Paris. Perrin et C„ 1920 psg. 23S.
come la vecchia Chiesa è stata la precorritrice della nuova Europa, e che è vicina l’ora in cui il magistero pontificio e il pensiero cattolico chiedendo nuovamente al medioevo cristiano gli elementi del diritto delle genti, arrecheranno alla Società delle Nazioni quella forza che 4 insita nella luce e nella verità.
Questa la tesi del Goyau, che è d’altronde s sviluppata in maniera puramente superficiale e giornalistica, ben più che da pensatore e da storico.
Per dimostrarla il pamphlet (che a questa si riduce il libro, nonostante il tono pio e untuoso di cui fa pompa) afferma che gl’Imperi Centrali pesavano sulla Chiesa con un peso gravissimo: «essi talvolta si davano l’aria di proteggerla, ma i loro gesti lusinghieri presentavano delle catene, e le loro premure finivano con minacele».
Oggi di queste potenze non restano che le macerie; anche queste si stanno spazzando via, e le strade sono aperte alla Chiesa che non ha più ostacoli sul suo cammino. Le vittorie del mondo latino e anglosassone, e la preponderanza del diritto, hanno ad un tratto avvicinato a noi degli orizzonti lontani verso i quali la Chiesa si muoveva da gran tempo con silenzio e pazienza.
Secondo il Goyau l’apparente tenerezza che la Chiesa dimostrava verso la Monarchia austro-ungarica era un effetto della sua materna longanimità, e nasceva dalla speranza che l’Austria divenisse un giorno quello che avrebbe dovuto essere ; di fatto però tutta la politica ecclesiastica e internazionale della Monarchia era sostanzialmente anticattolica e
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4io
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perfino impediva l’intimo sviluppo delle coscienze religiose.
Gli episodi della politica antitrip! ¡cista del pontificato di Leone XIII, e l’opera del vescovo Strossmayer per la formazione della coscienza nazionale jugoslava, danno modo al Goyau di generalizzare, e di concludere nientemeno che la Monarchia austro-ungarica è stata distrutta dall’opera del clero, sotto la guida del Vaticano, che da un secolo conducevano la lotta contro la Monarchia.
La lotta tra i due organismi registrò una ultima apparente vittoria austriaca col veto contro il Cardinal Rampolla nel Conclave del 1903, ma in definitiva la vittoria è rimasta alla Chiesa. « Nell’ottobre 1918 — scrive testualmente il Goyau — nel momento in cui l'Austria stava per soccombere. Benedetto XV acclamava la resurrezione della Polonia, e in una lettera pubblica faceva voti 41 perchè fosse dato a tutte le nazionalità anche non cattoliche, precedentemente sottomesse alla Russia, di decidere da se stesse circa la loro propria sorte Ma non basta, aggiunge il Goyau : il 9 novembre tre giorni prima dell’armistizio tra Francia e Germania, Benedetto XV scriveva al Cardinal Gasparri : noi abbiamo dato recentemente istruzioni al nostro nunzio a Vienna di mettersi in amichevoli rapporti con le diverse nazionalità dello stato austro-ungarico che si sono costituite in stati indipendenti ; la Chiesa si adatta alle diverse forme di governo, e accetta senza difficoltà le legittime variazioni territoriali e politiche dei popoli».
A noi sembra veramente che queste affermazioni pontificie siano venute assai tardi, e non giustifichinogli entusiasmi del Goyau, il quale conclude solennemente: questo linguaggio rispondeva a tutte le tradizioni del passato romano: esso sorrideva alle promesse dell’avvenire europeo.
«Il gran vinto dell’ultima guerra è il Cesaropapismo russo e tedesco. Con la Monarchia danubiana in pezzi, la Germania a terra, la Russia in sfacelo, la Chiesa può guardare fidente i suoi nuovi destini. Essa cercava il mondo slavo, cercava ¡’Oriente: il germane-simo ingombrava le due vie. Eccola ora in faccia all’immensità slava, all’ingresso della quale la Polonia è la sua sentinella avanzata; e i suoi preti, i suoi fedeli sono attivi operai della vita pubblica in quei giovani stati slavi che ormai liberano l’accesso dei Balcani. Essa si prepara per l’unificazione delle Chiese, immortale sopravvivenza della defunta idea di cristianità, ed ecco al suo fianco, all’in fuori della sua influenza, questa stessa idea
si sforza di rivivere sotto il nome di Società delle Nazioni ; essa osserva, essa ascolta, essa è pronta a collegare l’avvenire e il passato non appena il presente lo permetterà. E mentre il ricordo di certe servitù le impedisce di piangere ciò che è morto, essa può sorridere al mondo nuovo, che, talora senza saperlo, pensa come essa, anzi senza volerlo nemmeno, parla come essa ».
