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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
ANNOV :: FaSC. Vili. AGOSTO 1916
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 AGOSTO - 1916
DAL SOMMARIO: Giovanni Pioli: Marcel Hébert (con ritratto ed un autografo) - IVAN LlABOOKA: La tradizione bizantina nell’antica teologia russa - RAFFAELE CORSO: Rosari tibetani (con due figure) — G. BANCHETTI, P. A. GhIGNONI, U. JANNI : Il cristianesimo e la nostra guerra' (discussione) -Vincenzo Cavalleris: Salmo 121 - Tra Libri e Riviste: Etnografia religiosa (R. Corso); Rassegna di filosofia religiosa. VI (m.) - La GUERRA: 11 compito che spetterà ai maestri dopo la Buerra; L’opera dei « Friends » ; 11 nostro prossimo, il nemico;
clero delle chiese inglesi, l’esercito e la coscrizione obbligatòria; ecc. (Giov. Pioli) - “1914": Un focolare nel Belgio (Disegno di Raemaekers).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # #
------ Via Crescenzio, 2 - ROMA ------D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per 1‘Estero
— Via del Babuino, 107 - ROMA ---AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l'Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni in deposito presso la Libreria Ed. “ Bilychnis „
Via Crescenzio, 2 - ROMA.
[Novità]. E. ROBERTY, Pour l'Evangile et pour la France.
Pag. 132 ’ • ............... L. 2,65
[Novità]. Avec le Christ à travers la tourmente. Sermons d’un
pasteur brancardier. Pag. 127..........» 2,30
[Novità]. E. ROBERTY, Nos raisons d’espérer. Deux sermons. » 0,60 [Novità]. PAUL StaPFER, Ce qui est vrai toujours. Pag. 38. » 1 — [Novità]. G. BOISSONNAS, La Foi mise à l’épreuve, pendant
la guerre 1915. Discorsi religiosi. Pag. 223 . . . . . » 3,75 [Novità]. Romolo MuRRI, Il sangue e l’altare . ... . » 2 — ALFRED LOISY, Guerre et religion. Duexième éd. ...» 3 — JOHN WlÉNOT, Paroles françaises prononcées à l’Oratoire du
Louvre. Pagine 180 ............. » 2,50 PAUL STAPFER, Les leçons de la guerre. Pagine 180 . . . » 3,50 WlLFRED MONOD, Fers l’Évangile sous la nuée de guerre.
Courtes méditations pour commencer chaque semaine. Première et deuxième série. 2 volumi di 200 pp. ciascuno. . » 5,75 HENRY Barbier, L’Evangile et la Guerre....... > 0,50 E. DOUMERGUE, La Guerre, Dieu, la France. La France peutelle demander à Dieu la victoire? ........ > 0,30 H. BOIS, La Guerre et la . Bonne Conscience..» 0,65
Jean LaFON, Evangile et Patrie, Discours religieux. 11 1° vol.
di pag. 210 L. 3.25, il 29 di pag. 360 ...... > 3,75
[Novità]. Il 3° volume di pag. 230 ....... » 3,75 H. Monnier, W. Monod, C. Wagner, J.-E. Roberty, etc..
Pendant la Guerre. Discours prononcés à l’Oratoire et au
Foyer de l’âme à Paris. 13 volumetti di 100 pagine. Ciascuno ................................. » 1,25
LOUIS Trial, Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre
1914-1915. (Vol. di pag. 100) ......... » 1,25 G. Quadrotta, Il Papa, l’Italia e la Guerra..» 2 —
R. MURRI, La Croce e la Spada.......... » 0,95 A. TaGLIALATELA, I Sermoni della Guerra......» 3,50
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BILTOINIS
RIVIRA DI S1VDI RELIGIOSI
EDITADALLA FACOLTA DELIA SCVOCA TEOLOGICA BATTISTA
-g| ROMA-, Jg!
SOMMARIO:
Giovanni Pioli: Marcel Hébert............... pag. 85
Illustrazioni : Autografo di M. Hébert (pag. 88) - Ritratto di M. Hébert (tav. tra le p. 88-89)
Ivan Liabooka: La tradizione bizantina nell’antica teologia russa . > 104
Raffaele Corso: Rosari tibetani ............ »115
Illustrazione: Rosari tibetani (2 figure - tav. tra le p. 116-117)
IL CRISTIANESIMO E LA NOSTRA GUERRA:
Gius. Banchetti e P. A. Ghignoni: Critiche al pensiero di U. Janni. . . » 122
Ugo Janni: Replica ........................... » 125
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Vincenzo Cavalleris: Salmo 121..................... » 128
TRA LIBRI E RIVISTE:
Raffaele Corso : Etnografia religiosa (I) : La forza magica - Amuleti e ornamenti con simboli magici della Libia................ > 133
m. : Rassegna di filosofia religiosa (VI) : Filosofia e storia - Storia e storiografia - L'esperienza pura e la realtà storica - Filosofia e metodologia
- La realtà dei fatti storici - La filosofia e la sua storia - Storia della
filosofia........; ...................... » 135
G. Costa - S. Bridget: Varia (Il Cristianesimo nell’Africa romana - Le vie
di Roma - Le sens de la mort - ecc..) ................ » 141
LA GUERRA (Notizie, Voci, Documenti):
Illustrazione: "1914” - Un focolare nel Belgio (Disegno di L. Rae-maekers) - Tav. tra le p. 152-153.
Giovanni Pioli : Il compito che spetterà ai maèstri dopo la guerra . . . . ■
L’opera dei « Friends » ................. ....... »
Il nostro prossimo, il nemico..................... >
Il clero delle chiese inglesi, l’esercito e la coscrizione obbligatoria . .
L’umanità, la pace e la guerra .................... >
A f ascio ................................ >
l4ì ’50 »55 »57 »58
Cambio colle Riviste .......................... > 145
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............... > 151
Ciechi gloriosi ....................... •....... > 152
Libreria Editrice « Bilychnis » .................... > 155
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole). . . . 1,00
Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa: Impero romano e cristianesimo (con 3 tavole). . . . . 1,00
Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi....... 0,60
Luigi Salvatorelli : La storio del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile ...... 0,30
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l’anticristo nel Carmen apologelicum di Commodiano; II. Com-modiano doceta ?) . . . 0,30 ;
FurioLenzi: Di alcune medaglie religiose del iv secolo (con 1 tavola e 4 disegni) ........ 0,30
Furio Lenzi : L’autocefalia della Chiesa di Satana (con 11 illustrazioni). . 0,50
F. Fornari: Inumazione e cremazione (con 6 illustrazioni)...............0,30
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro............0,30
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del-1’«Odissea» ...... 0,30
C. Rostan: L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide» .......... 0,50
Alfredo Tagliatetela: Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ......... 0,30
F. Biondolillo : La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno). . . ». 0,30
F. Biondolillo: Per te religiosità di F. Petrarca (Con 1 tavola) . . . . . 0,30
Giosuè Satetiello: Il misticismo di Caterina da Siena ^con 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Satetiello: L’umanesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante ....... 0,30
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti ......... 1 —
A. W. Müller: Agostino Favoroni e te teologia di Lutero ....... 0,30
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes .......... 0,80
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal; IL Voltaire giudice dei « Pensieri » del Pascal ; III. Tre fedi: Montaigne, Pascal Alfred, di Vigny) con 2 tavole...... 0,50 T. Neal : Maine de Biran, 0,30 F. Rubbiani : Mazzini e
Gioberti ........ 0,50 Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) ....... 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano : Là rinascita dell’anima ....... 0,30
Angelo Gambaro: Crisi contemporanea. . . . . 0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo .......... 0,30
R. Murri : La religióne nel-l’insegnamento pubblico in Italia........ 0,40
Ed. Tagliatetela : Morale e
Religione ....... 1 — Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50 A. Tagliatetela: Il sogno
di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20 G. Luzzi : L’opera Spenceriana.......... 0,15
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
R. Wigley: L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) ......... 0,50
! James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola . . . ....... 0,30
I G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa ......... 0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Sa-landra)......... 1 — ¡Mario Rossi: Razze, Religioni c Stato in Italia secondo un libro tedesco e secondo l’ultimo censimento ......... 0,60
D. G.: Verso il conclave . 0.15 E. Rutili : Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli .......... 0,90
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi......... 0,15
Paolo Orano : Gesù e te guerra......... 0,30
1 Edoardo Giretti : Perchè sono per te guerra. . . 0,20
Romolo Murri : L’individuo e te Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ...... 0,40
Paolo Tucci: La guerra nelle grandi parole di Gesù.......... 1,00
Paolo Orano: Il Papa a Congresso ....... 0,50
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MARCEL HÉBERT
« [Cato] nunquam recta fecit ut lacere vide-■ retur, sed quia aliter faute non poterai ».
(Velleio Patercolo).
ja della pagine più spirituali della filosofia di Bergson — che io sentii leggere religiosamente perfino in una « Chiesa Etica » di Londra — è quella in cui l’eminente psicologo analizza i caràtteri della vera libertà morale, che non consiste nel Jare quello che si vuole, ma nel volere — profondamente, intensamente, con tutto l’io — quello che si fa: nell'essere tiranneggiati, anziché dalle cose, dall’io profondo, che ci rende schiavi per elevarci alla suprema libertà e associarci al volere divino. « Molti
vivono e muoiono senza aver conosciuto la vera libertà... Gli atti liberi sono rari, anche in persone che più hanno l’abitudine dell’introspezione e della autocritica... Noi siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intiera, quando ne sono l’espressione, quando hanno con essa quella rassomiglianza indefinibile che talvolta si trova tra l’artista e la sua opera... ».
Il: « la verità vi farà liberi », del Vangelo e di Bergson riceve la controprova della sua verità, dalla realtà non meno profonda del suo contrario: « la verità vi farà schiavi ».
Tutto ciò che Marcel Hébert, nella sua travagliata vita di 64 anni, piena di opere e di parole, fece, sofferse, volle, fu l’espressione di un’augusta volontà tirannica, che non gli lasciò la libertà di tergiversare, di tacere, di « ménager » la sua condotta: Che lo rese suo schiavo: schiavo della verità e della bontà: « Aliter facete non poterat ». Egli era preformato e predestinato a render testimonianza alla luce.
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BILYCHNIS
E molti, amici della prima o dell’ultim’ora, dovettero a lui di riconoscere, come in una delle sue più fedeli incarnazioni, la fisionomia genuina di quell’Artista, che si agita tra la polvere terrestre per suscitare dei figli di Dio, e spesso non riesce che a produrre delle caricature, delle non-coscienze, delle amoralità. Marcel Hébert, sintesi delle più nobili qualità di mente e di cuore dell’anima francese — come molti giornali han fatto rilevare—era anzitutto un nobile, armonico tipo dell’umanità: e come tale, molti di noi ha conciliato con la natura umana e con la vita.
L’annunzio della scomparsa di Marcel Hébert dalla scena terrena fu dato ai suoi amici con questa partecipazione:
«Siete pregato di assistere alla cremazióne di Marcel Hébert
ex-Direttore del Collegio Fénelon ex-Professore dell’università di Bruxelles
morto a Parigi il 12 febbraio 1916, nell’età di 64 anni. Essa avrà luogo martedì 15 corrente alle ore 3 p. m., al Monumento Crematorio del Cimitero « Pèrè-Lachaise ».
Il testamento di Marcel Hébert, da lui confidato all’eminente suo amico Alberto Houtin che ne ha curata la fedele esecuzione, non conteneva che disposizioni per il temporale: con esso lasciava erede di tutto il suo l’Ospedale e la Biblioteca di Bar-le-Duc, la cittadina della Lorena, non lontana dalla patria di Jeanne d’Arc come egli si compiaceva di ricordare, in cui aveva sortito i natali nel 1851. Il suo testamento spirituale era stato già pubblicato nel numero di marzo 1914 della rivista Coenobium: e l’espressione che espose in esso e in una successiva recensione sulla stessa rivista, delle sue idee sulla « vita futura, » gli valse parecchie domande di spiegazione da parte dei suoi amici, a cui egli rispose con un articolo sulla « Vita futura » sul Coenobium giugno-luglio 1915, e poi ulteriormente con un articolo « En marge du Phédon », pubblicato postumo nel numero di gennaio-febbraio 1916 della stessa rivista. La parola espérons che riempie questi articoli, ritorna nelle disposizioni da lui date per le sue esequie, e fedelmente eseguite:
« È mia intenzione di essere cremato. L’iscrizione sulla placca, al Père-Lachaise, sarà:
Marcel Hébert
Ex-direttore del Collegio Fénelon
1851-19....
In spe.
Voglio che il pastore Wilfred Monod... o il rabbino Lévy... o un qualunque altro libero-credente pronunzi qualche parola a questa cerimonia, per attestare che, pur senza aderire al protestantesimo liberale o ad altre confessioni, io non ho voluto una cremazione materialista, e che io muoio credendo e sperando ».
Possiamo aggiungere/che negli ultimi suoi giorni M. Hébert stava meditando un altro articolo sulla teoria dell’« immortalità condizionata » o « condizionalismo ».
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MARCEL HÉBERT
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Così, egli poteva, al tramonto di una vita piena, ripetere le parole che aveva scritto dieci anni prima nella sua introduzione al Le Divin:
« Persuaso che il progresso della scienza pone il problema di Dio (e della Vita futura) in termini nuovi, eccomi ad esprimere ciò che credo di potere e dovere, dopo una vita intiera consacrata a questo, studio... ».
* * *
Due persone sarebbero, più che chiunque altro, autorizzate a scrivere questo accenno biografico di Marcel Hébert: i due suoi eminenti amici ed « in passione socii » ai quali la « critica biblica » e la « critica storico-religiosa » debbono altrettanto quanto a lui la « critica filosofica », cioè Alfredo Loisy ed Alberto Houtin: e dopo di essi, colui di cui l’Hébert e il Loisy furono discepoli e l’Houtin amico, il tosi leader del rinnovamento religioso in Francia, l’Abbé Duchesne. Tocca invece ad un umile amico dell’ultim'ora di commemorarlo qui per gli amici e gli ammiratori italiani, facendo eco a quello che discepoli e devoti ne hanno scritto su giornali e riviste francesi, e utilizzando il mirabile discorso tenuto dal Pastore W. Monod alle esequie del defunto, e più largamente, le preziose notizie contenute nelle pagine commoventi nella loro eloquente semplicità storica della Histoire du Modernismo Catholique (1), scritta dall’illustre amico Albert Houtin, alle cui private informazioni sull’argomento, tanto devo.
♦ ♦ ♦
Dopo aver compiuto i suoi studi teologici nel seminario di San Sulpizio a Parigi, in cui era stato l’allievo prediletto dell’Hogan, teologo di spirito liberale, l’Hébert fu ordinato prete nel 1876, e ripetitore di filosofia nel collegio Fénelon. Educatore eminente, dotato di fermezza, tatto e delicatezza, egli divenne per quei giovani padre e madre insieme e precettore: e l'influenza che esercitò sui loro spiriti non doveva più cancellarsi: essi ne restarono soggiogati per sempre e tutta la loro vita ne rimase consacrata. Ecco un brano di una lettera che, alla vigilia della sua fatale operazione chirurgica nello scorso febbraio, gli scriveva uno scrittore, già suo discepolo: « ...Tutti quelli che vi hanno avvicinato sentono ciò che un vostro amico esprimeva con le parole: 'Voi siete il diamante della mia vita’. Aver meritato la vostra amicizia significa essere stati migliorati, essere stati fecondati per sempre: significa portare in se stesso, come un ideale troppo lontano, il desiderio di essere un giorno, alla sua volta, con la purezza della vita, con lo sforzo verso il vero, un esempio anche per gli altri e un seme di progresso...
« Voi non siete di quelli a cui si osi dire: ‘ Coraggio! ’. Se io fossi vicino a voi, mi contenterei di abbracciarvi silenziosamente, cercando io stesso il conforto nella vòstra serenità... ».
(1) Paris: presso l’autore, 18. Rue Cuvier V, lire cinque.
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Marcel Hébert (Giugno 1907)
(I9I6-VIII)
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MARCEL HÉBERT
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Durante le sue lezioni, e più ancora, fuori delle ore consacrate allo studio, nelle mille occasioni d’incontro Che sono offerte dalla convivenza nella stessa famiglia elettiva, M. Hébert nulla trascurava per formare insieme l’intelligenza e la coscienza dei suoi giovani amici, che vivendo immersi nella vita febbrile della più grande fucina d’idee e nel campo sperimentale di nuovi tentativi sociali, e appartenendo a famiglie d’industriali, finanzieri, alti funzionari, professionisti, uomini politici, avevano sempre qualche avvenimento da commentare, qualche opera 0 qualche nome da discutere, qualche problema dà risolvere. Col metodo socratico dell’interrogazione, egli li aiutava a scendere in fondo alla propria ragione e alla propria coscienza, mostrando loro tutti gli aspetti dei diversi problemi filosofici, e le ragioni che lo facevano propendere verso l’una e l’altra soluzione, e riconducendo poi sempre la conversazione, con un giro più o meno lungo ai problemi morali e sociali, cioè aH’imcww. Poiché M. Hébert mai perse di vista, pure attraverso le nebbie e le tenebre della ragione ragionante, il faro che splende sempre luminoso nella profondità sacra della coscienza e del sentimento; ed egli credette sempre fermamente in un ideale di bene, nel progresso verso una maggiore giustizia e bontà, e vide l’umanità marciare verso i suoi destini immortali attraverso tutti gli ostacoli. E non contento della direzione intellettuale e morale, egli conduceva i suoi giovani amici a dissetarsi alla sorgente stessa del vero e del bene, ponendoli a contatto con la vita, con le sue lezioni, con le sue emozioni più Sane, nella Conferenza di San Vincenzo di Paolo, questo anello di congiunzione fra i diseredati della vita e i privilegiati, che compie in parte nelle nazioni cattoliche la funzione esercitata in Inghilterra e altrove dai Setllements e altre simili istituzioni.
Divenuto ormai noto per la sodezza e profondità della sua cultura, specie filosofica, fu invitato dall’Abbé Duchesne a collaborare al suo nuovo Bulletin critique, per la recensione dei libri di filosofia: ciò che lo espose di già ad osservazioni dell’autorità ecclesiastica, specie per il suo penchant verso là filosofia di Kant. Intanto, dal 1882 la sua fede in un Dio Padre, personale, e nella Provvidenza, veniva sempre più scossa dai suoi studi, e forse più ancora dalla sua esperienza, e ad essa si andava sostituendo quella nella « Legge morale » e nella « Legge e orientazione idealizza-trice dell’attività universale »: e se il suo istinto filosofico non lo sospinse più speditamente verso le conclusioni a cui giunse più tardi, ciò fu a causa dell’ostacolo frapposto dall’insegnamento positivo cattolico dal quale i suoi studi non l’avevano ancora liberato, specie la fede nella « risurrezione corporea di Gesù », che stava per lui garante della solidità del sistema cristiano ortodosso.
Furono i suoi discepoli da una parte con le loro acute e incalzanti obbiezioni che mettevano a nudo tutta là portata « non-cristiana » della sua filosofia, e dall’altra la luce critica gettata dal suo amico Duchesne sul racconto evangelico della « Risurrezione », ad accelerare l’evoluzione del suo spirito. Si aggiunga la vista del mercantilismo, del lusso, della cupidigia, di tanti preti, fra i più ortodossi, che scosse la sua fede nella santità della Chiesa, nello stesso tempo che la vista del male fisico e morale nel Mondo gli faceva rigettare l’antinomia fondamentale di Dio e del Mondo, del finito e dell’infinito, per avviarlo definitivamente verso il monismo evoluzionista.
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Eppure egli rimase e potè in perfetta coscienza restare ancora per più anni nella Chiesa e nel clero, anzi accettare nel 1895 la promozione a Direttore del Collegio Fénelon; più ancora, quando l’attuale arcivescovo di Parigi, Cardinal Amette fu innalzato all’episcopato, fu egli che ebbe l’onore di far da garante della sua ortodossia. La spiegazione di questo atteggiamento è che l'Hébert aveva scoperto la funzione pedagogica del domma e dei riti cattolici, nei quali era stato condotto a non ravvisare che un sistema poetico di simboli imperfetti e di allegorie devote e morali, la cui efficacia pratica gli sembrava esser tutta la loro ragion d’essere e la loro giustificazione. Accennata nelle opere anteriori (Tomismo e Kantismo; L’idea di Dio in Voltaire e Renan) questa concezione appare più netta, per quanto in forma velata, nel dialogo ch’egli immagina tra Platone e Darwin, pubblicato nel 1893 sugli Annales de philosophie chrétienne, specie nelle ultime parole:
« Sub diversis speciebus « Signis tantum et non rebus i Laleni res eximiae
« Io trasalii. Scorgevo in queste parole l’espressione completa del mio pensiero più intimo: apparenze, segni, simboli che velano la misteriosa realtà mentre ci adattano ad essa, c’impregnano di essa, ci fanno vivere di essa; non è questo uno degli elementi essenziali d’ogni fede e d’ogni filosofia ? ».
In un’opera successiva: Il sentimento religioso nell’arte di Riccardo Wagner, egli tornò ad accentuare questo concetto, insinuato contemporaneamente in una serie di articoli anonimi apparsi sul Bullelin de V Union pour V Action morale tra cui, le « Lettere a un giovane sul Vangelo di Tolstoi » (1895-96); le « Lettere a un giovane sugli studi filosofici »; « Vittima delle formule », « Lettere a un giovane sul simbolismo religioso » (1896-97).
Intanto un libro veniva alla luce e segnava epoca: L’Esquisse d'une Philosophie de la Rcligion d’après la psycitologie et l’hisloire, di Augusto Sabatier, decano della facoltà di teologia protestante di Parigi, il cui simbolismo, specie attraverso le confutazioni che ne fecero gli scrittori cattolici, penetrò largamente anche fra il clero cattolico. L’eco più vivo di esso nel campo cattolico furono i Souvenirs d’Assise, scritti da Marcel Hébert al ritorno di un pellegrinaggio fatto ad Assisi durante le vacanze autunnali del 1899.
<■: Vorresti tu risuscitare in te» — è la lezione del vecchio ulivo alla cui ombra si è assiso il pellegrino, triste di nulla provare dell’ebbrezza mistica, della gioia, degli entusiasmi dei giullari di Dio — « l’ingenua semplicità e gli Slanci di Francesco e di Clara? Tu non lo puoi, tu non lo potrai più mai. Seicento anni sono trascorsi; il mondo ha progredito, la scienza ha penetrato coi suoi raggi i corpi più opachi, ha dissipato i miraggi, ha fatto svanire le leggende ed i miti. Non piangere, mio fratello; contempla come Francesco la divina natura. Vedi? Anche del nostro tronco liscio e regolare..., sotto i raggi implacabili del sole, non restano che brandelli di scorza e alcune radici che appena aderiscono al suolo... Ma nulla di meno, noi continuiamo a dare agli uomini le nostre foglie delicate e i nostri frutti sì dolci.
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MARCEL HÉBERT
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Fa anche tu lo stesso, povero fratello umano. Che il sole divino che tu chiami Scienza, Ragione, riduca pure in frammenti con la sua energia irresistibile, le tue deboli idee e i tuoi piccoli sistemi, per quanto ti siano cari, comodi, in apparenza sì indispensabili: non te ne affliggere, continua a dare all’Umanità i tuoi fiori e i tuoi frutti ». Io dissi tra me: « Fratello Olivo ha ragione ».
Nel dialogo immaginario che segue con un frate cappuccino liberale, il simbolismo dell’Hébert si precisa vieppiù: « ... Frate Elia ammetteva gli stessi miti di San Francesco, eppure le loro vite furono tanto differenti! È l’anima vivente... che forma la bontà e la bellezza dei miti interpretandoli. E quando essa non riesce più a ritrovarsi e riconoscersi in un mito, e a servirsene come mezzo di autosuggestione, essa lo lascia e ne crea degli altri... ». « Noi ne abbiamo abbastanza di questo Dio infinitamente giusto che punirebbe le colpe fino alla quarta generazione e si permetterebbe tutti gli arbitri, tutte le parzialità; di questo Dio infinitamente buono che torturerebbe per tutta l’eternità coloro che non l’hanno amato... ». «Se per esempio noi impiegassimo al posto dell’immagine popolare quella stoica, e se invece di parlare di un Dio personale, noi parlassimo della legge eterna dietro la quale la bellézza, la bontà, la giustizia, si realizzano nel mondo, la preghiera non sarebbe più la supplica di un mendicante interessato, bensì lo sforzo energico accompagnato da parole e da voti per questa realizzazione del Bene...». «Il Dio Gendarme che viene predicato nel catechismo si adatta a dei selvaggi, ma non già ad esseri liberi... Io non sono punto agnostico, poiché affermo il Divino: ma che cos’è questo Divino? La concezione che io ne formulo è imperfetta e subordinata alla mia costituzione fisica e intellettuale; nè potrei io trovare meglio l’assoluto e il definitivo nel Cristo e nella Chiesa che lo rappresenta e continua. La verità si trova, è vero, nel Cristo e nella Chiesa, ma soltanto nell’orientazione generale che vien data al pensiero e all'attività; manca ancora di adattare questa direzione alle condizioni scientifiche, constatate, della realtà»...
« Non togliamo all’Umanità quei mezzi, per quanto umili, per quanto imperfetti, che l'aiutano a realizzarne alcuni tratti. A coloro che li accettano macchinalmente, per pura abitudine, o senza comprenderli, spieghiamo il vero senso, l'alto significato morale dei dommi, delle cerimonie che ci vengono dal Cristo. Il loro contenuto ideale, credetemelo, non è vicino ad esaurirsi: io posso quindi, anzi .devo, farne uso, senza che mi si accusi d’ipocrisia. D’altra parte, se io ho fede nel Vangelo, ho anche fede nella Ragione, e saluto da lungi quel giorno in cui le scoperte della critica e delle scienze naturali saranno tanto volgarizzate, che la Chiesa ne terrà conto nelle formule del suo insegnamento... Compito della religione è di alimentare nelle anime il senso dell’ideale, di ciò che deve essere; della scienza di farei conoscere chiaramente le esigenze della realtà; individuo di rendersi padrone cosciente di queste due forze, di unirle, di comporle fra loro, e di vivere secondo la loro risultante... Giacché nessun progresso si realizza, nulla si ottiene che per mezzo dell’individuo; e d’altra parte... il progresso non può venire imposto dal di fuori e di viva forza, ma esso deve venire dal di dentro ».
Si noti in questa pagina profonda e delicata insieme, la nota di preoccupazione — che ci ricorda quella del Padre Tyrrell — per la umile « fede dei milioni ». Giac-
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chè, il simbolismo dell’Hébert aveva un’origine pratica e filantropica, oltreché umana. Egli amava le turbe, e nulla avrebbe osato che potesse sottrarre l’appoggio anche di un fil d'erba, al loro spirito, in cerca, a suo modo, di elevazione e di ideale.
Anche negli ultimi mesi della sua vita, questa preoccupazione lo accompagnava costantemente, e gli faceva scrivere, ad es., nel suo articolo « Sur la vie future »: « Io non esito per un istante a riconoscere che questa « speranza » (in una vita futura) è molto più facile e più dolce a formulare quando si ammette un Dio personale: « Padre io affido il mio spirito fra le tue mani! ». Che coloro i quali han bisogno di questo simbolo per acquistare praticamente coscienza del Divino e per unirsi ad,esso efficacemente, si guardino bene dal contrariare, per un vantaggio problematico, il loro temperamento immaginativo. Io mi rivolgo solo a quelli che, per un motivo o per l’altro, non credono all'esistenza di un Dio personale, pur senza professare i dommi del materialismo.,. ».
Egli stesso mi diceva, in una delle mie ultime visite — che non mancavo mai di rendergli nei miei passaggi per Parigi, dopo aver goduto per un anno della sua intima amicizia — a proposito del problema pedagogico: « Non c’è che dire: il problema dell’educazione morale dei fanciulli è molto semplificato e agevolato dal simbolo di Dio Padre e Legislatore. Come farebbe senza di esso la comune delle madri e dei maestri? Che cosa abbiam noi da sostituire con eguale efficacia didattica e pratica? ». E a me che replicavo, abbozzando un sistema di educazione a base di senso, di dignità personale e di rispetto e di simpatia per gli altri uomini, di identificazione eoi loro sentimenti, dolori, gioie, ecc., egli osservava con accento velato di mestizia: « So bene: è questo il nostro metodo: ma è necessario ancora farne l’esperimento su larga scala: e l’umanità non è ancora preparata...».
L’Houtin fa opportunamente rilevare (opera citata) la coincidenza fra alcuni pensieri e frasi del « discorso di frate Olivo » deU’Hebert, e quelli della nota conversazione con Tolstoi narrata dal Minocchi, e più, un passo del Santo di Fogazzaro verosimilmente ispirato dai Souvenirs d’Assise.
I Souvenirs ¿’Assise furono pubblicati anonimi da un amico dell’Hébert e distribuiti assai cautamente e in numero limitato: precauzione necessaria, ma non sufficiente. Un collèga dell’Hébert riuscì a procurarsene una copia, e la fece trasmettere al Card. Richard. È l’episodio fosco, e talora infame, che non è mancato quasi mai di accompagnare la storia dei dénouements modernisti delle ultime « persecuzioni cristiane ». « Il Cardinale mi trattò con una delicatezza di cui gli sono profondamente grato » — mi diceva ancora dieci anni dopo con emozione, l’amico equanime e incapace di amarezze personali. — «Egli volle che io avessi tutto l’agio di rientrare nella mia coscienza ed esaminare le idee da me espresse, e decidermi fra esse e la mia posizione: e comunque, volle salvaguardare il mio prestigio e il mio decoro, permettendomi di continuare nel mio ufficio per tutto l’anno scolastico, e rimettendosi alla mia coscienza quanto al continuare,© no, nella celebrazione della messa ».
Il momento critico era giunto nella vita di M. Hébert. Egli toccava ormai il suo cinquantesimo anno: la sua fama andava sempre più crescendo, e gli assicurava un avvenire e una carriera: nei trattenimenti di coltura a cui egli invitava col-
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leghi ed amici e in cui su tutte le questioni di metafisica e di morale, di arte, di storia e preistoria e di questioni sociali egli portava il contributo della sua non meno vasta ed eclettica che soda e geniale coltura, e della sua personalità seducente e completa, egli era circondato da personalità quali D’Hulst, Batiffol, Vignot, Ac-kermann, Duchesne, de Saussure: inoltre, il suo Collegio Fénelon, sua famiglia già da ventidue anni, che lo legava a tante altre centinaia di figli adottivi che ora a lui rimiravano come ad amico e padre del loro spirito, si poneva fra la sua coscienza e la sua volontà, con quella forza che la paternità adottiva esercita, specie su chi ha sacrificato ad essa i vincoli e le gioie di una famiglia propria. Ma l'Hébert « ali-ter facere non poterai »: era schiavo del suo io profondo. Egli diede le sue dimissioni nel luglio 1901, e poi, cinque mesi dopo, quando la bufera si addensava più cupa per le mene degli ortodossi, scrisse semplicamente all’arcivescovo: « Io dichiaro nuovamente il mio attaccamento alle idee contenute nei Souvenirs d’Assise: io so per esperienza che molte coscienze ne hanno bisogno, e che esse solo permettono loro di .rimanere nella Chiesa ».
Sospeso dalla celebrazione della Messa, inabilitato a funzioni ecclesiastiche, egli credette giunto il momento di esporre per intiero la sua posizione religiosa, e nel luglio 1902 pubblicò sulla Revue de Métaphysique et de Morale uno studio sulla « personalità divina » (completato nel numero di marzo 1903) in cui criticava vivacemente le prove tradizionali dell’esistenza di un Dio personale, come quelle che riescono a dar vita « all’ultimo idolo, contro il quale il nostro spirito, messo in guardia da tante riflessioni ed esperienze, deve protestare». «È in nome di questa metafora eretta in realtà » — egli scriveva — « che si giunge ad arrogarsi il diritto di accaparrare l’Assoluto, e di esserne non più solo i testimoni, ma i rappresentanti muniti di pieni poteri. E’ in nome di Dio che si dommatizza, si legifera, s’inceppa lo slancio dello spirito verso il progresso. Non si tratta qui già di romperla con le forme religiose oggettive, tradizionali; il Vangelo, la Chiesa, sono sorgenti d’acqua viva, a cui gli uccelli del cielo potranno sempre dissetarsi... Ma si tratta d'impedire che queste forme divengano feticci... di chiamare lealmente l'immagine, immagine, la leggenda, leggenda; e di lasciare ognuno libero di simboleggiare, secondo il suo temporamento, il suo senso religioso, senza attaccare al rito e alla formula altra importanza, che quella di mezzi più o meno efficaci di divenire migliori ».
Nel settembre seguente, égli fece pubblicare sulle Revue Blanche i suoi Souvenirs d'Assise, e poi, risoluto di decidere nettamente la sua situazione, fece consultare il Padre Lepidi sulla speranza che gli restasse o meno, di una conciliazione fra il suo punto di vista e l’insegnamento della Chiesa.
La risposta negativa che ricevette gl’indicò nettamente quale fosse il suo dovere: egli lo compì nel maggio 1903, dopo aver dato qualche spiegazione del suo atto sul Chrétien Français: « ...Io non mi considero affatto come un « incredulo » poiché ho una fede profonda nel valore obbiettivo della coscienza, della ragione e del sentimento religioso »... « La lealtà e la logica m'impongono di rientrare nelle fila anziché risalire sulla cattedra. Ma se io prendo la « cazzuola » ciò non sarà per tentare vanamente di mascherare i crepacci che si allargano di giorno ih giorno dei templi del passato, bensì per aiutare a costruire la casa del popolo ».
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♦ » »
L’esodo di Maree! Hébert, ricordiamolo, avveniva sotto il pontificato di Leone XIII, e quattro anni prima che l’Enciclica Pascendi di Pio X inaugurasse la persecuzione sistematica del Modernismo: l’Hébert fu quindi un precursore ed un faro luminoso, al cui esempio e alla cui luce non pochi attinsero una visione più chiara del loro penoso dovere, e la forza per compierlo. Chè anche per l’Hébert, la via alla luce fu quella della croce: « Ad lucem, per crucem ».
Egli stesso, parecchi anni dopo, così mi confidava le sue esperienze penose di quel trapasso alla vita laicale. « Quando nei mesi che precedettero il mio esodo dal clero, volgevo ad amici e conoscenti che m’incoraggiavano al passo decisivo do manda di consiglio sul modo di compiere, dà laico, un lavorò economicamente utile, la risposta generale era: « Voi non avete che a deporre prima quest’abito, e rientrare nella vita civile: dopo ciò) non resterà che l’imbarazzo della scelta ». Ma quando io ebbi deposto l'abito, e fui rientrato nella vita civile, e richiesi-quegli stessi che prima mi avevano incoraggiato ed offerta anche la loro assistenza, di agevolarmi in qualche modo il raggiungimento di una modesta posizione, allora la risposta era... che il mio passato rendeva assai delicata e difficile qualunque presentazione, e che forse, se avessi ritenuto l'abito talare...». E a queste ultime parole l’accento di M. Hébert si velò, non di amarezza, ma di tristezza e di compassione. « Ed ora », — così continuò— «se dopo la parentesi di Bruxelles, ho potuto tornare a Parigi, ai miei amici, ai miei ricordi, ai miei studi, sapete voi a chi lo devo? Sapete qual’è il lavoro giornaliero con cui mi guadagno il diritto di potere nelle ore del pomeriggio dedicarmi alla coltura del mio spirito e ad un lavoro consono alla mia vocazione? Volete vedere che cosa mi assicura il diritto di vivere in conformità alla mia coscienza? Ecco!». E in così dire, sollevò da uno scaffale al suo fianco un grosso libro mastro e lo posò ed aperse sul suo scrittoio. « E’ ad un mio antico discepolo, ora ricco industriale, che io debbo di potermi, con un lavoro giornaliero di contabilità, che mi occupa la mattinata, guadagnarmi la vita, modestamente ma decorosamente. Se non fosse stato per lui... ».
