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ECO
DELLE YALLI VALDESI
Past. TACCIA Alberto
10060 ANGROGKA
Sellimanale
della Chiesa Valdese
Anno 99 - Num. 14
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TORRE PELLICE - 4 Aprile 1969
\TDmiu. Claudiana Torre Pellice • C.CJ*. 2-17557
Speranze morte e speranza vìva
Il nostro è un tempo dominato
dal dinamismo della speranza o da
quello della disperazione? E’ arduo
rispondere, o meglio la risposta è
bivalente, lacerata com’è la nostra
generazione fra speranze e disperazione, con un’intensità quale forse
si è di rado verificata nel corso della
storia. E questo è vero non solo nella tensione fra adulti e giovani, ma
aH’interno stesso di ogni generazione; non solo fra conservatori e rivoluzionari, ma all’interno stesso di
ogni gruppo. La rivoluzione socialista (quella che i cecoslovacchi non
vogliono rinnegare), la cruda lotta
della Resistenza, la nascita (o rinascita) delle nazionalità del Terzo
mondo, la ’’lunga marcia” cinese (e
vietnamita), la vertiginosa evoluzione tecnologica, il movimento studentesco sarebbero inconcepibili
senza un’immensa carica di speranza. Ma bisognerebbe essere ciechi e
sordi per non avvertire i contraccolpi di mia disperazione delusa, scettica, inquieta e disorientata, qualunque forma assuma.
Nella compiuta secolarizzazione di
un mondo che si considera divenuto
adulto, ci si potrebbe dunque chiedere .se è proprio vero — come vuole
il tradizionale discorso cristiano —
che le speranze del mondo sono speranze morte, di fronte alla speranza
viva cristiana, oppure se il discorso
non vada invertito e non ci si debba
piuttosto domandare se la speranza
cristiana non sia moribonda e vivissime invece le speranze mondane. Vi
è del resto, nelle Chiese, chi di fatto
Se lo chiede, come quando si parla di
’’conversione al mondo”, quando si
fanno coincidere largamente (non
del tutto) le migliori speranze umane
con la speranza cristiana. Questo al.lieti" iiiirziale diluirsi dell’escatolo.'■■i (alie.sa del Regno) in sociologia
c -la! ' lui tentato ad esempio a propu'h. dei lavori e dei risultati dell‘A-- -.libic i di Uppsala — il cui tema. mire, non poteva essere più orienlalo verso il Regno; «Ecco, io
faccio ogni cosa nuova »! — e lo si
può lamentare in tanti aspetti dell’attività del Consiglio ecumenico
delle Chiese o delle Chiese stesse.
Tuttavia, quanto si diceva iniziando autorizza a riconoscere i germi di
morte che l’organismo umano e sociale (e cosmico) porta in sè oggi come sempre, e che minacciano in modo assoluto le sue speranze. Se non
morte, le s[>eranze umane sono senza dubbio mortali — nel duplice
senso di ’’esposte alla morte” e, persino, ’’mortifere” — come mostrano Hiroshima e Praga, l’Ussuri e il
Biafra, l’assassinio di Martin Luther
King e la questione israeliana, o certe prospettive orribili della ricerca
chimico-biologica.
Ma se « un cristiano non può parlare della sua speranza senza denunciare rninsione di tutte le altre » —
ha scritto Roland de Pury — meglio
sarebbe « tacere per sempre piuttosto che somigliare a chi approfitta
della disfatta per calpestare speranze vinte e venire a dar loro il colpo
di grazia a forza di ’’avevo ben ragione”, ”lo sapevo”, ”l’ho sempre
detto” ». Altro è il suo compito, ben
altrimenti positivo: anche qui prima
di contestare deve attestare, e lasciarsi jiiuttosto contestare lui per
primo, dal suo Signore prima ancora
che dal mondo, sulla vitalità della
sua speranza.
E’ viva, la nostra speranza cristiana? Quanto spesso ci riduciamo ad
essere piagnoni religiosi del buon
tempo andato o teorizzatori pseudoteologici della rivoluzione; ma la nostra speranza — quella che ci dovrebbe distinguere da « coloro che
non hanno speranza » (1 Tessalonicesi 4,13) e spingere verso di loro
con tutta la passione e l’amore delle
prime generazioni cristiane — dov’è? come si configura? come si manifesta?
Albert Schweitzer, agli inizi di questo secolo, aveva tratto con altri dall’analisi del Nuovo Testamento la
coscienza della portata decisiva che
l’escatologia, l’attesa del Regno imminente, aveva per la Chiesa primitiva. Purtroppo, pare che larga parte della cristianità odierna, in modi
diversi, abbia seguito la sua deduzione ’’conseguente” e, di fronte al
mancato verificarsi del ritorno di
Cristo a breve scadenza, abbia praticamente cessato di aspettarlo (senza per altro trarre le conseguenze
pratiche e impegnative che ne trasse
il grande teologo, mutatosi in medico della giungla).
Se è giusto dire che la fede senza
l’amore è morta, arida ed egoistica
conoscenza intellettuale, almeno altrettanto morta è la fede senza la
speranza, poiché « la fede è certezza
di cose che si sperano » (Ebrei 11,1).
« Nella vita cristiana la fede ha la
precedenza, ma il primato ce l’ha la
speranza » —. ha notato acutamente
Jürgen Moltmann nella sua significativa e promettente Teologia della
speranza. La fede cristiana, nel suo
contenuto e nella sua dinamica, non
è distinguibile dalla speranza, è speranza: una « speranza viva » (I Pietro 1,3) che si identifica con Gesù
Signore: « Cristo in voi, speranza
della gloria » (Col. 1,27), nella dimensione più intimamente personale
e più grandiosamente cosmica.
Come già la speranza ebraica, tesa fra il Patto e l’avvento messianico, la speranza cristiana poggia, con
certezza, sul passato e sull’avvenire
di Gesù Cristo. Poggia sulla passione di Gesù e canta « ave, crux, spes
unica! », « ti saluto, o croce, unica
speranza
ittoria che ha vinto il
mondo (Giovanni 16,33 cfr. 1 Giovanni 5,4) con le sue speranze minacciate e con la sua disperazione ; e
poggia, come l’audace campata del
più avveniristico ponte librato, sul
ritorno di Cristc e canta « vieni, Signor Gesù! » (Apocalisse 22,20).
Fra questi liae pilastri incrollabili, lungo tutto l’arco millenario della storia, sta il tempo nel quale siamo chiamati a « rendere conto della
speranza che i- in noi » (1 Pietro
3,15), ad anriVinciare e a vivere il
messaggio grandioso e scandaloso
della risurrezione della carne; ed è
capitato a moh.i, da Pietro a Paolo,
da Giaffredo Varaglia a Dietrich
Bonhoeffer (esce in questi giorni,
da Bompiani, Resistenza e resa, la
raccolta delle sue lettere e dei suoi
appunti dal carcere) di essere « chiamati in giudizio a causa della speranza e della risurrezione dei morti » (Atti 23,6).
L’uomo, la chiesa che spera in Cristo non sprezza le speranze umane
— Gesù non le ha sprezzate — ma
rifiuta di santificarle e sacralizzarle
.— come Gesù ha rifiutato di farlo.
Non cerca nell’attesa di Cristo e del
manifestarsi del Regno un alibi per
sottrarsi alle proprie responsabilità
odierne (ogni volta che lo fa — e lo
fa continuamente —. la chiesa è una
chiesa che non spera veramente in
Cristo Signore), ma non lascia che
queste responsabilità gli coprano
l’orizzonte e attenuino in lui l’attesa
di « nuovi cieli e nuova terra ».
L’uomo, la chiesa che spera in Cristo vive della paradossale verità della sua promessa: « Beati gli affamati
e gli assetati (della giustizia), perché saranno saziati ». Una verità
contraddetta e crocifissa, ma risorta
con lui quando, al mattino del terzo giorno, la pietra fu rotolata.
I MIEI FIGLI
Tu pure sei mìo figlio
piccino spaurito
che. nelTera spaziale
muori di fame nelle vie di Calcutta
e tu negretto ricciuto
del profondo sud
respinto dalla scuola
del bambino bianco.
E sei mia figlia tu
gentile vietnamita
dai capelli di raso
che non hai conosciuto
tempo di pace
e tu bruna calabrese,
disonorata
se attraversi sola
la via dei gelsomini.
E più di tutl;e tu
pensosa bimba ebrea
straziata dalle belve
di Bergen-Belsen.
Ma se la preghiera
non sa attendere
se, per la pietà,
la forza viene meno
aiutami a non abbandonare
questi miei figli
tu, che compiendo
la promessa antica,
vincesti i cuori di pietra
ed il sepolcro
tagliato nella roccia.
Gino Conte (da Ali)
Mirella Bein Argentieri
iiiiiiimiMMiiiiiiii
lllll■mlllllmllllll
‘SALVATI IN SPERANZA, ATTEDIAMO CON PAZIENZA,,
Un messag^o che aliena ruomo?
« Se speriamo in quel che non vediamo, noi l’aspettiamo con pazienza »
(Rom. 8: 25). Un discorso sulla «speranza » e sulla « pazienza » appare al
nostri giorni per lo meno sospetto. È
un discorso che è stato ripetuto tante
volte nel passato e che viene richiamato spesso anche nel presente, ma in
direzione unilaterale. Speranza e pazienza vengono indicate ai poveri, agli
oppressi, ai popoli ridotti sotto il potere dei gruppi di pressione, cioè a quanti hanno evidenti ragioni per non accettare una situazione di fatto e sui
quali può aver efficacia un discorso rivoluzionario.
Sembra che U tempo della speranza
e della pazienza stia per finire: l’umanità sembra scossa dall’ansia di una
giustizia a breve scadenza, di una liberazione possibile soltanto con una ferrea volontà di riscossa, al prezzo di
una violenza che abbatta una volta
per sempre la violenza legalizzata che
si autodefinisce « ordine costituito ».