Che veramente alcuni membri dei diversi cleri nazionali nei paesi dell’ex Monarchia abbiano avuto una parte notevole, specialmente negli ultimi due anni della guerra, nel movimento che ha condotto alla indipendenza nazionale, è fuori di dubbio, e noi stessi lo abbiamc più volte messo in rilievo in questa rivista. Ma è altrettanto certo che la più gran parte del clero fu fedele allo stato austroungarico almeno finché fu forte, non solò, ma che fu anzi una delle principali sue forze dì resistenza.
Il movimento per le autonomie nazionali — sia pure con l’adesione di parte del clero — non ebbe adatto il carattere religioso che il Goyau gli attribuisce, e ad esso, in ogni modo, fu totalmente estraneo il Vaticano, il quale soltanto si è limitato a seguire diplomatica-mente le varie fasi del conflitto europeo.
L’ ultimo capitolo del libro è dedicato a dimostrare la necessità che il Papa siaam-■ messo nella Lega delle Nazioni, e che- sia regolata internazionalmente la questione romana sotto gli auspici della Lega stessa.
Come nella questione sociale, così nei rapporti tra le nazioni, la salute consisterà, secondo il Goyau, nel rimettere in onore le teorie dei teologi medioevali e soprattutto di San Tommaso, che porteranno ad un diritto internazionale cristiano che consoliderà i vantaggi di una pace cosi duramente conquistata. « La pensée chrètienne dans la libre Europe est libre de reparler ».
Insonnia il libro del Goyau, che tanto si rallegra per la caduta del Cesaropapismo, finisce per concludere auspicando una universale teocrazia papale, della quale naturalmente la Francia sarebbe il braccio secolare: gesta Dei per francasi La giusta pace dì Versailles e la grande Polonia ne sono le premesse e condizioni intangibili.
Quinto Tosatti.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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IL CONCILIO VATICANO
Non è facile leggere dei libri di storia della Chiesa scritti da ecclesiastici, nei quali la necessaria intonazione apologetica, o anche soltanto la preoccupazione di non uscire dai confini dell’ortodossia, sia contenuta in modo che nulla tolga alla serietà critica.
L’abate Mourret. professore al seminario di San Sulpizio, nel suo recentissimo libro: Le Concile du Valicati (1) è riuscito nel compito difficile, dandoci una completa ricostruzione storica del Concilio Vaticano, corredata di importanti documenti inediti che egli ha tratto dagli archivi del Seminario di San Sulpizio e dalle carte personali del famoso vescovo di Orléans monsignor Dupanloup, che fu il leader della opposizione nel Concilio.
Il Mourret ia ogni pagina del suo libro, dopo avere esposto — del resto con molta obiettività e onestà — le lotte, i dissidi, i pettegolezzi perfino, che accompagnarono le varie fasi delle discussioni conciliari, esalta la Provvidenza divina che attraverso le miserie e contradizioni umane ha realizzato un suo piano per la salute della Chiesa e l’esaltazione della Cattedra di San Pietro. Il Mourret è naturalmente entusiasta di tutte le decisioni vaticane, sopratutto della definizione dell'infallibilità pontificia ; però é pieno non soltanto di rispetto, ma anzi di mal dissimulata simpatia, per la corrente d’opposizione che fu guidata dal Dupanloup e dallo Strossmayer. Questo rispetto e questa simpatia non sono soltanto rivolte alle qualità personali degli oppositori, ma giungono fino a giustificare le loro tesi. Nei piano della'Provvidenza la loro opposizione era forse necessaria per temperare gli eccessi degli entusiasti e dei fanatici adoratori dell’autorità papale, e le loro critiche sono servite a precisare e limitare la portata della infallibilità, che prima del Concilio, secondo il Mourret, si prestava a molti malintesi ed esagerazioni.