Infatti, se non fosse stato per la devozione di questo suo antico discepolo-che ne sarebbe avvenuto di M. Hébert? Il pensiero corre con raccapriccio all’episodio accennato dall’Houtin, nella sua Histoire du Modernismo Catholique, della fine dell’illustre Padre Ermoni ex. Lazzarista, morto in un ospedale in seguito alle privazioni della sua nuova vita.
Infatti, M. Hébert, idealista impenitente e spirito disinteressato, non avrebbe saputo chiedere al suo lavoro intellettuale diretto alla investigazione dei supremi problemi dello spirito, di divenire pane per il suo corpo. Egli che non disdegnò di divenire modesto contabile nella metà della sua giornata, prodigava poi con la generosità e munificenza del gran signore i risultati del suo lavoro intellettuale fatto nell'altra metà. La sua collaborazione mensile al giornale socialista Le Peu-ple di Bruxelles, nella quale, con una semplicità, chiarezza ed incanto incomparabile si proponeva di far penetrare nelle masse popolari, specie nel socialismo « un
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po’ di sentimento religioso, sotto tutte le forme » fu intieramente gratuita. I suoi corsi all'«Università libera» di Bruxelles, fra cui, «la Crisi religiosa al principio del sec. xx », ed: « Equivoci e malintesi nella maniera di porre il problema religioso », non erano in alcun modo compensati, eccetto un tenue indennizzo annuo per acquisto di libri; se egli parlava e scriveva era perchè « aliter tacere non poterai ».
A Bruxelles, egli si era recato dopo deposto l'abito talare, per evitare attriti ed emozioni che in quei primi tempi gli sarebbero riusciti estremamente penosi, e vi rimase circa cinque anni godendo di una simpatica e calda ospitalità. La piccola stanza che egli abitò nel quartiere di Sainte-Gudule divenne presto un focolare di luce e calore: vi s’incontravano poeti, artisti, scienziati, filosofi, capi del socialismo belga quali un Verhaeren, un Munier, un Capart, un Rutot, un Errerà, un Vandervelde.
La sua attività, oltre a quelle accennate, si esplicò nella collaborazione alla Revue de Belgique ed alla Revue de V Università de Bruxelles, e nella pubblicazione delle sue due opere fondamentali: L’Evolulion de la foi catholique (Paris, Alcan. 1915), e: Le divin, experiences et hypothèses (Paris, Alcan, 1907) delle quali daremo un cenno più sotto. Al suo ritorno a Parigi dove lo reclamavano i suoi vecchi amici, e dove passò il resto della sua vita presso un’amata sorella, egli pubblicò altre due opere: l'una sul Prammatismo di cui fece un’esposizione e una critica chiara e penetrante, assai apprezzata da William James, e l’altra sulla Forma idealista del sentimento religioso; oltre a ricerche sulla preistoria, sulla storia e archeologia religiosa nella Revue des Etudes anciennes, e articoli su problemi di filosofìa religiosa, pubblicati in massima parte sulla nota rivista internazionale Coenobium, di Lugano, alla quale, forse presago della sua prossima fine, volle consegnare quale ultimo legato, la sua fede nell’immortalità. E lo stesso rimase fino all’ultimo. Nel suo studio luminoso al Boulevard Arago, 99, nel quale tanti pomeriggi indimenticabili ho io trascorso (1) e tante visite gli ho reso, nei miei frequenti passaggi per la capitale francese, ho sempre ritrovato lo stesso elemento variopinto di filosofi e di artisti, di operai sociali e di rinnovatori religiosi, di giovani ex-alunni e di canuti amici: tulli venivano ad attingere al focolare inestinguibile di serenità, di spiritualità, di bellezza morale, la forza di riconciliarsi con l’umanità e con la vita, o di amarla operosamente ancora di più. Per illustrare il suo fascino, mi si permetta di prendere a prestito da uno dei suoi più fedeli ex-discepoli ed amico — il quale volle che lo accompagnasse in un pellegrinaggio artistico in Grecia — un ritratto che trova riscontro in tanti altri, tracciati da altri amici e discepoli sulla stampa francese: « Il suo temperamento artistico era d’una estrema ricchezza: assai raffinato e illuminato da una coltura sommamente estesa e precisa. Egli amava appassionatamente tutte le forme dell’arte, antica, classica e moderna; la plastica, la pittura, l’architettura, l’arte decorativa e la musica avevano nella sua vita un posto considerevole. La sua erudizione artistica era prodigiosa. Egli aveva visitato minutamente l’Italia, il Belgio, l’Olanda
(1) Ricordo specialmente quello in cui riprodusse a mia edificazione il • Miracolo di San Gennaro», già eseguito inappuntabilmente alla «Casa del Popolo» a Bruxelles.
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e la Francia; conosceva un po’ l’Inghilterra e un po’ meno la Germania. Non vi è villaggio in cui sia passato, ove non abbia ricercato qualche antico ricordo, o dove non abbia fatto qualche scoperta. Questa erudizione, della quale egli faceva profittare sì largamente gli amici, era una cosa vivente: egli non separò mai la scienza dalla realtà, l’idèa dalla vita. Il menomo oggetto, una circostanza banale, era per lui materia per esercitare il suo pensiero, che non funzionava mai a vuoto, ma prendeva sempre il suo punto d’appoggio su dati positivi. Il suo bisogno di filosofare era sempre teso ed universale. Esso aveva la sua sorgente nella simpatia generosa che gl’ispiravano tutte le cose, in un bisogno di estenderla incessantemente e di elevarla su di se stessa. Egli fu ne! senso più esatto, un tipo perfetto di umanista francese.
« Ma egli è stato anche un centro incomparabile d’influenza sociale: un focolare di vita intellettuale e morale, al quale per più di un quarto di secolo numerosi amici son venuti ad attingere. La giustizia sociale, l’amore del popolo, lo preoccuparono incessantemente; egli non fu membro di alcun partito socialista, ma amò tutte le forme sincere del socialismo, e cercò di far penetrare in esso l’ideale di cui egli viveva.
«Egli fu infine l’amico il più sicuro, il più leale, il più fedele, il più affettuoso e delicato. Mólte pene egli addolcì, molti risollevò, e corroborò più d’una volontà incerta. Egli ha creato una vera società d’amicizia, i cui legami e il cui spirito sopravviveranno alla sua morte ».
Eppure, sotto tanta serenità artistica e soavità d’amicizia, non bisogna credere che M. Hébert non abbia sofferto delle opportunità sottrattegli dalle sue vicende di influire su di un più* gran numero di anime, e non abbia sanguinato per gli strappi dolorosi e la perdita dèlie « gioie delicate, squisite, della sensibilità » religiosa. « Ma » — egli mi diceva un giorno a reciproco conforto, e scriveva più tardi sul Coenobium — « una donna amata teneramente può perdere tutto ad un tratto la sua bellezza fisica, senza che per questo si cessi d’amarla, e d'amare sempre la medesima realtà: talvolta anzi, amarla meglio, più profondamente, più puramente. Nello stesso modo, quando una volta le illusioni dell'immaginazione sono cadute, si stima e si ama ancora di più la natura spirituale dell’ Umanità che, per esprimere e soddisfare le sue tendenze, ha saputo creare i miti sublimi del « Padre Celeste» e del «Cristo»... Quali esigenze intransigenti di giustizia e di amore, quali risorse per un avvenire terreno e ultraterreno non manifesta l’invenzione di dommi quali la « Redenzione» e 1’« Eucaristia»!... Quando si è riusciti a comprendere questo, quando si è posseduta questa realtà, è egli più possibile di sentirsi l’anima vuota o disperata?».
E in altra occasione mi scriveva:
« Che cosa avremmo potuto fare che non possiamo ora fare? La nostra voce può ora giungere, per mezzo delle riviste, a un altro elemento a cui prima non giungeva, e non meno preparato a riceverla: e il pulpito da cui ora parliamo ha il prestigio che viene dall’esempio di fedeltà ai principi professati ».
E indefessamente, dalla tribuna delle riviste, la sua voce si levò: « Io lavoro del mio meglio: » — mi scriveva pochi mesi prima della sua morte — « è il mio grande conforto in mezzo agli orrori attuali ». E rispondendo a una mia domanda
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sulle idee da lui espresse sul Coenobium relativamente alla vita futura, diceva fra altro: « No: le mie credenze sulla vita futura non sono per nulla cambiate. Io non sono spiritualista, ma solo idealista. Del resto, lo spiritualismo non è falso che per ragione delle immagini che esso adopra, e non già nel suo fóndo: ciò che ho cercato di dimostrare distaccando dal concetto di « Dio » quello del « Divino ». E mi rinviava per schiarimenti a passi delle sue diverse opere.
« Negli ultimi giorni della sua vita » — mi scrive un suo intimo amico — « egli mi parlava della Provvidenza con gran sentimento di fede. Egli credeva al « provvidenziale », ma non certamente al miracoloso: e questa « provvidenza » era per lui d’un ordine generale. Egli mi ripeteva: « La Provvidenza! Sotto questa parola qualche cosa vi deve essere: una realtà c’è. Ma quale?». E alla vigilia della sua operazione fatale egli mi diceva: «Mi rimetto alla Provvidenza ». D’altra parte al suo vecchio amico prof. Ménégoz scriveva dalla clinica, l’antivigilia dell’operazione: « Io penserò spesso a voi e alle nostre comuni aspirazioni verso la « Vera vita ».
La fede nel « divino », l’aspirazione verso la « vera vita » hanno così suggellato questa grande vita cristiana', sono state il testamento lasciato a tutti i suoi amici.
* * «
Dèlia filosofia religiosa di Marcel Hébert non è possibile dare più che un cenno al termine di queste notizie biografiche: e in ciò ci limiteremo alle due sue opere fondamentali sopra citate, cioè Le Divin e L’evolution de la foi cathoUque, ed alle sue ultime idee su: La Vie Future. In generale — con le parole di Félix Sartiaux — «la filosofia di M. Hérbert si riannoda, per l’intermediario di Renan, con il quale il suo pensiero ebbe molti tratti comuni, con la scuola eclettica. Benché inclinasse verso il Prammatismo, si ricusò sempre di disconoscere il valore positivo della conoscenza intellettuale. Egli credeva ad una specie di « energia spirituale » analoga alla «forza vitale» di Bergson, insieme intellettuale e sensitiva; ed era per lui essenziale che non fosse di essa sagrificato nè l’aspetto affettivo, nè quello razionale, che senza interruzione crea, sotto la figura di miti estetici e filosofici, nuove forme sempre più perfette. Le caratteristiche del suo spirito filosofico sono la finezza, la varietà, la moderazione, la ripugnanza ad accettare i quadri d’un sistema. Nulla più l’irritava che l’intolleranza, l'esclusivismo, l’esagerazione che falsano il pensiero».
L’intento del volume L’EvolutiondelaFoi Catholique— lavoro insieme storico, filosofico e teològico — era di: « Sforzarsi di comprendere come la fede cattolica si sia formata e Come l’organismo cattolico potrà ancora sopravvivere, ma— non meno che il Buddismo e il Confucianismo, più vecchi di cinque secoli — senza conservare alcuna autorità effettiva su tutto ciò che pensa, che agisce e che progredisce nell’umanità. Sforzarsi di penetrare il vero senso di queste forme del passato, sceverare ciò che esse racchiudono di buono ed efficace,... senza perdere un atomo di ciò che l’Umanità ha sì penosamente acquistato, e incorporare nel progresso attuale tutto ciò che essa ha potuto conquistare nelle sue esperienze anteriori. Noi restiamo, così, fedeli alla grande legge d’evoluzione, la quale non ammette pause
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nè creazioni assolute nel mondo psichico più che in quello della vita fisica ». Le conclusioni che si distaccano dal grosso volume portano in testa il motto a lui sì caro: « Nulla rei fit scissura: signi tantum fit fractura ».
«...L’umanità sentirà sempre il bisogno d’eccitamento, d’esaltamento e d’entusiasmo, nel suo sforzo spesso sì penoso, verso il meglio: sempre essa avrà bisogno di educazione morale seria e metodica. Ed è appunto perchè l’umanità aveva incarnato le più alte aspirazioni della sua coscienza nei dommi cristiani, che questi miti esercitarono su di essa una profonda suggestione morale. I nostri padri vi si sono ingannati, ed hanno preso dei metodi per verità obbiettive: ma anche ora che i metodi han perso d’efficacia, il bisogno sussiste sempre, e occorre soddisfarlo: altrimenti ci esporremmo a vedere le vecchie forme perpetuarsi indefinitamente, e produrre terribili reazioni. Poiché il prete non ha più da insegnare verità soprannaturali ai fanciulli, il suo compito speciale a loro riguardo è finito: ma quanto alla disciplina morale che nello stesso tempo egli inculcava, spetta al padre e alla madre di comunicarla ai loro figli con pazienza e perseveranza. Non si distrugge se non quello che si sostituisce con qualche altra cosa, e qualche altra cosa migliore... ». « Il gran progresso realizzato ai nostri giorni è di non confondere più il sentimento religioso, cioè il sentimento dell'infinito, dell’ideale, del perfetto, con il mito monoteistico in cui esso è incarnato. Il monoteismo, cioè la condensazione del perfetto in un solo essere cosciente, è un'ipotesi irrefutabile nei suoi termini stessi-ma che va ad infrangersi contro l’obbiezione insolubile dell’esistenza del male, di tanti orrori e torture, in questo mondo che questo Dio avrebbe creato.
« Invece, la perfezione ci appare piuttosto come un ideale, come la legge dell’essere nella sua evoluzione; ogni individuo contiene, un principio interno inesauribile di perfezionamento, di creazione maravigliosa del meglio: è questo che forma la dignità della natura umana, e che c’ispira rispetto per essa— Il sentimento del perfetto ci ricollega all'evoluzione universale—, agli altri uomini, organi come noi del progresso: e si comprende che cosa possa significare l’espressione: «religione dell’avvenire »....
« I più coscienti fra i socialisti sono precisamente quelli che più temono di vedere il loro sistema ridotto alle proporzioni di una « questione di stomaco », e si rifiutano assolutamente di lasciarlo così atrofizzare.
« Ora, se la coscienza cristiana altro non fu che la coscienza umana distaccatasi ulteriormente dalla dominazione delle forze fisiche e dal politeismo che ne era il prodotto, la coscienza moderna deve realizzare uno sforzo e un progresso non meno difficile, non meno prodigioso. Si tratta di estrarre dalla vecchia immagine...ciò che essa conteneva di vero, cioè la fede nel Bene, nell’ideale, e di salvaguardare vivente, giuliva ed efficace questa fede, pur rinunziando alla sua immagine, sopravvivenza della vecchia idolatria, superstizione introdotta insieme a molte altre nel Cristianesimo attraverso lo spirito orientale— ».
Dell’analisi profonda e densa di cui si compone il volume che seguì a distanza di due anni: Le Divin: expériences et hypothèses, non è possibile in poche linee dare un riassunto, se questo non fosse il concetto che egli stesso esprimeva così: « Io vivo della vita materiale senza comprendere ciò che è la materia, lo spazio, la forza, e
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senza credermi obbligato ad essere atomista o monadista. Così io posso vivere della vita religiosa considerando la realtà sub specie perfecti, senza avere la minima pretesa di formulare una teoria, o anche un'ipotesi, su quello che sia m sè questo Perfetto ».
Ne citeremo invece alcuni tratti, tolti specialmente dalla « Conclusione » del volume, in cui raccoglie in sintesi gli elementi elaborati nelle analisi fatte.
Le idee espresse nel volume precedente, specie quelle che appaiono nel saggio datone, vengono in questo volume ribadite e ampiamente illustrate. Ecco, ad esempio, ciò che dice in una nota (pag. 141): « Attiro l’attenzione sulla distinzione che corre fra una sofferenza moderata, utile, che può esser chiamata sofferenza-stimolante, e quella che può chiamarsi sofferenza-tortura ». Quelli che desiderano di ben comprendere questa distinzione, invece di seppellirsi fra i libri, vadano a fare un giro in un ospedale di fanciulli incurabili, di alienati, di cancerosi. Tutto quello che io potessi aggiungere su questo argomento sarebbe perfettamente inutile per quelli che non vogliono vedere coi loro occhi queste orribili realtà... Haeckel perse appunto la sua fede in un « Padre amorevole » costatando, come medico, quali siano le sofferenze dell’umanità».
Sorvolando su tutto il capitolo: « Problema della finalità e della Provvidenza » che raccomandiamo particolarmente ai desiderosi di comprendere la concezione del Le Divin, sentiamolo di nuovo parlare del Cristianesimo delle sue visioni: « ...Nel Cristianesimo, la coscienza morale sentì affermata la sua intiera dominazione sugli istinti che essa deve coordinare e dirigere. La crisi attuale è causata da uno sforzo che tende a perfezionarla ulteriormente: si tratta di tirare le conclusioni pratiche dalle grandi massime rimaste nel vago: giustizia, amore; si tratta di eliminare l’interpretazione letterale di credenze erronee, fatta — se dobbiamo credere ai suoi interpreti — da Gesù stesso... Quelli che temono che in questo modo si vada a far capo ad uno « spirito » religioso senza corpo e senza azione, dovrebbero pensare che è, almeno, più onesto di cercare d’incorporare questo «spirito», per esempio, in una adunanza nella « Casa del Popolo » o in una « Università Popolare », che in un’assemblea di cattolici o di protestanti ortodossi, della quale non si può esser membri che giocando di parole e « eiriolando » sul loro significato »... « I miti personali: Dio Creatore, Dio Legislatore, sarebbero di poco superiori a quelli dei primitivi, se noi non-avessimo incarnato il sentimento del Perfetto; ora, molti non acquistano piena coscienza del sentimento, che vivendolo, cioè nella sfera morale, come manifestazione d’un nuovo ordine di cose, d’una vita profonda, più ricca della fisica, e di cui la bellezza e la bontà non sono che esperienze parziali... Morale, estetica, metafisica, religióne, sono aspetti diversi della vita psichica: in morale si agisce sopratutto; in estetica si ammira; in metafisica si spiega; in religione si unisce, si riceve, si accresce. Le religioni ci mettono in rapporto diretto, e come in contatto vivificante, con ciò che è, da un altro aspetto, sentito o giudicato come la ragione d’essere obbiettiva dei valori e delle categorie qualitative... A meno di ammettere per l'avvenire Un'Umanità puramente utilitarista, o nella quale si atrofizzeranno e scompariranno questi organi spirituali — ipotesi affatto gratuita — cioè le forme del « meglio » e del perfetto; o a meno di pretendere che queste forme non siano che dei
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feticci spirituali, delle menzogne vitali, delle illusioni (come si è detto delie nozioni di tempo, di spazio, e del mondo esterno con cui lo spirito umano traduce il suo senso della vita), si deve ammettere che le medesime cause produrranno i medesimi effetti ». Sul rapporto fra la religione e le condizioni sociali, torna su più punti ad insistere: «Se un qualche giorno, un genio religioso dovrà aiutare i suoi fratelli a formarsi, sotto nuove forme, una coscienza delle loro credenze e speranze, esso non domanderà il permesso di manifestarsi, quando la sua ora sarà giunta, nè a psicologi, nè a scienziati, nè a storici. La funzione creerà l’organo. Ma è anzitutto necessario che il popolo non sia più nè assorbito dalla necessità urgente di creare organi economici o politici, nè sovraccarico di lavoro eccessivo, sì da potere riacquistare lo istinto della funzione religiosa... ». « Si comprende perfettamente Che l’altruismo possa bastare a vivificare una coscienza, a riempire e abbellire una vita intiera: ed io potrei portarne degli esempi. Ma d’altra parte, può essere che calmatosi l’ardore e l’entusiasmo della lotta, gli uomini si avvedano che l'individuo non trova la sua spiegazione esclusiva in una origine e finalità sociale. Allora, l’individualismo religioso apparirà come il contrappeso necessàrio e benefico della socializzazione universale. Il valore proprio delle opere altruiste, non meno di quello delle scienze, dell’estetica, non sarebbe per nulla diminuito dalla costatazione di altre tendenze della coscienza umana, che quelle non potrebbero soddisfare più che l'acqua possa sfamare o il pane dissetare... Non sono già le condizioni economiche che hanno dato alla coscienza cristiana quel senso profondo, entusiasta, esigente, della perfezione morale, che ha fatto del Cristianesimo, non ostante tutte le superstizioni che vi si mescolarono fin dall’origine, uno sforzo spirituale così ammirabile. Il mondo religioso è, sì, un riflesso di quello reale, ma solo nel senso che le condizioni economiche influiscono sul modo di rappresentarsi e immaginarsi le cose: esse influiscono sulla sua mitologia, ma non già sul sentimento stesso religioso, più che sulle forme pschiche del tempo e dello spazio.... ».
E conchiude il volume — di cui non ho citato che qualche aspetto meno tecnico e più generale — citando le conclusioni del leader del socialismo belga, Emilio Van-dervelde, nel suo volume: Socialismo et religión.
Ed eccoci al problema, in un certo senso, capitale, e da cui Kant fece dipendere quello stesso dell'esistenza di Dio, il problema della « vita futura », che occupò come abbiamo ripetutamente accennato, in modo speciale l’ultimo periodo della vita di Marcel Hébert. Nel primo, (Coenobium, giugno-luglio 1915) provocato da un accenno fatto in una precedente recensione, egli comincia con due pagine maravigliose di Renan sul motivo: « C’est en Dieu que l’homme est immortel »: ma fa la riserva che presso i giudei, per lunghi secoli « la sopravvivenza è stata qualche cosa di anormale e di fatale... punto legata alla credenza in un Dio personale... », E prende ad esame l’obbiezione fondamentale: «senza cervello non sono possibili fenomeni coscienti nè personalità...: obbiezione formidabile, che sembra insieme scientifica e di buon senso ». Egli comincia a osservare che la questione in realtà si riduce a un problema morale, di responsabilità e di libertà: senza la quale non può parlarsi di una sopravvivenza « retributiva », cioè di una fase ulteriore e superiore di vita morale. Con ciò, non solo scarta ogni tentativo di dimostrazione scientifica, —
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giacché « rindeterminismo » esula dalla concezione scientifica, — ma anche mette fuori delia discussione tutti coloro che non ammettono un mondo extra-scientifico, di realtà interne irriducibili alle categorie spaziali. La critica che segue, del concetto che «il pensiero, là coscienza, la ragione, il sentimento dell’assoluto, del perfetto, dell’ideale, la libertà morale, possano essere concepiti come semplici trasformazioni del movimento», senza essere originale, si distingue per quantità di osservazioni, e sopratutto di riserve e di dubbi originali.
«... Dal punto di vista scientifico, è il cervello che condiziona il pensiero. Dal • punto di vista finalista (e chi dice: moralità, dice: finalità) è l’energia spirituale che crea i suoi strumenti: l’atomo, la cellula, il sistema nervoso, il cervello... Perchè non potrebbe essa crearsi... uno strumento analogo? Nulla esiste senza materia, ma... la causa efficiente dell’essere appartiene intieramente all’idea... »; « Ma in quale abisso d’inconoscibile c’immergiamo! Creazionismo o panteismo, monismo o pluralismo, quale sistema scegliere?... E quale è il rapporto fra la sostanza da cui tutto emana e le personalità per mezzo delle quali essa si esprime?... Notiamo che questo mistero del rapporto fra la personalità e la sostanza non riguarda in modo speciale la vita Julura: esso esiste di già per la vita presente... ».
Ma l’argomento metafisico, dell’immaterialità della vita spirituale è piuttosto negativo che positivo; prova la possibilità d’una vita extra-corporea: non ne dimostra l’esigenza: è l’argomento morale che sostiene le nostre speranze: « Non vi è amore profondo che non s’affermi eterno. Non si può amare appassionatamente il Vero, il Bello, il Bene, senza volerli amare per sempre... Kant ha ben compreso, che la volontà del bene... postula una durata indefinita in cui la volontà possa sempre più approssimarsi al « Bene sovrano » e realizzarlo sempre meglio... Noi non avremo, ma abbiamo di già in noi la vita eterna: noi la viviamo e la siamo...: povere larve destinate a trasformazioni future... ». •
E conclude l’articolo con la speranza:
« Poiché non vi sono difficoltà scientifiche perentorie, nè, d’altra parte, prove razionali sufficienti, non affermiamo nulla, ma non neghiamo neppure nulla domma-ticamente e con l’intelletto ragionante: piuttosto, con la fiducia stessa che noi abbiamo nella coscienza morale, speriamo ».
Nel Fedone Platone ci ha voluto tramandare i sentimenti del martire ateniese nel margine di una nobile vita: e « in margine al Fedone » Marcel Hébert ha voluto scrivere la sua ultima professione di fede, pubblicata postuma sul Coenobium (gennaio-febbraio di quest’anno). Essa è stata estratta in fascicolo separato, insieme con la recensione dell’« Epistola ai Galati » del Loisy, scritta pure dall’Hébert nei suoi ultimi giorni: ciò permette, a chi lo voglia, di conoscere appieno il pensiero dell’Hébert sul massimo dei problemi. Qui non possiamo che raccogliere alcuni di questi ultimi accenti dell’incomparabile amico: «... Non è possibile andare più in là di Platone? Per lui, la natura stessa dell’anima è « simile », « assai simile », a quella degli Dei; più simile che se fosse « della stessa famiglia ». Ma non potremmo noi dire, applicando allo spirito la celebre formula dei Padri del Concilio di Nicèa, che lo spirito è, per rapporto al Divino, non solo ópuofcio$, cioè di sostanza simile, ma óuougw;, o consustanziale? E «l’anima », invece di essere una sostanza a parte come vorreb-
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bero gli spiritualisti, non sarebbe essa un modo dell’eterna energia? Questo è ciò Che io credo. Senza tentar qui una esposizione completa o una giustificazione del « monismo » idealista... diremo con Spinoza che « noi ci sentiamo eterni »... E che sarebbe l’eternità della nostra sostanza, indipendentemente dalle personalità, se non una pura astrazione? Distinguiamo pure, ma non separiamo Ciò che nel Divino è unito. Se le individualità, sintesi di elementi in continuo cambiamento, sono aggregati perituri, le personalità morali — dotate di unità e d’identità poiché responsabili, — di questi stessi individui, non sono esse forse la stessa sostanza, considerata nei suoi sforzi di evoluzione, nei suoi arricchimenti di essere, i quali, una volta realizzati, non possono più ritornare al nulla?... »
L’argomento « morale » è invocato di nuovo e con nuove luci. « Certamente, non è impossibile di costruire una specie di morale, tutta umana, fondata sulle attrattive, l'estetica, la prevalenza di certe inclinazioni, ecc. Guyau l'ha fatto brillantemente nella sua Morale senza obbligazione nè sanzione. Ma... l’Umanità, nel suo insieme, non se ne cura. Essa non ammetterebbe il cattivo scherzo di una volontà del bene identificata ai gusti, alle attrattive, all’utilitarismo individuale o collettivo. Essa sa, per una dura esperienza, in che cosa questa volontà ne differisca; questa obbligazione, dovere, dovere tragico o sublime, dovere oscuro della vita quotidiana. Ora, chi dice obbligazione, dice: Al di là.... ».
« Quanto alla questione del come di questa nuova fase di esistenza, è chiaro che noi non possiamo e non potremo mai risolverla quaggiù ».
E le ultime parole dell’articolo, ultime di un’esperienza « di una vita intiera » di quest’anima nobile e pura, di questo sacerdote laico, educatore, artista, filosofo, — e computista di professione — suonano cosi: «... Se noi riusciamo a sviluppare meglio l'argomento che in Platone rimane come avviluppato nelle credenze popolari, lo dobbiamo all’evoluzione morale, già sì bella presso il pensatore greco, ma più completa ancora nella coscienza cristiana. La mitologia del dommatismo cristiano passerà — essa anzi è già passata per molti di noi — ma l’obbligo della volontà assoluta del Bene, del Vero, del Giusto, non passerà mai, e con esso sussisterà la speranza Che in esso è rinchiusa, la speranza ndV immortalità personale.
♦ • ♦
Ho accennato sopra al pellegrinaggio fatto in Grecia da questo appassionato adoratore dell’arte e della filosofia ellenica, se non erro nella primavera del 1911. Con squisita gentilezza e delicata amicizia, egli volle interrompere il suo viaggio a Genova, ove allora mi ritrovavo, e dedicare alla comune amicizia una mezza giornata indimenticabile. Egli mi fece da guida a visitare tesori d’arte, per me in gran parte ancora nascosti, della Superba: (in quasi ogni sua lettera ritrovo la frase: « Salutate da mia parte, nel Museo tale, il bassorilievo tale.. » ovvero: « Non mancate di fare una visita all’affresco tal altro » ecc: e ciò in qualunque città mi trovassi, in Italia o all’estero).
Passammo, in tram, sotto il tunnel che da Piazza della Zecca sbocca in via Caffaro, e poi in Piazza Corvetto. Lampade elettriche sospese alla volta del tunnel
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rompevano di quando in quando le tenebre della galleria, mentre il carrozzone faticosamente incedeva. Egli mi additò con un tono di mesta solennità quelle lampade: « Quasi lucernae ardentes in caliginoso loco »; fu il suo commento. (Come lucerne che ardono in un luogo tenebroso). « La vita, « mon ami » non è una scena luminosa: « non pas »; essa è densa di tenebre. Ma qua e là appaiono delle visioni di bellezza, di luce, di speranza, di amore. È appena tanta luce, quanto basta per avanzare brancolanti verso la luce. Non ci fermiamo! Avanti in cerca di luce! ».
Il tram, ora correva verso l’uscita, come sentisse l’incubo di quel foschio e anelasse alla liberazione: e mentre un’apparizione di luce piena si riversava nella galleria, egli con voce ancor più commossa terminava la sua parafrasi: « Donec dies elucescat, et Lucifer oriatur in cordibus vestris » (« Fino a che il giorno s’illumini, e si levi nei vostri cuori l’astro della luce »).
Nella «selva selvaggia ed aspra e forte » della vita di molti, tu, anima radiosa cercatore di luce, perchè venivi alla luce, fosti veramente di quelle faci ardenti che illuminano e riscaldano, e sorreggono a sperare. Io ti rivedo oggi, come allora, col dito puntato verso i testimoni della luce nella galleria oscura, assicurarmi che il giorno spunterà, e che anche nei nostri cuori che sanguinarono, e seppero le lunghe notti e le fami e le seti insaziate, sorgerà Vostro della luce. Ma dove, o amico, e come? Perchè non suggelli tu ora con la tua nuova esperienza la speranza che c’inculcasti, le intuizioni che ci additasti, V esempio luminoso che ci porgesti? Perchè taci tu ora, e ci lasci ancora nella speranza e nella semi oscurità? Deve dunque ognuno di noi, pellegrino di un giorno, perdere d'un tratto la guida e l'amico nell’istante medesimo in cui questi giunge alla meta, e continuare da sè, e giungere da sè, e trovare da sè, e fare da sè l’esperienza della vita e della morte, del tempo e dell’eternità?
Gli è perciò, che più in alto ancora che la tua speranza in un mondo, che intravedesti esule, di cui taci cittadino, io pongo il testimonio della tua vita. È facile credere alla luce finché si cerca la luce; alla bontà finché si è buoni; all’amore finché si ama; e finché si ha innanzi un modello come il tuo di cercatore di luce, di bontà, di bellezza, di amore. Lasciamoci allora andare alla deriva, e trasportare dalla corrente sacra verso l’oceano infinito a cui ritornano tutte le acque da esso nate. Viviamo coscientemente, ma non analiticamente, la nostra vita morale: lasciamoci vivere, e agire, e tiranneggiare, dal genio della vita; e crediamo che la nostra piccola aspirazione individuale alla finalità, alla continuità, all’universalità, è parte ed espressione di un’anima universale, che non abbisogna delle nostre affannose ricerche e dei nostri assillanti problemi per raggiungere, con noi ed in noi, la finalità immanente che ci preforma, come corrente maestosa che fra il turbinio agitato delle sue infinite molecole va sicuramente, necessariamente alla foce: « Quia aliter fa-cere non poterat ».
Roma, i° luglio 1916.
G. Pioli.
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LA TRADIZIONE BIZANTINA
NELL’ANTICA TEOLOGIA RUSSA
he Construclive Quarterly, una splendida rivista interconfessionale, fondata nel 1913 a New York da Silas Me Bee, contiene, nel suo fascicolo di marzo 1915 uno studio esauriente del celebre storico Russo Giovanni Sokolov su Bisanzio, custode e campione dell’ortodossìa.
La rivista del Me Bee è aperta agli scrittori di tutte le confessioni cristiane col nobile intento di definire e chiarire senza spirito polemico le posizioni dottrinali delle varie Chiese, prepa
rando in tal guisa una doviziosa raccolta di materiali per lo studio comparativo della teologia cristiana. E sinora, la Conslructìve Quarterly si è mantenuta fedele al suo
programma, un programma alieno dallo spirito settario, dal fanatismo intransigente, dagli anatemi del fariseismo, dagli odii religiosi.
Scrittori cattolici romani, come il Batiffol e il Rivière vi trattano liberamente
temi che concernono la rigida tradizione del cattolicismo dottrinale. E nello stesso fascicolo, senza parole di dolore o accenti d’ira, dottori ortodossi, e teologi protestanti espongono le loro peculiari convinzioni religiose, esaltano gl’ideali cristiani che informano la loro vita, che guidano il loro pensiero nella ricerca affannosa della verità, che si riflettono nel molteplice svolgimento della loro attività sociale e individuale.
L’articolo del Sokolov è un inno smagliante alla religiosità bizantina, un panegirico talvolta ampolloso della psiche complessa di Bisanzio, e dei suoi ideali cristiani, una sintesi rapida ed efficace dell’azione che la nuova Roma dalle rive del Bostoro esercitò sul cristianesimo che noi chiamiamo orientale.
E Bisanzio merita realmente il lirismo dei poeti storici. Essa fu una grande educatrice nella storia della Chiesa cristiana. Essa plasmò religiosamente l’anima slava, e signoreggiò con la raffinatezza della sua coltura sovra popoli diversi. Nell’apparente immobilità del suo pensiero teologico, nella rigidezza del suo domma-tismo, essa fu un serbatoio di potenti energie cristiane che largamente rifluirono su contrade limitrofe ed eliminarono l’influsso ostile di forze rivali. Una parte considerevole del cristianesimo serba un'impronta schiettamente bizantina, è per così dire l’irradiamento spirituale di Bisanzio, il frutto spirituale della religiosità bizan-
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tina, una cittadella eretta da artefici bizantini, un reliquiario gemmato che serba come un tesoro ermeticamente chiuso il testamento religioso di Bisanzio.
Da secoli la Nuova Roma più non ostenta il magico splendore dei suoi riti, e delle sue processioni imperiali, e la pompa sfarzosa delle sue basiliche scintillanti di mosaici a fondo d’oro. Ma lo spirito cristiano che l’animò non si è spento, e la sua voce risuona ancora in diversi idiomi in quelle contrade che dai suoi missionari ricéverono il verbo della vita.
Bisanzio, scrive il Sokolov, è la maestra dell'ortodossia ecumenica, la quale comprende le varie Chiese autocefale, che collegate dal vincolo della carità, discutono insieme i problemi relativi allo sviluppo della loro vita, e professano i medesimi dommi. L'influenza di Bisanzio attuò l'organamento delle Chiese nazionali nell’oriente cristiano, laddove nell’occidente le Chiese particolari sacrificarono la loro indipendenza spirituale all’assolutismo romano. Custode e guardiano dell’ortodossia, Bisanzio trasmise il suo retaggio nazionale ai popoli limitrofi, coi quali avea comune il vincolo della civiltà cristiana. Il suo zelo nel propagare il Vangelo fu grandissimo. I suoi missionari predicarono il verbo del Cristo in metà dell’Europa e in buona parte dell'Asia. Bisanzio fu una madre soave ed affettuosa pei suoi neofiti, una madre che sapientemente li educò a seconda delle loro esigenze etniche. I missionari bizantini convertirono i pagani con metodi facili e piani, schiudendo loro i tesori dell'ortodossia apostolica ed ecumenica, e chiamandoli con l’amore ad entrare in comunione col Cristo e con la Chiesa. Tuttavia le nuove cristianità fondate dal suo zelo, non appena varcato il periodo della loro esuberante giovinezza divenivano autonome. Bisanzio non le aggiogava al suo carro. Sorgevano in tal guisa nuove chiese autocefale, le quali restavano spiritualmente unite alle Chiese apostoliche orientali, come Chiese sorelle, ed i cui membri erano considerati come figli spirituali della sola ortodossa chiesa cattolica dell’Oriente. La Chiesa russa è quindi una delle tante chiese Orientali che riceverono da Bisanzio la loro cristianità. Il più prezioso retaggio della Russia, la sua sorgente d’inesauribili ricchezze è la santa ortodossia, la fede degli Apostoli e dei Padri, fede che soggiogò il mondo. Non vi è bene spirituale che eguagli in valore questo retaggio.. In esso si contiene la pienezza e la precisione della verità dommatica, e della definizione canonica, il fondamento della perfezione morale, il pegno della futura consumazione. In esso noi scopriamo la fonte della rigenerazione e del rinnovellamento, la prova della sua mistica unione con la Chiesa universale, e col Cristo Redentore.