Si assiste, infatti, al perdurare e all’aggravarsi di situazioni di tragico divario tra i popoli il cui benessere diventa sempre più opulento e i popoli
che invano cercano di uscire dalla
loro situazione precaria di miseria e di
disperazione. Due terzi dell’umanità
non sono in condizioni di nutrirsi a
sufficienza; in larghe plaghe del globo
si muore di fame e il divario tra ricchi
e poveri minaccia di diventare proporzionalmente sempre peggiore ; le stesse
« riforme » sociali vengono stabilite in
modo tale che il divario tra il ricco e
il povero aumenta, anziché diminuire.
Basterebbe esaminare la riforma pensionistica in discussione al Parlamento italiano, in forza della quale mentre i minimi crescono di circa 3 mila
lire mensili, i massimi aumentano di
decine di migliaia di lire al mese, stabilendo un divario ancora più netto
tra chi rimane nella povertà e chi già
è ricco. Che cosa hanno ottenuto i popoli con la pazienza? Ogni miglioramento delle condizioni degli oppressi
non è stato forse frutto di dure lotte,
di una impazienza divenuta implacabile e travolgente?
IL SENSO DELLA SPERANZA
DEL CREDENTE
La « speranza » della quale parla
Paolo è radicalmente diversa dalla
« speranza » di cui hanno parlato filosofi e anche predicatori cristiani. Mentre la speranza nel significato umano
si riferisce a un futuro di cui non si è
certi, ma che si ritiene possibile, la
speranza cristiana si fonda su un fatto
del passato, su una realtà già in atto e
operante nel mondo. Paolo afferma;
« siamo stati salvati ». L’Eyangelo non
prospetta all’uomo la possibilità di un
intervento futuro di Dio, al di là dei limiti storici, ma indica un intervento
già avvenuto e definitivo: la morte e
la resurrezione di Cristo, cioè il grande combattimento di Dio e la sua definitiva vittoria contro ogni forma del
male che opprime e rende schiavo
l’uomo.
La morte e la resurrezione di Cristo
sono certamente degli avvenimenti
« escatologici » cioè degli avvenimenti
che segnano la fine del tempo presente e si proiettano nel nuovo tempo di
Dio che va oltre la morte perché la
vittoria di Cristo è anche e fondamentalmente vittoria sulla morte. Questo
Nelle pagine interne
il nostro augurio
di una Pasqua
lieta nel Signore
che era,
che è
e che viene
è l’ultimo nemico vinto, ma non è il
solo; la vittoria è conseguita su tutte
le potenze di morte, perciò il «nuovo
tempo » di Cristo è già cominciato, è
già operante: è una realtà presente
ed è futura soltanto nel senso che la
sua potenza opera oltre il potere della morte. La liberazione dell’uomo è
già avvenuta e nessuna forza potrà
strappare l’uomo al suo Salvatore.
Siamo stati salvati « nella speranza ».
L’inciso non muta la realtà della affermazione, ma indica la situazione
dell’uomo nei confronti di questa salvezza: ciò che in Cristo si è compiuto
pienamente, poiché Cristo è risorto dai
morti, per l’uomo si compie nel corso
della storia in direzione della sua conclusione finale. Ci troviamo, quindi,
nella « economia » della fede, cioè in
quella situazione nella quale Dio ha
manifestato la sua potenza velandola
sotto le apparenze contrarie, in modo
tale che soltanto la fede può scorgerla.
Mentre la fede permette di scorgere
Dio salvatore sotto le apparenze del
crocifisso, la speranza si affida a questo Dio e ne riceve, pur nel contrasto
della situazione esteriore, la liberazione. La speranza non lascia l’uomo nella sua condizione umana, ma lo trasferisce nella nuova condizione stabilita
da Cristo anche se essa non è « visibile ».
Quel che è certo, anzi « reale », per il
credente non è soltanto che il Regno
di Dio si manifesterà nel giorno della
universale vittoria sulla morte, ma
che ogni potere, ogni dominazione,
ogni signoria è cessata; non ha più
nessun diritto sull’uomo, che Cristo si
è conquistato. Il fatto che il credente
accetti ancora le signorie di questo
mondo è segno del suo decadere dalla
speranza. Ogni volta che la predicazione della chiesa ha lasciato posto
per dominatori di questo mondo (fossero essi i « nobili » del medioevo o le
« leggi economiche » deH’età moderna,
o i dittatori del nostro secolo), si è
compiuta una deformazione delTEvangelo e si è rinnegata l’autentica signoria di Cristo. La chiesa non è in alcun
modo autorizzata a far credere che
nel tempo presente valgono altri criteri e altri principi che non siano
quelli dell’Evangelo. Confondere « l’ordine costituito» con la condizione di
provvisorietà del credente è assolutamente contrario alla « speranza » evangelica. Il credente è certo della signoria di Cristo, anche se essa non si esercita che in opposizione (spesso, a giudizio umano, soccombente) con l’ordine
costituito, di cui «signore» è il «principe di questo mondo », cioè l’avversario di Cristo.
« ASPETTIAMO CON PAZIENZA »
Se diverso è il senso della speranza,
anche la pazienza evangelica è diversa
dalla pazienza che il potente o il saggio può suggerire ai sofferenti. Pazienza non è passiva sopportazione, ma
fermezza di fede e di speranza nel conflitto che oppone il potere di Cristo al
potere degli uomini. Certamente questa pazienza non si arresta neppure
dinanzi alla morte: come Cristo ha
subito la prepotenza delTavversario, la
tortura, l’insulto e la dilacerazione della sua carne, così anche il credente
può subire la prepotenza delTavversario, ma sa che non è questo l’ultimo
atto del conflitto, proprio perché Cristo è risorto dai morti. Il credente non
viene meno né dinanzi ai campi di
sterminio, né dinanzi alle malattie che
dilaniano l’uomo. La pazienza del credente non è condizionata alla possibilità di resistenza esterna al male;
egli non attende la rivoluzione per ricevere la liberazione, altrimenti potrebbe sperare nella sua, ma rimarrebbe senza speranza per il numero sconfinato di uomini che le malattie e la
perversità dell’uomo hanno dilacerato
e ucciso ; Tavversario avrebbe ottenuto
una vittoria definitiva per milioni di
uomini mentre il credente ritiene definitiva la vittoria di Cristo per tutti
gli uomini, di ieri, di oggi, di domani:
Dio non può subire sconfitte e la resurrezione di Cristo è più potente di
tutte le morti.
Se tale è la « pazienza », essa non
rimane né passiva né indifferente dinanzi all’oppressione presente; essa
non consiste nel subireUa prepotenza
dell’avversario, attendendo la liberazione futura, ma consiste nelTopporsi oggi all’avversario anche a costo di subire la sua reazione. Il credente soffre
nella lotta contro l’ingiustizia, non
soffre per lasciare tranquilla la prepotenza dell’oppressore.
SPERANZA E AMORE
C’è ancora un aspetto che caratterizza la speranza evangelica ed è il
sentimento che la muove verso coloro
che raffigurano le forze dell’oppressione. La speranza cristiana non è
aspettativa di vendetta. Mentre si oppone alle divisioni tra oppressi e oppressori che la civiltà costantemente
crea, non accetta neppure la divisione
manichea tra eletti e reprobi. Cristo
libera l’uomo dal male, ma il male
stesso ha un denominatore comune ed
è il peccato. Nessun uomo è di per sé
libero dal peccato, né Toppressore e
neppure Toppresso. Questa constatazione non conduce a un qualunquismo
morale o teologico, ma dà anche all’oppresso Tumiltà del sentirsi salvato
per grazia e lo rende messaggero di
« nuova vita » nel momento stesso che
si oppone alla ingiustizia e alla sopraffazione. E all’oppressore offre una
prospettiva, quella di essere egli stesso liberato dal dominio delle potenze
che lo rendono oppressore, per diventare libero nel servizio dei fratelli.
Questa la prospettiva della chiesa,
quando è comunità di credenti, nella
quale e Toppresso e Toppressore cessano di essere tali per dare al mondo
la testimonianza della nuova dimensione dell’uomo, là dove Ffileraone ritrova Onesimo non come suo schiavo,
ma come collaboratore di Paolo nella
predicazione delTEvangelo. Nessun uomo è quindi escluso dalla speranza, a
qualsiasi categoria appartenga, quando è incontrato dalTEva,ngelo. La pazienza non è soltanto il perseverare
con Cristo nell’opposizione al male,
ma anche il portar con Lui le conseguenze della rottura col potere del
mondo per percorrere la via del servizio.
Questa prospettiva rende veramente
universale la gioia della Pasqua e la
speranza che da essa deriva, non perché tutto rimanga come prima, ma
proprio perché tutto può realmente
cambiare.
Alfredo Sonelli
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pag. 2
4 aprile 1969 — N. 14
PASQUA 1969
L’Iddio della speranza vi riempia
Nel linguaggio e nella mentalità corrente la speranza è l'attesa di qualcosa che può verificarsi o no. E se è vero che la
speranza è l'ultima a morire e che « finché c'è vita c'è speranza », si drizza pur sempre la parete della fine, contro la quale ogni speranza prima o poi s'infrange. Sperare è certo elemento costitutivo dell'uomo e l'uomo che non spera piò è già
in parte morto ; ma la speranza umana è intrinsecamente insicura e fallace, come l'antico mito greco del vaso di Pandora
già esprimeva vividamente.
La speranza biblica è sostanzialmente diversa. Ha in Dio,
non nell'uomo o nella storia, il suo principio e la sua fine.