Una tesi che è sottintesa nel libro del Mourret è che l’infallibilità pontificia, in sé e per sé, non avesse oppositori ; soltanto le esagerazioni dei teologi più papisti del papa, e il timore che la definizione riuscisse inopportuna e di scandalo ai dissidenti della Chiesa cattolica, avrebbero spinto gli oppositori all’attacco contro la sua definizione dogmatica. Il che non ci sembra esatto.
Il Mourret — a nostro avviso — non ha
(1) F. Mourret, Le Concile du Vatican d'après des documenti inédits; Paris Bloud. et Gay, 1919 pag. 342.
abbastanza distinto il vero, profondo motivo degli oppositori, da quelli che furono gli espedienti e le armi tattiche di cui si servirono per impedire una definizione che essi avversavano anche nella sua stessa sostanza. Se la tesi del Mourret può essere vera per alcuni degli oppositori, come il Dupanloup, non lo é affatto per altri, quali lo Strossmayer, lo Héféle ed altri, che erano risolutamente contrari a quello che essi ritenevano un nuovo dogma, in contrasto con tutta la tradizione storica dell’antica Chiesa. Ora che la questione della infallibilità è per i cattolici definitivamente passata in giudicato, il Mourret pone una gran cura sulla hne del suo libro a precisare, a limitare in ogni modo l’estensione della definizione vaticana ; sembrerebbe quasi che la definizione, cosi come è uscita dal Concilio, sia per il Mourret un compromesso tra le opposte tendenze, mentre in realtà fu il trionfo schiacciante degli infallibilisti a oltranza, sia pure .COn quei temperamenti formai^ nella definitiva formula con cui è stata redatta, che lasciano adito alle sottili interpretazioni teologiche del Mourret. Se le sue distinzioni siano esatte da un punto di vista teologico, non è qui il caso di indagare; certamente dal punto di vista storico non c’è dubbio che il Concilio Vaticano segna il trionfo definitivo non soltanto dell’infallibilità pontificia nelle definizioni ex cathedra, ma di tutto l’accentramento e assolutismo della Curia romana. Dopo quanto è avvenuto, al Concilio, sembrano bene ingenui i timori del buon Cardinale Billio, il quale quando si cominciò a prospettare l'idea d’indire a Roma un concilio ecumenico, esclamava atterrito : « questi vescovi verranno qui, e metteranno sottosopra tulle le nostre congregazioni l ».
Mai timore fu più infondato, e mai la maggioranza di un’assemblea fu più docile e ub-diente. In realtà la vita e la divergenza nei dibattiti furono quasi esclusivamente portati dall’episcopato francese — diviso pro e contro l’infallibilità — e da quello dei paesi tedeschi quasi tutto compatto contro l'infallibilità. L’episcopato italiano e quello spagnuolo furono praticamente assenti. Ma i vescovi italiani portarono il gran peso del loro numero ; se invece che individualmente, i vescovi del Concilio avessero votato nazionalmente, forse i risultati sarebbero stati ben diversi.
In ogni modo il Concilio Vaticano può veramente chiamarsi l’ultimo concilio; e tale rimarrà anche se al Papa piacerà indirne degli altri, che non saranno che una coreografia o una rivista, ma non più certamente potranno considerarsi come un’assemblea deli-
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BILYCHNIS
berante. Nell’ultimo Concilio i vescovi, come coronamento di tutto un necessario processo storico compiutosi attraverso secoli di lotte, hanno solennemente abdicato ogni loro potere nelle mani di Colui che a Nicea non era che il primas inter pares : i più anzi compirono questo atto con l'ossequio e lo slancio che già dettarono a Tacito, a proposito del Senato romano prostrato dinanzi ai Cesari, la frase famosa: «.ruete in servilutem».
Che questo sentissero, sia pure oscuramente, i membri della minoranza oppositrice, io dimostra il turbamento da cui furon presi abbandonando precipitosamente il Concilio e partendo da Roma, anziché votare contro la ormai ineluttabile infallibilità.