Il Sokolov è certamente nel vero affermando questa continuità di vita della tradizione bizantina nella religiosità russa. L’anima russa, per usare un termine moderno, non può studiarsi, disseccarsi nelle sue latebre più nascoste se non alla luce che irradia da Bisanzio.
La storia religiosa e civile di Bisanzio spiega gli enimmi storici della Russia del passato, le lotte, le titubanze, le catastrofi e le aspirazioni della Russia del presente. La tradizione bizantina si rivela in Russia alle volte come una geniale plasmatrice energia, come un principio vitale Che mantiene in salda coesione le membra del mastodontico Organismo russo: alle volte come una cappa di piombo che intralcia il libero movimento delle sue membra, che paralizza le sue forze, che ritarda
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g soffoca i suoi slanci, che comprime la sua latente vitalità. A dir breve essa contiene il segreto dell'indomita potenza e dell’innata debolezza della Russia, l’enigma dei suoi successi e dei suoi insuccessi, i germi delle sue vittorie e delle sue sconfitte, le ragioni della sua vitalità e del suo marasmo. Studiare quindi l’influenza della tradizione bizantina sul pensiero religioso della Russia significa nello stesso tempo ricercare nell'arruffio dei suoi eventi storici il filo maestro che attraverso le più violente convulsioni o il quietismo di una stagnante immobilità condusse là Russia odierna all’apogeo della sua grandezza politica, e forse alla soglia di una spaventosa dissoluzione, di uno sgretolamento del suo colossale edificio.
♦ ♦ ♦
Come definire la Russia, qualora noi la consideriamo sotto l’aspetto religioso?... La Russia, potremmo rispondere, è un immenso impero abitato in maggioranza da un popolo dotato di un profondo sentimento religioso, languido nella sua vita morale, e teologicamente dominato da uno spirito polemico.
Non m’indugio a dimostrare la verità dei primi due membri della mia definizione. La religiosità è la nota dominante dell’anima slava. L’idea di Dio, di un Dio nazionale, se vuoisi, il Russkii Bog, è incastonata, per così dire, nella psiche russa, è lo specchio in cui si riflette con lineamenti distinti e fortemente tratteggiati il pensiero russo.
I più grandi genii della Russia antica e moderna, i pensatori originali i quali nella storia del pensiero russo si rivelano a noi come gli esponenti delle aspirazioni intime, degli aneliti bramosi della Russia cristiana, sono in realtà gli araldi di Dio. Sulla scena del mondo noi ascoltiamo la loro voce come una voce ispirata dall’alto. Essi parlano con serena fiducia, con la convinzione incrollabile di ripetere, come un’eco lontana, accénti divini. Alle volte essi non esitano a darsi l’aria di pionieri di una nuova rivelazione. I giganti del pensiero russo del secolo xix, i Ciaddaev, i Kireev, i Chomiakov, i Gogol, i Tiutcev, i Dostoievsky, i Tolstoi, i Leontiev, i So-lovev, i Trubetzkoi, sono tutti seminatori d’idee religiose. Le loro concezioni, le loro divagazioni metafisiche, le loro ubbìe sociali, le loro novità dommatiche, i loro baldanzosi programmi di riforme religiose, le loro aspettative messianiche, i loro colpi di piccone all’edificio dommatico del cristianesimo, le loro ansiose attese di una nuova rivelazione, le loro fantasmagorie apocalittiche, poggiano tutte sovra un sostrato teologico, sono tutte impregnate di una religiosità, alle volte strana e bizzarra, alle volte profondamente ortodossa e intransigente, alle volte screziata di abbaglianti chimere o di brillanti allucinazioni mistiche, ma in ogni caso di una religiosità sincera, ardente, di quella religiosità che scaturisce dalle più riposte fibre del nostro io, e che nella storia dell’evoluzione religiosa genera ed organizza teorie di apostoli, di mistici, di esaltati, di martiri, di novatori, di vittime.
Lo Zapadnicestvo, un neologismo russo che noi potremmo tradurre in italiano con l’epiteto di Occidentalismo, non è stato in Russia un elemento vitale di progresso, di attività dello spirito, di efficace impulso a riguardo delle energie nazionali tutte le volte che i suoi tentativi hanno mirato ad introdurre in Russia il sar-
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casmo di Voltaire, 0 le concezioni materialistiche del positivismo, o le nebulose astrazioni agnostiche di filosofi tedeschi. L’anima russa non può nutrirsi di un negativismo religioso. Essa sente piu che le anime di altri popoli lo spirito, di Dio che libra i suoi vanni sull’affannosa umanità. Nel percorrere le sue lande sconfinate, le sue brulle pianure biancheggianti nel loro manto di neve, nel volgere i suoi sguardi verso i suoi orizzonti monotoni che sembrano più allontanarsi da coloro che vorrebbero raggiungerli, essa prova la sete tormentosa dell’infinito. Strappare l’idea di Dio all'anima russa è lo stesso che disseccare le fonti perenni della sua vita, che cancellare la sua impronta di originalità, che trarla dalle sue altezze sino al livello dei bruti, che spegnere la luce della sua intelligenza.
Un osservatore coscienzioso tuttavia non può a meno di riconoscere che l’idea religiosa russa, che il cristianesimo russo è ben lungi dal rappresentare una gagliarda forza morale, dal costituire un elemento vivificatore e rigeneratore della vita morale del popolo russo. L’idea di Dio avviticchiata, per così dire, alle fibre intime del cuore russo non si esplica con virilità di propositi, e generósi impulsi, e morale elevazione nella vita quotidiana russa. Non a torto il celebre storico della Chiesa russa, Eugenio Golubinsky, asseriva che i Russi erano stati fuor di dubbio battezzati, ma non cristianizzati. Il cristianesimo si aggiunse alla psiche russa come una vernice esterna, brillante. Che non cancellò le antiche imprónte di un’altra educazione, delle vetuste forme religiose con le quali la coscienza russa si era famiglia-rizzata nel periodo del suo gentilesimo. Gl’idoli slavi furono infranti: il dio Perun precipitò dal suo trono aereo sulle vette dei monti nelle rapide onde del Dnieper: ma l’anima russa restò a lungo pagana, ed il cristianesimo limi tossi a ricoprirla di un involucro superficiale. Per lungo lasso di tempo le dottrine cristiane non furono assimilate dai russi battezzati, i quali vissero come neofiti, in uno stato d’infantile incoscienza, inetti a raggiungere la maturità di mente, e di virili propositi dell’uomo perfetto. Per citare uno scrittore russo contemporaneo. Che si è reso famoso presso i suoi connazionali per l’arditezza e la sincerità delle sue concezioni religiose, il Berdiaev, la religione russa per lunghi secoli fu un paganesimo illustrato, inondato di luce dalla verità cristiana, ma non nella sua pienezza. Nel ciclo della sua nazionale esistenza, al pari di altri popoli, il popolo russo è un popolo pagano-cristiano, non già un popolo schiettamente cristiano. E sino all’epoca di Pietro il Grande, e fors’anco dopo il regno dello Tzar riformatore, la Russia non potrebbe definirsi una nazione francamente, essenzialmente cristiana. Non è quindi da meravigliarsi se il cristianesimo non riuscì a plasmare moralmente l’anima russa, a tramutare, per così dire, le cellule della sua vita interiore, a foggiare un nuovo tipo di uomo perfetto nelle cui vene scorre come un sangue novello la vita morale dèi Cristo. Nelle classi elevate della società il cristianesimo svanì, si polverizzò in un oceano vaporoso di mistiche fantasticherie, o fu considerato come una forza prettamente politica, la quale efficacemente contribuisce a mantenere l’unità organica dello Stato russo, ad amalgamare in una sola compagine i disparati elementi della nazionalità russa. Nelle classi inferiori al contrario assunse una forma superstiziosa, s’irrigidì in un formalismo gelido, si cristallizzò in forinole magiche, si ridusse ad un culto superstizioso delle immagini e delle reliquie.
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A sua volta, sin dai primi albori della Chiesa russa il pensiero teologico russo s’incanalò nei sentieri angusti di un'astiosa polemica che inaridì la freschezza primitiva delle sue ispirazioni. Giova però osservare che questo deviamento della teologia russa, al quale tenne dietro un periodo di stasi intellettuale e di sterilità speculativa, non è da imputarsi ai Russi, bensì ai loro maestri nella scienza teorica del cristianesimo. La Russia non ha avuto ciò che gl’inglesi direbbero un selj-developmeni, una fioritura spontanea del suo genio religioso. Essa è stata, e lo è tuttora, almeno in parte, la discepola tenace, direi piuttosto, la pedissequa di Bisanzio. Durante il primo periodo della sua letteratura teologica, un periodo che dalla sua conversione ufficiale sotto Vladimiro il Grande si estende sino al 1237, e precede cronologicamente la tetra notte delle invasioni mongoliche, la Russia è pienamente dominata e pervasa dall’influsso letterario di Bisanzio, è imbevuta dello spirito bizantino, è abbarbicata, per così dire, al cuore ed alla mente della gerarchia bizantina. Le sue pupille non hanno altra visuale che quella dei maestri di Bisanzio. La luce della fede cristiana le venia da un uomo, il cui nome risplende a lettere d'oro nei fasti della storia letteraria di Bisanzio, la cui incomparabile erudizione, il cui senno diplomatico, la cui fermezza di animo strappano grida di ammirazione anche ai suoi acerrimi nemici. Checché si dica in contrario da eruditi dilettanti che nelle loro ricerche più che ai diritti della verità storica badano ai loro pregiudizi o pretese confessionali, la conversione ufficiale della Russia data dall’epoca di Fozio, e realmente Fozio fu il Patriarca che inviò il primo vescovo ai Russi sottomessi al giogo del cristianesimo. Cronisti bizantini d’indiscussa autorità, Costantino Porfirogenito, Zónaras, Efrem, Glykas confermano la verità del nostro asserto. Il cristianesimo quindi importato da Bisanzio in Russia è un cristianesimo di pretta origine foziana, un cristianesimo, che secondo lo stile della Chiesa orientale, insorge in armi contro l'assolutismo romano, predica il distacco dalla corrotta cristianità latina, anatemizza l’uniformità religiosa violentemente imposta dai vescovi di Roma, caldeggia il principio dell’autonomia delle Chiese particolari, confuta le mostruose eresie dei novatori papali dell'Occi-dente. La Rùssia cristiana riproduce nel primo periodo della sua nuova vita religiosa i tratti caratteristici, i lineamenti distintivi della Chiesa bizantina. Il suo suolo si copre di cattedrali che copiano le linee architettoniche, i temi iconografici, le decorazioni a mosaico, gli affreschi tipici, e fìnanco i nomi delle cattedrali di Bisanzio. La liturgia bizantina intona le sue melodie sotto le volte di queste cattedrali, e cantori bizantini svegliano nuove sensazioni religiose, toccano nuove corde nascoste nei cuori rudi ed incolti dei neofiti russi. E parimenti la teologia bizantina, penetra in Rùssia come in città di conquista, vi stabilisce il suo predominio intellettuale, vi acclimata le sue tradizioni ed i suoi metodi, vi sparge i suoi pregiudizi, vi coltiva il seme delle controversie insolubili, vi eleva a principio sistematico l’immobilità del pensiero teologico i cui orizzonti sono ermeticamente chiusi dalle mura insormontabili erette dai sette concilii ecumenici.
Il governo della primitiva Chiesa russa è affidato a pastori greci di nascita e di lingua. Secondo Ternovsky nella lista dei primi 23 metropoliti che ressero la Chiesa russa nel decimo e undecimo secolo s’incontrano i nomi di 17 metropo-
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liti greci, ed altri vescovi greci nei secoli xm e xiv governano le sedi di Cernigov, Mosca, Novgorod, Rostov, Smolensk, Polotsk. I rappresentanti della gerarchia bizantina in Russia si proponevano il duplice scopo d'inculcare al basso clero russo una venerazione idolatrica verso le tradizioni e la liturgia ortodossa, e ad evitare qualsiasi contatto dei loro sudditi spirituali con la coltura latina ed il cattolicismo romano. L’educazione religiosa del popolo russo certamente non era in cima ai loro pensieri. Invece di nutrire i neofiti russi coi succhi vitali del cristianesimo, invece di dischiudere loro le sorgenti limpide e incontaminate della dottrina evangelica, invece di tramutare là loro fede in energia attiva e vittoriosa nelle lotte per lo svolgimento della vita morale, la gerarchia greca nei documenti che trasmise ai posteri in retaggio si preoccupò anzitutto di trapiantare in Russia le antipatie, le recriminazioni, i rancori del cristianesimo greco decadente contro l’esuberante vitalità del cristianesimo latino.
Giova qui notare che sin dàlie sue origini Bisanzio assunse un carattere bellicoso nello svolgimento del pensiero teologico. Nei recinti delle sue chiese e dei suoi monasteri accanto ai semi dell’ortodossia germogliarono i semi della zizzania. Gli apostoli della fede inviolata, i difensori della tradizione autentica, gli zelanti dell’ortodossia non ebbero mai un momento di tregua, sempre alle prese coi fautori di novità, coi banditori di eresie, coi propugnatori dello scisma. La polemica religiosa divenne quindi un’esigenza per dir così, il pane quotidiano della vita religiosa di Bisanzio, sul cui suolo gettavano profonde radici e vigorosi germogli concezioni e sistemi teologici, i quali urtavano le pie e vetuste credenze popolari, fondevano nel crogiuolo del loro razionalismo l’aureola sovrannaturale del cristianesimo, scalzavano le fondamenta del dommatismo tradizionale, sbalzavano fìnanco il Cristo dal suo trono di gloria per anatomizzarlo con lo scalpello della critica umana. Novatori bizantini a più riprese tentarono di ricostruire su nuove basi l’edificio dottrinale del cristianesimo. A Bisanzio germogliarono le grandi eresie che presero di mira il Cristo, che seminarono il dubbio e la negazione sulla divinità della sua origine e della sua persona, o impugnando la distinta personalità dello Spirito Santo sconvolgevano i fondamenti della teologia trinitaria. A dir breve, il genio teologico di Bisanzio maturò tra bellici clangori, compiè la sua missione brandendo la spada della polemica. Sia tra i drammatici dibattiti dei concilii, sia tra il mistico ronzio degli alveari monastici, sia fra il trambusto e il viavai della folla cosmpolita nelle strade di Bisanzio, sia tra i clamori e la rumorosa vivacità della folla che assisteva ai giuochi del Circo, sia nel greve e polveroso silenzio delle biblioteche, i teologi di Bisanzio rivolgevano le loro cure a disegnare piani strategici per la decisiva sconfitta dell’eresia, o ad incatenare in formole matematiche le conclusioni logiche della loro speculazione sui misteri della fede, ad ossificare, per così dire, la dottrina vivente e duttile del Cristo nello scheletro dottrinale dei simboli che nonostante la precisione delle loro formole non chiudevano l’adito alle scappatoie ed alle ambiguità dei nemici dell’ortodossia. La teologia divenne in Bisanzio una delle molle segrete e potenti della politica imperiale, lo studio prediletto degli statisti, dei giuristi, dei filosofi, dei dignitari della corte, dei duci dell’esercito, degli stessi basileis, lo svago spirituale, o la face di discordia del basso popolo. E quando le
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animate controversie cristologiche cessarono dal fomentare dissidii nel seno del cristianesimo bizantino, quando il settimo concilio ecumenico sembrò chiudere la torbida èra delle eresie pullulanti sul suolo di Bisanzio, quando S. Giovanni Damasceno con la sua ammirabile delineò la sintesi organica dèlia teologia cristiana, coadunò in una trattazione sistematica le dottrine teologiche sparse negli scritti dei Padri e Dottori della Chiesa, compose il primo compendio dottrinale del cristianesimo teorico, lo spirito di polemica che informava la teologia bizantina giacque affranto, non domo.
Non era trascorso un secolo, e già Fozio lo risvegliava dal suo torpore, lo incitava a nuove tenzoni, lo lanciava in nuovi campi di battaglia. La polemica bizantina cessava dall’aguzzare le sue armi contro i nemici interni della purità ortodossa, e varcando le frontiere dell'impero, cercava nuovi allori nelle contrade che ricevevano da Roma il verbo e la regola della fede.
Nella Chiesa bizantina Fozio .è un astro che con lo splendore della sua scienza ecclissa il ricordo delle grandi eresie del passato, e schiude alle Chiese orientali una miniera inesauribile di controversie teologiche. Dall’aridità metafisica delle teorie della processione dello Spirito Santo, la lotta teologica deviò nel dominio del sistema sacramentale e nel secolo xi s’imperniò sulla controversia degli azzimi, che si discusse nei due campi rivali con tutte le risorse linguistiche di una maldicenza esasperata, da odii religiosi e politici.
E la Russia cristiana, battezzata da Bisanzio, non potè non prendere parte a queste battaglie incruente che si combattevano più con gli strali del sarcasmo, e di volgari ingiurie, e di anatemi spuntati, che con la dolcezza della carità cristiana, e la logica convincente delle ragioni e dei fatti. Benché protetta contro le infiltrazioni latine, i primitivi teologi russi, sulle traccie dei loro maestri, assalirono il comune nemico dell’ortodossia. La letteratura bizantina che avea fornito ai Russi i suoi sermonarii, i suoi florilegi patristici, le sue catene scritturali, i Suoi codici canonici, le sue leggende agiografiche, le raccolte delle sue omelie morali, fornì eziandio i modelli, gli schemi caratteristici di satire antilatine, di libelli contro il Filioque, o il satanico pane degli azzimi.
Nel suo trattateli© contro i Romani o Latini a riguardo degli azzimi, Leonzio, un metropolita greco che morì in Russia agli albori del secolo xi inveisce contro i Latini, violatori delle tradizioni patristiche, e dei canoni dei sinodi ecumenici e bestemmiatori delle verità sante contenute nel Vangelo. Il digiuno del Sabbato nella virulenza del suo stile è maledetto come un insulto alla maestà divina, ed il Filioque abbonito come una frode diabolica, come un’alterazione essenziale del domma trinitario. Nella seconda metà del medesimo secolo il metropolita Giorgio scrisse la sua Disputa con un Latino, un libello che enumera 27 divergenze domma-tiche, disciplinari e liturgiche tra le due Chiese, tutta imbevuta di quell’acredine di stile e di quello spirito di religiosa intolleranza che contraddistingue la polemica irosa di Michele Cerulario e del cardinale Umberto da Silva Candida. Al tramonto del medesimo secolo, il metropolita Giovanni II, in una sua lettera all’antipapa Clemente III (1080-1110) tesse l’apologià del distacco della Chiesa orientale dalla Chiesa di Roma e su questa rigetta la responsabilità di uno scisma che
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travaglia la cristianità, e ne esaurisce le vitali energie. All’alba del secolo xn, nelle sue lettere a Vladimiro Monomaco e laroslav Sviatopolki il metropolita Niceforo I (1104-1121), inveisce contro la sacrilega novità degli azzimi.
Non vi è dubbio, questa polemica è modellata sulla polemica bizantina, anche nei suoi più minuti particolari, nelle linee meno appariscenti della sua struttura. In essa non vi è traccia di originalità, di ricerche personali, di critica indipendente, di novità di metodi, e di argomenti. La salebrosa erudizione di Bisanzio tronfia di citazioni patristiche, e di canoni conciliari, vi sfoggia tutto il suo orpello. I primi polemisti russi sono discepoli che dànno alla luce con leggiere varianti gli zibaldoni dei loro maestri. Vi è tuttavia un raggio di luce più benigna che brilla attraverso il rancidume di queste banali controversie teologiche. I polemisti russi delle origini mitigano la veemenza del loro stile, addolciscono la violenza delle loro espressioni, trattano alle volte con armi cortesi, direi cavallerescamente, i loro avversari. Si scorge chiaramente che l’odio contro il Latinismo, stillato da Bisanzio, non è penetrato come un fiele amarissimo, o come un acido corrosivo nelle fibre del loro cuore. L’influenza della carità cristiana non si è spenta nel loro animo bellicoso. L’anelito verso l'unità religiosa, verso il ristabilimento della pace vivifica come un soffio primaverile l’adusto suolo della loro arena. Alle volte la loro penna si spunta nel vergare roventi accuse contro i Latini. Alle volte il dubbio s’insinua nel loro animo a riguardo della virtù persuasiva dei loro argomenti: alle volte procedono con istudiata cautela nell’imputare ai Latini una volontaria alterazione della dottrina evangelica: alle volte con generiche formole di si dice, ci è tramandato non dànno peso a certe accuse contro i loro avversari!; alle volte insinuano che la loro risposta ai Latini teologizzanti per la difesa dei loro errori non è esauriente e convincente.
Talfiata, secondo l’osservazione del Celzon e del Palmov, i polemisti russi vagamente accennano alle cause intime, latenti, o piuttosto superficialmente mascherate, dello scisma tra l’Oriente e l’Occidente. I teologi si affannano a ricercarne le radici nella antitesi di concezioni dommatiche, a stabilire l’edificio dello scisma su basi dottrinali, ad arzigogolare su astrusi problemi metafisici o liturgici. Certamente la teologia non è aliena dal secolare dissidio che divide la cristianità. Ma i primi teologi russi non trascurano un altro fattore importante, la prima causa efficiente dello scisma, le antinomie nazionali tra Roma e Bisanzio, le antinomie etniche tra Greci e latini, le antinomie religiose tra il Patriarcato greco ed il Papato romano, le antinomie politiche tra l’impero bizantino e gli Stati europei, le antinomie culturali tra la civiltà orientale e l’occidentale. Nonostante lo splendore affascinante della sua coltura, la Bisanzio del medio evo nasconde nella sua anima i germi della decadenza. La sua civiltà si effemina: la sua coltura s’infarcisce di erudizione: le fresche acque di una geniale ispirazione, o l’entusiasmo audace di un profondo sentimento religioso s’inaridiscono. Sul volto di Bisanzio compaiono le prime rughe della decadenza senile, e artificiosi belletti non valgono a nasconderle, ed appianarne i solchi profondi. L’Occidente al contrario è un volcano in eruzione. Lave incandescenti trasformano, amalgamano, gettano in una forma unica i disparati elementi etnici delle sue contrade. L’impero della forza riprende il suo predominio.
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Il genio conquistatore di Roma rinasce col medesimo ideale di egemonia universale da conseguirsi non già con la spada di brunito acciaio, ma col brando spirituale. Roma non ha dimenticato di essere stata il caput orbis, la metropoli dell’universo, di un impero senza frontiere. E nel medioevo essa aspira a riannodare le sue tradizioni imperialistiche, a divenire la metropoli di un mondo spirituale non chiuso da confini territoriali, a ristabilire il potere universale dei Pontefici Massimi, a trasformarsi in un centro di attività religiose che irradiano su tutti i popoli. E con indomita energia Roma attua i suoi disegni, e come ai tempi dei Cesari, essa piega al suo vassallaggio i popoli più diversi.
In questo slancio audace di Roma verso la conquista di un dominio universale Bisanzio scorge un pericolo per la sua integrità politica, e la sua autonomia religiosa, e l’istinto della conservazione l'eccita alla lotta. Il conflitto si delinea, si accentua, s’inasprisce nel campo religioso. È un conflitto di gerarchie, è un attrito di giurisdizioni, è un cozzo di poteri spirituali. Bisanzio s’affanna a sottrarsi alle strette ambiziose di Roma (usiamo la terminologia ortodossa) che vorrebbe soffocarla nelle sue braccia robuste, comprimere il suo anelito di libertà, bollare la sua fronte col marchio del servaggio spirituale, vincolarla con le catene dei suoi dommi, col despotismo, delle sue istituzioni burocratiche, sfigurarla con la sua legge imperiosa di uniformità dommatica, liturgica, disciplinare. Ai tentativi di resistenza, al germogliare degli odii, ai clangori bellici della rivolta, Roma risponde con le folgori dei suoi anatemi, e là rivolta scoppia allora veemente, e l’incendio della discordia divampa minaccioso, e ben presto non vi è forza umana che valga ad estinguerlo.
Sin dal secolo xi, scrive il Pavlov, i nostri polemisti russi compresero che il contrasto fondamentale tra l’Oriente e l’Occidente non era da ricercarsi nei dommi e nei riti, ma bensì nel carattere divergente fàWecclesiasticismo, nelle tendenze opposte di due potestà gerarchiche, e nelle relazioni di queste potestà verso la società cristiana. Strano a dirsi, se si eccettui un solo documento polemico attribuito a Teodoro Pecersky (il Golubinsky però con buone ragioni gliene nega la paternità) la primitiva polemica russa contro i Latini non respira quell’odio, quel profondo antilatinismo che impregna la polemica bizantina della medesima età. E forse in seguito avrebbe conservato la stessa mitezza di espressioni, se la poca oculatezza di certi Papi, e la loro intransigenza non avessero ferito al vivo la suscettibilità nazionale degli Slavi, quella suscettibilità che in Russia sembra precedere il risveglio nazionale degli altri popoli europei. Al secolo xii infatti appartengono le cronache di Nestore, l’annalista epico della Russia leggendaria, e l’itinerario dell’hegumeno Daniele, il quale si prostra innanzi alla lapide del sepolcro di Gesù, e prega commosso per la sua « terra russa ».
Checché si dica in contrario da apologisti interessati, la Santa Sede non fece buon viso all’innovazione liturgica dei santi Cirillo e Metodi©, i primi apostoli degli Slavi. La liturgia slava fuor di dubbio guadagnossi la tolleranza di certi Papi, ma altri l’avversarono, e forse l’avrebbero espunta dal culto cattolico, se la coscienza slava non si fosse ad essa aggrappata con tutta l'energia della disperazione come ad un’àncora di salverza per non essere soverchiata dalla marea teuto-
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nica, o snazionalizzala dalla coltura latina. Se nell’oriente le definizioni dei concilii ecumenici chiudevano l’èra delle ardite speculazioni teologiche, cristallizzavano il pensiero in rigide formole e canoni immutabili, condannando la Chiesa greca a una secolare sterilità letteraria nel dominio delle scienze sacre, nell’occidente meno colto, il principio dell’autorità gerarchica prendeva il sopravvento sulle ricerche scientifiche, e arbitrariamente attribuiva a fantasiose leggende il valore di fatti dommatici, e queste leggende citava a sostegno delle sue non meno arbitrarie decisioni nel governo della Chiesa. A proposito della liturgia slava, uno dei Papi più energici dèi medio evo, Gregorio VII, non peritavasi di affermare che le lingue prescelte dall’Altissimo per la preghiera cristiana erano il latino, il greco, l’ebraico. Lo slavo era quindi il prodotto di una barbarie anticristiana, e, come tale, meritava la folgore degli anatemi. La mal celata antipatia della Chiesa romana per la nuova lingua liturgica, antipatia fomentata dagli attriti politici fra Teutoni e Slavi, esercitò un’influenza considerevole sullo sviluppo del pensiero teologico russo, alle prevenzioni religiose aggiunse le suscettibilità patriottiche, e contribuì a chiudere alla Russia le fonti del pensiero latino e della civiltà dell’occidente.
Nel trattateli«» contro i Latini noto sotto il nome di Teodosio Pecersky, i Latini sono considerati e vituperati come eretici pestilenti, il cui contatto egli è d’uopo evitare per non incorrere la pena della dannazione eterna; la purità della fede vieta di prendere i pasti con essi, o d’accettare dalle loro mani un bicchiere d’acqua. L’Occidente per le sue bruttezze è paragonato all’inferno, laddove la Chiesa orientale è T Eden, sovranamente bello nella gaia ricchezza dei suoi fiori, nel verde dei suoi prati, e nella maestà dei suoi alberi. Nei documenti polemici russi raccolti con critico acume dall’Ikonnikov, dal Popov, dal Palmov, il latinismo è alle volte rappresentato come una gangrena che infetta l’organismo della Chiesa e ne corrompe il sangue, e ne rode i muscoli. E più c’inoltriamo nella storia letteraria della teologia russa, e più il pensiero teologico russo subisce il giogo della tradizione bizantina, e si stecchisce nelle formole stereotipate della vecchia polemica bizantina.
Questo scarso patrimonio intellettuale della primitiva Chiesa russa può considerarsi a riguardo dei suoi risultati sotto un duplice aspetto. Letterariamente parlando, il suo valore fu minimo, e quasi nullo, nell’educazione ed evoluzione letteraria del pensiero russo. Il popolo russo, immerso nelle tenebre dell’ignoranza, ingolfato nella sua superstizione religiosa, non conobbe queste giostre letterarie, alle quali partecipavano monaci atrabiliari. In tal guisa, il pensiero russo, un pensiero essenzialmente anarchico nelle sue concezioni e nei suoi slanci, secondo il Berdiaev, nella sua speculazione religiosa non ebbe l’impulso di quel rigoglio di vita intellettuale che il razionalismo teologico della scolastica svegliava nell’Occi-dente. I polemisti di Bisanzio soffocarono la libera espansione del genio slavo nei primordii della sua educazione cristiana.
Vi è tuttavia un beneficio nazionale in questa isolazione morale e intellettuale della Russia dovuta alla supremazia della tradizione bizantina nel cristianesimo slavo. Il contatto con l’Occidente avrebbe forse cancellate le impronte caratteristiche della psiche russa. L’ortodossia bizantina elevando un antemurale contro la marea
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teutonica importatrice del cristianesimo occidentale contribuì efficacemente a mantenere ìa Russia come una salda compagine nazionale. Si è detto che i vescovi francesi furono gli architetti dell’organismo nazionale della Francia, le api che costruirono l'alveare francese.
Parimenti, i monaci russi, usciti dalle scuole e dai monasteri bizantini, e banditori delle tradizioni bizantine nella loro patria, disegnarono i lineamenti di una Russia cristiana, di una Russia che nei segreti recessi del suo cuore anche tra i fumi e le nebbie delle orgie serba la scintilla dell’ideale mistico, e un’inconscia vaghezza di ascetismo, e questa Russia essi vollero che vegetasse come un serbatoio immenso di forze latenti, la cui espansione avrebbe avuto luogo nel giorno segnato dalla Divina Provvidenza.
La grandezza della Russia, anche se la si consideri come una massa inerte che aspetti il verbo della vita, il Surge, Lazare! del Vangelo, è il prodotto della sua inalterata, incrollabile adesione alle forme del cristianesimo orientale. Perciò le povere produzioni del suo primo periodo di vita letteraria (862-1237), benché prive dell’impronta speciale del genio slavo, hanno fissato i lineamenti distintivi della Russia cristiana.
Il Messianismo russo, i così detti testamenti di Pietro il Grande e dei Tzar russi, si connettono logicamente alla, tradizione bizantina della primitiva teologia russa. Al pari di Bisanzio, la Russia di Nestore, di Daniele, del Metropolita.Ila-rione, di Teodosio Pecersky si affaccia sulla scena del mondo come la custode dell’ortodossia, il campione della fede purissima del Cristo. E quando Bisanzio declina, e i raggi estremi della sua gloria si spengono in un tramonto di sangue, salutato dai gemiti delle vittime della barbarie islamica, la Russia, imbevuta di polemica antilatina, acquista la coscienza della sua forza religiosa. Mosca, la città santa, diventa l’emula di Bisanzio, si arroga il titolo di terza Roma, rivendica ai suoi teologi il dritto di combattere i seminatori della zizzania, cinge i suoi Tzar della corona politica e religiosa dei Basileis bizantini, circonda di baluardi le sue istituzioni ecclesiastiche, e volge sempre verso l’occidente uno sguardo di sprezzo e di diffidenza. A dir breve, la trazione bizantina, che informa gli scarni documenti della primitiva teologia russa, conduceva la Russia a ricostituire entro le sue vaste frontiere un nuovo impero bizantino, una nuova teocrazia ortodossa, una mole smisurata alla quale manca l’elasticità dei movimenti, e la virtù rinnovella-trice, un vulcano attivo di forze religiose che vorrebbero sprigionarsi ed espandersi in masse brillanti di lava incandescente. Dalla vitalità di questa tradizione bizantina dipende la conservazione politica dell’impero russo e la sua ieratica immobilità: dal ripudio o dal rinnovellamento della medesima deriverà forse lo sfacelo dell'organamento politico della Russia moderna, ma nello stesso tempo una di quelle grandi crisi storiche che permetteranno di sfruttare a beneficio del cristianesimo e dell’umanità, della civiltà e del pensiero le immense energie religiose, intellettuali e morali dell’anima russa e del mondo slavo.
Ivan Liabooka.
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di dadi colorati in
L pellegrino che torna dall’altipiano asiatico, dopo aver visitato il Tibet, ha davanti agli occhi la mirabile visione del gran paesaggio dagli spaziosi laghi turchini e dalle giogaie nevate, su cui passa ululando l’eterno vento occidentale. Ma non può fermarsi a contemplare il magnifico quadro della natura riflesso nel suo pensiero, senza ricordare gli eremi e i conventi sulle cime dei monti, le grotte e gli asili religiosi sparsi pei valichi e sui fianchi delle roccie; i « ciordi » e i « Ihato » a forma rosso e in bianco, su cui sventolano banderuole sacre- i
« Khor-lo » o mulinelli preganti lungo le vie campestri o sui culmini dei tetti, accanto ai focolari, nelle case e nelle tende, nelle verande dei templi e nei portici annessi; continuo ammonimento della divina parola di Budda, che il Lama, la figura tipica del mistico panorama, ripete migliaia di volte all’ora, e fa risuonare di monte in monte, durante il viaggio e il riposo, nel silenzio dei campi e dei chiostri, nel fervore delle opere e dei giorni. Il Lama, eccolo avvolto nel saio or giallo or rosso, col suo corredo di tamburelli e trombette, corone e mulinelli, banderuole e talismani; ora intento ad accompagnare col rullo la cantilena della preghiera, ora ad invitare i fedeli col suono della tromba al raccoglimento; ora a snocciolare innumerevoli rosari, ed ora a porre in moto i mulinelli, che portano scritte le sei sacre sillabe della divina invocazione: « Om, Mani Padme, hum! » Che cosa esse significano? Per alcuni il dolcissimo motto che accompagna come perenne nota musicale, il corso della vita del tibetano, suona: «Om, il gioiello è nel fiore del loto, hum! » — per altri: « Oh, il cuore del fiore del loto! » — e
(*) Indico una volta per sempre le opere, che mi son servite di fonti: Shams-ul-Ulma, A Few Tibetan Customs and a few Thoughts suggested by them. The Prayer-flags; The Pray er-wheels; The Prayer-beads or Rosaries, nel Journal of the Anthrop. Society of Bombay,
*9X3».P- 54 e seg., 88 e segg.; 139 e seg., Bombay, 1914; Goblet D’Alviella, Moulins a Prieres nel 1® vol. Croyances, Rites el Religions, pp. 1-24, Parigi, 1911; Waddel, Lhasa and its Mysteries, pp. 20, 86, 87, Londra, 1905; Sven Hedin, Trans-Himalaya, II. PP-» 222-225. Milano, 1910; Grenard, Le Thibet, p. 329 e 324; Parigi, 1904; Kurt Boeck, Aux Indes et au Népaì, pp. 240-242; Parigi, 1907; E. e O. Reclus, L'Empire du Milieu, p. 92; Parigi, 1902; De Milloue, Le Thibet, Conf. Guimet, 1901-1904; Simpson, The Buddhist Prayng-weel; Londra, 1896; Wutai-Shan, Among the Mogols, p. 146; Bonvalot, Voyage à trovers le Thibet, nel Tour du Monde, LXII, 1891; Giglioli, La Collezione etnografica geograficamente classificata, parte II, Città di Castello, 1912, pagg- 54 e 61.