La speranza che anima i credenti dell'Antico Testamento
poggia sulla realtà dell'intervento di Dio, sul Patto. Che il figlio d'Israele speri la pioggia per le sue messi o la fecondità
La speranza dell'Antico Testamento
per le sue greggi, figli per la sua casa o pace nel paese, liberazione o guarigione, che speri il perdono o la redenzione,
personalmente e come popolo ( l'aspetto individuale e collettivo si intrecciano strettamente e quello spirituale e quello politico pure), anzi per tutti i popoli e per l'universo intero, sempre questa sua speranza si fonda su Jahvé, il Dio vivente che
è intervenuto storicamente per il suoA popolo, liberandolo,
dandogli una terra e stringendolo a sè nel Patto cui già Àbramo aveva fermamente creduto, un patto in cui sarebbero benedette tutte le stirpi della terra. Anche nella più severa e radicale predicazione profetica del giudizio sul peccato, paradossalmente, la speranza non è annientata, perché il giudizio stesso non è che mezzo di richiamo e di salvezza, come altri profeti annunciano. La figura drammatica di Giobbe non potrebbe essere più significativa: tutte le speranze umane gli sono
precluse, violentemente troncate alla radice, ma la sua speran
za è Dio stesso, viva perché egli è il Vivente ! I Salmi offrono
messe ampia e significativa di esempi di come la pietà ebraica
fosse permeata di questa speranza saldamente radicata nel passato di Dio e volta con fiduciosa certezza al suo futuro. Jahvé
ha agito. Jahvé agirà.
Anche qui, la radice ebraica anima della sua linfa la speranza cristiana che vi si è innestata. La manifestazione, la presenza attiva del Dio vivente si è fatta compiuta, senza riserve,
in Cristo. Un nuovo Patto è stato stretto, nel suo sangue, ed è
stato convalidato dalla risurrezione. La nostra speranza è lui,
lui in persona. Aspettiamo lui. I pagani sono « senza speranza » non perché siano più scettici di noi, ma perché non conoscono la radice viva della speranza : Gesù Cristo, colui che ha
vinto il « mondo » delle speranze insicure e delle disillusioni
disperate, il primogenito della nuova creazione, la lucente stei
Dio viene
Se è vero che i fiumi del mito hanno abbellito le descrizioni della venuta
escatologica (« finale ») di Dio, se è
vero che il culto ha alimentato questa
speranza nel cuore dei fedeli, se è vero
che la teofania («manifestazione di
Dio ») del Sinai le ha prestato i suoi
colori, tutti questi non sono che ornamenti, son motivi secondari il cui
aspetto brillante non deve far dimenticare il motore di tutta l’attesa escatologica, la speranza del Dio che viene.
Visto che essa non ha parallelo nel
mondo orientale antico, la sola conclusione che s’impone è che essa sia il
prodotto della concezione veterotestamentaria di Dio.
È chiaro a ogni lettore dell’Antico
Testamento che dall’esodo all’entrata
in Canaan e fino all’esilio, il nome di
Jahvé contiene la più ricca delle promesse. L’Israelita aspetta tutto da
Jahvé. Egli è il Creatore d’Israele, la
sua Rocca, la sua Salvezza. Egli è lo
Scudo, la Spada, la Luce d’Israele, la
Vita, il Salvatore, il Forte.
A questa concezione particolare di
Dio è dovuto anche quello che è stato
chiamato il miracolo della storia religiosa d’Israele. Un paragone con
l’Egitto e con Babilonia permetterà di
cogliere la differenza. Gli dèi di Eliopoli e di Babilonia godettero presso i
loro adoratori di una venerazione crescente quando le guerre vittoriose avevano aumentata la potenza dell’impero. Israele ci fa assistere al fenomeno
contrario. Il suo Dio in effetti è « rm
dio della guerra, bi-ttuto sul campo di
battaglia, e del quale la fede afferma
prodezze sempre più grandi, più i suoi
avversari diventano terribili» (J. Hempel). La ragione di questo sorprendente atteggiamento non può risiedere
che nella fede stessa che lo ha ispirato. Questa fede ha per oggetto il Dio
dell’Antico Testamento che non è una
creazione umana, ma il Dio rivelato;
una persona che si conosce per nome,
non un’idea; una personalità dinamica che possiede fin dalle origini un carattere morale. Sarebbe Impossibile
altrimenti spiegarsi il fascino di questo Dio sugli uomini, fascino che si
scorge nei più vecchi racconti; il mistero di cui è circondato, un mistero
carico di minacce, ricco di ogni sorta
di possibilità; il timore che ispira; il
sentimento soprattutto di cui riempie
il cuore dell’uomo il quale, messo alla
sua presenza, si sente personalmente
preso in causa e pronto a gridare; Povero me! son peccatore. Questo ascendente morale, questa potenza senza
limiti fan presentire, più che non defi;
niscano, la natura di questo Dio il cui
potere non conosce barriera nè di spazio né di tempo. D’altra parte se il significato dei predicati di Jahvé — chiamato il Forte, la Rocca, il Salvatore, la Spada — non è apparso nella
sua pienezza all’Israele delle origirii, si
è precisato poi quando la riflessione
teologica se ne fu impadronita e da
allora ha preso un valore assoluto. Da
quel momento, poiché Jahvé era il
Forte, la Rocca, il Salvatore non soltanto jn una particolare occasione, ma
da ogni eternità, si impone la necessità del suo ritorno.
Signore del tempo e della storia, che
non si definiscono altro che in rapporto a lui, il Dio dell’Antico Testamento
regna sul passato, sul presente e sull’avvenire.
La storia, concepita sotto Taspetto di
un dramma, trova la sua soluzione nel
giorno di Jahvé, o fine del mondo, o
ancora manifestazione di Dio al momento del suo ritorno. Il fatto che Dio
ritornerà è il solo motivo permanente
dell’escatologia dell’Antico Testamento mentre tutti i colori con i quali il ritorno è descritto non sono che elementi secondari e perituri. Per descrivere
la suprema teofania, gli autori sacri
hanno attinto alle tradizioni popolari
proiettandole nell’éschaton : il Giorno
di Jahvé è diventato un rifiesso degli
avvenimenti del passato, una ripetizione ideale delle esperienze del popolo
di Mosé. In quanto il Dio dell’Antico
Testamento possedeva caratteristiche
morali profondamente marcate, amava il bene e odiava il male, reclamava obbedienza dai suoi fedeli e fedeltà
assoluta, i profeti hanno potuto annunciare al popolo peccatore e idolatra, immagine eterna dell’uomo, che
il giudizio l’avrebbe colpito alla stregue delle altre nazioni. Un insegnamento di valore permanente.
Lo studio della speranza del Dio che
viene giunge così, a ricollocarci davanti al Dio dell’Antico Testamento e
mette in evidenza la grandezza della
vita di Israele, inquadrata fra due interventi sovrani di Dio, quello della
sua rivelazione alle origini e quello
del suo ritorno alla fine del secoli. Risalta così la grandeasa di una storia
che è storia di salvem, perché in essa
nessun avvenimentoJha senso fuori di
Dio, Signore della^fbria e del tempo.
I profeti possonò;*p'erciò rivolgersi ai
loro contemporanei come fossero il
popolo dell’Esodo, perché per loro passato, presente e avvenire sono riuniti,
concentrati per formare il momento
presente, l’hic et nunc, la krisis nel
senso originale del termine (Amos
2,9; 3,2; Osea 9,8; 10,9). D’altra parte
la storia della salvezza è trascinata
da una forza irresistibile. Corre verso
il suo compimento o fine del mondo,
verso il ritorno di Dio. Simile prospettiva dà un pregio inestimabile a ogni
minuto della vita, conferisce a ogni
gesto dei credenti della vecchia alleanza — pellegrini della Luce — un significato unico. Pone la loro vita in una
luce particolare, quella del Giorno che
spunterà molto presto. Questa atmosfera è vicina a quella del Battista,
come a tutto il Nuovo Testamento.
Dio viene per stabilire il suo regno
sulla terra, per fondarvi il suo reame.
Ma un regno esige un re. L’intensità
dell’attesa escatologica d’Israele ha
servito magnificamente quella speran
za del Re, del Messia, che doveva trovar compimento quando la Parola fu
fatta carne. E in questo senso rattesa escatologica d’Israele è una testimonianza resa a Gesù il Cristo.
Georges Pidoux
(da II Dio che viene, speranza d’Israele)
Le ricerche che Ose:.4R Cullmann ha
dedicato al problema del tempo, nel Nuovo
Testamento, sono state d’importanza fondamentale ttel chiarire jl senso della speranza
cristiana. Ed è una piccola gloria, per il
« Centro Evangelico di Cultura » di Roma,
Taver pubblicato, nella sua breve ma intensa
e ricca fioritura editoriale (1948-1950), una
delle piccole gemme culhnanniane : Il ritorno di Cristo, speranza della Chiesa secondo
il Nuovo Testamento. Nella stessa collana,
quasi secondo (o primo) pannello di un dittico, è uscito poco dopo il succoso e vivido
breve saggio del Pidoux, del quale riportiamo qui sopra una pagina.
iiiiiiiiiiiiumitliiKiimiiiiiiMoiiiM
“Noi fatichiamo e lottiamo perchè abbiamo posto la nostra
Solidarietà di generazioni
Usiamo sempre più il «uoi» o addirittura il «loro», ma solo il
di vita, di attesa, tutti presi
'imniiimimmiimiimiinnniiiiiimiiiiiiiiiiiMiimiiiiiimi
iiiiiiiimiiitiiiii
itiiimuiiimiiiiiimuiiiiui
ir'miiiiMiiiiiiHmii
uiHiitHiiaiiiiiMKiiimtuiii
Sperare contro speranza
«Sperando contro speranza. Abramo credette» (Romani 4, 18]
Nell’elogiare un amico scomparso,
Piero Calamandrei diceva di lui:
« Ha agito pure non avendo speranza! » L’elogio dell’uomo moderno
è spesso il riconoscimento di una
virtù, che non attende né ricompensa né vittoria finale: è virtù perché
è la virtù disinteressata, pura da fiducia in qualche mondo diverso dal
nostro. La virtù consiste nell’accettare l’unica dimensione del nostro
tempo e del nostro spazio : quella
che vediamo o conosciamo in modo
scientifico.