È stato affermato durante il Concilio — e anche da alcuni eminenti prelati tra i quali monsignor Darboy arcivescovo di Parigi — che i lavori dell’assemblea si svolgessero in una atmosfera di coazione, sia pure in gran parte morale, che ne infirmavano radicalmente la necessaria libertà. Il Mourret pur deplorando onestamente alcune misure vessatorie a cui furono sottoposti i dibattiti dell’assemblea, non ammette che sostanzialmente sia stata intaccata la libertà dei lavori conciliari. Gran parte dei lettori di quanto egli stesso espone
nel suo libro saranno di ben differente avviso: che dire per esempio della violenta scenata e dei rimproveri acri che fece Pio IX dopo una seduta conciliare al Cardinal Guidi che si era opposto ad alcune formule proposte per la definizione della infallibilità pontificia, che al Guidi erano sembrate tanto esagerate da implicare non soltanto P infallibilità ex cathedra, ma addirittura l’infallibilità personale del Papa?
L’ottimismo cattolico del Mourret non vizia però il valore del suo libro,® anzi rende più vivace e personale la sua esposizione e ricostruzione storica.
Non è colpa del Mourret se non tutti i suoi lettori saranno egualmente edificati dal suo racconto; egli anzi ha fatto del suo meglio per riuscirvi, e perciò la sua coscienza di sacerdote sarà tranquilla.
Ma è certamente un merito che va riconosciuto al suo senso storico l’avere egli esposto le co§e in modo che il lettore, anche non eccessivamente versato nella storia della Chiesa, sia in condizione di potersi formare un proprio giudizio personale dopo aver letto il libro che egli ha dedicato a un argomento così delicato.
Quinto Tosato.
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P. Eberhardt, Religionskunde. Gotha, Porthos, pp. xii-242, 1920.
Tentativo assai originale ed interessante di sostituire alla solita storia delle religioni, prese ognuna per sé, nella loro contingenza particolare, e narrate nella esteriorità de! loro sviluppo storico-sociale, una storia della.religione, come forma suprema di vita dello spirito concretantesi nelle più diverse manifestazioni di tempo e di luogo, e cioè, appunto, nelle singole religioni. Queste pertanto sono considerate dall’autore come aventi ciascuna un proprio valore spirituale, che egli cerca di mettere in luce attraverso la caratterizzazione degli elementi fondamentali e della vita intima delle singole confessioni. Queste sono passate in rassegna nel seguente ordine: religioni primitive, religioni dcl-l'Estremo Oriente, indoiraniche, dello Oriente classico, israelitica, maomettana greca e romana, cristiana. Quest’ultima, occupa quasi la metà del libro; ma, come si può comprendere da quanto abbiamo detto, l’autore non ci dà una delle solite storie della Chiesa, ma uno schizzo e una storia della religiosità cristiana, o diciamo addirittura della religiosità occidentale, da S. Paolo fino alla filosofia ed al socialismo contemporaneo.
Non. quindi, testo scolastico, manuale, libro di consultazione, questo dell'Eberhardt, ma opera di orientamento e suggestione spirituale, la cui comprensione è resa più agevole da una introduzione sulla religione e i suoi elementi fondamentali
come l’intende l’autore. Essa è degna di esser letta e meditata da chiunque desidera arrivare ad una comprensione sintetica ed approfondita della religione e della sua vita storica, superando lo spezzettamento storicistico e l’evoluzionismo naturalistico che in questo campo di studi, ancor più che in altri, hanno dominato per tanto tempo e predominano tuttavia.
Luigi Salvatorelli.
T. Catani, Gli Ariani, romanzo storicoreligioso, Firenze, Lib. ed. Calasanziana, 1919. P- 324- L; 2.50.
Un romanzo proprio no, tutt’al più una semplice narrazione degli avvenimenti politico-religiosi deirarianesimo sotto una forma clic vorrebbe esser attraente, ma che non vi riesce per una semplice ragione, per mancanza di ‘arte! Se questa vi fosse si perdonerebbe tutto : errori storici, lungaggini, insulsaggini, ma... manca l’arte c l'interesse vicn meno, quindi, e la luce che dovrebbe illuminare gli avvenimenti è oscurata da nubi tenebrose.