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per altri ancora: « 0 gemma nel fiore del loto, amen! » Comunque debba intendersi, esso non è che il saluto a Bdhisattiva Padmapani, il protettore del Bogiul, rappresentato al par di Budda, entro un fiore di loto e creduto esercitare una diretta azione sulla trasmigrazione delle anime. « Om », dice il Goblet D’Alviella, è il monosillabo sacro dei bramani, simboleggiante nelle sue lettere i tre personaggi della Trimurti; parola tanto sacra, che i più devoti fra gli Indù non articolano, ma semplicemente ripetono nel pensiero. Presso i buddisti col tempo divenne una generica interiezione di adorazione. La frase « Mani Padme » dovette essere anche una vecchia formola appartenente al simbolismo solare, torse a quello fallico che i buddisti si appropriarono facendo del gioiello il Budda, e del Loto la sua dottrina. In rapporto ai diversi stati rigenerativi, che nella dottrina di Budda sono sei, componenti il gran circolo del dolore umano, le sei sillabe hanno doppio attributo. Ognuna di esse rappresenta un determinato stadio col suo particolare colore; e come tale, ha la virtù di far cessare il corso dello svolgimento delle metempsicosi. Così « Om » rappresenta il bianco divino della prima, cioè la reincarnazione fra gli dei, e ne sospende il compimento; « ma » il colore della seconda fase, l’azzurro titanico, e interrompe la reincarnazione fra i titani; « ni » il colore della terza fase, il giallo umano, e impedisce la reincarnazione come uomo; « pad » il colore proprio delle bestie, e inibisce la reincarnazione sotto forma di bestia; « me » il rosso tantalico e rompe la reincarnazione come Tantalo; « hum », che è l'attributo del nero infernale, spezza l'ultimo anello della reincarnazione, come abitatore del regno dei morti. Da qui la grandissima diffusione della preghiera del gran Dio, come quella che interrompendo il ciclo delle rinascite, apre le porte del paradiso; giacché in essa, come dicesi, sta la quintessenza di ogni felicità, di ogni benessere, di ogni sapere, ed il gran mezzo per ottenere la liberazione.
I modi in cui si esplica questa credenza sono diversi. Dappertutto, nel Tibet, la massima sacra si sente mormorare, o si legge spiccante a grossi caratteri tibetani, dipinta o scolpita, profusa a migliaia di copie nelle foreste e nelle valli, nei piani e sui picchi, nei templi e nelle abitazioni, siigli oggetti d’uso, d’ornamento e di devozione, più frequente dell'« Ave Maria » dei cattolici, dell’« Ahunavar » dei seguaci di Zoroastro, del «Bi ’smiglàh» dei maomettani. Nella pratica tre sono i modi più comuni di levare il pensiero a Dio, e cioè con banderuole, con rosari, con mulinelli. Tutti e tre ih sostanza sono rosari, perchè tutti e tre concorrono allo svolgimento della preghiera. Vediamo come.
Vi sono banderuole fluttuanti e banderuole fisse: Una striscia di tela bianca, grigiastra, o di altro colore o variopinta, costituisce quelle della prima forma; una corda o fettuccia lunga talvolta molto più che cento piedi, costituisce quelle dell’altra. Le prime si scorgono sventolare nelle campagne e specialmente sulle creste inaccessibili, in alto, sovrastanti a mucchi di pietre, che han forma di piramidi («ciordi »).; le altre sulla superficie dei laghi, sulla corrente dei fiumi o sul greto dei torrenti, quasi sottili ponti gettati attraverso i valichi, congiungenti sponda a
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sponda e costa a costa. Dovunque esse sbattano mosse dal vento del piano o della montagna, lasciano vedere le sei lettere della preghiera tibetana, che i monaci hanno cura di imprimer con stampi e inchiostri indelebili. Spesso, insieme con questa epigrafe campeggiano nei drappi simboli sacri, fra cui l'effigie del cavallo, del cavallo-drago portante il divino loto, o del vento-cavallo; nonché figure e nomi di altre divinità, come Manjuri apportator di ragazzi, Avalokita che salvaguarda dall’inferno e dalla paura, Vajrapani che allontana i mali e le disgrazie, Vairatva che purifica le anime dal peccato, Amitaya che promette lunga vita.
È credenza che tali bandiere e stendardi, corde e nastri stiano a guardia dei passi da cui allontanano spiriti e spiritelli, garantendo ai viandanti un sicuro cammino e che, ogni qualvolta il vento muova o agiti le iscrizioni, l’orazione sia come detta e l’effetto benefico si spanda intorno, per la valle e pel monte.
* * *
I rosari, e propriamente le corone del rosario, fanno parte della suppellettile sacra della religione di Budda, di Zoroastro e di Maometto. Nel Tibet, ove si fabbricano al modo dei nostri paternoster, con pallottole di vetro, di turchese, di ambra, di corallo, di osso o di legno, sono un capo indispensabile del corredo personale dei Lama e dei devoti. La corona più in uso è quella di Tenva (Premba), propria dei buddisti tibetani, composta di 108 pallottole o avemarie, per adoperare il termine del nostro popolo, con l’aggiunta di due filze, ognuna delle quali è di dieci avemarie, terminanti una con un campanello detto «drilbu », l’altra col « fulmine » o « dorjè », emblema dell’autorità del Lama. Le pallottole della corona servono a contare la recita delle preghiere a cominciare dalla prima fino alla cen-tottava, quelle delle filze a numerare le serie, ognuna delle quali è appunto di cento e otto orazioni. Quando le dita del penitente fanno sfilare la prima bottonella della prima filza, è segno che un ciclo di cento e otto preghiere è stato detto; quando passano alla seconda filza, sfilandone la prima bottonella, è segno che la recita delle cento e otto invocazioni, ha già raggiunto la dozzina (12 x 108).
Nella Collezione etnografica del Giglioli, passata da poco al Museo Preistorico ed Etnografico di Roma, vi è uno di tali « Preng-ba », fatto con rotelle tolte da crani umani; ed è, secondo il raccoglitore, un ricordo del Giapannel, il rosario di Siva, costruito con teschi umani. Perchè è da notare che colà le ossa dell’uomo, specialmente quelle dei Lama morti in odore di santità e di pietà, sono lavorate per fare arredi sacri; quelle delle gambe e delle coscie per trombette; quelle del cranio per tazze; le altre per rosari.
Perchè 108 le pallottole della corona tibetana? Perchè altrettante le preghiere? Alcuni dicono che questo numero corrisponda a quello degli dèi del paese, invocati nel rosario; altri al numero dei libri della scrittura; ed altri poi, a quello delle impronte dei piedi di Budda; senza dire che non mancano quelli che asseriscono essere tale numero preso dal rituale indiano.
Non è facile rintracciare l’origine di questo oggetto perdentesi in quella dei fatti e dei riti religiosi. È da supporre che la corona dapprima non sia stata altro
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che un mezzo di numerazione; e che soltanto per lenta evoluzione abbia assunto carattere di sacro arredo e di amuleto. Secondo il Dottor Shams-ul-Ulma a ciò pare si sia pervenuto per un processo sintetico, perchè- il penitente per esaudire scrupolosamente l’obbligo o il voto di recitare un numero elevato di preci, ricorse dapprima a uno strumento di computo, e più tardi supplì alla ripetizione dell’intera preghiera, con quella della formola iniziale; e spesso si limitò a pronunziare la sola parola « Om ». Questa, talora, è scolpita o incisa sulle pallottole; onde un altro fatto caratteristico, che rappresenta l'ultimo risultato della sintesi, e cioè che sfilando le pallottole fra le dita, senza balbettare sillaba, la preghiera a Bod-dhisattva si ha per detta.
• * *
Eccoci ai mulini oranti, « Klor-lo », altrimenti chiamati cilindri, barili, per la forma simile a quella di siffatti oggetti. Vari per grandezza e foggia essi hanno ugual congegno: il tamburo o scatola gira attorno mediante la forza d’un contrappeso attaccato alla parete, di fuori; e contiene nel cavo interno un rotolo di carta (può essere anche un papiro di fibra) o parecchie listerelle portanti scritta fino a migliaia di volte là massima: « Om, Mani Padme, hum! » Il tamburo può essere di rame o argento in sottili lamine, di corteccia d’albero, di legno dipinto a vivaci colori, anche di carta, ed ha dimensioni piccole e grandi. Nei conventi si osservano mulini dell’altezza variabile dai due ai nove piedi, e del diametro d’un piede ai quattro, disposti in fila e in serie, entro nicchie, e portano in cima zipoli, i quali, durante il movimento, fanno squillare due campanelli, che spandono nell'ambiente un soave suono, che invita al raccoglimento.
Qualcuno di questi cilindri è così enorme da richiedere la forza di più individui per mettersi in moto. A Sonnum, nel Piccolo Tibet, il viaggiatore Gerard ne vide uno che portava cinquecento lampade; a Wutai Shan, nella Mongolia, un viaggiatore inglese, James Gilmour, ne vide un altro dell’altezza di 60 piedi, coperto di preghiere, libri, immagini e tabernacoli. Ve ne sono di quelli portatili, ridotti in piccole dimensioni, poco più grandi d’una conocchia. Nel Museo Preistorico ed Etnografico di Roma se ne conserva uno, proveniente dalla collezione Giglioli (i) (fig. i). Il tamburo, che è di rame ed ha forma rotonda, misura in altezza sei centimetri e sette in diametro; porta impressi a stampa intorno i segni grafici della preghiera tibetana; e nei due dischi, che lo chiudono dalla parte superiore o dalla inferiore, porta disegni geometrici. L’asse, che nell’esemplare manca, passando per un foro praticato nel disco inferiore, nell’interno del tamburo, si infilava in un breve anello di canna, sul quale sta avvolto un nastro di seta cinese della lunghezza di m. 1,28 e della larghezza di cm. 5 (fig. 2). La formola « Om, Mani Padme, hum! » è scritta a grossi e neri caratteri del paese sul nastro; sul quale si osservano i segni di quattro sezioni, e ognuna di queste porta più volte l'invocazione vergata in tre righe. Lo strumento gira per mezzo di un peso di piombo.
(1) Sono grato al venerando Direttore del Museo Preistorico-Etnografico, professore Pigorim, e all’ispettore Ante per avermi fatto vedere e illustrare questo oggetto.
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attaccato ad una catenella fissata alla parete esterna del tamburo. Ogni giro, sta detto nella scheda che accompagna l’oggetto, equivale a quarantamila preghiere, perchè ogni rotazione del cilindro, facendo scorrere su sè stesso il nastro, moltiplica l'efficacia dell'orazione su questo stampato (1). Bonvalot nel suo Voyage à ir avers le Thibel racconta d’aver veduto sotto una galleria circolare nella lamasseria di Dotou, un centinaio di grandi mulini allineati. Ogni mulino si crede contenga diecimila invocazioni; e siccome occorre qualche minuto per compiere un giro, si calcola che la recita delle preghiere raggiunga il milione nello spazio d’un tempo minimo, qual’è il minuto.
Questo comodissimo strumento, quando è portatile, si vede nelle mani dei viandanti e. dei pellegrini. In ogni carovana uno almeno dei componenti, ma di solito parecchi, si porta un mulinello pregante, che può avere talvolta forma conica ed è messo in moto da un razzo apposto all’apice. Il credente seguita tutto il giorno, e per tutto il tempo che dura il viaggio a far girare la sua macchinetta, mormorando 1'« Om, Mani Padme! » I soldati, avverte Sven Hedin, nel dare la caccia ai briganti, ai nomadi rapaci, hanno più fede nei loro mulinelli, che nei fucili e nelle sciabole; e fra i briganti vi sono di quelli che, durante la fuga, lasciano correre i loro « Om » e « hum » per scampare al pericolo di esser presi o di cadere vittime.
Quando la macchina è grande porta una ruota idraulica, che la fa girare, risparmiando al misero mortale la faticosa operazione. Perciò tali mulini o barili si pongono lungo le riviere, sui culmini dei monti e dei tetti perchè la forza dell’acqua scorrente e lo spirare del vento suppliscano coll'infaticabile energia all’ufficio pietoso. Quando poi la macchina è piccola si gira a mano, a modo dei macinini da caffè; e quando è di carta si sospende nelle tende o nelle case, al di sopra del focolare, perchè ogni voluta di fumo che sale, l’agiti e la muova.
In quanto alla rotazione testi e viaggiatori sono d’accordo che nel rito buddistico, si fa da sinistra verso destra, cioè nel senso della rivoluzione solare. Il movimento inverso, un tempo praticato dai Pom-bo, è atto nefasto, speciale dalla.magia nera. Il viaggiatore Kurt Boeck, nell’opera Aux Indes et au Nepal, racconta che avendo veduto in un villaggio del Tibet alcuni mulini nelle nicchie, si avvicinò ad uno di essi; e invece di imprimergli il movimento rituale, da sinistra a destra, lo volse in senso contrario, procurandosi un giusto richiamo dal monaco addetto al sacro luogo.
Sull’origine di questa curiosa macchina gli studiosi sono divisi. Qualcuno ne ha rilevato resistenza prebuddistica, credendo di vedere il prototipo nella ruota da scongiuri dei testi bramanici, anteriori a Budda; qualche altro l’ha creduto d’importazione indiana, come la religione buddistica, pel fatto che su di una moneta indo-scita d’Hoerkes o Huvichka, che rimonta ai primi secoli della nostra èra, si osserva l’effigie d’un busto di re con in mano un oggetto in forma di mulino orante; e qualche altro è risalito col pensiero ai voluminosi manoscritti di
(1) Supponendo che la formola sia scritta dieci volte su ogni sezione del nastro, si hanno in complesso quaranta formole (10X4)- Supponendo che in ogni rotazione del tamburo ogni preghiera compia un migliaio di giri, si ha il prodotto di quarantamila orazioni (40X1000).
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BILYCHNIS
preghiere « (mantras) », che si componevano di strisce di carta o di stoffa legate a un asse girevole.
Queste opinioni sull'origine del singolare rosario portano ad ipotesi opposte nella determinazione del carattere e del significato. Quelli che sostengono le prime due congetture, vedono nella ruota, da cui sarebbe derivato il mulinello, l’immagine simbolica del sole; e nel movimento circolare l'imitazione a scopo magico-religioso, dell’eterno viaggio solare. Confortano queste ipotesi riscontri nelle antichità dell’oriente, le sculture dei primi tempi dell’arte buddistica, in cui il mulinello appare in forma di ruota « (Chakra) », e la persistenza di tale tipo che si vede ancora presso i buddisti giapponesi; i quali adoperano speciali mulini o ruote di preghiera, con tre raggi, ognuno dei quali tocca un campanello.
Quelli che sostengono l’ultima opinione, considerano il mulino orante come sostituto dei libri sacri, avvolti in rotoli come gli oroscopi dell’india. Per leggere la preghiera era necessario spiegare il rotolo raccolto sull’asse; col tempo però, questa operazione divenne puramente meccanica, ed era sufficiente ai fini del rito, l’atto di svolgere il testo, girando l'asse su cui era infisso, perchè il devoto sciogliesse l’obbligo dell’orazione, senza pronunziare verbo. D’onde poi, i « Khor-lo ».
La discordanza delle opposte teorie non mi sembra inconciliabile. La ruota liturgica e i rotoli girevoli di « mantras », o formole sacre, servono a compiere una medesima cerimonia; la quale, se non rimonta ai primordi religiosi dell'umanità, risale, almeno, al passato comune di quelle che chiamansi comunemente razze indoeuropee. Alludo alla cerimonia del giro sacro, che si svolge in due momenti e forme: facendo rotare un oggetto, o girandovi attorno. Nel Satapatha Bramana, un riè tuale bramanico annesso al Yajur-Veda, si ricorda che un bramano per acquistare il mondo superiore, deve sedersi su di una ruota di baroccio sorretta da un palo fissato nel suolo, e cantare tre volte un inno del Sama-Veda, in onore del dio solare Savitri. Il vecchio commentatore Sayana aggiunge che, mentre il bramano canta, la ruota deve girare tre volte; e qualche altro dichiara che il devoto sta vicino alla ruota movendola, con le mani. Questo rito, in cui il movimento circolare è combinato con la recita di alcune formole, non si comprende senza avvicinarlo a quello della eircumambulazione, cioè al costume di camminare attorno ai monumenti, agli oggetti, agli individui reputati investiti di potere sovrumano o per assicurare loro una protezione divina.
Prescritta nelle leggi di Manù, antica quanto i culti degli Arii, questa costumanza è molto in vigore fra i buddisti e i bramani, sia nelle cerimonie funebri e nuziali, sia in quelle dei sacrifizi e delle nuove costruzioni. I buddisti la praticano nelle pagode e fuori; attorno alle tombe e agli idoli, ai muri con iscrizioni sacre; attorno alle persone e ai luoghi, per salvaguardarli dalle cattive influenze e per onorarli. L’essenziale in questa cerimonia è il giro tondo, il movimento circolare, che nelle antiche religioni indiane si compie in due modi, da sinistra a destra e viceversa. Il primo, che ha per simbolo la croce gammata, prototipo della ruota, detta nell’india «svastika» (da su, bene e as, essere), ha un significato propizio, perchè si volge nel senso della rivoluzione solare; il secondo, che ha per simbolo la stessa croce, detta però « sauva-stika », ha un significato demoniaco, essendo impiegato nelle operazioni stregòniche.
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Tale cerimonia di ci rcumambul azione dovette eseguirsi anche attorno ai testi sacri, che avevano forma di ruoli o rotoli avvolti su di un asse girevole, e che il devoto faceva scorrere quando voleva leggere o recitare la preghiera. A tale rito allude l’aiorisma buddico: «.Girare la ruota della Legge »; che non è una metafora, ma corrisponde a una realtà cerimoniale. Per «ruota della Legge» i buddisti intendono semplicemente la dottrina del maestro, e anche il ciclo delle cause e degli effetti su cui poggia la sua metafisica.
I mulinelli, come gli antichi volumi della sapienza divina, sono composti di due parti: dell’asse girevole e del nastro, o di più liste di carta, portanti scritte la famosa massima. Come il devoto, avvicinandosi al sacro libro, ne svolgeva le striscie, che formavano le sue pagine, e girando cantava o mormorava l’orazione; così oggi, fa scorrere il suo mulinello, immaginando che l’asse svolga il nastro, su cui stanno scritte le sei parole della verità suprema. E come nell’antica liturgia il penitente poteva astenersi dal recitare qualsiasi formola, essendo sufficiente a sciogliere la sua pietosa intenzione, l'atto di spiegare il sacro volume; così nella nuova basta girare il mulino, senza pronunziare alcuna parola, perchè la preghiera sia esaudita. I benefici, s’intende, sono più considerevoli ed efficaci, se il penitente, aprendo le scritture o facendo girare l’ordigno, pronunzia la mistica invocazione del fiore del loto.
In questo senso, a me pare, che il mulinello pregante possa riportarsi per l’origine ai sacri testi; i quali, a loro volta, ricordano le ruote magico-simboliche delle antiche religioni d’oriènte e d’occidente. Se la banderuola e la corona rappresentano l’ultima fase di due processi di sintesi liturgica, per cui chi pianta l’insegna o porta il rosario ora ripete l’orazione, ed ora invece si limita a contemplare il fluttuare dello stendardo o a toccare successivamente le singole pallottole della corona; il mulinello è la sintesi materiale di un altro rito, quello della circumam-bulazione, che consiste nel procedere attorno a un oggetto di culto, e che il Goblet D’Alviella riscontrò presso i popoli cosi detti indo-europei, eredità dell’antico patrimonio delle loro credenze, espressione della loro cultura religiosa. Ma se il mulinello, pur trovandosi in pochi paesi buddisti dell’oriente, è una caratteristica del Tibet o del paese di Bogiul, come dicono i naturali' l’epigrafe più chiara dell’indole di quel popolo sparso fra monti nevati e valli lussureggianti di erbe e di piante, del suo sistema e dei suoi costumi religiosi, è la formola: « Om, Mani Padme, hum! ».
Essa dischiude ai fedeli un orizzonte di pace, che svanisce nel nulla; un'infinita impressione di calma, un supremo sollievo dal dolore umano, di cui il poeta inglese Edwin Arnold raccolse l’eco in quattro versi di una sua splendida lirica:
La rugiada è sul loto! Levati, o gran sole!
E innalza la mia foglia e confondimi con l’onda.
■ Om man-ni pad-ine hum » il levare del sole!
La góccia di rugiada scivola ne) luccicar del Jago1.
Prof. dott. Raffaele Corso dell’università di Roma.
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DUE CRITICHE AL PENSIERO DI UGO JANNI (i).
I.
Giacché mi pare sempre più chiaro che Bilychnis compia la nobile ed utile missione in questo momento d’essere una palestra libera e serena per la discussione dell’attitudine dei Cristiani di fronte alla guerra, vorrei approfittarne per rispondere due parole ad un articolo del caro collega ed amico Ugo Janni.
La prima parte della sua argomentazione riveste una forma tanto filosofica che a me, che sono avvezzo a chiamar sale anziché cloruro di sodio il sai di cucina, riesce un po’ difficile e molesta; ma godo nel Vedere, se ho capito bene, che in essa io m’accordo completamente col dotto pastore di Sanremo. Anch’io credo che il Cristianesimo non debba nè possa essere mai escluso dai fenomeni della vita sociale, e ritengo quindi che esso sia intimamente collegato colla quistione della guerra e della non guerra. Il volercelo separare vuol dire considerarlo solo come un vestito anziché come una forza morale e spirituale che vive in noi e che deve regnare in noi.
Convengo anche coll’amico Janni che l’ideale e il reale difficilmente si congiungono ?n noi e nella società finché dura la Presente imperfezione degli individui e dei-ambiente; ma lo sforzo costante del Cristiano deve appunto consistere nel cercare di unirli e di identificarli quanto più gli sia possibile, sopportando per questo amare lotte e penosi sacrifici. Il Cristiano, è stato detto, è un essere che cammina colla testa nel cielo, ma coi piedi sulla terra; è verissimo,
(x) Vedi fascicolo .di maggio 19x6, p. 349.
ma egli deve ricordarsi che non sono i piedi che debbono guidare la testa, ma la testa i piedi. Non è il reale che deve influenzare e piegar l’ideale, ma viceversa. Ideale e reale non vanno distinti, ma congiunti : colla considerazione però che il reale deve indirizzarsi verso l’ideale, non l’ideale verso il reale. Il reale è cosa transitoria, l’ideale è cosa permanente ; tu solo, o ideal, sei vero.
• ♦ •
Fin qui l’accordo, parziale o completo fra me ed il caro collega. Di qui innanzi il disaccordo, se non completo, almeno assai considerevole.
1. Lo Janni giudica attitudine cristiana la disposizione a combattere per la giustizia. E anche fin qui chi mai potrebbe dissentire da lui? Solamente, sento la voce di Pilato che domanda ironicamente: Che cos’è verità? Io, non già con ironia, ma con profonda serietà, domando al caro Janni: Che cos’è giustizia, nel caso nostro, nel caso cioè della guerra?
Cristo sapeva che cos’era verità e sapeva certo altresì che cos’era giutizia. Ma non è ad un filosofo della forza di Janni che io debbo insegnare che a noi verità e giustizia appariscono molto diversamente secondo il terreno su cui ci poniamo. Facciamo una ipotesi di cui lo Janni, io spero, non resterà mica offeso; supponiamo che invece di nascere ad Àquila degli Abruzzi egli fosse na*o a Lubecca: chissà se la giustizia nella presente guerra non gli apparirebbe diversa da quello che oggi gli appare ? Giacché — dobbiamo essere giusti e superiori a certe meschinità — non • credete voi, non crede Lei, caro Janni, che ci possono essere, che certo vi sono in Germania molti cristiani che nutrono la persuasione ben ferma di trovarsi dal lato della giustizia? Perciò, se
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il mio amico ammette la cosa, egli deve riconoscere che l’amore della giustizia e la logica individuale possono giustificare l’attitudine bellica di una parte e dell’altra. Lo so, egli mi dirà che in un tedesco cristiano ciò sarebbe illusione, accecamento, e lo credo fermamente anch’io; ma intanto ecco lì un uomo che sinceramente brandisce le armi in favore dell’i niquità credendo di brandirle per la giustizia. Non le pare, caro Janni, che questo dovrebbe darci a pensare?
2. È opinione generale di quelli che la pensano come Janni che quel Cristiano che esita ad afferrare le armi in favore di ciò che gli apparisce giustizia è in qualche modo e misura un traditore della patria, un traditore anzi della stessa giustizia. Lo Janni non lo dice, ma quest’idea spira fra le sue righe. Ebbene, è un’idea errata. Perchè, noi pacifisti irreducibili e non occasionali, non predichiamo mica che il Cristiano italiano non dovrebbe lui solo ricorrere alla violenza; no. Noi predichiamo in Italia, e quindi la nostra predicazione raggiunge più direttamente i nostri fratelli italiani; ma i nostri colleghi fanno la stessa predicazione o debbono farla nei loro paesi, il tedesco in Germania, il francese in Francia, lo spagnuolo in Ispagna, il russò in Russia. Non c’è dunque tradì-: mento alcuno, non c’è provocazione di squilibrio; è una misura generale che noi cerchiamo di fare applicare sempre e dovunque.
Noi pacifisti cristiani siamo alieni dalla violenza materiale e la sconsigliamo e la deprechiamo sempre, da qualunque parte essa venga. Vogliamo la giustizia, ma per mezzo della persuasione. Ma qui lo Janni mi dirà: Dite agli avversari che comincino loro a limitarsi alle armi della persuasione, e allora anche noi faremo lo stesso. E mi . ricorderà forse la famosa frase di Emilio Girardin, mi pare: « SI vuole abolire la pena di morte? sta bene, ma comincino i signori assassini ». Ebbene io rispondo: No; cominci chi ha più giudizio e bontà; chi ha più giudizio più ne metta, dice il proverbio; non tocca ai signori assassini a cominciare ad abolire la pena di morte, ma tocca alla Chiesa, tocca alla Società cristiana, tocca a coloro che hanno pili moralità e maggiore elevatezza. Non è il birbante che deve dar l’esempio al galantuomo, nè l’ignorante che deve istruire il dotto; ma è il rovescio che deve accadere. Perciò noi Cristiani diciamo: Non è il mondo che deve o che può cominciare un’energica opposizione all’uso
delle armi violente; è la Chiesa, è il Cristiano.
Il dire che non si può predicare la pace ad un mondo che ancora è iniquo e perverso è un’assurdità; come, diceva Tolstoi, sarebbe quella di chi dicesse: Non si può predicare la temperanza agli ubbriaconi, ap-Sunto perchè essi sono ubbriaconi. Noi iciamo con Cristo: I sani non hanno bisogno di medico, ma i malati.
Il Cristiano deve essere avverso ad ogni violenza, e per suo stesso interesse e per interesse della società non giustificarla mai. Che se voi mi venite a giustificar la violenza dell’esercito perchè, dite voi, si ado-Sera in favore della giustizia, che cosa, irete domani se un altro esercito, non organizzato. ma irnumerevole, vorrà procurarsi colla violenza quel che agli occhi suoi apparirà giustizia? E forse sarà giustizia più vera e maggiore!
Lo so che noi pacifisti cristiani non can-geremo il corso delle cose; ma non vi pare un dovere nobilissimo, un dovere il cui compimento non può restar senza frutto, l’essere sale della terra e luce del mondo?
Non è dovere, non è privilegio l’essere imitatori del Maestro?
Gius. Banchetti.
II.
Il signor U. Janni, senza nominarmi, e tuttavia citando testualmente alcune parti della mia lettera a Murri pubblicata in questo stesso periodico (i), ha combattuto la mia idea riguardo alla guerra di fronte al Ciistianesimo, ripetendo press’a poco gli argoménti di Murri, e anch’egli mi ha aperto gli occhi sui miei traviamenti teorici e dialettici e mi ha esortato a discendere dalle astrazioni al pratico, e ad inserire il Cristianesimo nella storia.
Io ho già risposto parecchie volte. Anzi, se volessi proprio dir tutta la verità, ormai preferirei tacere, tanto mi è penetrata dentro la persuasione che non riuscirò a spiegarmi e a farmi capire. Proviamo ancora una volta.
Si tratta di cosa così semplice!
Voi dite: il mondo è quello che è in realtà, non si cambia ed ha un suo fatale andare che a nessuno è dato contrastare o alterare; a un cristiano resta dunque un
(i) Vedi fascicolo di ottobre X915, P- 2S5.
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compito solo: far sì che quanto non è cristiano ma pagano, diventi via via, prima meno pagano, poi cristiano; oggi una cosa, domani un’altra; oggi, per esempio, la guerra. Io dico: inseriamo il cristianesimo nel mondo, cominciando dalla costituzione sociale; inseriamo il Vangelo nella storia, non fermandoci alla superficie, ma scendendo alla sostanza profonda.
Apparteniamo dunque a due scuole diverse di medicina: una che dice: vedete dei bubboni nel corpo di un ammalato? occupatevi di quelli, e se riuscite a spianarli, chiamatevi contenti; l’altra che oppone: no; spariti oggi, ricompariranno domani; spariti dal collo, ricompariranno sotto le ascelle; curate il sangue, e i bubboni spariranno da sè tutti e per sempre. Io appartengo, a questa seconda scuola, i miei contradittori alla prima. Padronissimi: però mi è lecito domandare a un giudice equo e imparziale: da che parte si è più pratici? Chi più e meglio vede che il Vangelo è e dev’essere il tnodicum fer-tnentum che la donna pone nella sua farina fin che levi tutta? Eppure tanto Murri prima, quanto U. Janni dopo, mi hanno rivolto i loro fervorini perchè io mi decida a uscire dalle astrazioni. È curiosissima!
Il signor J. per persuadermi più presto mi ha recato l’esempio del cristiano. Il cristiano,' dice, è il punto di coincidenza e il termine di conciliazione fra Vhomo ani-tnalis e V ideale evangelico, in quanto che il cristiano rappresenta Vhomo anitnalis che ogni momento fa un conato verso l’ideale evangelico, avverandolo gradatamente in sè stesso, non ostante i difetti nei quali cade, ed ha aggiunto: lo stesso accade della storia e della società: pagane nel fondo, hanno un conato continuo verso l’ideale cristiano, e così diventano cosa cristiana. Non ha riflettuto che cristiano non è, nè si può riguardare l'&omo anitnalis, se fin da principio non ha pronunziato seriamente e praticamente i suoi abrenun-tio, se —- per servirmi della terminologia paolina — non è stato per il battesimo seppellito nella morte di Cristo, per rivivere d’una vita nuova con lui. Una volta avvenuto questo radicale mutamento, che l’Apostolo vedeva nientemeno che sotto l’aspetto d’una morte e d’una risurrezione a nuova vita, i difetti parziali del cristiano possono davvero riguardarsi come episodi accessori che non impediscono lo sforzo verso l’attuazione in sè stesso dell’ideale evangelico: prima e diversamente, no.
E del pari non ha riflettuto che l’identico procedimento deve intervenire per la storia e la società. Allora solo la società sarà e si potrà riguardare cristiana, quando fin da principio avrà abrenunziato anch’essa a tutta la sua vecchia vita. Deve morire per rivivere in Cristo, cioè nell'ideale evangelico. Una volta che avrà fatto questo passo, il ripullulare tenace della vecchia costituzione si potrà anche in lei riguardare come episodico e non impedirà il suo sforzo verso l’ideale evangelico — adopero le Stesse parole per l’identità dei due casi; — prima e diversa-mente, no.
Se poi c’è cosa adatta a farci toccar con mano che la società non ha ricevuto nessun battesimo, non è stata sepolta in nessuna morte, per rivivere a nuova vita secondo l’ideale evangelico, è la guerra.
Qui io mi vedrei costretto a ripetere tutte le domande rivolte al Murri nella Lettera citata dal signor U. Janni: mi contenterò di meno, e ne ripeterò alcune, premettendone una fondamentale e pregiudiziale: È sì o no persuaso lo J. che il tipo Sagano fosse: individuo = valore relativo, tato=assoluto, e spesso: individuo»nulla, Stato=tutto, e quindi: individuo da riguardarsi quasi esclusivamente, e spesso esclusivamente senz’altro, a traverso lo Stato; e che il tipo cristiano è: individuo = valore assoluto. Stato = relativo, c meglio e più completamente evangelico: individuo = tutto. Stato = nulla, e quindi : Stato— e più largamente Società — da riguardarsi a traverso l’individuo? Se non è persuaso di questo, inutile seguitare, non c'intendiamo, nè potremo mai intenderci; io poi non ho nè tempo, nè agio, nè voglia di indurlo in tale persuasione, nè egli probabilmente di lasciarcisi indurre da me. Se però ne è Sersuaso, allora mi faccia il piacere di irmi che n’è dell’individuo nella guerra. — Badi, e badino i lettori : nella guerra, non : nella nostra guerra, com’è nell’articolo di U. J. Io parlo di ragioni eterne delle cose, situate in regioni dove non bazzicano i carabinieri. Come si rende possibile comporre gli eserciti? Come si muovono e perchè? Che sono i popoli ? Che è l'autorità? Si risponda, risponda il signor U. J., e poi mi venga a riparlare della Società e della Storia che fanno i loro sforzi verso l’ideale evangelico.
Ma dice: Dunque il Vangelo, che non ha cambiato aspetto alle cose sociali, ha fatto fiasco, un colossale fiasco!
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Rispondo: in ogni caso, la colpa non è del Vangelo, ma di chi ne ha impedito l’azione: non della fiaccola, ma di chi l’ha soffocata sotto il moggio; non del lievito, ma di chi non l’ha mescolato nella farina; in ogni caso siamo noi che col nostro sistema di occuparci degli accessori invece del principale, dei rami e delle foglie invece del tronco e della radice, abbiamo lasciata intatta la vecchia costruzione sociale-pa-gana, ed ora stesso, mentre milioni di uomini vanno a morire e ad uccidere, a vendicare offese che essi non han ricevuto, a recare offese che essi non vogliono, pei' iscopi che ignorano c mal conoscono e peggio capiscono, con disegni a loro perfettamente estranei, al cenno dei pochissimi nelle cui mani sono il comando e le anime, ecco noi stiamo cercando la forinola da applicare al foruncolo bellum per fargli prendere un bel colore cristiano.
Questo in ogni caso, ho detto, perchè, non ostante tutto, il Vangelo è pure penetrato in qualche modo negli animi, rendendo loro con lentissima azione corrosiva incomportabile e inconcepibile lo stato presente delle cose per cui è possibile tuttora una guerra. Se a me fosse lecito alzar la voce a un appello, griderei: < Avanti per questa via; rendiamo l’incomportabile e l’inconcepibile sempre più incomportabile e inconcepibile, mettiamoci tutti quanti siamo che crediamo nel Vangelo, Italiani, Francesi, Inglesi, Russi, Austriaci, Germanici, d’ogni lingua, d’ogni sangue, a predicare agli uomini e non alle patrie, agli uomini non all'umanità; incuoriamo i corde contritos che sono la forza ignota, riveliamo agli incoscienti del proprio valore il valore formidabile della coscienza ». Sono io o non sono per la inserzione voluta dal signor J.?
Ma egli ha una formidabile obbiezione da opporre.
Contro la teoria pacifistica egli scrive: Perchè la teoria si reggesse, tee., bisognerebbe che i pacifisti cristiani f ossero gl'iniziatori e i pratici fattori di tutta la realtà: ma pur troppo la realtà non è determinata dai soli veri cristiani. E io, confesso, non so che rispondere; penso solo malinconicamente: quale differenza fra i cristiani d’oggi, ecc.
Quale differenza fra i cristiani d’oggi e quelli di ieri, quando uno di essi scriveva: haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra!