Dinanzi a tale concezione, che cosa può ancora dire una visione come quella indicata dall’apostolo
Paolo nel commento sulla fede di
Àbramo? La domanda posta in tali
termini non è però così nuova come
potrebbe sembrare a prima vista.
L’cc uomo naturale » del I secolo ragionava non molto diversamente dell’uomo moderno; anche per lui la
tesi dell’apostolo sembrava assurda:
che cosa era la speranza, se non
l’ultima dea? Per una grande massa
di cc secolarizzati » di quell’epoca, la
speranza era l’ultima dea non nella
scia di una religione viva e fertile, •
ma nella scia della morte degli dei,
nella via della razionalizzazione della vita e dei rapporti degli uomini
con un mondo liberato dal cc sacro »
e rassegnato frutto di una razionalità, che trovava in sé sola il suo limite e il suo controllo. Si trattava di
spazzare i residui di una mentalità
religiosa, che si attardava ancora,
anziché affrettarsi a scomparire.
Per parlare di cc speranza contro
speranza », bisogna già essere passati a una speranza specifica: speranza che collima con la fede, in
quanto che sorge da una esperienza, che non è il frutto di una fantasia religiosa, ma di un incontro con
Dio, nel (juale Dio ha chiesto a un
uomo di confidare in Lui e nelle Sue
promesse. Abramo è il prototipo di
quella gente, che ha udito una specifica chiamata : cc lascia il tuo parentado, il tuo mondo culturale e
religioso e va dove io ti dirò, perché io farò di te una grande nazione ». Anche Abramo è un cc uomo
naturale » con le sue dimensioni
ben fisse in un mondo concreto e
visibile. Ma non può negare quello
che gli è accaduto e lo ha reso diverso da prima. Non può negare la
chiamata per la terra promessa, non
può negare l’ordine del dono del figlio Isacco, che pure gli era stato
dato per sola grazia. La fede di A
bramo è vista, nella prospettiva d
Paolo, come una fede cc neWIddio,
che fa rivivere i morti e chiama le
cose che non sono, come se fossero »
Siamo così condotti a una dimensio
ne, che non è paragonabile a nessu
na nostra dimensione terrena, razio
naie, perché è Dio stesso all’opera
Dio, che è Dio e non è uomo.
Ed è allora su questo fronte che
si scatena la speranza contro speranza di Abramo. Perché lasciare
una terra sicura per una terra incerta e lontana? Perché sopprimere l’esistente, il visibile, il pegno del donatore, per saltare verso una terra
di cui non si conoscono i contorni
e i confini? Perché sopprimere Isacco, avuto con tanto dolore e con tanta speranza? Soeren Kierkegaard
in Timore e tremore ha descritto
Abramo in viaggio verso Morija: il
padre, al quale è chiesto il figlio, il
credente, al quale è chiesto il segno
della fede, l’oggetto stesso della promessa di Dio. Kierkegaard cerca di
investigare l’animo di un uomo posto a simili bivi: sarà veramente
Dio a chiedere queste cose? Non
sarà un « demone »? Dove è la logica anche minimamente accettabile in tutto questo? Sarà la stanchezza, lo scetticismo della rassegnazio
ne, la paura dell’invisibile a fargli
credere che la voce udita è veramente quella di Dio? << E’ crisi di fede,
veramente crisi e veramente crisi di
fede: contro speranza, contro il calcolo delle probabilità, contro le misure di un uomo ponderato, saggio,
quale Abramo, possessore di molte
greggi, certamente era ». Là dove
è la fede, la crisi della fede diventa
visibile: Giacobbe lotterà con Dio,
perché ha creduto in Dio; Giobbe
assilla Dio, perché non lo può sradicare dalla sua esistenza; Geremia
non vuole più menzionare il nome
di Dio, perché quel nome lo brucia
di dentro come un fuoco ardente.
E’ speranza contro speranza, è Dio
contro l’incredulità, è risurrezione
contro morte e morte contro risurrezione.
Ma allora saremmo dinanzi alla
difesa deU’assurdo? Al limite, quale
differenza vi sarebbe fra Dio e l’assurdo? Ma l’assurdo non è più vicino né più lontano da Dio di quanto lo sia il « razionale », il cc visibile ». Lontananza e vicinanza di Dio
verso l’uomo hanno nome, nella
Bibbia, santità e grazia. Lontananza e vicinanza deH’uomo verso Dio
hanno nome peccato e perdono. Il
rapporto con Dio è e resta dono libero, gratuito di Dio verso l’uomo,
miracolo perenne, perennemente
messo in discussione dalla cc carne »
dell’uomo. Al piano della salvezza
di Dio ogni uomo preferirà opporre
i sogni della sua fantasia e la fuga
nei concetti e nell’assurdo, ma il
senso della fede resterà questo : contemplare, quando e dove Dio vorrà, i segni del passaggio di Dio, il
quale, nonostante la nostra frammentaria penetrazione nella realtà
della promessa, porterà a compimento il Suo piano.
Carlo Gay
Due uomini stanno cii fronte l’uno
all’altro in questo testo della Scrittura : Paolo e Timoteo. Da un lato l’apostolo che ha creato in pochi anni la
prima rete di comunità cristiane del
Mediterraneo, da Antiochia a Corinto,
le ha edificate sul fondamento dì Cristo, dando loro le prime tracce di organizzazione e di disciplina e guidandole nella ricerca della fede e della pietà; dall’altro un giovane credente, appartenente a una famiglia di antica
pietà israelita, che è stato coinvolto
dall’apostolo nella sua opera e si affaccia ora alla responsabilità missionaria.
Due generazioni di credenti distanti,
non nel tempo ma nella sensibilità,
forse altrettanto, se non più, di quanto
lo siano due generazioni odierne: gli
apostoli da un lato e dall’altra la così
detta « seconda generazione ». La prima ha a suo attivo un bilancio positivo di realizzazioni e sta dando la pienezza della sua attività, la seconda noti
ha ancora nulla ed è appena agli inizi
della sua ricerca.
Il fatto che sorprende nello scritto
di Paolo è questo; la generazione dei
cinquantenni o più, si rivolge a quella
dei trentenni o meno adoperando il
« noi ». Che significa questo pronome
in prima persona?
Da un lato esprime l’unità, l’impegno, la ricerca degli apostoli, di tutti
quegli uomini che hanno vissuto con
Gesù e hanno dato a Lui la vita. « Noi »
sono i cinquantenni dell’età apostolica,
legati da ricordi comuni, quei ricordi
che formeranno la base dei racconti
evangelici, da amicizia e da battaglie
combattute insieme per l’Evangelo ; legati però anche da scontri, da polemiche, quali la battaglia per la missione
fra i pagani combattuta da Paolo contro Pietro ad Antiochia. Quella generazione può dire « Noi fatichiamo e
lottiamo ».
Faticare, letteralmente « lavorare sino all’esaurimento », da una radice che
significa abbattere, opprimere, atterrare' definisce bene la condizione apostolica, la battaglia contro uomini e
potenze che ritroviamo sempre nella
storia della chiesa quando l’Evangelo
fu potenza di creazione.
Lottare, gareggiare, è il termine che
Paolo adopera sovente paragonandosi
ad un atleta che combatte nello stadio.
Indica la tensione interiore della testimonianza evangelica.
Il « noi » ha però anche un altro significato più profondo: indica la solidarietà esistente tra la generazione di
Paolo e quella di Timoteo. « Noi» non
sono soltanto gli apostoli, coloro che
hanno fondato la chiesa, ma sono anche gli amici di Timoteo, i più giovani,
i figli nella fede. Non sono estranei,
gente di fuori venuta non si sa da dove e perché ad unirsi alla schiera dei
Paolo e Pietro ; non sono un’altra generazione che si sovrappone alla prima
e la respinge, la allontana e la mette
in pensione ; sono « noi », non « loro ».
Perciò Paolo dice; lavoriamo e lottiamo ; non perché si senta ancora giovai
ne e pieno di energie, in grado di fare,
appartenente alla schiera di coloro che
sono ancora sulla breccia. Ma essenzialmente perché sa e vuole esprimere
l’unità dell’impegno e della vita esistente nella Chiesa tra lui e Timoteo,
tra la sua e quelTaltra generazione.
Il fatto che maggiormente turba e
colpisce nei nostri colloqui fraterni, nel
nostro modo di vedere l’opera della
Chiesa, è Tassenza totale di <*j*es.to
« noi ». Certo i documenti sinodali, le
dichiarazioni ufficiali delle assemblee
sono redatti al plurale, ma a livello
dei dibattiti personali, nella realtà quotidiana, e più ancora nella mentalità
che soggiace ai nostri pensieri è totalmente assente il «noi»; non sembra
esistere altro che il « voi » o il « loro » ;
voi dite, voi avete fatto, voi non fate,
voi qui, voi là.
Il « voi » è ancora un dialogare, un
parlarsi, un vedere nell’interlocutore
una persona con cui vale la pena discutere; ma «noi» e «voi» sono realtà
diverse, si muovono su due piani diversi, non si è solidali con la gente a
cui si dice: voi; si può collaborare,
camminare insieme, ma la distanza
esiste e non è eliminabile. Nella chiesa
oggi le generazioni di uomini che corrispondono a Paolo e a Timoteo non
sanno più parlarsi che con il voi. I
cinquantenni di qua, i trentenni di là,
i ventenni dall’altra parte. Ognuno fa
da sé, vive e cerca per sé, cammina
per la propria strada e si interroga da
solo, ognuno deve giustificarsi davanti
agli altri, a quelli dell’altra parte, di
aver fatto determinate scelte e assunto
determinate posizioni. Il fatto grave
non sta nell’essere diversi, nel 'vedere
le cose sotto diversi punti di vista o
nell’affrontarsi in polemiche, il tragico
è guardarsi cosi., da gente diversa che
può stare insieme, ma deve rendere
conto agli altri del perché sta insieme.