La mentalità poi dell’A.è la solita dei semplicisti, i quali vedono il mondo tutto sotto il buon aspetto quando pensa e vede come essi ma quando pensa e vede tutt’al contrario, allora pensano che non lo faccia se non per ragioni di malvagità. Il movimento ariano è così un semplice movimento di qualche ambizioso a caccia di vescovati: l’opposizione ortodossa è tutta opera di santi, di puri, di grandi. Non suppone neppure l’A.
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BILYCHNIS
che uomini come Ario, Eusebio c<l altri potessero pensare, credere e lottare, come fecero, in buona fede! Egli mi fa ricordare quel buon domenicano che mi voleva convincere che la Riforma era dovuta tutta alla mala voglia di Lutero per una monaca!
Io credo che la migliore storia sia un romanzo e che il miglior romanzo storico sia storia, ma quando e l'una e l'altra sono fatti con senso ricostruttivo e con luce d’arte. Ora il Caiani negli Ariani non dà prova nè dell'uno, nè dell’altra: la sua opera per ciò non à valore alcuno.
G. Costa.
PJICO19GIA RELIGIOSA.
Th. Mainage, Les lémoins du renouveau catholique. Paris, G. Beauchcsne, 1919 p. 237 frs. 6.
Èjuna breve raccolta di io confessioni fatte all’A. del modo in cui son ritornati al cattolicismo alcuni dei principali confessori del suo recente rinnovamento. Il Sertillanges, che vi à fatto precedere una introduzione, dimostra l’opportunità della raccolta asserendo che le espressioni dei nuovi credenti possono essere utili a tutti per l’interesse che può destare il sentimento che vi manifestano, tanto da farne dei testimoni e degli apostoli.
Tra le confessioni ci sembra molto interessante quella di P. Claudel, e commovente nella sua brevità quella di Fr. Jam-mes.
Riassumendo, un lavoro che à lasua importanza più forse che apologetica, storica.
C. G. C.
Elifas Levi, Il libro degli Splendori, Todi, Casa editrice Atanor, 1920., p. 211, L. 12.
Vuol essere la rivelazione della sapienza segreta degli Ebrei, simboleggiata nel tempio che Salomone ideò e Hiram co-strusse, sapienza che Gesù conobbe ed insegnò a San Giovanni che, a sua volta, l’adombrò e la rivelò, insieme, nei geroglifici dell’Apocalissi.
Questa sapienza è la Cabala, che ha formato la filosofia occulta delle sette gnostiche del cristianesimo esoterico c, oggi, della Massoneria (I). Sono asserzioni difficilmente dimostrabili, e sulle quali non vai la pena d’insistere. Il libro del celebre occultista francese contiene la traduzione c la spiegazione della teogonia del Sohar esposta nella Sifra Zcniula: è un miscuglio indigesto e barocco di assurdità senza capo nè coda e di intuizioni panteistiche venute dall’oriente. Chi vuole edificarsi sui misteri profondi della barba bianca c della barba nera, legga pure questo libro.
A. T.
iHtófóftÀÉ REUGIONE
Ernst Michel, Der Weg zum Mythos-Vcrlegt bei Eugen Diederichs in Jena 1919. P- *39 ■
« La via verso il mito ■ è il titolo di un'altra opericciuola confusa e ingarbugliata di Ernesto Michel. Il filo conduttore lo si trova, aprendosi pazientemente il varco attraverso periodi folti di parole astratte e irti di aggettivi.
L’autore si propone di rispondere alla domanda: Come possiamo salvare il mistero? Egli polemizza dapprima con Nietzsche, che aveva voluto raggiungere il mistero sul terreno dell’individualismo, e, dopo aver presagito la decadenza del protestantesimo appunto per mancanza di misteri, si chiede se la soluzione offertaci dai Romantici, cioè il rifugio nel seno della Chiesa, può soddisfarci, sol perchè ivi il mistero è conservato e se non »splenda altrove una luce che mostri »yia via nuova. Egli crede di trovar la via della soluzione, in VVol fango Goethe.