Se io poi, uomo di questi giorni pagani che formano la storia del mondo, immerso
fino alla gola in questi avvenimenti, in queste vicende, rimaste stazionarie dal tempo... d’Omero e di Valmichi, dirò al signor U. J., come ho detto a Murri: « Quanto al pratico, se ti chiamano sotto le armi, arrangiati, ma non -pensare al cristianesimo », il si-Bnor U. J. potrà scandalizzarsene come iurri e rimproverarmi di un fallo di logica, dovendo io, per coerenza coi miei principi, esortare, nel caso pratico supposto, così: fatevi fucilare: ma il signor U. J. mostrerebbe di nuovo di non essere entrato nel merito della mia idea nè punto nè poco; questo, pure ammettendo che parecchie fucilazioni di quelle vagheggiate dal Murri equivarrebbero a un quinto Vangelo.
Dopo di che, io dovrei scendere a certi particolari, palpitanti — come dicono — di attualità; ma il mio vicino Orazio mi soffia in un orecchio: incedis per ignes suppositos ci neri doloso, e smetto. Verrà il tempo di poter parlare, e allora se ne diranno di belle.
Smetto, non senza pregare il signor U. J. di non attribuire a me e ai pacifisti cristiani nessun piagnisteo e nessun sermonare. E un’altra cosa: che Vexpedit ut unus morialur homo pro populo è da lasciarsi a quella brava persona di Caiafa e a molti emuli della sua prudenza e della sua sociale teoria, che non hanno e non devono aver nulla di comune con noi che sdegnando le stolte prudenze di Caiafa, ci gloriamo di starcene con le divine imprudenze di Cristo.
A. Ghignoni.
REPLICA DI U. JANNI
Replicherò brevemente alle osservazioni del dott. Banchetti:
i. Noi non sappiamo che Cosa è obbiettivamente la verità e che cosa è la giustizia. Esse appariscono molto diversa-mente secondo il punto di vista in cui ci poniamo. Quindi uno che crede di brandire le armi per la verità e la giustizia può darsi che si trovi a brandirle per il loro contrario. Così il Banchetti Siamo — come il lettore vede — in pieno agnosticismo intellettuale e morale. Confutare questo agnosticismo, sarebbe cosa troppo lunga ed anche un fuor d’opera qui. Mi limito ad invitare Banchetti a tirare tutte le conseguenze dalla sua affermazione, e forse ciò servirà a fargliene scoprire l’assurdo. Non sap-Siamo che cosa è la verità e la giustizia?
gnoramus et ignorabimus? Ma allora, non
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solo non si deve fare la guerra per la giustizia, ma ogni attività per la giustizia diventa un non-senso e forse un crimine perchè, può accadere che quella attività prò j us liti a sia invece attività per il contrario di essa. Dicasi lo stesso per la verità. E perchè Banchetti predica la verità del Vangelo? Noi non sappiamo che cosa è verità; ed uno nato ed educato in centro musulmani crede del Corano quello che B. crede del Vangelo...
2. Noi pacifisti irriducibili — aggiunge l’amico Banchetti — non tradiamo la giustizia predicando in Italia ai cristiani di non impugnar le armi, perchè predichiamo lo stesso ai cristiani in Austria; non lo predichiamo solo in Francia ma anche in Germania, non solo in Serbia ma anche in Ungheria... Ciò sta bene per la vostra propaganda in tempo di pace. Ma quando, nonostante la vostra predicazione, l'Austria — puta caso — cogliendo un pretesto qualsiasi pone alla Serbia l’au/ aut: o il suicidio o la guerra, e non avendo la Serbia voluto suicidarsi le dichiara la guerra, il vostro predicare ai cristiani di Serbia di tenere le braccia al sen conserte, è un non-senso morale non riscattato punto nè poco dal vostro predicar lo stesso a quegli altri, visto che la vostra predicazione a quegli altri non produsse effetto e che la povera Serbia è aggredita ed invasa.
3. Il dire che non bisogna predicar la pace ad un mondo ancora iniquo è un’assurdità... I malati hanno bisogno di medico, non i sani. D'accordissimo, caro Banchetti; e se io dicessi che il cristiano può dispensarsi dal dovere di predicar la pace ad un mondo iniquo, credo che cristiano non potrei più chiamarmi. Predichiamo, dunque la pace al mondo iniquo. Ma la questione nostra non è questa. Quando l’iniquità del mondo si concreta in una aggressione del forte al debole, in una violazione delia giustizia per mezzo della forza e della violenza, deve il cristiano non resistere alia violenza ed abbandonare ai suoi fati la giustizia ? Lei è padrone di rispondere di no, ed io non tento di convincerla del contrario. Ma non è padrone di confondere questo problema col problema del dovere cristiano di predicare la pace al mondo iniquo.
Poche parole, ora, in risposta al Padre Alessandro Ghignoni:
1. Mentre mi parve che nel suo articolo (a cui io indirettamente risposi per
completare in qualche senso la diretta risposta di Murri) egli non ne volesse sapere di inserzione del Vangelo in questa storia, oggi egli spiega che l’inserzione l’ammette, ma diverge da noi circa il metodo. Egli vuol cominciare ab intra, laddove, secondo lui, noi cominciamo ab extra. Noi pensiamo a spianare i foruncoli in un corpo ammalato; egli vuol curare il sangue e lasciare indisturbali i foruncoli, perchè, curato il sangue, essi spariranno da sè. Credo che un buon medico sorriderebbe di questa terapia. Almeno ne ha sorriso uno, valentissimo, che siede accanto a me mentre scrivo queste righe. È falso, egli mi ha detto, che basti la cura del sangue. Nessun medico adopera questo sistema unilaterale, perhè vi sono mali, mali veramente gravi, che non cedono alla sola cura interna. L’acMtf, per esempio, non si guarisce curando soltanto lo stomaco, ma bisogna anche curarla in loco e con rimedi energici. Noi, egregio P. Ghignoni, non cominciamo ab extra per attèndere da questo trattamento la guarigione delle sorgenti interne della vita dell’organismo. Attacchiamo, invece, il male ab intra e ab extra nel tempo medesimo, persuasi che l’opera che si tratta di compiere è di natura molto complessa, e che trascurare il trattamento ab extra significa in molti casi frustrare gli effetti di quello ab intra. Per esempio, predicare l’onestà, la virtù è compito precipuo del cristianesimo. Ma vi sono condizioni sociali in cui è molto difficile e qualche volta impossibile essere virtuosi. In quei casi, la sola predicazione morale... fiascheg-gia. Bisogna che il cristianesimo, divenuto sociale, reclami la rimozione di quegli ostacoli insormontabili alla virtù mediante un nuovo assetto delle società. La cessazione della guerra deriverà anche, ed in un certo senso principalmente, dalla predicazione del principio cristiano della pace. Ma questa predicazione sarà frustrata se non avviene una trasformazione della storia, se non sono tolte le cause della guerra. E poiché nel mondo non ci. siamo semplicemente noi, veri cristiani, ma ci sono anche — e deh! in che grande numero — altri, queste trasformazioni della storia non possono avvenire se non si spezzino in mano ai violenti ed agli oppressori le armi. Di qui, in certi momenti, la santa legittimità delle rivoluzioni. E la guerra pro justitia è una forma di rivoluzione.
2. Inutile, assolutamente inutile, la dissertazione, per cui il P. Ghignoni mi
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IL CRISTIANESIMO E LA NOSTRA GUERRA
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dà lo spunto, sul valore dell’individuo e dello Stato nel concetto pagano e cristiano. Poiché, ammesso pure come cristiano il concetto àe\V individuo-tutto che è quello del P. Ghignoni, resta in piedi il problema dell’influènza della società sulla formazione e sviluppo dell’individualità. E indifferente per le sorti dell’individuo che il po-f>olo di cui fa parte sia — per esempio — ibero o servo? E se non è indifferente, il combattere per la libertà e l’indipendenza di un popolo non è forse combattere anche per gl'individui? Che se ciò implica la morte anche di molti individui, non è però un attentare ai diritti dell'individualità in nome della collettività, ma è piuttosto subordinare l’esistenza empirica di un numero, sia pur grande, d’individui alle ragioni eterne dell’individualità la quale trae alimento e possanza dalla vita sociale.
3. Giustissimo quello che il P. Ghignoni scrive circa la necessità che la vita sociale per chiamarsi cristiana debba aver pronunziato i suoi abrenuntio a tutto il vecchio lievito. Ciò è vero per la società come è vero per l'individuo. Ma il male che episodicamente pur resta nell’individuo dopo il prefato abrenuntio rimane eziandio, come episodio nella società. Ghignoni lo riconosce. Ma ha l’aria di dare troppo poca importanza a questo male episodico: Mentre l’importanza è grande. Il cristiano, rinato in Cristo, non è un santo in atto: egli è un peccatore orientato verso la santità. Ma quante miserie nella sua vita morale, quantunque egli non sia più lo schiavo assoluto del male com’era prima! Lo stesso è della
società. La società cristiana ha pronunziato i suoi abrenuntio, e se altra prova non ne avessimo, basterebbe il disagio morale in cui si trova la coscienza moderna in presenza di questa immane ¡catastrofe bellica, e il bisogno che tutti i governi belligeranti provano di gridare ben forte a sè stessi e ad altri che essi combattono prò i usti Ha. Questo è segno che la coscienza moderna, appunto perchè virtualmente rinata in Cristo, non tollererebbe altra S;uerra che per la giustizia non fosse. Ma a stessa società, virtualmente cristiana, è ancora di fatto ingombra da tanto male-episodico! Ed è resistenza di questo che rende talvolta necessaria non — caro P. Ghignoni — la violenza, ma l’uso della forza per resistere alla violenza e impedirne il trionfo.
4. E termino osservando che mentre, da un lato, le osservazioni dei miei due confratelli in Cristo e nel cristiano ministero non scuotono menomamente, come s’è visto, la tesi sostenuta nel mio articolo, essi continuano a sfuggire la vera impostazione cristiana del problema che non il gridare pace... pace senz’altro, ma giustizia... giustizia, dalla quale soltanto l’astro della pace sorgerà sul mondo.
Ed è per questo che io, pur rispettando la buona fede dei pacifisti, reputo anti-cristiana la loro dottrina, della quale un eminente sacerdote cattolico-romano mi scriveva pochi giorni addietro: « Il pacifismo assoluto può anche essere un’empietà! ».
Torre PelJicc, 24 agosto 1916.
Ugo Janni.
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PEREG/DVR DELL'ANIMA
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SALMO 121
I. — « Io alzo gli occhi ai monti... Donde mi verrà l'aiuto ? »
2. — « L'aiuto viene da Javeh che à fatto i cieli e la terra».
3. « Non permetta che il tuo pie' vacilli, non s'assopisca colui che ti guarda».
4. — « Ecco, non s'assopisce e non dorme colui che guarda Israele».
o o o
5. * Javeh e colui che ti guarda, Javeh è la tua ombra, è alla tua mano
6. Di giorno il sole non ti colpirà nè la luna di notte.
7. Javeh li guarderà da ogni male, guarderà l'anima tua.
8. Javeh guarderà il tuo uscire e il tuo entrare da ora e in eterno».
destra.
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SALMO 121
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L salmo 121 appartiene alla piccola raccolta dei 15 salmi — dal 120 al 134 — composti dopo l'esilio e detti delle maalot, cioè delle salite o delle ascensioni, per le quali salite o ascensioni s’intendono i pellegrinaggi a Gerusalemme prescritti dalla legge per le tre grandi feste annuali: i pani azzimi, la mietitura e la raccolta. Questo canto fu composto appositamente pei pellegrinaggi. Esso consta di 2 strofe: la ia, dal v. 1-4, è antifo-nale: contiene un dialogo fra quelli che partono e quelli che
rimangono; la 2a, dal v. 5 alla fine, contiene una benedizione ai partenti.
Io alzo gli occhi ai monti... Donde mi verrà Vaiuto? L’israelita — come vediamo dal salmo precedente — si trova in terra straniera, circondato da nemici perfidi, menzogneri e calunniatori, tra gente pagana, barbara è selvaggia, tra gente che odia la pace e vuole la guerra. In questo stato è più che naturale ch’egli soffra di nostalgia per il suo paese ed i suoi correligionari. I ricordi gli si affollano dolorosi alla mente, i desideri si fanno pungenti, il cuore aspira, l’anima sospira, le palme si allargano verso il cielo, le labbra si muovono per la preghiera e gli occhi suoi s’innalzano verso i monti, verso i monti lontani di Giuda e particolarmente quelli su cui sorge Gerusalemme e il tempio, i sacri monti di Gerusalemme dove Javeh in ispecial modo dimora, accogliendo il culto e rispondendo colle liberazioni.
Il pellegrino, volgendo lo sguardo melanconico e desioso verso i monti della patria lontana, si rende conto che è facile guardare verso di essi, ma non è così facile giungere ad essi; pensa che il viaggio è lungo e le difficoltà e i pericoli saranno numerosi; prova come uno scoraggiamento momentaneo e sente il bisogno di chiedere « Donde mi verrà l’aiuto?... »: S’intende l’aiuto per esser forte, per trionfare sui molteplici pericoli del lungo viaggio (1).
Oh miei fratelli, non è anche questa la nostra esperienza? Molto spesso non ci sentiamo noi in terra straniera, tra gente che non ci vuol bene, che non ci comprende, che disprezza od odia e calpesta i nostri ideali? Non sentiamo forse che abbiamo un'anima, che quest’anima è creatura di Dio e non può soddisfare completamente quaggiù i suoi istinti più elevati, i suoi bisogni più profondi, i suoi desideri più puri, le sue aspirazioni più sante e la sete ardente di luce, di giustizia, di pace, di felicità e d’amore? È non è egli vero che noi sentiamo sovente il bisogno di alzare lo sguardo verso le cime bianche e luminose degl’ideali più alti, molto al disopra del fango e dell’aria infetta di quésta terra, lo sguardo verso Dio, perchè sentiamo che in lui solo l’anima nostra troverà quello che cerca, lo sguardo verso la patria celeste, la vita futura ma certa e più bella ed eterna? Sì, noi leviamo lo sguardo verso quelle cime, perchè questa vita ce ne fa sentire la nostalgia. E noi sappiamo che ci sono quelle cime, che c’è Dio e che c’è quella vita futura che non conosce morte; camminiamo verso la meta e sappiamo pure — come sapeva il pellegrino israelita — da chi ci viene l’aiuto necessario; ma
I iffT
(1) Quel donde — per essere fedeli all’originale — bisogna tradurlo interrogativo e non relativo, come si trova in tutte le versioni antiche.
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— eome il pellegrino — ci rendiamo conto della distanza che ci separa dalla meta, sappiamo che il cammino è aspro, faticoso e che le'lotte sono tante e dure e perciò ci prendono dei momenti di scoraggiamento, di debolezza, magari di dubbio e in quei momenti gridiamo: « Donde mi verrà l’aiuto?... »
Quei momenti sono necessari e benefici, perchè quanto più alto e distante è l’ideale, tanto più necessaria è, per conseguirlo, la consapevolezza della sua altezza e della sua distanza; e in quei momenti le illusioni cadono, la realtà si mostra cfiiara e noi acquistiamo quella consapevolezza. Sono necessari e benefici perchè quanto più alto e distante è l’ideale e più difficile è la lotta, tanto più è necessario che noi sentiamo la nostra insufficienza, la nostra impotenza. Questo senso è il precursore della fede; per esso si giunge a desiderare e invocare un aiuto.
Questa è stata l’esperienza degli uomini più grandi dell’umanità (parlo della grandezza morale, che è sopra ogni altra). Ad es. Mosè fu di una costanza titanica nella prosperità, nell’avversità e nella lotta della sua vita, perchè sentì che non poteva trovare in sè la forza per la sua opera e l’attinse incessantemente nella contemplazione di « Colui che è l’invisibile » (i). Il più grande profeta d’Israele, Isaia, quando si sentì chiamato da Dio ad essere suo servitore, si sentì desolato e indegno dell’alta vocazione. L’eroe nazionale d’Israele, il re Davide, ebbe un animo grandemente umile; e quante volte con accenti di debolezza e di miseria gridò a Dio! Il principe degli apostoli, s. Paolo, diceva di sentirsi misero e il primo dei peccatori; e non lo diceva per vana rettorica. Gesù il suo insegnamento non lo chiamò suo, ma di Colui che l’aveva mandato; e molto spesso la mattina, la sera, la notte si ritirava nella solitudine per ritemprarsi le energie nella preghiera e ricevere l’ispirazione e l’aiuto del Padre. E anche Gesù — perchè anche lui fu uomo — ebbe i suoi momenti di abbattimento, di tristezza. Giovinetto, non compreso dai suoi genitori, al principio del suo pubblico ministerio fortemente e ripetutamente tentato da Satana, avversato e calunniato dagli ipocriti e cattivi Scribi e Farisei, povero, sprezzato nella sua patria e fra quelli di casa, frainteso da’ suoi discepoli più intimi, tradito da uno di essi, rinnegato da un altro, abbandonato da tutti, contrariato dal popolo incosciente che voleva la sua morte mentre poco prima lo aveva acclamato con grida di osanna, nel Getsemani, sulla croce.... oh chi sa quante volte anche Gesù alzò gli occhi ai monti!
Ma è anche vero che Mosè resta ancora il più grande legislatore e il più grande condottiero di popoli. E Isaia vola com’aquila sui profeti di tutti i tempi. E Davide ancora oggi ispira, eleva, fortifica chi legge i suoi salmi eterni. E s. Paolo si sentì anche forte da potere ogni cosa in Cristo. E Gesù dette un insegnamento che sarà sempre perfetto; e pochi istanti dopo aver fatto uscire dal suo petto trafitto la dolorosa sanguinante parola: « Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato? » pronunziò l’ultima parola: « Tutto è compiuto » e così lasciò la terra, con questo grido di trionfo e di vittoria.
(i) Epistola agli Ebrei, XI, 27.
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SALMO 121 131
E gli uomini più grandi, moralmente, ehe noi stessi abbiamo direttamente conosciuti, li abbiamo visti fare la medesima esperienza.
Si dice che i piccoli usignuoli, la cui voce non è ancora formata, si sentono infelici quando sono messi in presenza d’uno di quei virtuosi che abbelliscono le notti d’estate. Ogni volta ehe li odono, tacciono e restano a lungo silenziosi; non per spirito d’invidia o di malvagità, ma perchè l’ideale li abbaglia e li affatica. Essi ascoltano, s’inebriano delle melodie e, forse, pur pensando nel loro cervello d’uccelli di non arrivar mai ad uguagliarli, se ne ispirano al punto che finiscono anch’essi per cantare.
Così noi ci sentiamo come abbagliati ed umiliati in presenza dell’ideale che vediamo divenuto realtà in quegli uomini grandi di Dio. Ma ascoltiamo lungamente, impariamo umilmente, sopratutto ai piedi del Cristo; e ci sentiremo a poco a poco affascinati e portati ad imitarli e a fare la medesima loro esperienza, esperienza indispensabile per chi non si contenta di guardare e anelare i monti, ma vuole andare ad essi e salire fino a toccarne la vetta. Sarà bene che noi abbiamo la consapevolezza delle difficoltà Che sono tra noi e la nostra meta e che sentiamo la insufficienza, la nostra debolezza, perchè con più forte bisógno cercheremo l’aiuto di Dio e quell’aiuto lo sentiremo più certo e più potente.
Alla domanda del i° verso, fatta dal pellegrino, un’altra voce canta e risponde : « L'aiuto viene da Javeh che à fatto i cieli e la terra ».
Il pellegrino rivolge lo sguardo ai monti di Gerusalemme e da Colui che in terra abita in ¡special modo il santuario costruito su di essi e che la pietà del popolo suo gli à consacrato, ma che à il trono della sua maestà nei cieli, dal creatore dell’universo, da Javeh — l’iddio vivente e che fa vivere — egli aspetta l’aiuto. E da Lui gli verrà l’aiuto necessario contro i perigli del viaggio.
Lo stesso aiuto, certo continuo, onnipotente, dallo stesso Dio vivente ed eterno verrà anche a noi — se confideremo in Lui — in ogni momento della vita, specialmente nei momenti di difficoltà, di debolezza, di scoraggiamento, di dolore.
Al v. 3° troviamo un voto, un augùrio che coloro che rimangono esprimono al pellegrino, pensando ai pericoli ch'egli incontrerebbe: « Non permetta che il tuo pie' vacilli, non s’assopisca colui che ti guarda ». Per « colui che ti guarda » s’intende la guida, la scorta che dovevasi prendere in certi punti più pericolosi del viaggio.
All’augurio, tremante di vaga inquietudine, coloro che partono rispondono: « Ecco, non s’assopisce e non dorme — Colui che guarda Israele », e affermano così la loro intera fiducia in Dio. Avranno dunque qualcuno ch’è più d’una semplice guida e scorta umana. Una buona guida non s’assopisce fuori di tempo, durante il giorno; ma deve pur dormire di quando in quando. Ebbene, essi avranno per protettore non solo uno che, vigile e diligente non si lascia cogliere dal Sonno durante il caldo della giornata; ma uno che non riposa neppure di notte, che veglia incessantemente, anche sul loro sonno. Colla certezza di avere un tale protettore i pellegrini partono e anno piena fiducia di superare tutte le difficoltà e i pericoli del viaggio.
Anche noi siamo dei pellegrini in viaggio dalla città instabile di quaggiù verso quella stabile futura, dalla caducità e vanità delle cose di questa vita verso le cose immortali dell’altra. E anche noi prendiamo delle guide umane: dei filosofi,
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dei poeti, degli artisti, degli scienziati, degli uomini di Stato, dei predicatori, degli amici, delle guide necessarie pel nostro viaggiò. E facciamo bene. Ma ricordiamoci che le guide umane valgono in quanto si lasciano ispirare da Dio e che, per quanto buone, non sono mai perfette e che uno solo è Colui che ci può sempre guardare e guidare con sapienza perfetta ed amore infinito, senza mai neppure assopirsi un solo istante. t
Nella 2a strofa del salmo abbiamo l’addio che in forma di benedizione viene dato ai partenti: « Javeh è colui che ti guarda, Javeh è la tua ombra, è alla tua mano destra ». L’idea che Javeh guarda e protegge i suoi fedeli adoratori è qui ripresa ed è svolta in tutto il resto del salmo. La protezione di Javeh è in questo verso espressa con due immagini molto comuni. « Egli è la tua ombra ». In un paese caldissimo l’ombra era diventata sinonimo di riposo, di protezione. « Egli è alla tua mano destra », cioè al posto del difensore, del protettore. E l'immagine della protezione come ombra viene sviluppata al verso seguente.
Di giorno il sole non ti colpirà nè la luna di notte. Si tratta qui dei colpi di sole, che erano un vero e speciale pericolo in Palestina, per cui sorse l’uso dei turbanti. Si credeva altresì che i raggi lunari fossero pericolosi.
Javeh ti guarderà da ogni male, guarderà l'anima tua continua l'augurio ai partenti. La promessa qui si allarga tanto da includere ogni specie di male. Per anima, nel senso ebraico, bisogna intendere l’intera persona, l’intera vita.
Javeh guarderà il tuo uscire e il tuo entrare da ora e in eterno. Il tuo uscire può riferirsi alla partenza del pellegrino per Gerusalemme e il tuo entrare può alludere al ritorno quando il lungo viaggio sarà terminato. Ma il tuo uscire e il tuo entrare era un'espressione comune per significare tutta l’attività, l'uscire al lavoro e il ritorno a casa dal lavoro. Qui à questo senso generico, come lo provano le parole finali « da ora e in eterno ».
Con questo voto fatto di vero cuore da quelli che rimangono, con questo augurio che è certezza, i pellegrini — ansiosi di rivedere la patria loro, di ritrovarsi tra gente che parla la loro lingua e adora lo stesso Dio, di porre il piede su quei monti tanto sospirati e ivi rendere il loro culto e dire la loro preghiera come se fossero più vicini al cielo, fiduciosi in Colui che li seguirà sempre e dovunque li proteggerà da ogni male per tutto il tempo del loro viaggio e della loro vita — s'incamminano verso il dolce loco natio e verso i sacri monti.
Oh la possiamo sentire sovente e viva la santa e benedetta nostalgia dei monti bianchi e luminosi degl’ideali divini, degl’ideali del Cristo! Gl’istanti di abbattimento e di scoramento torneranno. Ma la certezza incrollabile che l'aiuto onnipotente scende di continuo dal Creatore e Padre nostro, ci darà forza e sarà il sole che farà splendere più pure e ci farà vedere sempre più vicine le vette di quei monti superbi, ispiratori di purezza e d’energia, che toccano il cielo e verso cui volgiamo lo sguardo desioso ed il cuore che brama. Noi siamo i pellegrini. Compiamo ogni nostro dovere di uomini e di cristiani nel nostro pellegrinaggio quaggiù e andiamo avanti da forti, lottando, soffrendo ed amando, col cuore fiducioso e le preghiere ed i canti sulle labbra.
Vincenzo Cavalleris.
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ETNOGRAFIA RELIGIOSA
I. P. Saintyves, La Force Magique (Du mana des ■primitifs au dinamismo stien-tifique). Parigi, ìiourry, 1915.
Questo secondo volume della collana « Scienza e Magia », pubblicata dal sapiente editore e folklorista E. Nourry, contiene le lezioni fatte dal Saintyves all’«École de Psychologie », nel 19x3 e nel 1914. L’origine scolastica del lavoro spiega il contenuto e lo scopo, di abbozzare cioè, e precisare l’idea della forza magica, quale sgorga dall’esame della mentalità dei popoli rudimentali; e non già di fare una larga investigazione dei documenti raccolti e degli studi fatti nei campo delle mitologie popolari e della filosofia primitiva. Per l’uomo delle selve l’universo è mosso ed animato da un immenso « fluido materiale », invisibile e impalpabile, sprovvisto d’intelligenza, ma suscettibile di ricevere e ripercuotere le impressioni delle idee e degli spiriti, come d’incorporarsi negli uomini e nelle cose. Questo fluido, che i Melanesiani chiamano « Mana », i Dacota « Wakan », gli Irocchesi « Orenda », i Malgasci « Ha; sina », gli Ogibué « Manitù », gli Scioscioni « Pokunt», gli Ève della Costa d’Oro <Dzò», i Baronga « Tilo », è per natura indifte-rente, e perciò atto ad essere rivolto così al bene, come al male. I.a forza magica nella sua essenza, non è benefica, nè malefica; ma questa duplice efficacia acquista per opera del mago, capo o re, stregone o sacerdote. Con lo sviluppo delle idee e della cultura, le due correnti si differen
ziano sempre più, fino a costituire un dualismo dinamico; che tavolta si confonde con la nozione delle anime e degli spiriti buoni o cattivi; spesso resta in questi assorbito, come nelle religioni politeiste; spesso li assorbe in sè, come nel panteismo.
Il selvaggio crede che questa immensa e imponderabile energia si trovi, dove più, dove meno, nei diversi elementi naturali, acqua, fuoco, aria, terra, piante animali; donde le pratiche e le cerimonie magiche reputate atte a produrla, a concentrarla e a conservarla; come a respingerla o deviarla, secondo l’occorrenza. Presso gli incivili la principale caratteristica della magia consiste nell’utilizzare le sostanze naturali (fuoco, acqua, ecc.) per accrescere le forze magiche individuali e collettive; onde i vari riti profilattici, positivi e negativi. E non solo l’acqua e la terra, il fuoco e il vento, ma anche la fiamma e il fumo (onde l’uso dei suffumigi), gli odori e il respiro dell’uomo, i « totem », i feticci, gli emblemi totemici sono stimate vive sorgenti di energia magica.
Prima di chiudere il libro, semplice e chiaro nella sintesi, il Saintyves si domanda se 1’« Orenda » e il « Mana » dei primitivi si possano paragonare al « magnale » e alla ■ luce astrale » degli occultisti, fra cui Paracelso e Levi. Lo scrittore non dubita un momento ad ammetterlo, giacché fra le altre analogie, la forza magica e il magnale presentano questa, di essere dotate d’intelligenza. Non solo, egli pretende di vedere nel concetto moderno della dinamica o fisica generale la intuizione del primitivo, con la differenza però, che la magia crede di poter disporre ed usare a suo pia-
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cere di questa meravigliosa energia universale, mentre la scienza non ha altro scopo che di trattare le singole forze speciali. Le afférmazioni della prima hanno già fatto bancarotta; quelle della seconda si avvalorano ogni giorno più, coll’accrescersi dei suoi mezzi, dei suoi esperimenti» dèi suoi poteri.
2. Giuseppe Bellucci, Amuleti ed ornamenti con sìmboli magici della Libia (con otto tavole illustrative). Roma, Loescher 1915, Estr. dal « Lares », voi. IV, fase. 1). L’ultima delle numerose monografie scritte dal Bellucci sugli amuleti riguarda la nostra colonia nell'Africa settentrionale, la Libia; sulla quale non sono ancora finite le dispute intorno al nome, ai limiti e alla estensione geografica, ai gruppi antropologici ed etnici che l’abitano. A veleria ben considerare, essa è povera e incompleta come raccolta di materiali; non riuscita come saggio di classificazione, senza importanza scientifica come studio interpretativo di quelle persistenti manifestazioni magico-religiose, che portano nome di amuleti. Sulla Tripolitania e sulla Cirenaica esiste una fioritura letteraria, germogliata in Italia e fuori dopo la nostra occupazione; e avrebbe potuto essere spogliata con profitto per un lavoro come questo, sull’uso di speciali oggetti protettivi delle persone e delle cose dell’uomo. Un giornalista, il Menghi, ha pubblicato brevi, eleganti pagine sulle superstizioni libiche; e il Ministero delle Colonie in un grosso volume sulla Mostra coloniale, inaugurata in Genova nel 1914, ha dato notizie particolari sugli amuleti esposti, fra cui braccialetti di corno, berretti adorni di oggetti fascini-fughi, corni di rinoceronte portati addosso contro i morsi dei serpenti, rotoli detti « hòsn », che si portano appesi al collo o al braccio contro alcune malattie, ecc.
Già il dott. P. Della-Cella nel suo «viaggio da Tripoli di Barberia alle frontiere occidentali dell’Egitto », fatto nel 1817, aveva notato che i Marabutti « tengon mercato di certi loro amuleti che racchiudono mistiche iscrizioni scritte in caratteri che nessuno, dal Marabutto in fuori, dee saper deciferare... Uno di questi amuleti ha forza di rendere invulnerabili coloro che se lo appendono al collo da un colpo di fucile, di rintuzzare la punta di un pugnale, di arrestare in aria una palla di cannone... Non v'ha soldato che di questi amuleti non vada provveduto, e se può non ne guarnisca
il collo del suo cavallo e de’ suoi cammelli. Grandissima esser si crede l’efficacia delle loro iscrizioni nelle malattie, ma in questo caso la presenza del Marabutto diviene necessaria, perchè la iscrizione sia accomodata alla natura del male. Se la malattia aggrava l’iscrizione dee èsser presa per la bocca. A questo oggetto scarabocchiano a grossi tratti d’inchiostro tutta la cavità d’una tazza, indi disciolgono questa loro scrittura nel brodo,-e l’iscrizione così disciolta è bevuta con molta divozione dall’ammalato». Il Beliucci ripete, quasi colle medesime parole, le osservazioni del naturalista genovese, pur non ricordandone il nome, nè citando il libro, che è uno dei lavori importanti e rivelatori delle produzioni naturali, dei tesori archeologici, delle idee e dei costumi della costiera africana mediterranea.
Seguendo il suo vecchio sistema, l’A. distribuisce gli amuleti libici in sei gruppi: i° protettivi contro gli effetti sinistri dei fenomeni naturali; 2° fisiologici; 30 terapeutici; 40 erotici; 5° contro influenze sinistre, esercitate segnatamente a distanza; 6° atti a produrre un impiego straordinario di energia muscolare. Questa classificazione non risponde nè a criteri scientifici, nè a criteri pratici di studio, perchè, invece di eliminare, genera la confusione nel complesso campo degli amuleti, che stanno in intimi rapporti colle credenze tradizionali e coi costumi popolari e formano uno dei capitoli più profondi della demopsicologia. Non essendo fondata su alcun. principio, essa si dimostra senza scopo. Gli amuleti erotici non possono, forse, rientrare nella categoria di quelli fisiologici, specialmente se composti di sostanze eccitanti e afrodisiache? Quelli terapeutici non si possono talvolta includere nei gruppi primo, quinto e sesto? Nel 1908, discorrendo degli amuleti contemporanei calabresi, li distribuii per comodità di studio, prima di proporre una classificazione, in tre ordini, e cioè in amuleti che salvaguardano le persone, le case, gli animali utili. Mi pare che questo ordinamento, come criterio pratico, per disciplinare le notizie e per procedere agevolmente all’illustrazione di esse, sia, per la semplicità, da preferire alla classificazione bellucciana, che non segue nè un criterio psicologico, cioè interno, nè un criterio naturalistico, cioè esterno.
Ha valore come saggio illustrativo questo lavoro? Il Bellucci, che mi pare sia professóre di chimica nell’università di
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TRA LIBRI E RIVISTE
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Perugia, quando, diversi anni fa, diede alla luce i primi scritti sulle tradizioni popolari umbre, fu salutato con compiacimento da quanti coltivavano il « folklore » italiano. Egli, allora, era in etnografia un « animista »; ed è ancora, ove si guardi al-l’intepretazione che dà degli amuleti africani. « Il concetto che gli spiriti, i quali originano dal regno dei morti, possano riuscire benefici o malefici ai viventi, è universalmente ritenuto come vero, dalle tribù nomadi e stazionarie della Libia ». Donde ricava questo assolutismo il nostro scrittore? Sono tali gli studi libici da permettergli una simile afférmazione? Spiegare gli amuleti coi principi animistici è cosa facile, e più che facile, da semplicista. Non tutti questi, però, sono antidoti dei « dijng >•; non tutti hanno origine dal terrore degli spiriti. Altri fatti, altre cause determinano l’uso e l’impiego di essi; e il professore di Perugia li avrebbe intravisti, se avesse studiato (cosa che non ha fatto), la relazione tra malattia ed ammalato. Perchè al collo della camelia si attacca una parte del cordone ombelicale del neonato? « Amuleto essenzialmente galattoforo » dice questo l’A.; ma non rintraccia il motivo che nella mente del popolo ha determinato l’uso del cordone ombelicale per l’animale lattante. L’uso è stato osservato fra molti altri popoli, ed è essenzial
mente magico-medicinale. Nella Nuova Zelanda, in Taiti, Figi e altre parti, il frammento del cordone ombelicale staccato dal neonato è sacro; in Ceram e altrove è adoperato come medicamento e portato al collo dal bambino ; in Leti, Moa, Lakor ha l’ufficio di amuleto, come fra i Somali, i Calmucchi, i Cinesi, gli Alfuri di Celebes. Gli Australiani del centro lo avvolgono al collo dal bambino, perchè mantenga tran-, quillo il suo spirito e allontani dal suo corpo le malattie. L’idea che una parte, anche minima, dell’organismo conservi l’essenza e la vita del possesssore, ispira e regola queste costumanze e molte altre analoghe. La placenta e il funicolo, che nel ventre materno nutrirono il feto, portati addosso continuano (secondo la credenza popolare), a beneficare il neonato, facendo affluire il latte al seno della lattante. La loro virtù originaria non si estingue, nè si perde dopo la nascita.
Molte pratiche popolari non si possono intendere se non risalendo alle tradizioni medicinali, all’antica medicina magico-filosofica dei maestri arabi. L’uso dei vari amuleti presuppone il principio di assimilazione, o meglio il passaggio della virtù o dell’energia dall’animale, da cui proviene l’amuleto, nel corpo dell’essere umano, che lo porta.
Raffaele Corso.
RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
VI.
FILOSOFIA E STORIA
La filosofia religiosa si identifica, quasi, con il problema generale del compito e dei limiti della filosofia; le diverse risoluzioni del quale non sono altro se non la visione che il filosofo si fa della natura dell’essere e del mondo, dei concetti di causa, di finalità, di azione, della personalità umana e della legge morale. Sicché non c’è una filosofia della religione che si aggiunga alla filosofia e ne discenda, ma ogni filosofia è essenzialmente ed innanzi tutto, nelle sue linee caratteristiche, filosofia religiosa.