Non siamo però solo al punto di parlarci col voi, già stiamo lentamente
distruggendo noi stessi come comunità
adoperando il « loro ». Quelli dell’altra
generazione, dell’altra teologia, delle
altre scelte, i vecchi, i giovani, i reazionari, i contestatari. Quando si dice
« loro » non si parla più lo stesso linguaggio, si è diversi, estranei gli uni
agli altri ; si sta su due fronti contrapposti o forse non ci si contrappone
nemmeno più, si è rotto ogni dialogo.
Non si ha quindi più soltanto una diversa visione della missione, delle responsabilità cristiane, ma un’ altra
realtà. La crisi che ci travaglia non sta
nella diversità di idee e di comportamenti, nella varietà delle concezioni e
delle analisi che effettuiamo, ma nel
modo in cui ci guardiamo : lontani, diversi, estranei o avversari. Il male non
sta nel nostro fare diverso o nelle
scelte che ci dividono, ma nello sguardo con cui ci guardiamo, uno sguardo
che dissocia le responsabilità, che scinde le posizioni.
Una solidarietà di generazioni, dice
vamo, è la caratteristica del testo. In
che e perché solidarietà? Forse perché
appartengono alla stessa, istituzione, alla stessa comunità religiosa : la Chiesa
cristiana? Certo il fatto di essere uniti
in questa famiglia spirituale costituisce un vincolo che sarebbe ridicolo negare. Forse che il legame esistente fra
credenti deve essere minore di quello
che esiste fra membri di uno stesso
3
4 aprile 1969 — N. 14
pag. 3
di allegrezza e di pace nel vostro credere
(Romani 13, 13)
la del mattino. Solo chi lo conosce, nella sua realtà umana e
glorificata, può aspettarlo, e in lui aspettare tutto. Sperarlo
con ferma fede, anche contro speranza. Dio non è « il Dio della speranza » perché ci ispira fiduciose disposizioni interiori,
ma perché ha risuscitato Gesù Cristo dai morti e ha promesso
a chiunque crede in lui la medesima risurrezione, radicalmente immeritata ma incrollabilmente sperata. Se nel Nuovo Testamento lo scontro mortale fra il vecchio mondo e il mondo
nuovo è avvertito in modo anche più drammatico e grandioso
che nell'Antico, se vi risuonano con intensità particolare il gemito della creazione intera e quello degli stessi credenti, si
tratta pur sempre del travaglio da cui Dio farà nascere « nuovi
cieli e nuova terra, in cui abita la giustizia ». La speranza cristiana non è davvero più individualistica o ridotta di quella
ebraica : abbraccia l'universo e sa anch'essa della grande pace
fra i popoli, della riconciliazione fra l'uomo e il creato. Tutto
questo lo aspetta nel « giorno di Cristo », il giorno della manifestazione gloriosa della sua sovranità universale, che sarà
pure il giorno della « manifestazione dei figli di Dio ». Giorno
di giudizio, ma a cui chi ha conosciuto Cristo e la potenza della
sua risurrezione guarda con trepida speranza. Lutero diceva
sempre : « il caro giorno del giudizio ».
Questa speranza cristiana non è però inerte contemplazione. Le epoche in cui la chiesa di Cristo è stata più animata dalla speranza e dall'attesa del Regno, sono state anche epoche
in cui più viva è stata la sua attività nel mondo. Annuncio dell'Evangelo e impegno per un giusto ordinamento del mondo
sono indissolubili. Ma questo va subordinato a quello, in un
ordine che non può essere invertito. « L'Evangelo non va annunciato per mantenere in vita il mondo — ha scritto E. Schiink
— Ma l'impegno per il mantenimento della vita umana in tut
Rinati a una speranza viva
Che cosa ci dice oggi questo testo che suona alquanto barocco,
scritto con un linguaggio ridondante ed involuto, piuttosto lontano dal nostro attuale modo di
comunicare?
Mi pare che al disotto di questo
stile così poco comunicativo per
noi, si possa scoprire il suo significato e intendere il suo messaggio
in una sorta di concretezza che a
prima vista lorse non appare.
La sua concretezza sta nel fatto
che non si tratta tanto di un "inno
alla speranza”, come si suol dire
convenzionalmente, quanto di una
spiegazione di tutto ciò in cui si
speianza nell’Iddio vivente,,
l Pietro 1, 3-13
traduce, per la comunità dei credenti, la resurrezione di Cristo. La
sua concretezza sta nell’assumere
questi due poli concreti: la comunità da una parte, la persona di
Cristo dall’altra, e nel vedere la
relazione vivente che c’è tra queste due realtà.
Una prima constatazione che
balza allora evidente è questa: la
« speranza vivente » di cui qui si
parla è un bene comunitario. Qui
sta la sua peculiarità di fronte
agli altri modi di speranza che
partono dall’uomo soltanto. Il cre
(1 Timoteo 4, 10)
unite nella stessa speranza
^noi» ha senso nella comunione dei santi, comunità di Fede,
dalla dinamica del Dio ^vivente
partito politico e di una qualsiasi associazione?
La solidarietà autentica non nasce
però da una situazione statica, da un
accostamento di esistenze, ma da una
corresponsabilità, da una missione in
comune. É il fare insieme che accomuna ed unisce, non lo stare insieme. La
lotta per l’Evangelo nel mondo lega i
due uomini del nostro testo e le loro
due generazioni molto più che l’appartenenza al Cristianesimo, anzi quello
solo le unisce. Ê il lottare inslem.e, il
faticare insieme, e per le stesse motivazioni, a far sì che esista fra i due uomini un vincolo indissolubile.
l.n solidarietà fra Paolo e Timoteo
non è statica ma dinamica, non è un
coesistere aU’interno di una struttura,
di una tradizione, di una realtà esistente, ma il protendersi verso una vocazione comune, è un lottare insieme,
un soffrire insieme, un condividere le
gioie e le realizzazioni, le azioni e le
sconfitte.
Porse tutto questo, però, non è che
l’apparenza, la forma esteriore, la psicologia della loro solidarietà; il fondamento, la radice è altrove, sta in quel
« perché » ; noi fatichiamo e lottiamo
«perché abbiamo posto la nostra spe.
ranza nell’Iddio vìvente».
Il primo fatto da notare in questa
espressione è il verbo; non è detto
(( speriamo in Dio », ma « abbiamo messo in lui la nostra speranza». Il verbo
non è al presente, ma al passato ; non si
tratta di un generico atteggiamento di
speranza, di una comune visione del
futuro, ma di una impostazione generale della loro esistenza. Hanno fissato
come termine comune dell’esistenza
quella speranza in Dio ; non hanno solo deciso di avere in comune alcune
scelte, prendere alcune responsabilità,
sperare alcune cose, ma di avere in comune la scelta originaria e fondamentale: quella che si può definire la scelta di fede. La fede è infatti questo
riporre la speranza nell’Iddio vivente,
non l’adesione a dei principi generali.
Non è comune ai due uomini una fede
nel senso di una comune idea religiosa, ma nel senso di avere un comune
fondamento di vita.
Solo questo tipo di lede unisce e
rende solidali; il fatto di appartenere
alla stessa comunità cristiana non
sembra più sufficiente e i fatti dimostrano che non è sufficiente fare insieme certe cose per essere solidali della
solidarietà evangelica; occorre avere
in comune il senso stesso della vita, il
punto in cui si è posta la propria speranza.
Il senso di questa fede è dato però
dalla definizione che Paolo dà di Dio:
il Dio vivente. Qui non si spera in
qualcosa, in un oggetto, nella realizzazione di una propria iniziativa, ma in
una persona vivente. É in fondo la vita
di Dio, la dinamica della sua azione
che rende possibile la fede e l’impegno,
è il mistero della libertà e della azione
divina, che sta davanti a noi e canimina davanti a noi, che rende possibile la nostra azione e il nostro impegno. Siamo uniti e parliamo col « noi »
unicamente perché Dio è vivente, cioè
Dio parla col « noi ». Dìo vivente significa Dio domani, un Dio impegnato, un Dio attivo, che marcia, che cerca, che provoca, che contesta. Un Dio
che, come dice il nostro testo poco più
avanti, salva, è salvatore, sa pensare
negli schemi del « noi ». Chi potrebbe
essere il « voi », il « loro » per im Dio
che salva? Solo il demonio. Perciò
siamo figli del demonio, figli di questo
mondo, quando facciamo nostro il suo
linguaggio, il suo modo di pensare e di
fare, che è quello di fare del nostro
prossimo un altro e non un fratello,
una creatura da cui ci si desolidarizza.
Per l’Iddio vivente non c’è altra possibilità che vedere dei « noi », ovunque; Cristo, la comunità credente, i
piccoli, i discepoli, i poveri fanno tutti
parte del « noi » di Dio e perciò del
noi della fede. Tutto questo diventa
un compiesso di solidarietà perché
Dio è solidarietà e non possesso.
Il fatto che tra i credenti esistano
diversi rapporti di vita e di pensiero
deriva dal fatto che in essi è venuta a
mancare la vita di Dio. Permane la solidarietà istituzionale, quella che fa i
sinodi, la solidarietà di alcune iniziative comuni, il lavorare, collettare, impegnarsi insieme pur con diversità di
vedute, ma è assente la radice, il senso
stesso della solidarietà divina, quella
comune speranza nella presenza di
Dio.