Il tipo-uomo, datoci da! grande poeta tedesco, non è l’uomo geniale, in cui le forze naturali raggiungano il loro massimo sviluppo, il tipo gocttiano ha radici nella fede, ed ha perciò il suo punto d’appoggio al di fuori dell’io. Ma la metamorfosi del nocciolo della sua fede in sistema spirituale di verità si compie, mercè la dedizione religiosa alla realtà concreta. Il suo mistero è Val di qua stesso. Con Dio alle spalle, l'uomo procede nella realtà, e sol-
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RECENSIONI
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tanto in quest’atmosfera religiosa l'uomo diviene realtà, cioè sè stesso, cioè « personalità »; egli è sulla via di diventar simbolo. Mentre dalla sua fede il.poeta traeva l'incentivo a raggiungere la propria realtà e ad effettuarla nella concentrazione in sè e nel suo destino individuale, • come uniche forme veramente accessibili, maturava in lui l’uomo aspirante al suo più alto tipo: in lui e nell’opera sua si formava il mito del mistero umano.
Se gli atti della coscienza di sè cran diretti in Goethe ai fenomeni concreti del suo essere, si. volgono in Alfredo Mombert alla visione mitica di sè stesso, del suo io spirituale. Mombert trac da sè stesso artisticamente il mistero dell’uomo eterno.
Con ciò l’arte, rinata dallo spirito del mito, di nuovo riprende il suo più alto compito, quello di offrire all’anima umana l’Eterno, come mistero, c di ricongiungere l’umanità, ridotta ad atomi, nella visione generale della verità, in una comunità sacra. A. T.
Omero, Iliade, trad, e annotaz. di N. Festa. Palermo, R. Sandron, 1920, p. 380. L. io.
Un’altra traduzione Iliade, dirà il lettore, c per di più in prosa. È vero: le traduzioni sono troppe, ma dimostrano qualche cosa che è bene notare. Dimostrano l’incessante travaglio di interpre
tazione di un’opera che parla allo spirito moderno un linguaggio singolare, quasi eco lontana e indistinta d’una vita e d’un tempo che non è più; dimostrano il sub-bicttivq bisogno di rendersela più consona allo spirito nostro, di immedesimarla in noi per sentirla e gustarla. Insomma dimostrano che essa non è semplice e che quindi per capirla occorre penetrarla; le traduzioni sono le prove di questo perenne sforzo che i moderni fanno verso la maggior parte degli antichi con maggiore o minor godimento, a seconda del loro grado di... immortalità.
Inutile dire che questa traduzione del Festa è buona, perchè si sa chi è il Festa; vai meglio dire però che anche esso ci fa sentire come Omero non sia in prosa che si deve rendere, ma in poesia. In prosa riesce stucchevole più che mai e perfino antipatico.
Suol che non mi piace, nella traduzione uso della grafia greca nei nomi, che non dice perfettamente nulla al lettore profano e che spesso anzi indispone anche... il filologo. E un’altra volta dissi già eh non posso mandar giù quel Dia per Giove o Zeus che dir si voglia. In fatto di nomi sono come i nomi stessi, tradizionalista ed amo conservarli così come l’uso li conserva e come il gusto ama trovarli.
L’edizione è buona, adorna di disegni del Camiciotti non sempre felici, a mio modo di vedere, nitida nella stampa e corredata di brevi note. Temo però che nel suo complesso essa non renda un buon servizio alla cultura classica ed allontani anzi da Omero invece che avvicinarli quelli che lo conoscono poco e non nell’originale..
Giovanni Costai
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NUOVE PUBBLICAZIONI
I. Naayeni, Les assyro-chaldéens cl les arméniens massacrés par les Turcs, Paris, Bloud et Gay, 1920, p. 285.
E. Monticr, L’âme de France, Paris, Bloud et Gay, 1919, p. 278.'
Dir di questo libro è facilissimo, basta riportarne l’indice; eccolo: «La Fr. è femmina - La Fr. è vivente - La Fr. è bella - La Fr. è buona - La Fr. c nobile - La Fr. è coraggiosa - La Fr. ama la libertà - La Fr. è...franca - La Fr. è pia - La Fr. canta - La Fr. ride - La Fr. ama - La Fr. è laboriosa - La Fr. è artista - La Fr. è immortale ■.