Ora, in questi ultimi tempi, il neo-hegelianismo italiano — che è, sia detto fra parentesi, la sola filosofia italiana criticamente ripensata e solidamente costruita, dopo il positivismo dell’Ardigò; fuori di essa non avendosi per ora che tentativi, spesso ingegnosi, e talora di pensatori eminenti, in varie direzioni ed esigenze spiritualistiche non giunte a piena maturità di metodo e consapevolezza di sè — ha formulato una concezione in parte nuova della filosofia, identificandola con la storia. Con che non solo si annullano le varie filosofie speciali — della storia, del diritto, della religione, ecc. — ma tutto il sapere teorico, esclusa, secondo il Croce,
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l’arte che è espressione e liricità, e il pensiero e la vita son ridotti a filosofia; la quale era detta da Antonio Labriola: l’immanenza del pensiero nel realmente saputo, e potrebbe essere detta da G. Gentile: l'immanenza del mondo nell'attualmente pensante.
E a chi conosca la concezione filosofica di questa scuola l’identificazione non recherà meraviglia; l’essere è pensiero, e il Sensiero è un farsi e il farsi del pensiero è farsi del mondo; soggetto e oggetto coincidono trascendentalmente nell’atto del pensare, il quale è anche ricreazione del passato, che è nulla fuori di esso, perchè nulla è fuori di esso, e anticipazione dell’avvenire, in quanto implica e già è superamento del pensiero formulato nel pensare in atto, perenne novità ed autoctisi.
Così (Annuario della Biblioteca filosofica di Palermo, voi. I, pag. 41) G. Gentile definiva, in brevi parole, l'identificazione di filosofia e storia:
« Il reale è dunque autoctisi, perchè pensiero. Pensiero è il primo albore della coscienza (ogni fatto psichico in quanto coscienza, cioè in quanto atto); pensiero è tutta la coscienza, fino alla filosofia. La quale perciò ha due essenziali momenti: i° è realtà, quella realtà che è pensiero (onde sono annullate tutte le forme di scepsi): la stessa realtà nella celebrazione della propria intimità; 20 è concetto, pensiero, coscienza della realtà, e quindi intrinseco superamento del momento anteriore. È l’essere e la coscienza dell’essere; la vita e lo specchio della vita. E ciò in conformità dell’essenza dell’atto puro (autoctisi) in generale: essere in quanto coscienza dell’essere. E se il processo della realtà, quella dialettica infinita ed eterna che è il pensiero, è storia, la filosofia è storia ed è superamento della storia nel pensamento di essa: è storia viva nel pensiero della storia: pensiero, si badi, sempre come puro atto, e quindi non limitabile mai con le determinazioni empiriche della stòria frantumata nello spazio e nel tempo; pensiero nostro, ma assolutamente nostro, perchè assolutamente attuale ».
Nello stesso Annuario (volume III, fascicolo I-II) A. Omodeo espone da un punto di vista più propriamente storico lo stesso pensiero, nello studio Res gestae et historia rerum.
• Non — egli scrive — che lo spirito sia immediatamente, come fatto, la sintesi della storia: chè allora lo spirito sarebbe
l’essere chiuso in se stesso, un dato di fatto tenebroso, non illuminato da luce di coscienza. Lo spirito è la storia nel suo interno conoscersi. Nel suo concretarsi attuale lo spirito pone la sua storia accentrata nella sua attualità. Onde, ogni momento di coscienza, ogni pulsazione vitale dello spirito è storia, ed è storia in duplice senso: come res gestae e come historia rerum gestarum. Oggi atto spirituale è un conoscere che è un fare, poiché, non essendo la conoscenza passiva contemplazione di un oggetto in sè, d’un mondo di idee, ma un perpetuo ritrovamento che il pensiero fa di se stesso, sì che nel momento in cui pensiamo la scienza della natura, o la storia, questa natura o questa storia pienamente rispondono alla nostra intellezione, la conoscenza è sempre conoscenza dello spirito che si fa oggetto a sè ritrovandosi nel suo oggetto, il conoscere è attività, è fare. E appunto perchè la fa, la storia, (e non per averla fatta, secondo il principio del Vico, perchè altrimenti questa storia, fatta da altri, apparirebbe non meno oscura di quel che al Vico sembrasse la natura creata secondo le arcane leggi di Dio) egli la conosce la storia, e res gestae e historia rerum gestarum vengono inscindibilmente congiunte nella sintesi dello spirito; il quale, concretandosi, crea sè e la sua storia ».
STORIA È STORIOGRAFIA
Ma quella che noi chiamiamo storia, il passato, e il valore concreto dei documenti che ce lo attestano, non sono dati definitivi ed incontrovertibili, anteriori ed estranei al pensiero attuale, che deve solo prenderne nota secondo canoni precisi di metodo, indagarli e trascriverne oggettivamente il contenuto?
L’Omodeo risponde: «Basta un solo sguardo alla nostra realtà per convincersi della fallacia dell'aspirazione volgare alla historia definitiva. Che cosa è tutta la nostra vita, tutto il nostro fare se non una perpetua affermazione che ciò che si è fatto prima di noi, ciò che hanno fatto i nostri padri, le innumeri generazioni già vissute, ciò che abbiamo fatto noi stessi fino all’istante precedente non è tutto, e che nel passato’ non si è realizzato tutto il valore, e che ciò che ha valore è ciò che noi facciamo, ciò che noi realizziamo, sia un pensiero filosofico o, che è lo stesso,, il colpo di vanga che il contadino infigge nella
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terra da cui il lavoro suo e dei suoi padri non ha ancora attinto tutto il frutto, o il colpo di maglio del fabbro sul suo nuovo lavoro? E tale attività nostra, che è negazione del passato, non è, nell’atto stesso in cui lo nega, una riaffermazione del passato trasvalutato, del passato a cui il nostro presente dà un valore nuovo, ponendolo come quel determinato passato che, hic et natte, si corregge, se è errore o, che è lo stesso, si completa, se non è finito? Allora il passato non è l’irrevocabile passato, la sfinge fatale ed enigmatica, ma è il passato che attinge il suo vero valore nel nostro fare, nella nostra vita, a cui noi determiniamo il valore nel nostro conoscerlo, che è simultaneamente il fare la nuova storia, le nuove res gestae. Anche il fatto storico che può parer più obbiettivo, una determinazione cronologica, ad esempio, che Giulio Cesare fu pugnalato agli idi di marzo del 44 av. Cristo, ha un valore solo in quanto è fatto dal mio pensiero. Che se tale affermazione non la si vuol ridurre a un puro flatus vocis, questa determinazione cronologica ha solo un senso nella serie cronologica che io pongo, che culmina nell’istante in cui la penso; e quel Giulio Cesare non può essere un puro nome, ma il Giulio Cesare che io penso o determino in quella certa crisi storica della repubblica romana, che io valuto mediante tutta la mia esperienza storica, che. è diversa da quella che poteva avere Bruto, o un umanista classicheg-S’ante del ’400 o l'Alfieri: insomma, il mio iulio Cesare. Impossibile Scindere l’essere di Giulio Cesare da questa valutazione di pensiero: tolto il suo valore, svanirebbe anche il personaggio storico» la storia tutta *.
L’ESPERIENZA PURA E LA REALTÀ STORICA
Sta bene, dirà qui il lettore. Ma in quéste parole c’è una duplice affermazione. L’una che il passato, la storia non « contemporanea », quella che fu prima del mio atto presente di pensare, in questo atto è, si rinnova, si trasvaluta, è momento dell’attualità del mondo; l’altra, che questo stesso permanere e rinnovarsi in momenti successivi è una serie, una catena, una successione definita nel tempo, in cui ciascun momento e ciascun fatto ha la sua concrèta individualità, e, per trapassare che faccia nei momenti successivi, non si annulla come fatto, come momento
definito. Tanto è vero che prima del nostro Giulio Cesare ce ne furono innumerevoli altri e innumerevoli ve ne saranno ancora; diversi sempre, come momenti attuali di un mondo di valori, ma sempre riferiti a quell’unico individuo momento della storia che è Giulio Cesare, quello che rea’mente morì, pugnalato, negli idi di marzo, ai piedi della statua di Pompeo.
A rispondere a questa difficoltà che sta nel concepire la storia come serie di momenti discréti, e di individualità definitive, nel tempo, come un complesso di fatti, che sarebbero Voggeilo del rostro sapere storico, è rivolta la interessante prolusione al corso di filosofia teorètica tenuta dal Gentile nella R. Università di Pisa il 14 novembre 1914 e pubblicata dalla Libreria della Voce (L'esperienza pura e la realtà storica). Difficile è scegliere un brano o riassumere. Leggiamo, tuttavia, una pagina: « Il costituirsi della individualità dell’autocoscienza nella logica della pura esperienza non è un atto che si svolga e si esaurisca. Non ci sono individualità costituite, come non c’è nulla di bello e determinato. Provatevi a fissare col pensiero qualche cosa che si presupponga determinato per es. il Giulio Cesare storico, e l’atto vostro sarà una nuova creazione, che riaprirà il processo. Il che vuol dire che l’autocoscienza, nella sua individualità, si costituisce all'infinito; e che questa individualità pertanto non si spezza in una moltitudine discreta d'individui, ma in un processo continuo di individuazione. E quello, per esempio, che si dice Divina Commedia, non è a rigore, un’opera di una certa fantasia individuale inclusa dentro i brevi termini della vita d’un uomo morto nel 1321; questa è un’astrazione. La Divina Commedia concreta è quella che leggiamo e interpretiamo e giudichiamo; e l’interpretazione e il giudizio, in cui il poema divino s'incontra e mostra l'esser suo, non c'è, nè ci sarà mai nessun De Sanctis che potrà darli definitivi. Che, del resto, se una interpretazione volessimo pur considerare come definitiva, essa stessa in ogni caso non potrebbe essere riaffermata senz’essere a sua volta interpretata; e, comunque, il lavoro, pertanto, attraverso il quale si prolunga il processo instauratorc di quella creazione spirituale che si dice Commedia, si produce nei secoli, si complica con tutto il progresso dello spirito; e affluisce nella corrente generale del pensiero o della cultura.
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« Ma si badi che quest© processo infinito della esperienza pare bensì che si svolga nel tempo, nel succedersi delle età, degli anni, dei momenti; ma esso non è temporale, come non è spaziale. La storia non comprende le morte stagioni, di cui parla il poeta nella sua fantastica concezione dell’infinito. Ciò che è morto, è fuori dello spirito, che è la stessa immortalità. La Divina Commedia, nella cui lettura c’esaltiamo, non è quella che fu scritta sette secoli fa, ma quella che scriviamo noi leggendola; e però fu detto profondamente che gustarla è segno di grandezza. E ogni storia perciò è stata a ragione detta storia contemporanea, dove non rivive il passato, ma vive esso il presente con i suoi interessi e le sue passioni e le sue aspirazioni e la sua mentalità; non essendo essa al postutto non la rappresentazione, o meglio la produzione della mentalità dello storico. Il passato che entra nella storia è il passato sopravvissuto nel presente: è cioè lo stesso presente. Di attuale, di reale lo spirito non conosce altro che il presente, che non è altro se non questa attualità sua, da non confondersi con quel presente che distinguendo e componendo insieme le parti astratte dell’esperienza si colloca come punto intermedio tra passato e futuro; e che è esso stesso infatti uno dei momenti del tempo, laddove il vero presente è estra-temporale, eterno e recante nel proprio seno, come contenuto, tutto iltempo con la sua falsa infinità o eternità. Sicché il processo dell’esperienza nell’attualità sua è un processo eterno ».
Negazione, dunque, in sostanza, della storia, allo stesso modo che negazione del tempo. Nel rigido idealismo assoluto del Gentile la conoscenza non è conoscenza storica essenzialmente per le stesse ragioni per le quali, per il filosofo scolastico, non è storica la visione divina: ma simultanea visione di tutto quello che è nel tempo nell'atto eterno in cui ogni reale si invera. E non c'è storia anche perchè non c’è, nel sistema del Gentile, molteplicità di individui. « L’individuo è un’astrazione ». Ritenga questo il lettore, al quale presenteremo, in una prossima rassegna, un sistema di filosofia idealistica orientato in senso precisamente opposto, volto cioè alla ricerca della vera realtà nella concreta individualità, in cui ogni vivo momento dell’essere è uno, personale, in sè se non a sè.
FILOSOFIA E METODOLOGIA
Ma l’identificazione di filosofia e storia è parte integrante di quel felice e fecondo processo di revisione critica per il quale il nome di B. Croce rimarrà legato alla storia della cultura italiana. In B. Croce l’unità dello spirito non giunge alla assoluta indistinzione dell’atto puro di G. Gentile; egli ha preso le mosse da una partizione delle attività dello spirito in teoretica C pratica, e di ciascuna di queste due ih due nuovi gruppi: filosofia e arte, economia e morale. Nella prima fondamentale partizione del pensiero teoretico doveva trovare posto la storia; la quale, se è arte in 3uanto concreta storiografia, espressione i quel mondo di visione e di pensiero che lo storico si è formato ed espone, come è arte, nello stesso senso, l’opera del filosofo, è poi pensiero o filosofia, come concezione razionale della vita e del mondo, pur nei limiti, formali od empirici, di una data trattazione storica. E da principio il Croce parlò di riduzione della storia a filosofia; e, storico egli stesso, trattò la storiografia e la storia da questo punto suo di vista; poi, approfondendo il suo pensiero e semplificando, è venuto alla identità delle due discipline, nell’unità del pensiero teoretico. La filosofia è, per lui, immanenza del pensiero nella attività dello spirito, cioè nella storia. In questo processo il contenuto — la realtà storica — si risolve intieramente nella forma, l’atto del pensare che è l'universale concreto. L’oggetto, quindi, la storia come fatto e dato, esiste solo nella sua inscindibile unità con la forma, che è l’atto del pensare, l’autocoscienza di quella storia; e non c’è storia, come non c’è pensiero, altro che in questa sintesi di contenuto e di forma, in questa immanenza che dice a un tempo il soggetto e l’oggetto, lo spirito pensante e la natura, il passato e l’attualità.
Questo suo giudizio della storia come filosofia il Croce ha espresso incidentalmente in più luoghi e piò di proposito nella memoria: Storia, cronaca e false storie (Napoli, 1912, negli Atti dell’Accademia Fontaniana). Ora egli annunzia un volume, IV della Filosofia dello spirito, di prossima pubblicazione; la Teoria della storiografia; e di esso dà un breve saggio nella Critica del 20 luglio del corrente anno, sotto il titolo: Filosofia e metodologia.
In questo egli scrive: « Stabilita l’unità di filosofia e storiografia, e mostrato che al
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partizióne fra le due non ha altro valore ehe letterario e didascalie©, perchè si fonda sulla possibilità di collocare al primo piano nell’esposizione verbale ora l’uno ora l’altro dei momenti di quella unità, giova aver ben chiaro a che cosa si riduca il ‘momento propriamente filosofico, che informa le trattazioni designate col nome tradizionale di teoria o di sistema filosofico; a che cosa (a dirla con parole correnti) si riduca la filosofia.
« La filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata messa, non può essere altro che Metodologia della storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi Storici o (per dirla anche qui in modo corrente) dei concetti direttivi dell’interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per soggetto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (o di altro, se altro si riesce ad escogitare), e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell’Estetica e della Logica; del-l’Economia e dell’Etica, e tutte le congiunge e risolve nella Filosofia dello spirito...
« La definizione della filosofia come ' metodologia ’ non va sulle prime esente da dubbii, anche per parte di coloro che accettano in genere la tendenza eh'essa designa; perchè filosofia e metodologia si trovano sovente messe in contrasto, e una filosofia che versi nella metodologia suole ricevere taccia di empirismo. Ma certamente la metodologia, della quaie intendiamo discorrere, non è niente di empirico, anzi sorge appunto a correggere e sostituire, dove è possibile, l'empirica metodologia degli storici di mestiere e di altrettali specialisti, la quale, del resto, nella sua maggior parte, è un vero e proprio sebbene manchevole conato verso la soluzione filosofica dei problemi teorici suscitati dallo studio della storia, ossia verso la metodologia filosofica o la filosofia come metodologia. Per altro, se l’anzidetto contrasto si compone agevolmente, non accade il medesimo d’un’altra opposizione nella quale il concetto da noi pro-Ìx>sto si trova col concetto assai antico e argamente divulgato della filosofia come risolutrice del mistero dell'universo, conoscenza della realtà ultima, rivelazione del mondo noumenico, che sarebbe di là dal fenomenico nel quale ci aggireremmo nella vita ordinaria e si aggirerebbe la considerazione storica. Non è il caso di ritrac
ciare qui la storia di tale concetto; ma questo almeno bisogna dire, che la sua origine è religiosa e mitologica; e che esso persistette persino nei filosofi che più validamente avviarono il pensiero verso l’umano ed il terreno come unica realtà, e iniziarono la nuova filosofia come metodologia del giudizio ossia della conoscenza storica. Persistette nel Kant, che l’ammise come limite della sua critica; persistette nello Hegel, che inquadrò le sue squisite ricerche di logica e di filosofia dello spirito in una specie di mitologia dell’idea ».
Non si allarmi il lettore timido di queste dichiarazioni iconoclaste. Esse non sono che la teorizzazione dialettica del concetto dell’ immanenza. Chè poi nel più umile fatto storico e nel più tenue atto di vita c’è tutto «l’enorme mister dell’universo»; e abbiamo visto che facendo solo un passo innanzi, da Croce a Gentile, noi ci troviamo subito in cospetto dell’extratemporale, eterno, infinito. Diverso è, innanzi tutto, il modo di impostare la questione. E, del resto, anche la vecchia metafisica domma-tica era, a suo modo, interpretazione del reale, canone storico. Ma di ciò avremo occasione di dire più largamente quando si tratterà di esaminare qualche applicazione diretta del pensiero crociano alla storia ed alla filosofia della religione.
LA REALTÀ DEI FATTI STORICI
Una tale dottrina della filosofia e della storia, nuova ancora per molti, non mancherà di sollevare discussioni. Un accenno ne abbiamo in un articolo polemico di P. Carabellesc nel n. ultimo del Conciliatore (II, 1915, fase. 3-4. Con questo n. la rivista cessa di esistere).
Il C., dopo aver parlato di un articolo di G. Stepanoff (Cultura filosofica, 1915, n. VI), il quale nega rotondamente la realtà dei fatti storici, perchè «in un grossolano realismo ingenuo concepisce la realtà come qualche cosa di statico, come un mondo di cose entro le quali possiamo però anche trovar le traccie di quello che è statosi occupa poi del discorso di G. Gentile del quale abbiamo parlato sopra; e citando parti del brano da noi riferito, esamina il concetto di realtà del Gentile ridotto alla pura attualità e cosi argomenta: « Delie due l’una: o il passato non è assolutamente nulla e resta inesplicabile la coscienza che abbiamo del passato; o è qualcosa, e non può non porsi in un qualche modo ac-
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canto al presente, non può non essere insieme còl presente nella nostra coscienza ». Gentile risponderebbe che esso è non solo qualche cosa, ma tutto; non accanto al presente, ma nel presente. « Nel primo caso la realtà storica che, se non si risolve del tutto nella coscienza del passato, certo richiede questa a suo fondamento, non è possibile perchè appunto le manca il fondamento; è inesplicabile come la coscienza del passato. Nel secondò caso questa coscienza del passato è ineliminabile dalla esperienza, e se « la realtà è l’esperienza nella sua immanente consapevolezza », la realtà «non è soltanto presenza». Gentile risponderebbe, probabilmente, che sì, il passato è realtà nella attualità in quanto questa non èstasi, ma momento dialèttico, superamento, inveramento, e quindi implicazione del passato, come presente, a parte ante.
Il C. non si quieta alla definizione che G. ha dato dèi tempo; e della presenza del passato non come di un momento del tempo, che sarebbe una astrazione. Egli trova, in sostanza,-che l’errore iniziale sta nell’identificare essere con realtà (meglio si direbbe: con attualità)', e, in nota, suggerisce un Suo concettò secondo il quale • ciascun soggetto, in quanto essere, ha le tre determinazioni dell’Essere, e quindi ha un passato e perciò una esistenza, un presente e perciò una realtà, un futuro e perciò una idealità ». Ma che cosa sia questa • esistenza» del passato, diversa dalla realtà e definibile, se è davvero passato, come non più esistenza, ci è difficile intendere.
Prescindendo da questa astrusa questione del tempo, e dalle considerazioni che vi fa sopra il G., ci pare che questi indichi, benché di sfuggita, il nodo vero della questione quando sul finire parla dell’assillante problema della molteplicità dei soggetti nell’unità del mondo e, timidamente, ritorce contro il G. l’accusa di astrazione. Il problema della storia ci si presenta non solo nè principalmente come problema del passato nell’attualità, ma come problema di storia con temporanea; è la molteplicità ineducibile degli individui, dei punti di vista aperti sull’universo, dei momenti di autoctisi dello spirito, è il numero degli io empirici, questo scandalo dell'idealismo, che non ci permette di quietarci a questa identificazione totale ed attuale dell’io empirico con l’io assoluto, e pone il problema della storia come problema dei molti così nello spazio come nel tempo; dei molti nell’uno.
Noti, ora, il lettore che questo modo di intendere la filosofia come storia, e viceversa, da noi brevemente illustrato, porterebbe uno sconvolgimento grande specie nella trattazione della storia della filosofia;, nella quale dovrebbero prender parte tutti i « pensatori » più insigni, quelli che, con più acuta penetrazione, da qualunque ramo delle discipline scientifiche, storiche o politiche, si sono elevati ad una più alta visione della realtà e della vita come di attività dello spirito.
LA FILOSOFIA E LA SUA STORIA
Del rapporto fra filosofia e storia di essa si occupa anche L. Botti nella Riv. di fil. neo-scol., fase. Ili, 1916; ma, in verità, non siamo riusciti ad intendere chiaro il suo pensiero; tanto esso si avvolge in faticose complicazioni e procede fra « riserve e rettifiche » e vuol essere « equilibrio fra estremi ». Nè il B. ci par sempre d’accordo con se stesso; p. es. scrive (pag. 278): • Il cóm-pito storico è soltanto introduttivo, perciò acefalo; mentre quello della filosofia di principio è piuttosto finale ». Ma poi (pa-Sina 281): « La storia della filosofia appare unque una ragione filosofica in sviluppo, diretta dal più al meno certo, ma in modo che la sua ragione finale è già intravve-duta fin dalle origini ».
Così (pag. 285) dice che la filosofia non è la somma di tutte le scienze; ma poi spiega: « Presuppone ogni altra disciplina, ma ad ogni altra si sovrappone, in quanto prova i risultati di tutte mediante le comuni e più generali leggi de’la conoscenza ». E non è questo esser somma? Oh che si sarebbe dovuto trattare di una somma quantitativa?
In sostanza, si vede che il B. è combattuto fra due opposte tendenze; vuole intendere la filosofia come attività, come sviluppo e divenire, e ciò lo porterebbe logicamente a identificarla con la sua storia; ma d’altra parte l’omaggio alla philosobhia perennis cristiana lo forza a distinguere dalla filosofia genetica una filosofia sistematica, dal divenire la dottrina; è allora la filosofia vera è nella stòria, in quanto il pensiero le gira intorno e le si avvicina e se ne allontana, ma è superstorica, a un tempo, una in sè e definitiva.
Ma in fondo in fondo prevale nel B. il concetto della filosofia come divenire e sviluppo. Poiché egli conclude: « Sta il fatto che ogni fase ed aspetto di tale sviluppo
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sono sì intimamente connessi tra loro e l’uno all’altro necessari, che ciascuno preso per sé solo non può costituire se non un punto di vista particolare, un aspetto specioso e parziale della medesima realtà. La quale, per conseguenza, è costituita dalla somma e sottrazione infinita di tutti gli aspetti e di tutte le fasi. Lo sviluppo dell’indàgine equivale, in ultima analisi, al proposito logico e naturale di ricondurre tutte le differenziazioni, in cui fatalmente il sapere ha spezzato il contenuto primitivo (?), a comporsi in quel nesso indifferenziato ed infinito da cui purè provengono ed a cui la tendenza unificatrice della ragione si sforza di pervenire ».
Se abbiamo bene inteso — il lettore vede che lo stile del B. rende necessaria questa riserva - siamo tentati di dire : benissimo! Ma allora la filosofia coincide esattamente con la sua storia; e i sistemi, assoggettati a questa somma e sottrazione infinita, sono, nella loro individualità, meno che storia, semplice filologia.
Se questo pensiero centrale, ma ereticale, fosse saldo nella mente del B., il suo studio avrebbe avuto tutt’altro svolgimento; e certo non a scapito della chiarezza.
STORIA DELLA FILOSOFIA
Fra i libri di ogni persona mediocremente colta non dovrebbe mancare una storia della filosofia moderna. Poiché questa è nel suo insieme lo sforzo di riflessione critica su se stessa che l’Europa ha compiuto uscendo dal lungo periodo di dom-matismo ingenuo; e a questo sforzo, se si è spiritualmente vivi, bisogna in qualche modo partecipare: cioè, innanzi tutto, conoscerlo.
Un libro da suggerire, sotto questo aspetto, è il compendio di storia della filosofia moderna di H. Hóffding (Fili Bocca editori, 1915), nella buona versione di L. Limentani; libro sommario, e pur perspicuo, che va dagli albori del periodo naturalistico e critico sino alle soglie della filosofia più propriamente contemporanea. Uno storico della filosofia rischia sempre di cadere in uno di questi due eccessi; o è un filosofo, con un suo sistema, e nella filosofia non vede che lo sviluppo di quel sistema, facendo la storia di esso, per tesi ed antitesi; o è spiritualmente indifferente ai problemi filosofici, e ciascun filosofo gli si distacca dalla serie e i problemi si intersecano e si confondono e la narrazione diviene bio
grafica e filologica. L’Hòffding evita i due estremi; l’unità della filosofia moderna è per lui, non nella lenta elaborazione di una filosofia, ma nello sforzo di revisione critica del pensiero e del materiale di pensiero: unica fonte di molteplici atteggiamenti, nei quali l’H. vede poi ed indaga con interesse nè di specialista nè di dilettante il sorgere e il porsi dei singoli problemi: epistemologico, deontologico, morale, religioso, ecc., e il punto di vista e il metodo seguito dai varii filosofi, più che la coerenza delle soluzioni e la spesso incoerente ed eterogenea unità del sistema.
E per questo il suo libro è alla portata anche dei mediocremente colti in questa materia. E, se le molte filosofie ed i molti filosofi dei quali egli tratta sono talora aggruppati un poco arbitrariamente e ridotti, con un certo semplicismo inevitabile, a poche e parziali note caratteristiche, la visione di insieme che ne risulta corregge queste parziali insufficienze e difetti, dovuti alla natura stessa di un compendio, e dà una chiara idea del movimento filosofico in questi ultimi secoli. Da questo compendio chi volesse può passare alle maggiori opere dell’H. che qui sono riassunte; e in particolare alla storia della filosofia moderna, della quale la casa Bocca ha anche pubblicato la versione in due grossi volumi, e alle monografie contenute nei Filosofi moderni.
La filosofia italiana dell’ottocento o del settecento ha in questo compendio una parte eccessivamente modesta; basti dire che G. B. Vico non vi è neanche nominato, e di Gioberti e Rosmini vi si fanno a pena i nomi. Ed è questo un difetto al quale sarebbe stato desiderabile che la versione italiana riparasse, con una buona introduzione e con note.
m.
E. Buon aiuti, Il Cristianesimo nell'Africa romana. Roma, tip. del Senato, 1915.
Sotto questo titolo E. Buonaiuti pubblica la sua prolusione al corso di storia del Cristianesimo da lui iniziato in Roma il 23 no-
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vembre 1915. Indubbiamente, se non mi fa velo l’amore che ò per gli studi di cui sono umile cultore, non si poteva cominciar meglio, tanta è l’importanza dell’Africa nella economia materiale e spirituale del mondo romano e quindi della storia del cristianesimo. Oltre a ciò l’Africa con la larga messe di ricerche di cui i dotti Irancesi ànno arricchito il mondo scientifico, offre un ottimo campo per l’inizio d’un corso di storia del cristianesimo, mercè la sicurezza e l’ampiezza dei dati che mette a disposizione degli studiosi.
E per me à pur un altro merito un simile principio, quello di dimostrare quanto sia intimamente connessa ad un duraturo trionfo del cattolicesimo la romanità. Se l’oriente à dato il cristianesimo, solo dall’occidente esso ebbe la vitalità e la supremazia e dall'Africa che fu dei due punti, per dir cosi, il tratto d’unione, la vigoria e lo spirito. E questo ben delinea il B. nella sua prolusione, terminando con un felice accenno per l'appunto allo spirito storicosociale che l’Africa con Agostino portò nella dottrina cristiana, facendolo quasi il vangelo della nuova civiltà : lo spirito di ascensione idealistica che deve informare di sè tutti gli Sforzi umani. Un dotto tedesco, il Troeltsch, dice il B., confrontando Agostino con Fichte, non sa capire in che cosa consista la ancor viva grandezza del E rimo e lo trova vecchio anche per il i. E., mentre il secondo solo gli appare moderno.
Ora, mentre il germanesimo insanguina l’Europa, ciò è perfettamente coerente ed esatto. Ma più che ad attribuire al solo Agostino ed aH’africanesimo della civiltà romana il vanto di questa concezione idealistica della vita delle nazioni, come fa il B. che si ferma per questa affermazione, non gli dispiaccia il rimprovero, un po’ troppo alla superficie, io domando se questo idealismo politico non sia piuttosto la perenne fonte della latinità, ricordando da quella fresca opera che è il De ctvitaie Dei e da cui il B. toglie delle frasi che applica giustamente ai Romani, questo passo ancor più convincente: « Haec sunt duo illa, libertas et cupiditas laudis humanae quae ad facta compulit miranda Romanos» (5, 18). Ossia i principi per cui noi lottiamo ancor oggi: la libertà dei popoli e la concezione idealistica dei loro diritti.
Giovanni Costa.
XXX, Le vie di Roma. Roma, tip. del Senato, 1915.
Non è il caso di perdersi in analisi minute e singolari a proposito di quest’indice alfabetico delle vie di Roma, che non à pretese scientifiche ed à molti meriti. Piuttosto domandiamo perchè gli autori non si accingano, ora che debbono avere, se non approfondito, per lo meno conosciuto tutto il largo materiale che sta a disposizione degli studiosi, ad un’opera veramente scientifica e complessiva sulle vie di Roma, come è stato fatto per Firenze e per Parigi, per non citare altre città storicamente im-8or tanti. Questo che essi dànno ora è un uon saggio: occorre dimostrare di poter fare di più e di meglio.
G. C.
Paul Bourget, Le sens de la mori. Paris, Plon-Nourry, 1915.
. Se nell’altro suo romanzo Le dimon de midi il noto scrittore ha voluto mostrare come il cattolicismo-romano sia (la fede a parte) un saldo elemento di conservazione offerto a quanti (credenti o no) sono in qualche modo interessati a sorreggere ad ogni costo l’ordinamento attuale della società, con questo, facendo un passo verso una concezione mistica della vita individuale, egli mira a conchiudere che la fede cattolica è il solo ideale che può dar colore alla vita, che è in sostanza l’unico ideale degno della umanità. S’intende che per fede cattolica egli intende quel particolare atteggiamento dello spirito che sotto l’influenza della Chiesa Romana si produce nell’anima entusiastica francese dà quando ogni ultimo vestigio della grandiosa teologia gallicana ne è sparito per sempre. Il Bourget non conosce il cristianesimo se non attraverso a degenerazioni morbose o a miseri rim-Siccolimenti, come non sa cogliere l’ideale ella scienza se non toccandolo in cuori freddi che nessuna fede può riscaldare. Che cosa sia religione egli non sa, che cosa importi sentirla da parte di chi ne è capace egli ignora. Perciò ha presentato come un campione della religiosità umana un mistico e gli ha dato di fronte alla passione un contegno morale inverosimilmente frigido ed ha offerto come saggio della insufficienza d’ogni altro comunque nobile ideale un uomo insanabilmente areligioso.
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Si capisce che posti così i termini la soluzione del quesito è data. Resta a vedere se il Bourget il quale è scrittore insuperabile, ma filosofo assai discutibile, abbia discussa come pare ch’egli creda, una .grande tesi, se abbia risolto, come indubbiamente mostrano di credere i clericali, un grave, ponderoso problema.
Egidio Brenna, Pane .spezzato. Convegni di cultura religiosa, morale e sociale. Milano, 1915. Tip. Salesiana.
Serie di dialoghi nei quali FA. tocca una folla d’argomenti disparati e vorrebbe affrontare, senza aver prima riflettuto, una correlativa, quantità di gravissimi problemi.
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Andrea Moretti, La Parola di Dio e i Moderni Farisei. Ristampa con cenni biografici e ritratto dell'A. Bergamo, off. d’Arti Grafiche Conti e C. 1915.
A cura del figlio del dott. Moretti eminente patriota e fervente cattolico, già Deputato al Parlamento ed autore di parecchi scritti diretti allo studio di problemi religiosi esce ora rimesso in luce questo lavoro dettato da un profondo senso di religiosità che pervade e conquide il lettore; La parola viva, del dott. Moretti rileva con abbondanti referenze scritturali come il Fariseismo, l’acre fermento di corruzione contro di cui si svolse tenace l’opera di Gesù, non fu solo il nemico della Religione Mosaica, ma continuò e continua ad insidiare il Cristianesimo.
Intento prossimo del Moretti, che scrisse allora quando ai Cattolici Italiani parve offrirsi il doloroso bivio di scegliere tra le loro credenze religiose ed il loro dovere sacro di patrioti per colpa delle acri rampogne e dell’attitùdine ostile del Vaticano di fronte alla nuova Italia che compì le sue sorti in Roma, era di colpire alla base in nome del Cristianesimo le basse ed insensate rivendicazioni temporalistiche della Sede Romana.
La Rivista Recherches de Science Religieuse. del dicembre 1914 (l’ultimo fascicolo che abbiamo potuto avere) ha uno studio di Paul Galtier in cui, discutendosi sulla riconciliazione degli eretici, si getta molta luce sulla origine ecclesiastica del
preteso Sacramento della Cresima. La imposizione delle mani e la unzione in fronte col crisma, la gemina materia sacramentale della Chiesa Romana, furono così connesse alla riconciliazione degli eretici tornanti alla Chiesa che nella fraseologia di Gregorio di Tours chrismare vuol dire nientemeno che riconciliare. Lo studio è complesso e ben documentato.
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Il rev. Adolfo Cellini stampava sulla Scuola Cattolica del 1® ottobre un articolo «Israele e la Guerra» nel quale dimostrava come due e due fanno quattro, che prima d’intraprendere una guerra si dovrebbe consultare il Papa!....
La pregevolissima Revue de l’histoire des religions nel suo numero di gennaio-aprile 1915) recava di G. Huet un interessante studio « Le conte du mort reconnaissant et le livre de Tobie ». Lo segnaliamo agli studiosi di cose bibliche.
La Revue Philosophique nel suo fase» dello scorso novembre, ha uno scritto di Gaston Richard («La morale sociologique et la crise du droit international ») che merita una particolare attenzione. L’A. ha parecchie giuste considerazioni sulla immoralità del pacifismo, comprendendo sotto questo nome non solo il pacifismo fatalista e quello giuridico, ma pur anche il pacifismo utopico che s’appoggerebbe al-’arbitrato e che si risolverebbe (malgrado a Conferenza di La Haye) nella apologia delle impunità nell’ordine della politica internazionale. Interessante sarebbe il riferire gli art. 568, 569 e 575 redatti dal Bluntschi.i (v. Le droit, internai, codifié. Trad. Lardy Paris - Guillaumin) alle gesta belliche tedesche.