Si comprende allora perché, nei nostri discorsi e nelle nostre affermazioni sia fatto tanto posto a noi e tanto
poco a Cristo. Perché si passi con
tanta rapidità dal problema della vocazione a quello della realizzazione,
delle scelte. Gesù Cristo è stato il segno e la garanzia di questo « noi », di
questo legame di solidarietà operante,
attiva e dinamica, esistente tra Dio e
noi. Non ci riferiamo a Cristo perché
il problema della fede non è primario,
non ci tocca più il problema della nostra radice nella vita di Dio.
Mancando la radice, manca anche la
vita. L’affaticarsi e il lottare diventano sterile agitarsi, sofferente, ansioso,
sospettoso controllo dei « voi » e dei
« loro » che ci stanno intorno, diventa
politica ecclesiastica aspra e dolorosa,
ma spiritualmente sterile. Mancando
la presenza dell’Iddio vivente, la nostra speranza diventa calcolo, prospettiva, pianificazione, non vita operante.
Pianificazione efficace, ma improduttiva. Mancando la vita di Dio la nostra comunità ecclesiastica diventa palestra di combattimenti tanto più passionali quanto più egoistici e vacui,
mancando la vita di Dio la nostra fede
e la nostra pietà diventano agitarsi
senza libertà e le nostre comunità
conventicole di fanatici senza ^oia e
senza luce, che si urtano e si feriscono
a vicenda in un ambiente senza aria,
senza respiro.
Che dice la risurrezione a tutto questo? Dice semplicemente che la vita di
Dio è reale, è presente, è solidale con
noi, basta aprire gli occhi per vederla,
guardarla, essa e non le nostre esistenze, lasciarci prendere dalla sua dinamica per diventare nuovi.
Giorgio Tourn
dente non può sperare da solo, anche se l’oggetto della sua speranza
è Cristo, che si è « dato » per essi.
Pietro usa cpii due giri di frase
apparentemenlc molto statici, ma
che esprimono tutto il loro significato nella loro reciproca connessione: egli usa ie locuzioni « conservata nei cicli per voi » (la speranza) e « custoditi per la salvazione » (i credenti). Fra questi due
termini, la spi: ranza e i credenti,
ce una relazione ormai incancellabile, come MI fatto oggettivo,
un’attrazione o oasi magnetica, una
tensione che scaturisce dall’evento
resurrezione <- jmnta verso la rivelazione ultii ’d di tutta la verità
contenuta in ciuell’evento.
In secondo 'ogo anche la « prova della fede di cui ci parla Pietro è una reu::a comunitaria. Non
si tratta dei piccoli crucci della
vita quotidiana da cui ogni credente, in qua nto uomo, è giornalmente afflitto Qui si parla invece
di un genere ' ' i prova che « risulti... alia riveir.iione di Gesù Crila comunità d i credenti in questo
sto », chiara a iusione al fatto che
mondo è cf amata, vocazionalmente, a partecipare al destino di
Cristo, e che una situazione di benessere e di pace della chiesa è altrettanto chiaramente indizio di
abbandono della vocazione.
A questo punto si inserisce nel
contesto, in maniera che sembrerebbe un po’ forzata, l’allusione
alle profezie della Scrittura. Qualche commentatore annota che questo « excursus » ha io scopo di evitare la continuità del piano di salvezza divino. Mi pare però che
l’accento qui sia posto ancora sui
destinatari concreti di tale piano:
Pietro parla infatti dei « profeti
che profetizzarono della grazia a
voi destinata » e che « non per se
stessi ma per voi » Jianno ricevuto
questa rivelazione. Non c’è tanto
una preoccupazione storica o teologica nel senso speculativo del
termine, dietro queste parole,
quanto la sollecitudine per la comunità dei credenti, perché essa
sappia di essere al centro delle
Scritture stesse, che hanno come
fine questo annuncio e questo dono della speranza vivente alla comunità del Signore.
Infine, anche l’appello contenuto al v. 13 è un appello chiaramente rivolto alla comunità in cammino. Un appello all’impegno pubblico, di fronte al mondo, e nel
quale la comunità è efficacemente
presentata quasi come una persona vivente, senza possibilità di disgregarsi in azioni singole (« cinti
i fianchi... e stando sobri »). Qggi
i credenti devono imparare di
nuovo il senso cristiano della testimonianza. Devono superare il
vecchio equivoco della testimonianza comunitaria intesa come
somma di testimonianze individuali, vicolo cieco ed alibi per non
ascoltare il vivo appello che proviene dalle pagine della Scrittura.
Non si accetta facilmente di sentirsi dire che la testimonianza del
singolo è una testimonianza non
solo incompleta, ma in contraddizione con se stessa. Ma in effetti
non si può dare al verbo « testimoniare », nell’accezione biblica,
una coniugazione normale, articolata nelle varie persone: si può
solo dargli per soggetto la comunità dei credenti, con l’alternativa
di offrire al mondo un ulteriore
malinteso anziché un messaggio
di resurrezione. Rita Gay
te le sue dimensioni deve attuarsi in modo che molti siano salvati per mezzo dell'Evangelo, finché vi è tempo ».
In questi anni, in seguito alle analisi della teologia liberale
( culminate nell'opera di Albert Schweitzer, che aveva riscoperto la centralità dell'attesa del Regno per il Nuovo Testamento ) e a quell'ampio arco di ricerche che definiamo « rinnovamento biblico », assistiamo a una vera riscoperta della
escatologia ( discorso sulla « fine » ), nel senso che si è riacquistata coscienza che questa non si riduce ad essere un capitolo
finale e quasi un'appendice della dottrina cristiana, del messaggio evangelico, ma che al contrario rappresenta la sua anima, la sua spina dorsale, il suo alfa e il suo omega. Non per
nulla Gesù ha iniziato così la sua predicazione : « Il tempo è
compiuto, il regno di Dio si è avvicinato ». il futuro di Dio è
già cominciato. Egli vuole, nel suo amore, che sia pure il nostro futuro, e che anch'esso sia già cominciato. In speranza.
La speranza del Nuovo Teslamenlo
Vieni, Signor Gesù!
La speranza cristiana comincia
con la risurrezione tli Cristo e si
conclude con il ritorno di Gesù Cristo. Gesù Cristo non viene dunque
a insegnarci la speranza. Pensarlo
significherebbe fraintendere il cristianesimo in modo totale. Gesù viene per essere al tempo stesso la radice e la mèta della nostra speranza. Viene affinché possiamo attenderlo con certezza assoluta.
La vita di Gesù è quindi come una
piccola isola in mezzo alla storia
umana, una roccia che emerge solitaria al centro dell’oceano delle età
e che rivela l’esistenza e l’approssimarsi di un continente ignoto. Tutti coloro che si appoggiano a questa
roccia attendono veramente e con
certezza l’approssimarsi di questo
Regno; poiché già conoscono la qualità di questo regno, sanno di che
cosa è fatto. Già servono il re di
questo regno. Già lo amano. Già gli
appartengono. Possono rallegrarsi
nell’attesa e soffrire della sua assenza. Non attendono qualcosa, ma
qualcuno. Attendono l’avvento trionfale di colui che è morto su una
croce.
Guardando a quest’isola che emerge dalla storia, ascoltando ciò che
ta Bibbia mi dice esservi in questa
singolare parentesi dei primi trent’anni della nostra èra; vedo, comprendo tutto ciò che posso sperare,
trovo in Gesù tutto il contenuto della mia speranza, quasi un campione
del regno avvenire.
Ciò che Gesù è stato per alcuni
uomini, durante alcuni istanti, sulle strade della Galilea, lo sarà per
tutti gli uomini nell’universo intero, eternamente. Ciò che ha fatto in
piccolo, quando pronunciava con
autorità le parole decisive, quando
respingeva i giusti e accoglieva i
peccatori, quando placava la tempesta e moltiplicava i pani, quando
purificava i lebbrosi, cacciava i demoni, risuscitava i morti: tutto ciò
che faceva là in piccolo, lo farà in
grande. Questi segni provvisori che
accordava ad alcuni uomini diverranno la sola, unica realtà del móndo. L’universo intero riposerà nella
calma della tempesta sedata. Gli
uomini si nutriranno del pane moltiplicato. Cammineranno con la forza del paralitico che balza in piedi.
Vivranno la vita di Lazzaro, nel momento in cui la pietra viene tolta.
La speranza parte dunque veramente da lui. Non si tratta di sperare più di quel che abbiamo in lui;
non è questione di grado o di quantità. Non attendiamo un mondo migliore. Non attendiamo più di ciò
che abbiamo. No. Attendiamo tutto
ciò che abbiamo... e abbiamo in lui
tutto ciò che attendiamo. Non siamo ricchi a metà, attendendo di diventarlo del tutto. Siamo totalmente poveri e totalmente ricchi al tempo stesso. Del tutto spogliati e del
tutto ricolmi. Questo è il grande segreto della vita cristiana; Sperare
tutto ciò che si ha. Avere tutto ciò
che si spera.
La speranza cristiana, infatti, non
va da un meno a un più. Non segue
il corso di uno sviluppo, di un progresso. Va dalla fede alla visione.