Il testo c all’altezza di questo sommario, anche se non sia sempre all'altezza della logica, della perfetta correttezza dello stile e della precisione delle citazioni!
Una morale? un libro siffatto da noi purtroppo ecciterebbe il riso. E dico purtroppo, perchè vi sarebbe bisogno d’un’invcrsionc di egotismo nazionale nei due paesi. Che da noi si sentisse e pubblicasse quel che si sente e si pubblica in Francia c che in Francia si sentisse e si pubblicasse por qualche tempo almeno quel che si sente e si pubblica in Italia. Si può essere scettici quanto si vuole, gl’innamorati ed i credenti fanno sempre invidia!
V. Macchierò, Zagreus, studi sull'orfismo, Bari, G. Laterza, 1920, p. 272, L. 16,50.
A. Guzzo, I primi scritti di Kant, Napoli, G. Barca, 1920, p. 126. L. io.
G. Mugnicr, l~es « Racines » ; aux fils des paysans de France. Paris, Bloud et Gay, 1919. P- 103Ecco un altro libro in glorificazione della Fr.» ma di t ut l’altro valore che quello del Monticr. Questo dovrebbe c potrebbe essere imitato anche da noi. Si rivolge alle radici delle stirpe, ai contadini e, mentre attribuisce loro la massima parte del merito delle fortune nazionali, ne dimostra il valore per una ricostruzione del paese e della società avvenire. Sviscerando con sagacia e con vivacità le doti dei contadini e dimostrando come su di esse si può contare, perchè sono virtù fondamentali, FA. le chiama per dir cosi a raccolta, perchè producano il bene che innegabilmente debbono produrre. Naturalmente, il volumetto à intenti puramente cattolici e da noi si dovrebbe imitarlo con maggior senso di libertà c di indipendenza. Se non che, da noi nè... popolari, nè... impopolari pensano ad azioni e pubblicazioni fattivc!... Pensano a se stessi ed alle loro momentanee necessità politiche « con la veduta corta d'una spanna ! »
G. Costa, Diocleziano (Profili, n. 50). Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 72. L. 3.
C. Stango. Die Ethik Kanls. Zur Ein-führung in die kritik dcr praktischen Vcinunft, Leipzig, Dieterichischc Ver-Jagsbuchh. 1920, p. 129.
L. Blanchot, Les antécédents historiques du « je pense, done je suis », Paris, F. Alean, 1920, p. 325, írs. 10.
G. Calarco, Il sentimento religioso nel--l'anima del fanciullo, Catania, V. Giannetta 1920, p. 87.
J.me et J.n Tliaraud, Marrakeeh ou les seigneurs de TAlias, Paris, Plon-Nourrit e C.» p. 285, frs. 7.
Brevi ricordi della guerra marocchina del 1917 e interessanti narrazioni sulla vita e la storia dei Berberi dcll’Atlante, dove il feudalismo vive all’incirca come visse da noi un tpmpo. La lettura di questi libri vissuti è sempre utile a chi voglia vivere la storia nostra e pensare la vita e l’umanità al di là del nostro stretto cerchio di... europei o di uomini sedicenti civili e colli!
J. M. Peralta, Historia de las civilizaciones antiguas, Oriente, Grecia, Roma. Rosario, A. Alvarcz, 1919, p. 512.
J. M. Peralta, Historia de la civilización en la edad media, Rosario, A. Alvarcz, 1919, P- 33<>Non che in queste operette non vi sia molta buona volontà e molta recente informazione dei risultati degli studi, ma vi è accanto anche molta imperizia ne trattar la materia e molte infelicità di trascrizione di testi, molti errori c molto arruffio di notizie e di materia che guasta la linea sobria ed efficace del testo scolastico. Le figure, poi, sono tutto ciò che di peggio si può dare sia per la scelta c l’attribuzione dei monumenti, sia per la loro riproduzione e indicazione. Sotto ùucsto aspetto è forse migliore il 2® dei due volumetti, sebbene le illustrazioni siano, storicamente parlando, non di rado false.
L'Argentina à ancora da fare molta strada per avere dei buoni testi scolastici, se non à altri che questi'
(Continuo)
, Il Lettore.
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