Il medesimo fascicolo contiene (ed è Superfluo segnalarne il valore) uno studio del direttore stesso della Rivista, l’illustre Ribot su « L’ideal quietiste », nel quale la cosiddetta rinuncia al mondo (oltre che •l’anacoretismo) e la condanna dell’io fisiologico, che hanno radice nella dottrina del dualismo psicofisico, appaiono in tutta la loro profonda immoralità sopratutto per le ragioni che stanno a base: la credenza
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che del dolore umano la Divinità si compiaccia e l’opinione (scientificamente in sostenibile) che debilitare il corpo sia rinforzare lo spirito. Accenna poi alla stretta parentela mentale di S. Teresa con un soufi persiano del 120 secolo nel descrivere gli stadii dell’estasi e, dimostrato il carattere patologico dell’ideale preso in esame (condannato poi dalla Chiesa nel suo eccessivo sviluppo teoretico con Mo-linos, poiché esso giungeva al curioso effetto di un ripudio radicale dell’io morale), lo studia da pari suo minutamente concludendo col qualificarlo un suicidio spirituale.
Nella Revue historique fondata dallo storico Monod troviamo (fase, d’ottobre 1915) un lungo cenno consacrato alla memoria di Jules Soury recentemente deceduto a Parigi. Il Soury era il tipo più perfetto di clericale - ateo e come tale la Rivista lo ricorda forse anche più che per i suoi studi, giacché il Soury fu letterato, filosofo, storico ed esegeta tutt’altro che trascurabile, specialemtne per le ricerche compiute con perseverante cura sullo personalità umana, ma sopratutto il sua nome fu noto per la sua confessione aperta di materialismo e d’ateismo che non gli impedì di dichiararsi clericale d’opinione e cattolico di tradizione, di fare pubblicamente ogni anno la suà solita novena a S. Genoveffa Patrona di Parigi, e di chiamare honoris causa al suo letto il suo curato. Che cosa rappresentò agli occhi di questo razionalista la religione? Forse una immutabile tradizione nazionale? O senz’altro una forza utile a contrastare il progresso delle democrazie? L’una b l’altra cosa sia, è certo che quest’uomo fu singolarmente nobile nell’affermarla intera questa sua strana fede, mentre pur troppo il clericalismo in Francia, come in Italia, come dovunque ne trovi, s’allea volentieri ad uomini che di fede cristiana ne hanno, praticando il cattolicismo, tanta quanta n’ebbe il Soury, ma che viceversa appoggiano alla Chiesa non degli ideali di puro conservatorismo;., ma dei volgari interessi.
Uno. scritto che riteniamo assai utile far noto almeno ai lettori nostri pur non potendo riassumerlo abbondantemente, come vorremmo, è quello di Alf. Morel-Fa rio, « Les neocarlistes et l’Allemagne » pubblicato nella Rivista Le Correspondanl del 25 luglio 1915.
Con un’abbondanza e una sicurezza di documentazione impressionanti il Mo-rel-Fatio, dopo aver illustrato molto bene il partito che pur avendo sempre per capo nominale Don Jaime è ora diretto assai efficacemente da un D. Juan Vasquez de Mcila y Fanyul, uomo di pronto ed accorto ingegno tutto infeudato alla Germania ed ostilissimo alla Francia, spiega le ragioni della influenza tedesca su d’un partito d’una così notoria intransigenza cattolica.... e getta molta luce su certa sacra neutralità e su certo santissimo pacifismo...
Abbiamo sott’occhio un interessante numero della Civiltà Cattolica, il quaderno 20 novembre 1915. Lo scritto « Lezioni dell’ora presente » tocca beninteso questa meschina Italiuccia che non si prostra al Papa e non ne fa l’arbitro dei suoi destini, ed insegna un disprezzo profondo dello Stato italiano che in un’ora ferrea seppe mostrare d’essere forte più di quanto credeva la Compagnia: FA-. dell’articolo, si capisce, mette in guardia i lettori contro il pericolo della statolatria... ma qualche cosa d’altro tra le righe ci si legge assai facilmente.
Nel medesimo quaderno in « Saggi di letteratura corrente » occorre una accaldata protesta a proposito dello scritto di G. Provenzal (v. Nuova Antol. del 16 settembre 1915) « Contro Aristotele ».
Il Provenzal aveva veduto e segnalato come un pericolo, oltre quello germanico, ed assai allato a questo, il dogmatismo e l'imperialismo Vaticano; si vede, a giudicare dall’asprezza del tono civile e cattolico, che la Rivista, che ne è l’organo più magniloquente, è toccata sul vivo.
S. Bridget.
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IL COMPITO CHE SPETTERÀ AI MAESTRI
DOPO LA GUERRA.
« In tempo di pace ci siam preparati alla guerra: è ben giusto che in tempo di guerra ci prepariamo alla pace ». A questo motto, invocato da molti che giustamente si preoccupano in Inghilterra del « pericolo della paté », cioè di una pace a cui la nazione fosse altrettanto impreparata quanto lo era alla guerra quando essa scoppiò, sembra si sia ispirato il professor Cloudesley Brereton in una sua conferenza a professori di scuole normali, sull’argomento della missione che li aspetta all’indomani della pace.
Da essa estrarremo alcune considerazioni che, con lievi riserve, possono valere egualmente per le nostre scuole e per i nostri insegnanti.
« ... Se la nostra missione educativa è sopratutto spirituale, l’idea che noi dovremo inculcare o mettere Siù in evidenza è che una nazione non è una specie i gigantesco porcospino irto di aculei mortali, che rappresenta un pericolo permanente per tutte le altre nazioni confinanti, ma che essa è realmente un'entità morale e spirituale, una specie di anima collettiva, la quale ha i suoi doveri e le sue responsabilità non meno che l’individuo. Nostra mira deve essere di sviluppare in ogni nazione una specie di coscienza di corpo, che ci renda decisi a non permettere che una nazione commetta grandi torti e ingiustizie, almeno verso altre nazioni civili: o che se le commette, sottostia alla sentenza di un arbitrato.
Dal Medio Evo in poi, il senso dei doveri di una nazione verso un’altra ha in realtà retrocesso... I rapporti fra nazioni sono tutt’ora, con poche eccezioni, troppo simili a quelli esistenti fra belve feroci. La diplomazia non significa troppo spesso, che il tentativo di ottenere con la frode quello che in ultimo è riserbato fórse alla guerra di ottenere.
Nostro compito è di suscitare in tutte le nazioni di Europa un senso squisito della parte che spetta ad ogni nazione nel mantenimento della giustizia, nei rapporti con altre nazioni. Al presente, nói siamo
Atene e Roma. Firenze, anno XIX, n. 209-210; maggio-giugno 1916 - Camillo Morelli: « Floro e il certame capitolino » - Carlo Albizzati: « Oggetti d’arte neo-classica-creduti antichi ■ - Arnaldo Alterocca: « L’Arte di Plauto • - Dario Arfelli: « Bacchilide X» (XI Trad.) - Recensioni - Libri.
Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausi-liarie. Roma, anno XXIV, fase. 283; 31 luglio 19x6 -XX: « Per gli orfani della guerra » - P. C. Rinaudo: • L’evoluzione economico-so-ciale delle forme della tecnica » - P. G. B. Familiari: • La Bulgaria » - Sunto delle riviste - Esame d’opere -Note bibliografiche - Cronaca sociale.
La Cultura Filosofica. Firenze. Anno X, n.3; maggio-giugno 1916. F. De Sarlo: « La psicologia di C. Bonnet » - C. Ran-zoli : » U tempo nella filosofìa post-aristotehea » - E. P. La-manna: «Il fondamento morale della politica secondo Kant ». Note e discussioni - Recensioni.
Rivista di filosofia neo-scolastica. Milano, anno Vili, fascicolo 3; 30 giugno 1916 -Mario Sturzo: « L’eroismo; sua natura e sua funzione » - Amato Masnovo: « L’articolo nella Somma Teologica di S. Tommaso » - Francesco Olgiati: ■ Il problema della conoscenza in Josiah Royce » - Luigi Botti: • I problemi filosofici » - G. B. Biavaschi: ■ Intorno alle origini del potere civile • -Bodhan Rutkiewicz: « Condi-zionalismo e causalismo nella biologia ■ - Dina Puliti: « In memoria di Augusto Conti » -Analisi d’opere - Questiono]
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nano: Agostino Gemelli: « Ancora intorno allo studio della psicologia della preghiera » -Notiziario.
Rassegna nazionale. Firenze, anno XXXVIII, i® luglio 1916 - Giacomo Cottini: «Nel XXV anniversario della morte dell’Ab. Antonio Stoppani » - R. Corniani: « A guerra finita » - O. J. Tencajoli: « La lingua italiana in Corsica • - Paolina Cartoni: « La donna e i compiti di domani » - L. F. Tibertelli De Pisis: • Bartolomeo da Saliceto da Bologna primo lettore del Ì'us’, nello studio ferrarese » assegna politica - Libri e riviste estere - Note e notizie.
— 16 luglio - Angelo Ragghiai) ti, Salvatore Dalmaz-zoni: « I mutilati e gli orfani di guerra, ciò che per essi si pensa, si giudica, si fa e si farà > - Guido Battelli: « Per una ristampa di ‘ Fede e bellezza, del Tommaseo » - Alter Ego: « Per difendere » - Luciano Gennari: « Intorno alla tragedia francese » - G. Rocchi: « Visioni serene » - Pietro Pagnini: « Gli enti fisici: I Greci e gl'italiani » - Recenti pubblicazioni - Rassegna politica - Libri e Riviste estere -Note e notizie.
La nuova rassegna. Roma, anno I, n. 6-7; 5-20 luglio 1916 — Nota del mese - Jules Destrée: «L’opinione liberale e la guerra » - Francesco Arcà: • Per la storia dell’ultima crisi » - Meuccio Ruini: « Il patto russo-nipponico » - Romolo Murri: « Sazonof > - Note in margine - Vita estera - Vita nazionale, ecc.
Conferenze e prolusioni. Roma, anno IX, n. 13; 1® luglio 1916. — Luigi Bacci: « Il ' don Chisciotte ’ » - Gabriele D’Annunzio: « La diana > -Roberto Paribeni: « La colonna di Trajano », ecc.
molto sensibili, forse troppo sensibili, alle questioni che involgono l’onore nazionale. La condotta delle nazioni rassomiglia, invero, a quella dei cortigiani del sec. xvm che potevano sempre uscire dalla parte del torto sfidando a duello l’avversario. Il duello fra nazioni dovrebbe essere impedito da un’educazione, che non si limiti a condannarne la pratica, ma faccia sentire quanto preferibili siano altri ideali di onestà e di onore. Nel passato, il simbolo della nazione è stato troppo spesso un cavaliere rivestito di armi lucenti: una nazione moderna dovrebbe piuttosto E rendere per suo prototipo un uomo, onesto che, ducioso nell’onestà altrui, tenta di comporre le sue vertenze con l’intervento pacifico di un terzo...
Scendendo più in particolare al compito di una scuola che vuol formare i maestri del popolo, l’ideale che noi dobbiamo promuovere è quello di uno spirito di simpatia umana basata sulla comprensione degli altri; o, in altre parole, noi dobbiamo aggiungere all'educazione dell’intelligenza e della’ volontà quella del sentimento. Ciò non dovrà farci deprezzare il patriottismo e molto meno farci diventare dei cosmopoliti all’acqua di rosa. Al contrario, dovrà rendere il nostro patriottismo più forte che mai, poiché lo costruirà secondo una struttura cellulare in cui le unità del patriottismo locale si comporranno in un patriottismo nazionale, e questo alla sua volta si svilupperà in quel tipo d'internazionalismo il quale sa rispettare il patriottismo d'ogni altra nazione, in opposizione a quello caratterizzato dal “ Deutschland Uber Alles. „ Per spiegarmi con un esempio, sano patriottismo fu quello del francese che disse e un inglese: “ Se io non fossi un francese, desidererei di essere inglese e falso patriottismo fu quello di un inglese che dichiarò: “Se io non fossi inglese... desidererei di esserlo. „
Per indugiarmi un momento sul patriottismo locale, esso dovrebbe, come la carità, cominciare dalla casa propria, se non in casa propria, e nutrirsi di essere viventi e di cose concrete: degli interessi del vicino di casa, della vita cittadina, delle istituzioni, dei monumenti, delle colline e dei parchi della nostra città. La vera moralità, come la vera religiosità, non comincia con idee e dommi (questi sono gli esponenti di un’esperienza adulta), ma con casi, individui, emozioni particolari... L'insegnamento della geografia, ad esempio, dovrebbe esser concepito come studio dell’uomo e del suo ambiente, anziché della natura fisica presa per se stessa: e il trattamento della materia dovrebbe essere ispirato da simpatia per il po-elo e la razza studiata, i toro costumi, i loro usi, la
o vita, la loro arte. Ieri, alla più corta, fui presente alla lezione di un maestro che, presentando per la prima volta ai suoi allievi il popolo giapponese, cominciò con queste parole: “ Ed ora, eccomi a farvi un ritratto di un popolo assai buffo.,. Naturalmente, questo è tutto il contrario del modo con cui si dovrebbe insegnare la geografia... Quanto alla storia
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la cui difficoltà, se non erro, diverrà sempre maggiore riflettendo essa non solo l’aspetto spirituale ma anche quello materiale della vita nazionale, sarà necessario subordinare le sue categorie di spazio e di tempo alla sua unità spirituale e alla sua ondulazione vivente di movimento. La lotta fra capitale e lavoro e fra le forme antagonistiche di organizzazione sociale, prima 0 poi invaderà le nostre scuole: ed io scorgo un solo rimedio per prepararci a questa eventualità, per mitigare l’urto che sorgerà fra le idee cozzanti quando esse saranno penetrate nelle nostre scuole. Cioè, che l’insegnamento della storia additi ai fanciulli i due aspetti della questione sociale, e non già solo quello della parte che avrà il sopravento. Già fin dalla fase dell’insegnamento biografico, sarà possibile presentare ai fanciulli eroi ed eroine scelte da tutti i differenti partiti. Anzi, bisognerebbe basare l’insegnamento della storia sul concetto che essa è piuttosto una lotta fra diritti maggiori e minori che tra un assòluto diritto e un assoluto torto. E bisognerebbe anche sempre guardarsi dal cadere nell’errore di lasciar supporre che la parte che ha maggior diritto finisce sempre col vincere. Al contrario, si potrebbe far osservare che spesso la parte vincitrice è più tardi vinta alla sua volta. L’idea che la storia sia il tribunale di Dio è una splendida idea, ma essa può essere deformata come han fatto gli storici tedeschi, che hanno contemplato la prosperità transitoria della Germania “ sub specie aeternitatis, „ e dipoi han profanato l’augusto tribunale con speciali accuse e deposizioni giurate a carico dei loro vicini,, seppure non hanno del tutto cercato di escluderli dalla difesa. Come Montaigne ha mostrato, lo studio della storia è il migliore allenamento del giudizio, ma questo è solo possibile quando si possono ponderare i prò e i contro, e fare una illuminata scelta... Sempre, specie nella storia europea, in ogni questione si dovrà spiegare, o almeno accennare, il punto di vista delle altre nazioni: mostrare che i nostri avversari avevano dalla parte loro una ragione, o almeno un principio di ragione. Per esempio, nella spinosissima questione dell’annessione di territori appartenenti a razze assoggettate e dei protettorati, nell’esporre le ragioni principali, sia commerciali che di civilizzazione, che ci hanno determinato a questi atti, non dovremo lasciare d'indicare i pericoli che si annidano in questi sistemi di condotta. Ricordiamoci anzitutto, che libertà d’istituzioni significa libertà di discussione, e che sólo addestrando i nostri allievi alla libera discussione, potremo prepararli a scorgere ambedue i lati di ogni questione, e a quel dare e ricevere che è condizione indispensabile di ogni reale progresso.
Qualunque sia il sistema di governo, e qualunque sia l’ordinamento sociale... ogni gerarchia sociale può solo poggiare sopra l’apprezzamento generale dei servigi da essa resi alla comunità. Le gerarchie tutte politiche e sociali hanno la loro ultima ragione nel servizio dell’umanità. Se i loro servigi divengono
— N. 14; 16 luglio 1916. — Francesco Giorgi: « I primi passi verso la rigenerazione economica della Patria » -Giotto Dainelli: «La Dalmazia italiana », ecc.
Bollettino della Società teosofica. Pavia, anno X, fascicolo VII; luglio; 1910. — P. B. Wadia: « Lettere dal quartiere generale » - C. W. Leadbeater: « Australia e nuova Zelanda » -Dott. L. Bombicci Porta: « Psicologia trascendentale » -G. B.: «Il dott. W. Hueble-Schleiden » - Notizie, ecc.
Vita e pensiero. Milano, voi. IV, fase. I; 30 luglio 1016* — Georges Goyau: « L'intesa italo-francese » - Mario Bru-sadelli: « Elevatio in Ponti-ficem et Ecclesiam • - Bernardo Sanvisenti: « Cervantes » - Mons. Giuseppe Nogara: « La guerra in Israele • - Agostino Gemelli: « Ancora in tema di psicologia di guerra » -Pietro Stoppani: « I soldati ciechi e la loro rieducazione Erofessionale » - Benedetto albiati: « Jòrgensen e i tedeschi » - Alessandro Zine-roni: « Nel cinquantenario della guerra del 1886: un glorioso episodio », ecc.
La riforma italiana. Firenze, anno V, n. 7; 15 luglio 1916. — R. Murri: « Religione e filosofia » - La R. I.: « Liberi fensatori o liberi credenti? » . Gentile: « 1/Armenia » -La R. I.: « L’esame nazionale » - J. E. Carpenter: « Luce sulla letteratura ebraica » -G. Conte: « Criteri nuovi -Ragionamenti di tolleranza religiosa e politica » - L. Giulio Benso: « Corriere Femminile » - Fatti e commenti -Letteratura religiosa.
La nostra scuola. Milano, anno III, n. 10-11; luglio-15 agosto 1916. — V. Cento: «L’individuo e lo stato » - G. Gentile :
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« li sofisma del doppio fatto » - G. Santini: « Le aquile e le talpe » - A. Calderara : « Tornano in ¡scena i direttori ■ -E. Bahr: «Il nostro umanesimo» - M. Salvoni: « Una macchia sul muro », ecc. - Recensioni - Pubblicazioni ricevute.
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Voci amiche. Milano, anno VI n. 6-7: 31 luglio 1916. — Perchè la guerra continua? - Lettere di guerra - Il volontario - Appunti d'ospedale - Voci solenni - Il decalogo del cittadino -Santa Polonia - Le sorgenti -Dalla vita - Tra libri e riviste - Conversazione, ecc.
Revue chrétienne. Paris, anno LXIII, giugno-luglio 1916. — Wilfred Monod: « L’appel du Christ à la France » -Leon Sabler: « Le journal ' La situation ecclesiastique ’ et le synode luthérien de 1872 » -John Viénot: « Un honnête homme sous le Directoire» -A. Wautierd’Aygalliers: «Avec les soldats de l'Yser» - H. Cor-dey: « Edmond de Pressensé et la guerre franco-allemande ■ -Michèle Andrée: «Les humoristes et la guerre » - A travers les revues - Les livres -Le mois.
Foi et vie. Paris, anno XIX, n. 12; i° luglio 1916. — Cahier A. - P. Doumergue: « En souvenir » - André Lalande: « Victor Delbos » - P. Doumergue: « Pour le 14 juillet-méditation laïque sur le service social » - Philippe de Félice: « La légende de saint Christophe » - R. Payot: « Lettre ouverte a M. P. Doumergue » - P. D.: « Réponse » - Pierre Chavannes: « Lord Kitchener » - Henri Bois : « L’opinion étrangère: le tournant du chemin » - M. B.: « Quelques mois à l’armée d’Orient ».
— N. 13; 16 luglio 1916. — Cahier A. - Emile Doumergue:
’ inutili come lo divenne il servizio del feudalismo, le gerarchie decadono come il feudalismo è decaduto. Soltanto la reciproca simpatia e la penetrazione nel riconoscere i servigi proporzionalmente resi da individui, classi e nazioni, può salvare il mondo dal caos dell’anarchia o da un regime mortificante di tirannia, e preparare la via ad una nuova messa in valore e riorganizzazione della società.
Perchè questa guerra possa produrre salutari effetti, è necessario che ogni nazione, dopo la guerra, faccia una specie d’inventario dei suoi valori morali, ed elimini la merce avariata e si rifornisca dei beni stabili e veraci...
Questi sono, sommariamente, i problemi che la guerra potrà presentarci ed i principi in base ai quali essi dovrebbero essere risolti.
E per terminare là donde partii, oso pronosticare che se la guerra ci riuscirà favorevole, tra una diecina o una ventina d’anni la nostra educazione inglese che finora si è volta con prevalenza alla Volontà e poi all’intelligenza, avrà compreso la necessità di completare la triade, accordando un'importanza assai più grande che per il passato all’educazione dei sentimenti: l’educazione in generale sarà messa in contatto più intimo con la preparazione alla vita, mentre il tirocinio e la preparazione del futuro maestro verrà sempre più differenziata dagli altri rami di coltura... ».
L’OPERA DEI “ FRIENDS
«La vendétta di Dio».
Un’ammirabile descrizione dell’opera dei « Friends ■ è data da un testimone oculare sulla Contemporary ReviewteX settembre 1915 in un articolo intitolato: « Les Amis ». La signorina Netta Nicolson, dopo aver visitato i diversi campi di attività ricostruttiva degli « Amici », rende loro questa testimonianza : « Essi non vogliono che si parli della loro opera: e ciò è ben naturale: ma noi che abbiamo acquistato una fama immeritata per il poco da noi fatto, siamo in grado di apprezzare gli sforzi di coloro che hanno sì seriamente lavorato. Gli « Amici » sono sconosciuti in Francia come società religiosa, e il titolo « Les amis • è interpretato dalla maggior parte dei loro beneficat-come « Les amis de France ». E poiché alcuni coni tadini hanno udito parlare dell’opera di questi ultimi nel 1870, credono che essi siano risorti ora in soccorso della Francia sì bisognosa di < Amici ». La scrittrice descrive la sua visita al quartiere generale dei «Friends», a Vitry-le-Fran^ois, dove in un grandioso edifìcio vengono costruite le casette di legno di cui ora è disseminata tutta la regione della Marne.
«Gli Amis — essa dice — hanno portato con sè degli architetti che, di accordo con le autorità francesi.
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hanno deciso non essere espediente di ricostruire le casette campestri in muratura, ma esser preferibile costruire capanne di legno. Alla loro costruzione attendono quasi esclusivamente giovani « Friends ■ della classe borghese, molti dei quali hanno interrotto gli studi allo scopo di soccorrere in quel modo una popolazione alla quale essi, pei loro principi, non possono recare il soccorso delle armi. Non per questo il lavoro ha l’apparenza di opera da dilettanti: ed io posso assicurare per esperienza personale che esso soddisfa perfettamente al bisogno, e perfino al desiderio di comodità. È difficilissimo immaginare, se non si è stati sul posto quanto urgente sia la necessità di abitazioni a cui gli • Amis » provvedono. Molte persone han creduto che gli abitanti le cui case furono devastate nello scorso settembre avessero trovato rifugio nelle città vicine, 0 fossero stati fatti prigionieri dai tedeschi, o fossero morti di privazioni, o comunque fossero in condizione da non poter essere più soccorsi. Invece la maggior parte di essi han continuato a vivere nelle cantine delle loro case in macerie o sotto le rovine stesse, e han continuato così attraverso tutti gli orrori dell’inverno. Da sotto le rovine, dalle cantine spesso invase dall’acqua fino all’altezza delle ginocchia, questi meschini sono stati tratti e trasferiti in piccole casette bianche di legno, ove è possibile vivere igienicamente... E questo, per un’area di circa quaranta miglia di devastazione... ».
La visita all’ospedale di « Maternità » a Chàlons-le-pons è motivo di non minore ammirazione. In pochi mesi, piti di cento bambini sono ivi venuti alla luce, sottratti a certa morte in qualche cantina o lurida stalla. Licenziati dall’ ospedale e inviate in abitazioni salubri fornite del necessario corredo di vestiario, le madri e i bimbi non sono abbandonati dagli « Amis », che con periodiche visite mediche e distribuzioni conservano le vite che hanno salvate. Un’altra casa di salute è stata aperta da Mos Lucas, la consorte del romanziere inglese, nella stessa regione, per le vittime i cui nervi sono rimasti sconquassati dagli orrori della guerra. « Ah, signorina —- la scrittrice sentì dirsi più volte — la guerra è orribile! Ma fortunatamente gli “ Amis,, sono venuti in nostro soccorso! » E soggiunge, che in tutta la regione il titolo di membro della società ■ des Amis » è il migliore dei passaporti e la più lusinghiera delle presentazioni.
Al sopraggiungere dell’estate, la provvidenza degli « Amis » ha fornito agli agricoltori 82 macchine da falciare l’erba, circa 800 altre macchine per la mietitura, trebbiatura ed altri lavori campestri. Non solo, ma numerosi « Amis » volontari hanno com-Ìfiuto essi stessi i lavori di raccolto per le donne e i anciulli incapaci o inabili per salute a tale lavoro.
La rassegna di queste e altre manifestazioni dell’attività risanatrice e ricostruttrice dei « Friends », degli « Amici » termina con le parole: ■ Essi vendicano le vittime, ma non con offese al nemico, bensì rico«240 sermons allemands: l’âme pangermanique ».
— Calier B. - Ernest Denis: • L'effort russe ».
Record of Christian work. East Northfield. Vol. XXXV, n. 7: luglio 1916. — G. A. Johnston Ross: « Personal power and its use » - « The crisis of Russia ».
The biblical review. New York, vol. I, n. 3; luglio 1916. — Editorial: ■ By way of introduction » - Wilbert W. White: ■ The supreme court of appeal in Christianity » - Louis Matthews Sweet: « The verification of Christianity » - John Alfred Faulkner: « A brief history of heresy» - James H. Snowden: «The power of the will in conversion» -James Hope Moulton: «New materials for New Testament study » - « Collateral readings on the international Sunday School lessons» - Literary reviews.
The modern churchman. London, vol. VI, n. 4 ; luglio 1916. — «In memoriam»-« The two Gospels » - W. A. Cunningham Graig: « The outfit of a modern churchman (VII) » - « The catholic modernist and the liberal protestant » - Alfred FawKes: « The valley of dry bones: an appreciation and a rejoinder » - Dawson Walker: « A Whitsuntide sermon » - • The Oxford conference », ecc.
The biblical world. Chicago, Ill., vol. XLVIII, n. 1; lu-SJio 1916.—Editorial: «Ethics or an international policeman » - Arthur Holmes: « Thé faith of the scientist » - Gilbert Reid: « Islam, an appreciation » - G. H. Richardson: « The value of biblical archaeology » - Frederica Beard: « A consideration of the psychology of worship, with special
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reference to children’s worship ■ - Henry Kingman: « The faith of a middle-aged man VII » - Current opinion - The church and the world - Book notices.
The expositor. London, anno XLII, n. 67; luglio 1916. — G. H. Box: «The Jewish environment of early Christianity » - H. A. A. Kennedy: « The regulative value for the pauline theology of the conception of Christian sonship » -J. E. McFadyen: « The mosaic origin of the decalogue - The second commandment» - James Moffatt: «The abuse of laughter» - W. H. Griffith Thomas: « The parable of the unjust Steward • - H. H. B. Ayles: «The references to persecution in the epistle to the Hebrews» - E. C. Selwyn: «Blessed are the poor in spirit ».
The review and expositor, Louisville, Ky, vol. XIII. n. 3; luglio 1916. — Fred. W. Eberhardt: • Shakespeare's value to the minister of today » - A. D. Martin: « He shall not speak from himself» - R. E. Gaines: «The layman and his home» - J. Alfred Faulkner: « Luther’s first trial » -J. E. Walter: « Objective religion » - W. P. Wilks: « The origin of evil »-W.C. Taylor: « Moral difficulties in the Old Testament ■ - Book reviews.
The international Journal of apocrypha. London, n. 46 (serie XII); luglio 1916. — Notes - H. J. Wicks: «The doctrine of the Messiah in Jewish apocrypha and apocalyptic » - H. Temple Robins: « The apocrypha in La divina commedia » - A. W. Hands: «The Sibylline oracles • -• The preacher's use of the apocrypha » - W. M. Patton: « The view of Abraham in the late second century b. c. » struendo quello che la sua crudeltà ha distrutto; non terrorizzando donne tedesche, ma risanando le donne francesi che han sofferto dai tedeschi; non devastando le vallate della Germania, ma trasformando in giardini di rose le valli devastate della Marna. In una parola, la loro è la vendetta di Dio ».
I «Friends» e il servizio militare,
È stato recentemente elevato qualche dubbio sulla percentuale dei giovani « Friends » che sono risoluti a non prestare servizio militare, neppure nel caso della coscrizione obbligatoria.
Ora ecco il risultato di un questionario inviato da apposito Comitato ai giovani « Friends » in età da servizio militare (o da servizio industriale militarizzato). Su di un numero di 1081 risposte pervenute al Comitato, 924, o 1’86 % hanno dichiarato la loro determinazione di rifiutarsi al servizio militare, a fabbricare munizioni, o di prestarsi in alcun genere di attività che implichi l’obbligo del giuramento di fedeltà (è noto che i «Friends », fino dalle loro origini, hanno sempre ritenuto come offensivo alla dignità personale, oltreché come anti-cristiano, di esigere che la parola dell’uomo sia corroborata dal giuramento, quasi che essa non dia sufficiente garanzia di verità; e perciò si sono costantemente ricusati di prestarlo in ogni occasione, ottenendo infine, dopo lunghe persecuzioni, l’esenzione legale dal giuramento). Altri 45 membri si sono dichiarati tutt’ora indecisi, mentre 38 che prestano servizio nell’Ambulanza non hanno creduto che la questione li riguardi. Solo 74, cioè circa il 7 % hanno dichiarato che non intendono di ricusarsi al servizio militare.
È notevole, che non meno del 63 % dei giovani « Friends • che dichiarano di ricusarsi al servizio militare hanno una famiglia che dipende dal loro lavoro per il suo mantenimento. È anche da notare che una gran parte delle risposte appartiene a giovani occupati quali impiegati, commessi di negozio, giardinieri, fonditori in ferro, ecc., che tuttavia sono disposti a sostenere i principi pacifisti da essi professati, affrontando qualunque conseguenza che dal loro atteggiamento potrà derivare.
IL NOSTRO PROSSIMO, IL NEMICO
Al suo volume Au-dessus de la mêlée, in cui ha raccolto gli articoli da lui stampati, dal rincipio della guerra, sui Journal de Genève, Romain Rolland ha Cremesso un’introduzione da cui riportiamo il seguente rano: « Un gran popolo, assalito dalla guerra, non deve solo difendere le sue frontiere? egli deve difendere anche la sua ragione, e deve salvarla dalle allucinazioni, dalle ingiustizie, dalle sciocchezze scatenate dallo
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stesso flagello. Ora, ciascuno deve compiere la sua parte: alle armate spetta di difendere il suolo della patria, e agli uomini di pensiero di difendere il suo tesoro ideale. Se essi invece lo pongono al servizio delle passioni del loro popolo, può darsi che essi ne divengano utili strumenti, ma corrono il rischio di tradirne lo spirito che non è la parte minore del patrimonio di questo popolo. Un giorno la storia farà il conto per ogni nazione belligerante, e peserà la somma dei loro errori, delle menzogne e delle odiose follie: facciam sì che la nostra sia, allora, leggiera.
« Al fanciullo noi insegnarne il Vangelo di Gesù e l’ideale cristiano. Nell’educazione che esso riceve in scuola, tutto è fatto per stimolare in lui la comprensione intellettuale.della grande famiglia umana. L’insegnamento classico, poi, gli mostra, al di là delle differenze di razza, le radici e il tronco comune della nostra civiltà. L’arte gli fa amare le sorgenti profonde a cui si alimenta il genio dei popoli, la scienza gl'im-pone la fede nell’unità della ragione: il gran movimento sociale che rinnovella il mondo, gli addita lo sforzo che fanno attorno a lui le classi lavoratrici, organizzatrici per unirsi in speranze ed in lotte che spazzano le barriere fra nazioni. I geni più luminosi cantano con Walt Whitman e Tolstoi la fratellanza universale nella gioia e nel dolóre, ovvero, come fanno i nostri spiriti latini, si adoprano a sfondare con la loro critica il muro di pregiudizio, di odi e d’ignoranza che separa gl’individui e i popoli.
« Io, come tutti gli uomini del mio tempo, sono stato nutrito di queste idee, ed ho tentato di dividere, alla mia volta il mio pane di vita con altri fratelli, di me più giovani o meno fortunati. E quando la guerra è sopraggiunta, non ho creduto di doverli rinnegare perchè adesso era giunta l’ora di metterli alla prova. Ne ho raccolto larga messe di oltraggi e di nemici... Me lo attendevo... Possono odiarmi, ma non potranno insegnarmi ad odiare... Il mio compito è di dire quello che credo sia giusto ed umano: che poi le mie parole piacciano o dispiacciano, questo non mi riguarda. So che le parole, pronunziate, fanno il loro cammino, e perciò le semino sulla terra insanguinata: ed ho fiducia che la messe maturerà... ».
Canon Dodson: < The great silence • - « The virgin birth of Jesus».
The Harvard theological review. Cambridge, Mass., volume IX, n. 3; luglio 1916. — G. A. Cooke: «Driver and Wellhausen» - Edward T. Williams: «Confucianism and the new China» - Richard C. Cabot: «Current developments in medical ethics ■ -John Wright Buckham: « The contribution of professor How-ison to Christian tought» -George F. Kenngott: «The effect upon the churches of the social movement» - Reviews and Notices.
The american Journal of theology. Chicago, Ill., vol. XX n. 3; luglio 1916. — A. Cushman McGiffert: « The progress of theological thought during the past fifhy years» - William H. Perry Faunce: « Religious advance in fifty years • - E. F. Scott: « The hellenistic mysticism of the fourth Gospel » - Charles Gray Shaw: « Two types of liberalism» -J. Westfall Thompson: «The german church and the conversion of the baltic Slavs • -Ernest D. Burton: «Spirit, soul, and flesh» - Clayton R. Bowen: «Was John the Baptist the sign of Jonah? ■ -Recent theological literature -Brief mention - Books received.
Una bizzarra replica è stata data dal noto romanziere inglese Bernard Shaw ad alcune recenti espressioni del gesuita Padre Vaughan, che gode di una certa fama quale oratore sacro; specie a quella: « Il miglior modo di vincere la guerra è di continuare ad ammazzare tedeschi ». Avendo alcuni critici domandato al Vaughan se egli dicesse questo come cittadino o come cristiano, il gesuita replicò: « Che strane domande mi fanno alcuni tipi eccentrici! Io non son mica un trasformista! io resto sempre un inglese cattolico. Alcuni bisbetici s’immaginano che le nostre truppe siano andate al
Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Antonio Di Soragna: Profezie d’Isaia figlio di Amoz. Traduzione e commento. Bari. Laterza, 1916. Voi. 83 della « Biblioteca di cultura moderna ». Pagine xxvin-186; prezzo L. 5.
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Elifas Levi: Il rituale dell’alta magia, in cui « si rivela all’uomo il modo di servirsi della sua propria volontà educata e potente, e di assoggettare ad essa tutti gli animati del mondo visibile ed in visibile. Prima traduzione italiana di Carlo De Rysky con una prefazione delio stesso e varie figure illustrative ». Casa Editrice « Atanòr » di Todi, 1916. Volume di pagine 225. Prezzo: lire 5.
a & &
Bollettino del Circolo numismatico napoletano. Serie I, n. 1; Napoli, luglio 1916.
a a a
A Ifred-Eugène Casalis. En souvenir d’un jeune soldat de la France et de Jésus-Christ. 1915. Sixième éd. - Éditions de Foiet Vie. Paris, 1916.-Pag. 93. Prezzo in Italia L. 1.25.
a a a
Balbino Giuliano : Il primato d’un popolo (Fichte e Gioberti) . Catania, Battiate, 1916. Pagine 134. L. 1.