Va da una cosa nascosta a una cosa
manifestata. Va da un signore umile a un signore glorioso. Va da una
cosa che ascoltiamo a una cosa che
vedremo. Spero di vedere, un giorno, ciò che oggi ascolto. Spero di
possedere con gli occhi ciò che ora
non posso possedere se non con le
mie orecchie, cioè per fede. Non
spero di possedere qualcos’altro o
più di ciò che ora possiedo. Spero
di possederlo altrimenti, non più
come parola e in modo nascosto, ma
sostanzialmente e in modo aperto e
incontestabile. Il Regno di Dio non
è dunque lontano, è solo nascosto,
come il chicco in terra. Non siamo
separati dall’eternità da un lungo
tratto di spazio o di seco.i, ma da
un velo, che può essere lacerato da
un momento all’altro. « In quel
giorno — annunciava Isaia — il Signore squarcerà il velo che avvolge
i popoli, la coperta stesa su tutte le
nazioni ». La speranza cristiana non
s’immerge nell’abisso vertiginoso
dei secoli, né negli spazi infiniti do
ve del resto non raggiungerebbe mai
il suo Signore. La speranza va ol
tre il velo, fissa a colui che viene
Tutto è compiuto, tutto è preparato
Ma il sipario non si è ancora levato
Si leverà presto. Allora, semplice
mente, vedremo ciò che ora ascoi
tiamo, ciò che ora crediamo. Questo
stesso Signore, venuto a condividere
la nostra esistenza, respinto e sfigurato su di una croce, lo vedremo
trionfante e trasfigurato. Vedremo
allora il vero volto di Dio, vedremo
questa sovranità e questa giustizia,
nascoste fino alla fine del mondo
dietro la sofferenza di Gesù Cristo.
Attendo il giorno in cui la sofferenza di Dio avrà fine, in cui avrà fine
il tempo di questo mondo che è il
tempo dell’agonia di Gesù, e in cui
apparirà la vita eterna nascosta in
quest’agonia.
Tale è la speranza cristiana. Tale
è l’immensa attesa che costituisce la
respirazione, l’orientamento di tutta la Bibbia. Una speranza molto
semplice, molto precisa, molto concreta. Attendo che Cristo, quest’uomo crocifisso, prenda in mano, personalmente, il governo del mondo,
come ha preso il governo della mia
vita, nel momento in cui ho creduto in lui.
Non c’è in questo nulla d’immaginario, nulla di fantastico, di disincarnato, non è un ideale ultraterreno, non è soprattutto una sopravvivenza dell’uomo dopo la morte. No.
Si tratta di questo mondo, ma totalmente rinnovato dalla presenza immediata di Dio, dalla conoscenza di
Gesù Cristo « che colmerà la terra
come le acque colmano il fondo del
mare » (Abac. 2: 14).
Si tratta di me, uomo, con il mio
corpo e il mio spirito, ma risuscitato fuori del tempo dell’angoscia e
della morte, fuori del peccato e della portata del diavolo. Si tratta di
questo mondo, dal quale saranno state eliminate ogni traccia di male e
ogni possibilità di sofferenza, così
come la morte, annientata. « Un
mondo — scrive Roger Chapal —
che non sarà un paese della cuccagna, né una perpetua riunione di
preghiera, e neppure una festa dell’albero di Natale, bensì una vera
vita in cui saremo non angeli ma
veri uomini. Un mondo assai più
bello, più appassionante e più semplice di quel che sappiamo sognare.
Della vita che vi vivremo sappiamo
una cosa sola, ma basta a farci balzare i cuori di speranza : saremo come Gesù Cristo, perché Io vedremo
così com’è ».
Roland de Pury
(da Présence de l’éternité)
4
pag. 4
4 aprile 1969 — N. 14
Un panorama della vifa evangelica in Africa nel 1968
Su un palcnscenico dnve si svolge una tragedia storica
Come ogni anno, la «Rivista Internazionale delle Missioni» (pubblicata
dal Dipartimento della Evangelizzazione e Missione del Consiglio Ecumenico consacra il suo primo numero del 1969 a un panorama della situazione e delle attività delle Chiese evangeliche nel mondo intero. Quest’anno
la parte dedicata all’Africa, redatta
non secondo la linea geografica, paese
per paese, ma secondo i vari aspetti
della vita delle chiese, è particolarmente interessante e ci proponiamo di
tradurne larghi estratti, dando così ai
lettori dell’« Eco-Luce » una informazione basata su dati sicuri e redatta
da persone particolarmente competenti. La prima parte puntualizza la posizione delle Chiese Evangeliche in Africa, sullo sfondo degli avvenimenti politici che hanno caratterizzato l’anno 1968.
Colpi di stato, guerre civili latenti o aperte
Il resoconto dell’anno scorso cominciava con questa frase sinistra :
« L’Africa è un palcoscenico sul quale
si svolge una tragedia storica, al suono
del cozzare delle armi e del grido
di vittime innocenti coinvolte in guerre civili e ribellioni ». Allora si poteva
sperare che nel 1968 l’oscurità profonda sarebbe attraversata da qualche
raggio di luce, promessa di un’alba di
pace, di giustizia e di speranza, ma il
tragico dramma continua col susseguirsi di scene di violenza, sofferenza e
disperazione. La guerra civile nella Nigeria è diventata un cataclisma di violenza senza parallelo nella storia dell’Africa, rivendicando per sé il sinistro
privilegio di essere la prima guerra
africana veramente moderna, con diecine di migliaia di vittime innocenti
causate da una carestia pianificata e
dai mezzi di combattimento moderni.
Colpi di stato capeggiati da militari
hanno rovesciato un altro governo civile nel Congo-Brazzaville, e reso possibile l’instaurazione di un governo civile nel Sierra Leone. L’Africa CentroMeridionale è gradatamente imprigionata in un vortice di violenza cre
scente fra le razze, che potrebbe molto
facilmente trasformarsi in una aperta
guerra razziale, a misura che i movimenti africani di liberazione organizzano sempre più efficacemente la loro
campagna contro i regimi di minoranza del Mozambico, dell’Angola e della
Rhodesia, minacciando cosi; le frontiere
finora risparmiate dell’Africa del Sud
e del Sud-Ovest. Con successo parziale
il primo ministro Vorster ha cercato
di costituire alle sue frontiere una cintura di stati africani amici, ma è fallito nel suo intento per la resistenza
eroica della Zambia ad ogni blandizia
proveniente dal sud, una resistenza
che la rende economicamente e politicamente vulnerabile su tre fronti alle
minacce di rappresaglie massiccie da
parte dei suoi vicini ostili.
I milioni di neri ribelli nel Sudan
meridionale, la cui ribellione dura da
dieci anni, continuano la loro resistenza, malgrado le perdite ingenti, le sofferenze e la pretesa, ripetuta a più riprese dai governi sudanesi, che il problema del Sudan meridionale non
esiste.
Le Chiese, fra testimonianza e conformismo
Sarebbe magnifico se noi potessimo
dire che le Chiese nelle varie regioni,
dove esistono dei conflitti, esercitano
una influenza decisiva sugli avvenimenti, evitando così tragedie incombenti, riconciliando le parti nemiche e
riunendo o organizzando le forze tendenti alla giustizia e alla pace. Invece il
più delle volte le Chiese, insieme a tutte le altre istituzioni della società, sono sommerse nella tragedia comune,
partecipi come gli altri della stessa
sofferenza, e sono spesso le vittime
della medesima propaganda, dei medesimi pregiudizi e della medesima
cecità che rende impossibile la riconciliazione e la pace.
Le Chiese del Sudan meridionale
partecipano alla sorte dei ribelli
Anyanya, e le comunità cristiane sono
sparpagliate in rifugi lontani e praticamente inaccessibili nel cuore della
foresta, o si riuniscono, soggette a dure restrizioni, nei centri controllati dal
governo.
I cristiani nei due campi in conflitto
nella Nigeria lodano i loro capi politici quali statisti cristiani abili e compassionevoli ; delle due parti i cristiani
sono seriamente impegnati nell’opera
di soccorso per le vittime della guerra,
ma dalle due parti sono pure prigionieri delle posizioni politiche intransigenti assunte dai loro capi, proprio come i cristiani sono stati prigionieri
delle passioni e della propaganda in
altre guerre e in altre regioni del
mondo.
II Consiglio Cristiano delle Chiese
dell’Africa del Sud ha pubblicato nel
giugno 1968 un coraggioso « Messaggio
al Popolo del Sud Africa » che esponeva nel nome delle chiese che ne fanno
parte la sua confessione sulla vera
natura del Vangelo di Cristo in contrapposizione alle perversioni dell’apartheid, il suo desiderio di denunciare la falsa offerta della salvezza tramite l’apartheid, e la sua determinazione di dare priorità assoluta all’obbedienza a Dio piuttosto che agli uomini. Intanto continuano gli attacchi
del governo contro le Chiese e le organizzazioni cristiane che si oppongono
all’apartheid e aumenta sempre più la
determinazione dei ministri di far tacere le voci del dissenso; i cristiani di
tutto il mondo stanno in sospeso chiedendosi se le poche voci solitarie diventeranno un grande coro di protesta effettiva e di resistenza, o se saranno ridotte al silenzio una dopo
l’altra.
Ma il lavoro delle Chiese continua
in mezzo all’imbarazzante ambiguità
del dramma che segue il suo corso. Il
lavoro della « Conferenza di tutte le
Chiese Africane » è stato centrato sulla ben riuscita conferenza su Chiesa e
Stato riunitasi a Abidjan nel marzo
1968, sul progetto della Seconda Assemblea della Conferenza che si riunirà a Abidjan nel settembre 1969, e su
altre varie attività che coordinano importanti iniziative delle chiese evangeliche, nel campo sociale, dell’industria,
delle scuole, dell’aiuto ai profughi, ecc.
La partecipazione delle Chiese africane all’Assemblea di Uppsala è stata
maggiore che alle assemblee precedenti e rifletteva bene il progresso fatto in
Africa verso una effettiva partecipazlo
ne al movimento ecumenico. Però vi
sono ancora quattro gruppi di chiese
che stanno in disparte:
1. Le Chiese così, dette indipendenti, che per la loro consistenza e serietà
sarebbero pienamente qualificate a far
parte del Movimento Ecumenico.