Il Pitagorismo confrontato con le altre Scuole, opera insigne del filosofo Enrico Caporali, nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura. Todi, Casa editrice « Atanòr », 1916. Pagine 157. L. 2.50.
fronte non per ammazzare, ma per essere ammazzate. Bisogna che si disilludano. Io credo mio dovere di ricordare ai miei connazionali che se le nostre truppe non fossero addestrate ad uccidere tedeschi, farebbero molto meglio a tornarsene subito a casa e finirla di burlarsi di nói e di se stesse ».
Bernard Shaw intervistato a tale proposito da un redattore <te\V Illustrated Sunday Herald, si espresse nel suo solito stile umoristico e sarcastico così:
«Continuare a uccidere tedeschi! Naturalmente è una buona maniera di finire la guerra. Ma un’altra non meno efficace è quella di continuare a uccidere inglesi. E, in genere, lo sterminio della razza umana è la sola cura infallibile per guarire dalla guerra: ogni tedesco ucciso, ogni inglese ucciso, ogni essere umano ucciso, porta un contributo a quella soluzione veramente cattolica del problema.
Sicché, il Padre Vaughan ha pienamente ragione. Però non ha meno ragione, ed apparisce anche molto più amabile, quando egli suggerisce che altrimenti, « i soldati farebbero assai meglio a tornar subito a casa loro e finirla di burlarsi di se stessi ». E se il Padre Vaughan riuscisse a condurre i belligeranti a tale grado di senso comune e di umanità, si renderebbe più illustre nella Chiesa dello stesso San Pietro.
Ma essi non vollero ascoltarmi quando diedi loro appunto questo consiglio, e ho gran paura che non daranno ascolto neppure a lui. Che volete? Piace tanto di fare la guerra: di esercitare le proprie qualità pugnaci nazionali, e di mostrare che non si ha mica paura degli altri!... E questo, a un dipresso, è tutto: con raggiunta che si riesce a rafforzare la posizione dei sovrani e dei loro Governi. Sicché noi tutti continueremo ad ammazzarci fino a che facciamo bancarotta generale: e allora ci metteremo attorno a un tavolino e confabulare, e a comporre così le nostre differenze: cosa che si sarebbe potuta fare egualmente qualche mese fa...
Quanto al Padre Vaughan, è un tipo interessante. Anni fa egli e l’Hyndman pubblicarono quasi contemporaneamente le loro memorie autobiografiche. Quello che mi colpì in esse, fu il contrasto tra il Cristianesimo sostanziale dei rivoluzionario, socialista e scettico professo, e il paganesimo prussiano del sacerdote cattolico... ».
* * *
CIECHI GLORIOSI
Molti ciechi desiderano di applicarsi a discipline e ad esercizi che corrispondono a loro attitudini vecchie e nuove. Vi sono ciechi che sentono il bisogno di sviluppare certi loro istinti, che avevano doNello stesso ordine d’idee si trovano le impressioni riferite su\V Advocate of Peace, dall’americana Miss Addams delegata nello scorso anno dal congresso internazionale femminile dell’Aja a presentare ai diversi sovrani e Governi di Europa i voti delle donne civili. Essa scrive, fra altro: ■ In Svizzera, noi incontrammo un giovane soldato tedesco, che dopo tre mesi e mezzo di vita di trincee era stato ferito ai polmoni e mandato in Svizzera per * curarsi ’ — almeno così egli s’illu-
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(Di*e«no drll'olandeic Louis R*em*ekf.rs)
• 1914 ■ - Un focolare nel Belgio
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deva. Prima di ritornare — come credeva — alle trincee ebbe occasione di esprimersi riguardo alla S aerra. Egli sembrava quello che potrebbe dirsi un ravo giovane, ma punto un giovane eccezionale.
Era stato associato dal suo padre negli affari, aveva viaggiato per l’Africa del Sud, in Francia, Inghilterra, Olanda, per affari, ed aveva avuto modo di conoscere gli uomini ' in quanto uomini ’, come egli diceva. Di buoni ' uomini ’ ne aveva trovati in ogni regione. Ed ora, all’età di 28 anni, di fronte alla morte — perchè egli era certo che, al ritorno in trincea, la morte lo attendeva — ecco ciò che diceva: ' In tre mesi e mezzo di guerra, mai io ho sparato il mio fucile in modo da colpire un’altra persona: niente al mondo potrebbe indurmi ad uccidere un altr’uomo. Possono bene ordinarmi di andare nelle trincee e di eseguire certi movimenti, ma l’atto ultimo resta in mio potere ed è controllato dalla mia coscienza.... Mio fratello è ufficiale — ed egli disse il nome di suo fratello, del suo reggimento, non nascose nulla: era troppo vicino alla morte per usare delle finzioni o dei sotterfugi — ebbene: egli non tira mai in modo da poter uccidere. Ed io conosco parecchie dozzine di giovani che fanno lo stesso ’ ».
Noi ricevemmo anche dalla direttrice di un ospedale in una città di Germania un elenco di cinque giovani soldati tedeschi che dopo essere stati curati, e sul punto di essere rinviati alle trincee, si erano suicidati, non già perchè temessero di essere uccisi, ma perchè temevano di -essere posti in condizione di dovere uccidere qualcuno... ».
Altre voci di tedeschi, di ■ uomini » appaiono qua e là, come fari di luce, e come segnali lanciati ad altri uomini di buona volontà, ad altri • prossimi nemici ».
La Società Teosofica Ungherese ha, in un documento ufficiale riportato dalla rivista Theosophy in Scollanti, queste parole: « La malattia dell’odio che si è impadronita quale peste morale, del mondo intiero non deve esser tollerata in mezzo a noi... Molti sono giunti alla conclusione che al termine della presente guerra il risultato sarà, che sia nelle sfere economiche che in quelle sociali, gli uomini non si riguarderanno più l’un l’altro quali nemici... Ma, fin da ora, mentre la furia della guerra imperversa tuttavia, non dobbiamo permettere che sentimenti d’ira e di vendetta s’impadroniscano dei nostri cuori, anzi dobbiamo sforzarci di diminuire negli altri questi sentimenti, operando e pensando in uno spirito di conciliazione ».
Nei giornali tedeschi troviamo di quando in quando espressioni come queste: « Se le guerre dovessero produrre un odio eterno, il mondo diverrebbe una bolgia infernale » (Neue Freie Presse di Vienna): « I popoli delle nazioni belligeranti cominciarono la presente guerra senza odio. È stata l’assenza di scrupoli dei
vuto abbandonare; ed altri ve ne sono che si immaginano di poter trovare nel silenzio del loro spirito speciali attitudini e capacità. Ai ciechi sono permessi tutti questi tentativi, anche se il medico li ritenesse inutili.
Perchè la consolazione di questi esseri, quella duratura, non può essere ottenuta che da parecchie complessità. E il medico deve cercar di vedere a fondo quali sono i movimenti sicuri della loro volontà. Il che non è molto facile, perchè il cieco non esprime completamente il suo pensiero: vi è sempre una incertezza che pare timidità, ed è invece insufficienza di sensazioni esteriori; per la quale lo spirito si affida meno a se medesimo.
I ciechi di Villa Aldobrandini in Roma devono avere l’ampia sensazione morale di tutto il nostro paese attorno a loro: si devono sentire guardati per sempre, se vogliamo che la loro cecità possa essere per loro un motivo di amor proprio e di orgoglio. Non è questo, patriottismo sentimentale o eccessivo!
La nostra bontà e la nostra intelligenza attiva devono restituire a loro quel che hanno perduto con la vista; e guai a noi se essi nè meno vedessero nella spiritualità della patria il loro indomani e il consenso dell’eroismo compiuto. È necessario che la loro cecità non perda mai in noi il suo profondissimo valore morale; così come per loro resterà tranquillamente intatto.
Con questa promessa, socialmente istintiva, si può credere che i gloriosi ciechi di Villa Aldobrandini entrano nella storia come un esempio morale, che forse nessun altro atto umano potrebbe superare. E proprio in questa villa, offerta all’Opera romana di assistenza, a capo della quale sono la baronessa Maria Blanc e il conte di
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Sàn Martino, si trovano ciechi che potrebbero anche incoraggiare altrui con la robusta fermezza del loro animo.
Ma era indispensabile che l’Opera di assistenza ai soldati ciechi storpi e mutilati trovasse, specie in un temperamento femminile, una gagliarda guida, e nello stesso tempo delicata, per provvedere minuziosamente a produrre intorno ai nostri ciechi un ambiente particolare, che non fosse soltanto scientifico ma anche spirituale e pieno di sentimento; e questa guida c’è: la baronessa Maria Blanc.
Parlare di lei più a lungo non significa poco rispetto al suo zelo, ma piuttosto far conoscere come i ciechi siano affidati a benefiche condizioni di affetto e di assistenza. In fatti a tutto è stato provveduto in modo che i ciechi sono avvicinati da generose persone che dànno, senza riserve, alla loro anima tutta quanta una bontà nuova.
Questo deve essere risaputo, da tutti, in Italia, come uno dei nostri meriti, che dimostrano con quanta elevatezza di sentimento si accolgono i superstiti della nostra guerra nazionale. Ma è anche necessario che attorno all’opera di assistenza si stringano tutte le energie finanziarie del paese; Kr confermare che noi ita-ni sappiamo trarre, dal nostro spirito, istituzioni che sono esempi di mirabili carità purissime.
L’Opera di assistenza che provvede a Villa Aldobran-dini ha sede in Roma in piazza Cavour, 3.
Governi, che sospinse le masse verso ia guerra, ed è la licenza della stampa che versò, prima, il veleno di un odio universale negli animi delle nazióni ostili, strappando a brani tutti i vincoli della civiltà. Non è neppur possibile concepire l’orribile idea che questo Kossa continuare, che l’odio universale possa dare intonazione alle nazioni e determinare il corso della storia » {Leipziger Tageblatt). « in Germania io ho trovato viva la speranza che i legami fra nazioni saranno riannodati, e che, a dispetto di tutte le difficoltà, questo avverrà più facilmente e con minore lentezza di quanto noi nella nostra ansietà avevamo osato di credere possibile » {Neue Zürcher Zeitung, articolo di Hermann Hesse, di Berna).
Recentemente, il deputato socialista del Reichstag, Herr Horn, invocando sul giornale Vorwärts, organo del partito socialista, il permesso per l’esportazione degl’istrumenti scientifici e medici in vetro dalle fabbriche della Turingia — dei quali la Germania ha quasi il monopolio — a nazioni neutrali, dalle quali anche i belligeranti porebbero provvedersi, si esprimeva così: « Da un punto di vista puramente umanitario è da deplorare che i feriti delle armate nemiche i quali, dopo tutto, sono uomini e sentono il dolore non meno che noi, siano privati di questi strumenti ausiliari che servirebbero ad alleviare le loro sofferenze e a facilitare la loro guarigione ». L’Outlook di New York pubblicava nel numero di 26 gennaio un’importante intervista di un « personaggio responsabile » con i tre condottieri socialisti tedeschi, Liebnecht, Kautsky e Bernstein. Attraverso le loro espressioni di impotenza e di costernazione: « Noi siamo rimasti, condottieri senza seguaci: due milioni di socialisti tedeschi sono nell’armata, e nessun socialista in Germania sa di certo che cosa questa metà del nostro partito pensi della guerra: essi sono tagliati fuori da ogni mezzo di comunicazione con noi. La censura ha fatto di ciascuno di noi un individuo isolato nella sua casella, in compagnia dei suoi pensieri soltanto. Noi abbiam fatto del nostro meglio per impedire al guerra, ma fummo privati di qualunque forza nell’istante stesso in cui fu proclamata la legge marziale: noi non abbiamo una stampa libera, non abbiamo un Foro. Noi siamo con tutta l'anima e con tutto il cuore contrari ad una guerra di conquista: ma che cosa possiamo far noi se il Kaiser non ha chiesto il permesso al Reichstag per fare la guerra, come non lo chiederà quando vorrà fare la pace, e alle condizioni che egli proporrà... ». Traspare non solo l’ideale pacifista e democratico conservato intatto nei cuori dei veterani e duci di quattro milioni di uomini, ma s’intravede ancora quali debbano essere tuttavia i sentimenti dei gregari, o di buona parte di essi: sentimenti che, cessata la coazione mortale, l’isolamento morale, e la deformazione mentale tirannicamente imposta dai manipolatori dell’opinione pubblica, torneranno ad essere quali si addicono ad un « nemico ■ che resta pur sempre prossimo nostro.
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IL CLERO DELLE CHIESE INGLESI, L’ESERCITO E LA COSCRIZIONE OBBLIGATORIA
L’< Assemblea di Canterbury », cioè l’adunanza annuale dell’episcopato e del clero dell’arcidiocesi di Canterbury (la quale con l’arcidiocesi di York forma le due provincie ecclesiastiche dell’Inghilterra), si è occupata sotto diversi aspetti dei rapporti fra la Chiesa e i suoi figli combattenti.
L’arciv. di Canterbury comunicò, che degli 800 e più allievi di collegi ecclesiastici che dovevano essere ordinati nei prossimi anni, 467 offersero i loro servigi nell'esercito, sì che nove collegi teologici dovettero venir chiusi ; giacché dei rimanenti la quasi totalità è o incapace al servizio militare o è superiore al limite di età: e che benché il Ministero della guerra abbia proposto di esentare dal servizio militare gli ordinandi al sacerdozio, la Chiesa non ha fatto alcuna domanda per ottenere tale esenzione.
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Nella discussione che seguì alla proposta del Canonico Heygate di costituire un comitato dei vescovi e del clero per studiare i modi più opportuni di provvedere ai bisogni spirituali dei soldati e dei marinai al termine della guerra, il vescovo Clayton fece la notevole dichiarazione — contrastante con le impressioni giornalistiche di alcuni entusiasti che vogliono vedere nella presente guerra un gran laboratorio di risvegli religiosi — che, diètro l’informazione di molti cappellani militari, nelle trincee le cose vanno nè più nè meno che nelle rispettive abitazioni in tempo di pace, cioè che in rapporto alla religione, alcuni uomini ne sentono vivissimo il bisogno e l’influenza, mentre altri non se ne curano affatto.
Un’altra osservazione notevole fu quella dell’arcidiacono di Lewes, il quale fece notare che la vita di trincea aveva svezzato l’elemento maschile dalle abitudini della domenica inglese, specie dalla prolissa ufficiatura religiosa, e che bisognava spogliarsi di molti pregiudizi e formalismi se si voleva riconquistare questi uomini alla vita religiosa: si trattava di una opportunità eccezionale che presto si offrirebbe alla Chiesa e che non bisognava lasciarsi sfuggire.
LIBRERIA EDITRICE “ BILYCHNIS ”
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La questione del servizio militare obbligatorio ora introdotto per legge in Inghilterra, ha prodotto una scissione d’idee nelle « Chiese Libere « inglesi. Personalità quali il dott. Clifford, Battista, il dott. Campbell Morgan, Congregazionalista, il dott. Mórton, ed altri, hanno dichiarato la loro opposizione alla legge in nome della libertà e delle tradizioni delle « Chiese Libere » e con essi un gran numero di membri delle rispettive
[Novità] Antonio Di So-ragna: Profezie d* Isaia figlio di Atnoz. Traduzione e commento. Voi. di pag. xxvm-r86 Lire 5.
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[Novità] Frank Thomas: Les heureux. Etudes pratiques des Béatitudes. Pag. 181; prezzo L. 3,25.
Sommario: Heureux! - Les humbles - Les affligés - Les doux - Affamés, altères de S:ice - Les miséricordieux -purs-Les pacifiques - Les persécutés - Le soleil levant.
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[Novità] J.-E. Roberty: Pour l'Evangile et pour la France. Pag. 132, L. 2,65.
Sommario: Les tourments de la guerre - Les prières non exaucées - Heureux les morts! - La marche en avant - Le désir de mourir - Le patriotisme de Jeanne d’Arc - La recherche de Dieu - Le doute -L’amour vient de Dieu.
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[Novità] Pendant la guerre. (Discorsi religiosi), volumetto i2° di pagine 100, L. 1,25. Sommario: Qui est digne de Lui ? (di N. Weiss) - La vitalité française (di J. Viénot) -Le prix du sang (w. Monod) -Heureux quand même! (J. Calas) - Luther et l’Allemagne contemporaine (Ch. Mened’Au-bigné) - L’anniversaire de la mobilisation (W. Monod).
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Pendant la guerre. Volumetto 13° di pag. 100, L. 1,25. Sommario: Rendez à César (J.-E. Roberty) - Pour les
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découragés (J.-E. Roberty) -Les causes ultimes: IV. Nobles et justes causes (L. Monod) - L’Oubli des morts (J. Viénot) - L’attente (E. Soulier) - Jusqu’au bout (J.-E. Neel).
o o O
(Novità] Paul Stapfer: Ce qui est vrai toujours, di pag. 38, L. 1.
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(Novità] Avec le Christ à travers la tourmente. Sermons d’un pasteur brancardier. Pag. 127, L. 2,30.
Sommario: Prière - Comment expliquer la douleur humaine - La présence du Christ - Pour ne pas fléchir -Mon Royaume n'est pas de ce monde - Noël 1915 - Aimez vos ennemis - Prière.
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(Novità] J.-E. Roberty: Nos raison d’espérer. Deux sermons, L. 0,60.
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[Novità] G. Boissonnas: La foi mise à l’épreuve. Pendant la guerre 1915. Discorsi religiosi. Pag. 223. L. 3,75.
Sommario: L’homme, un soldat - Comment souffrir - Où est ton Dieu? -La foi disparaîtra-t-elle de la terre? - J’ai gardé la foi - Les neutres et la conscience - Le rôle de la vérité - Le monde haï et vaincu - Aimer c’est vivre - La fatalité dans PEvangile - Aux sans-abri -Contre le découragement - En souvenir des infirmières mortes au service de la France - Noël *9*5000
(Novità] Lanoë-Villène: Principes généraux de la symbolique des religions. Pag’. 293. Prezzo L. 4.
Sommario: I. Introduction: 1. Les origines. 2. L’évhéméChiese. 1 a rivista Battista The Baptist Times definisce la propria posizione più nettamente di altri organi ecclesiastici, dichiarando che mentre disapprova la Coscrizione, teme ancor più una vittoria tedesca, e perciò non è disposta ad adottare un atteggiamento dottrinario di « non possumus » verso una forma mitigata di coscrizione obbligatoria ritenuta necessaria da uomini di giudizio si discreto quali il Primo Ministro Asquith e Lord Kitchner. Gli organi Metodisti insistono sulla necessità di mantenere l’unità e la concordia della nazione anzitutto, e si augurano che l’aumento di arruolaménti volontari possa rendere superflua l’applicazione della legge. Questa opposizione di un importante elemento delle « Chiese Libere » e della maggioranza del ■ Labour Party », fa prevedere che la legge, se anche dovrà essere applicata, lo sarà con molte mitigazioni e con grande rispetto, per le difficoltà per ■ motivi di coscienza ».
Dell’opposizione della società dèi « Friends », aggiungeremo soltanto che nell’adunanza annuale di Londra a cui intervennero 1400 «Friends», fu di nuovo solennemente proclamato che « la guerra implica V arrendere l’ideale cristiano e il rinnegamento della fratellanza umana », e che « la liberazione dal flagello della guerra non potrà venire che dalla fedeltà degl’individui alle loro convinzioni più profonde ». Naturalmente, la società ha protestato contro la legge della coscrizione obbligatoria in quando essa tende «a stabilire sempre più .saldamente quel militarismo da cui noi tutti vogliamo che il mondo sia liberato; e minaccia la libertà della coscienza individuale ». Non è- mancato però l’omaggio per coloro che « sono stati sospinti da un sentimento di dovere, anche nella nostra società, fra le linee dei combattenti », e l’ingiunzione a tutti i • Friends » di « rendere alla nazione i servizi più copiosi di cui sono capaci, ognuno nella via a cui il Signore lo chiamerà ».
Quanto al clero della Chiesa inglese benché un buon numero di ecclesiastici fossero desiderosi fin dal principio della guerra di arruolarsi come volontari, 1 vescovi non hanno generalmente loro accordato la permissione, sia perchè han giudicato contrario alla professione sacerdotale lo spargimento del sangue, sia perchè han giudicato che l’opera del clero fosse più necessaria che mai nelle loro parrocchie in questo periodo.
Ma i fautori dell’arruolamento degli ecclesiastici, oppongono alla prima ragione, che se « l’uccidere i tedeschi è un dovere sacro per i laici », non può divenire un’azione indecorosa per gli ecclesiastici; e alla seconda, che non tutti gli aspiranti a combattenti sono indispensabili per il ministero parrocchiale- Il fatto che 20.000 sacerdoti francesi servono nell'armata nazionale come combattenti, e la notizia ripetuta che la loro presenza è il fattore principale di un risveglio religioso nell’esercito, ha contribuito molto a creare e mantenere questo stato d’animo nell’elemento giovane del clero inglese.
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L’UMANITÀ, LA PACE E LA GUERRA : vedute di un positivista.
Federico Gould è noto in Inghilterra come il promotore dell’insegnamento morale su basi positive, da sostituirsi nelle scuole a quello catechistico-teolo-gico. In un articolo sul Concord di decembre, egli scrive su quest’argomento: «... La pace non è un bene che in quanto fornisce all’umanità una piattaforma sulla quale sviluppare i sentimenti di riverenza, di amicizia, di cordialità, e non già per la serenità che permette e per l’assenza di lotta. Che anzi, la pace può essere, e' spesso è, la piattaforma di odi, concorrenze, sfruttamenti, e ' snobismo; ’ tutte maledizioni dell’umanità. Mentre al contrario, anche la pace può essere, e spesso è, la piattaforma di una splendida comunione di spiriti e di intima solidarietà: cose tuttavia che non hanno con la guerra alcun nesso logico o morale, ma solo occasionale. Ha torto quindi il militarista nell’apprezzare la guerra per se stessa, come ha torto il pacifista nell’apprezzare per se stessa la pace. Nè la guerra, nè la pace promuovono, per se stesse, l’amore che è la sorgente della maternità, della famiglia, della città, della patria, dell’umanità. Il fatto storico è, che il genio dell’umanità marcia innanzi sia attraverso periodi di pace che di guerra, superando gradatamente difetti fasici, gradatamente dominando le difficoltà della natura esteriore, gradatamente migliorando le basi della famiglia, gradata-mente foggiandosi metodi migliori d’industria, gradatamente perfezionando i sistemi educativi, gradatamente purificando le città, gradatamente aumentando la conoscenza e l’intesa reciproca fra le nazioni e le razze. Si potrebbe forse dire che la guerra, in realtà, è più una fatalità che una colpa, da doversi classificare con le altre fatalità, le malattie, la povertà, l’ignoranza. Certo, tutti questi mali — l’ignoranza, la povertà le malattie, la guerra — possono venire diminuiti ed anche eliminati; tuttavia, non si può dire che essi siano dovuti, compresa la guerra, interamente alla cattiva volontà ed alle passioni umane: essi sono tragedie più o meno inseparabili dal progresso dell’umanità attraverso 1 secoli. Non saranno il puro ‘negativismo, ’ il calvinismo, le denunzie, a liberarci da queste tragedie. Non è la pace il vero ed efficace nemico della guerra, bensì la fede in una suprema umanità. ' a cui sarà conferito il regno, la potenza e la gloria. ’ La vera soluzione non istà nella legge di arbitrato universale. Una legge universale, un arbitrato universale, una pace universale, possono avere valore solo in quanto strumenti dell’umanità divenuta il motivo dominante: non il motivo dei ' Friends ’ o dei Tolstoiani, bensì l'allontanamento di tutti gli Dei
risme. - II, Exposé des princi* pes généraux de la symbolique 1. La Trimourti et son symbole, l’Arc-en-ciel. La Trinité. 2. La lune. L'Ambroisée. Le Purgatoire lunaire. III. 'L’Inde. 1. Le Rig-Veda. 2. Les deux Trimourtis védiques. 3. La Trinité. 4. L’Arani, les Açwins. IV. L’Egypte. - 1. Les monuments, le livre des morts. - 2. La vache Hathor. Le Sycomore, Set et Horns. - 3. La Trinité. -V. L’Assyrie. - 1. L’Assyrie. -2. La déesse assyrienne de Lucien. - 3. La Perse. - VI. Les Scandinaves et les Celtes. - 1. Les Scandinaves. - 2. Les Celtes - 3. Les Etrusques. -VII. Les Chinois et les Américains précolombiens. - 1. La Chine primitive. - 2. Le Mexique. - 3. Le Pérou. - VIII. Grèce (première partie). 1. Les Titans, - 2. La première Trimourti: Jupiter, Neptune. Plouton. Junon épouse de Ju-Çiter. La deuxième Trimourti:
ulcain, Vénus, Mars. Le bouclier d'Achille. - 3. La triade Latone, Apollon, Artémis. - 4. Mercure. - 5. Minerve. La Trinité au troisième terme collectif. - IX. Grèce (deuxième partie). 1. Vie de Bacchus. Cadmus. Voyages et conquêtes de Bacchus. L’Inde. La prédication a Thèbes; mort de Penthée; mort de Bacchus. - 2. Fête de Bacchus. - 3. Noms et épithètes de Bacchus. X. Grèce (troisième partie). - 1. Bacchus né de la cuisse de Jupiter. - 2. Le Mythe de Zagreus. - 2. Les attributs de Bacchus. - 4. Couleurs symboliques de la Trinité. -Le Dionysisme et le pouvoir civil. - 6. Morale du dionysisme, - 7. Cérès, Thémis, Iris. XI Les juifs et les chrétiens, X. L’esotérisme de la Bible. - 2. La Trimourti, la Trinité au troisième terme collectif, la pierre. - 3. L’Eau et le vin. -4. Melchissédec.
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BILYCHNIS
[Novità] John Viénot: Paroles Françaises prononcées à 1’0-ratoire du Louvre.
Sommario: La France nouvelle - Les « bons Français • -1/Allemagne et le Protestantisme - « Il faut opiniâtrer » -La Vitalité française - L’oubli des Morts - « La race élue, la nation sainte »
Vol. di pp. 180. In Italia: L. 2,50.
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[Novità]. Paul Stapfer: Les leçons de la guerre.
Fins de mondes - Ère nouvelle - Le Dieu de l’Allemagne - La liberté humaine révélée parla guerre-Question de conscience - Sincérité - Mon dernier petit sermon de guerre -L’origine du mot « boche » -Sois non.
Vol. di pp. 180. In Italia: L. 3.50.
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[Novità] Giulio Urbini: Arte Umbra. Vol. di pagg. vi 11-255 con numerose illustrazioni. Prezzo L. 3.
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[Novità] Michelangelo Billia: Le ceneri ài Lovanio e la filosofia di Tamerlano. Pag. 86. L. I.
Sommario: Perchè - Dopo settant'anni - A Rodolpb Euken (4 agosto) - Dedica - Le ceneri di Lovanio e la filosofia di Ta-merlano (6 novembre 1914)-Dovere, io, coscienza - La guerra all’Austria non è inevitabile (1 marzo 1915) - Noi facciamo la guerra alla Germania (giugno 1915) - Austria troppo vii nemico (1 luglio 1915).
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[Novità] Romolo Munì: Camillo Cavour. Volumetto di pag. 87, rilegato. L. 1.
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delle vecchie forme di fede, ed il cosciente e divoto insediamento sul trono del nostro culto, dell’umanità, divenuta il centro ..delle nostre attività, l’oggetto dei nostri servigi, l’ispiratrice della nostra arte ».
G. Pioli.
A FASCIO.
Schopenhauer pacifista.
Magnus Schwantje lesse nel giugno 1915 una conferenza, poi stampata sulla Rivista Internazionale di Zurigo, nella quale mostrò, come il grande filosofo tedesco Schopenhauer sostenne, riguardo alla guerra, da un punto di vista filosofico quasi le medesime posizioni dei « Friends ». Per lui, « eroe supremo è colui che non si preoccupa solamente del benessere della propria nazione, ma di quello di,tutto il mondo: e tale eroe non deve sagrificare la sua vita per la sua nazione». Egli ammise che il patriottismo sia una virtù, ma una virtù limitata ed ambigua. • Il fatto che una persona desidera per la propria nazione una prosperità maggiore di quella delle altre nazioni, rivela in essa una mancanza di nobiltà d’animo... Nella stessa maniera con cui noi mettiamo il bene della nazione sopra a quello della famiglia, così dobbiamo mettere il bene dell' universo sopra quello di una nazione ». Ed ancora: « Neppur una delle nazioni d’Europa può venire soppressa senza un grave danno per tutto il mondo: e nessuna di esse è autorizzata ad imporre sulle altre il suo proprio spirito e i suoi costumi ».
Che tali parole abbiano potuto essere ascoltate da un pubblico in Düsseldorf quasi un anno dopo il principio della guerra, e che la stampa tedesca le abbia potute riferire, è un omaggio alla libertà di stampa che ancora vige in Germania.
La ricostruzione del Belgio.
Non solo l’Università di Lovanio e numerosi edifici pubblici e privati del Belgio sono stati distrutti o resi incapaci di restauro dall’invasione tedesca, ma anche un numero enorme di abitazioni private, com-Sutate dal senatore La Fontaine a circa trenta mila.
si prevede con terrore, che la ritirata dei tedeschi, quando essa avverrà, produrrà effetti anche più disastrosi. Intiere città sono divenute e diverranno inabitabili, e le molte diecine di migliaia di profughi ora ospiti dell’Inghilterra, dell’Olanda, della Francia, non sapranno al loro ritorno ove posare il capo. Un-Comitato inglese si è, perciò, costituito, per raccogliere fondi, e per studiare da tutti i suoi punti di vista (architettonico, igienico, artistico, morale) il pro-
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LA GUERRA
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blema della costruzione di nuove città nel Belgio, mettendo a disposizione di un Comitato belga il frutto dei loro studi e le risorse per attuare i loro piani.
Fra le proposte che già si delineano, vi è la costruzione di una città internazionale, probabilmente sul tipo della « Città Giardino » presso Londra (in cui ogni abitazione ha annesso un ampio giardino, e in cui il proprietario universale è il Comune). In essa si dovranno incontrare tutte le risorse della civiltà moderna, nell’intento di costruire una città saluberrima rispondente a tutti i bisogni dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, e a tutte le esigenze della vita sociale; che conservi gl'incanti della campagna misti ai vantaggi della città. Essa servirà di monumento d’onore per la nazione belga e di riparazione da parte dell’umanità. Sarà la città dell’uomo, preludio alla città di Dio.
L’uomo delle caverne e la guerra.
« L’archeologia » — scrive Salomone Reinach sulla Revue des Etudes Grecques — «non ci ha ancora lasciato intravedere nulla che rassomigli a un sacrifizio umano ovvero a una guerra, nelle scene numerosissime che ornano le pareti delle grotte abitate in Francia o in Spagna... Sembra per quanto ne sappiamo finora, che queste tribù assai esperte nell’arte e nella caccia, vivessero nel medesimo stato d’animo di quegli Esquimesi a cui i primi esploratoli europei delle regioni artiche tentarono invano di far comprendere che cosa fosse la guerra: questi saggi Iperborei mancavano perfino di una parola per esprimere questa idea... ».. .
Condizioni per una pace permanente.
È noto che il grande filosofo di Kònisberg, Emanuele Kant, pubblicò nel 1795 un trattato, in cui annunziò Ìli articoli a suo giudizio essenziali, per una « Pace 'ermanente ».
Il primo di essi suona: * Nessun trattato di pace sarà considerato come valido, se stipulato con riserva secreta di materiale per una guerra futura ». Un altro articolo, il sesto: « Nessuno Stato con un altro dovrà favorire forme tali di ostilità da rendere impossibile la mutua fiducia in uno stato futuro di pace ».
Per assicurare la stabilità della pace, egli proponeva sette riforme sociali e politiche:
i* Deve cessare la conquista di Stati indipendenti, grandi o piccoli.
2* Dentano essere abolite le armate permanenti.
3* Non dovrà esser contratto alcun debito nazionale in rapporto con gli affari esterni dello Stato.
4* Nessuno Stato dovrà intervenire nell’amministrazione e nella costituzione di un altro Stato.
5a Ogni Stato deve essere costituito a Repubblica o altra forma di governo rappresentativo.
6* Bisogna costituire una federazione di Stati liberi, per stabilire e tutelare una Legge Internazionale.
(Novità) Jean Lafon: Evangile et Patrie. Discours religieux. III serie. Voi. di pag. 230. L. 3.75Sommario: Un capitaine (Luc. VII, 1-10) - Où est ton Dieu? -Guérison - Notre vie - Pour notre bien - La fuite en hiver -Les cheveux de notre tête -A quoi bon cette perte ? -Lamma Sabachthani ? - Les forces invisibles - La prière discrète - Humilité - Regarder en ayant.
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[Novità] Mario Rossi: Giovanni Huss, l’eroe della nazione boema nel secolo xv (Conferenza) L. 0,40.
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[Novità] Charles Bost: La plainte et le devoir. Sermons frêchés dans le temple de
Eglise Réformée du Havre en 1914 et 1915. Pagine 215. Lire 3.80.
Sommario: Le chant funebre de David sur Saül et Jonathan - La plainte suprême di Jésus - « Un autre te ceindra » -Luther et Calvin - « Achetez une épée » - La « Mystique » de la Souffrance - ...Jusqu’à ce que la calamité soit passée - Donne-moi celui que tu aimes - « Ces os pourront-ils revivre ? » - « Passons à l’autre rive ! »
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[Novità] Charles Wagner: Réception des catéchumènes. Première communion. Pag. 35. Prezzo cent. 50.
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[Novità] H. Nazariantz: L’Armenia. Il suo martirio e le sue rivendicazioni. Vol. di pag 80. L. 1,25.
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[Novità] Alfred Loisy : Guerre et religion. Vol. di pag. 200. !.. 3.
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[Novità] Mario Rossi: Giovanni Huss, l’eroe della nazione boema nel secolo xv - Conferenza commemorativa del V centenario della sua morte (1415-1915): I,. 0,40.
7* Deve essere ammesso il diritto di liberi rapporti ira cittadini di tutte le nazioni.
Quando si discuteranno ¡termini della futura pace, è da augurarsi che la Germania e tutte le nazioni abbiano presenti le condizioni inculcate dal grande filosofo tedesco.
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[Novità] Alfred Loisy: Guerre et religion. (Deuxième édition).
Sommario: Guerre et religion (I. La guerre - II. Les religions - III. La religion) - David et la neutralité belge - Les Allemands et le règne de Dieu -Deux philosophies de la guerre.
Voi. di pag. 200: L. 3.
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Volumetto io®: Le Message de l’église en temps de guerre (W. Monod) - Les Causes ultimes. I. (L. Monod) - A la Lumière de l’invisible (H. Mon-nier) - Les Mains sur la Montagne (A. Wauthier d’Aygal-liers) - Prières nationales (W. Monod) - Les Causes ultimes. II. (L. Monod).
Neutralità svizzera.
Nel suo discorso presidenziale in occasione della commemorazione della battaglia di Morgarten, l’onorevole Motta presidente della Federazione svizzera ha pronunziato, fra altre, queste parole:
« ...Non diamo ascolto alle grida appassionate, per quanto spiegabili, le quali, per cause che non possono essere le nostre, proclamano il verbo dell’odio perpetuo. Verrà tempo che tutti i popoli in guerra ci renderanno giustizia e benediranno questa nostra Svizzera, così piccola eppure così grande, che non volle e non vuole identificarsi con là causa di nessun grande belligerante, per aver modo di compiere, oggi, verso tutti, il proprio dovere di carità, e additare a tutti, domani, le sue alpi serene circonfuse dal sole, come simbolo d’un’umanità riconciliata nelle opere dello spirito, e nella quale il metallo dei cannoni e delle spade dovrebbe servire a foggiare vanghe ed aratri... ».
Quaranta lingue parlate in guerra.
Secondo quel che scrive il Rev. Solm Ritson della Società Biblica sul Christiam World più che quaranta sono le lingue parlate dagli attuali combattenti. Eppure essi ricevono tutti, nelle loro rispettive lingue copie della Bibbia o di parti di essa.
Giov. Pioli.
GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Róma - Tipografìa dell'Unione Editrice, Via Federico Cesi, 45.
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