2. Le Chiese fondate dalle missioni chiamate « conservatrici - evangeliche » tradizionalmente opposte all’ecumenismo.
3. Le Chiese fondate da Missioni
facenti parte del movimento ecumenico, ma che, diventate autonome, non
hanno ancora chiesto di unirsi ad esso.
4. Infine la Chiesa Cattolica, che
in molte regioni è aperta al dialogo
ecumenico e, cosa ancora più importante, è disposta a collaborare in vari
campi, come la traduzione della Bibbia, i movimenti giovanili, la presenza
cristiana nelle università africane, l’assistenza ai malati.
Il problema delle “Chiese indipendenti”
Dopo aver accennato a vari aspetti
della testimonianza cristiana nei paesi dominati dall’Islamismo, dove l’ope
ra si svolge in condizioni assai difficili,
ma presenta aspetti positivi e incoraggianti, e dopo aver menzionato varie
attività in comune promosse da consigli ecumenici regionali, alle quali
hanno spesso partecipato anche ele
NOVITÀ
FRANCO GIAMPICCOLI
PERCHÉ LA BIBBIA
pp. .16, L. 450 (quaderno G.E.I.)
L’autorità della Bibbia - La Bibbia Parola di Dio - L’ispirazione
della Bibbia - Lo Spirito Santo
testimone e interprete della
Scrittura - La critica biblica, ecc,
EDITRICE CLAUDIANA
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menti cattolici, l’autore del resoconto
consacra una sezione intera al problema delle Chiese indipendenti.
Quest’anno ha visto il superamento
del vicolo cieco in cui erano immobilizzate le relazioni fra le Chiese fondate dai missionari occidentali e quelle che sono chiamate con vari nomi:
« chiese indipendenti », « movimenti
profetici » e alle volte col peggiorativo
« sette indipendenti ». Il muro di ignoranza, di sospetti e di ostilità che separava i cristiani di questi due gruppi
di chiese comincia a rivelare crepe profonde, ed è da augurarsi che
molte Chiese indipendenti trovino, nei
prossimi anni, il posto che spetta loro
in seno al movimento ecumenico.
L’associazione delle Chiese Indipendenti dell’Africa del Sud, ha ora un
segretario impiegato a mezzo tempo e,
con la collaborazione dell’Istituto Cristiano di Johannesburg, cerca di migliorare la preparazione dei responsabili delle chiese locali... A misura che
i sospetti tradizionali e le ostilità spariranno, si può sperare che invece del
processo di frammentazione che ha ca^
ratterizzato la storia delle Chiese del
Sud dell’Africa fino ad oggi, comincerà un movimento tendente a portare
le Chiese del Consiglio Cristiano ad
una relazione fraterna con le Chiese
indipendenti.
In questo processo è interessante notare la situazione della Chiesa Kimbanguista che conta alcune centinaia
di migliaia di fedeli nelle due repubbliche del Congo e nell’Angola. Sorta
per la testimonianza profetica di Simon Kimbangu nel 1921, cresciuta
malgrado la repressione dei governi
coloniali e l’ostilità delle missioni, essa è ora legalmente riconosciuta dal
governo indipendente del Congo come
una delle tre maggiori espressioni del
cristianesimo, assieme alla Chiesa Cattolica e alle Chiese evangeliche. Nel
1968 ha domandato di essere ammessa
nel Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Fino a poco tempo fa le Chiese africane tendevano ad appoggiarsi ad una
delle grandi denominazioni occidentali o, nel caso delle Chiese indipendenti,
al modello della Chiesa Copta del
l’Abissinia; ora vi sono molti gruppi
che insistono sul fatto che la loro indipendenza poggia sui doni autentici
dello Spirito Santo concessi a profeti
africani, come Simon Kimbangu, e
che soltanto lo Spirito Santo può vagliarli e indicare se sono doni autentici o no.
I vari Consigli Ecumenici locali, la
Conferenza di Tutte le Chiese Africane, e lo stesso Consiglio Ecumenico
non possono sottrarsi alla sfida costituita da questa affermazione, poiché,
se riconosciuta vera, assumerà una
grande importanza per la libertà di
azione di una nuova generazione di responsabili cristiani in Africa, nella sua
ricerca di nuove vie per la Chiesa.
Essi, mentre affermano quegli elementi del Vangelo che sono universali e
non possono essere africanizzati senza abbandonare la verità stessa del
Vangelo, cercano di radicare la chiesa
nel suolo africano quale efficace testimone della verità. Noi possiamo ringraziare la Chiesa Kimbanguista che
ci obbliga a prendere in considerazione questa sfida.
ieri evangelizzate, oggi evangeiizzatrici
L’era delle missioni occidentali in
Africa ha lasciato in eredità alle Chiese pervenute di recente all’autonomia,
l’impressione che ogni nuovo sforzo
per evangelizzare yerso l’esterno, è
possibile soltanto per mezzo di personale e di fondi forniti dall’occidente.
Il risultato, in troppi casi, è che gli
uomini e i fondi di provenienza locale
sono utilizzati per mantenere opere
stabilite da lungo tempo, mentre le
nuove e costose iniziative sono intraprese con uomini e denaro provenienti dall’estero. In questo modo si forma un abisso spirituale e psicologico
tra il centro vitale della chiesa e quelle parti che rappresentano la sua testimonianza nel mondo. Vi sono però
dei segni che mostrano che delle Chiese in varie regioni dell’Africa si preoccupano di questo divario, e sono impegnate a mobilitare tutte le risorse
della chiesa, comprese quelle provenienti dall’estero per Io sforzo missionario comune di tutti i membri di
chiesa verso la società intera.
Le Chiese dell’Africa, del Madagascar e del Pacifico, fondate dalla Missione di Parigi, hanno intrapreso in
comune l’evangelizzazione della tribù
dei Fon nel Dahomey (Action Apostolique Comune). Alla fine di gennaio
1’« Eco-Luce » ne ha parlato diffusamente.
Nel Togo la Chiesa Evangelica si è
impegnata per un vasto programma
di evangelizzazione la cui meta è di
dare tutto il Vangelo a tutto l’uomo.
I risultati numerici più importanti so
no stati registrati nell’Est fra le tribù che parlano l'Ewe, dove gruppi di
membri laici delle comunità locali,
spalleggiati da équipes specializzate per
la cura dei malati, la predicazione,
l’agronomia e l’educazione, hanno operato in 87 nuovi villaggi, e più di 6.000
persone sono state battezzate dal 1962.
Per portare alle popolazioni un aiuto
economico e sociale la Chiesa ha organizzato tre centri agricoli in tre regioni distinte. Uno promuove esperimenti con macchine agricole pesanti,
l’altro adopera i terreni di proprietà
della chiesa per insegnare ai contadini
metodi di cultura migliori di quelli tradizionali, e il terzo incoraggia la popolazione a intensificare e migliorare
l’agricoltura in generale. I movimenti
giovanili dal canto loro hanno intrapreso una vasta campagna contro
l’analfabetismo. 5.CW0 persone adulte
hanno imparato a leggere, per opera
di 500 giovani volontari.
Un altro esempio di una chiesa in
pieno sviluppo è la Chiesa Anglicana
nel Ruanda. Nel 1963 essa aveva 15 pastori indigeni diretti da un vescovo
europeo. Nel 1968 conta un vescovo indigeno con 2 assistenti del vescovo, 31
pastori e 4 professori nella scuola pastorale. Nello stesso periodo le contribuzioni dei membri di chiesa sono aumentate da 1.500.000 a 7.000.000 di franchi.
Altri sviluppi interessanti vengono
segnalati nell’Uganda e nella Tanzania.
Pure qui, il problema studentesco
Il numero delle scuole secondarie
aumenta rapidamente in Africa. Basta dare un esempio. Nella Zambia,
nel 1961 vi erano 3.0C0 studenti nelle
classi secondarie, nel 1968 erano 30.000
e se ne prevedono 50.000 nel 1970. Il
Movimento Cristiano degli studenti e
l’Unione per la lettura delle Sacre
Scritture, si sviluppano in proporzione
nelle scuole secondarie, e non è raro
in paesi come la Nigeria, il Ghana, il
Sierra Leone, la Zambia e la Tanzania
trovare che dal 50 all’80 per cento degli studenti sono membri di una di
queste organizzazioni, e alle volte di
entrambe.
Il mondo delle Università africane
è stato turbato dal fermento studentesco universale. Ci sono stati segni di
agitazione in altre università, ma quelli più recenti sono apparsi nell’Africa
del Sud. In agosto gli studenti protestarono all’Università di Città del Capo, perché era stata bloccata la nomina
di un libero docente africano. La protesta divenne un coro generale di proteste in tutte le università di lingua
inglese del Sud Africa, dopo che più di
300 studenti furono arbitrariamente
espulsi dall’università di Fort Hare
(riservata ai soli africani), in settembre. In tutti i casi le dimostrazioni
studentesche furono proteste ordinate
e disciplinate, che domandavano che
fossero accolti reclami legittimi
contro violazioni, da parte del governo, delle libertà accademiche.
Confessare Cristo Signore
D’altronde nell’Africa del Sud le
Chiese associate al Consiglio delle
Chiese (ramo locale del Consiglio Ecumenico, di cui non fanno parte le
Chiese Riformate Boere) si sono già
trovate per forza in contrasto col governo a proposito dell’apartheid, e di
conseguenza nella situazione di una
chiesa confessante. A prima vista sembra che la cosa importante nella vita
delle Chiese deH’Africa del Sud, sia di
decidere se vorranno accontentarsi,
grosso modo, di essere delle comunità
centrate su se stesse, dedicate alla
« cura delle anime », o se vorranno
considerare che la salvezza ha una dimensione sociale e comunitaria. La
scelta deve essere fatta tra il pietismo
eie di pseudo-cristianesimo cultuale.
Per aiutare i cristiani sud-africani a
liberarsi dalle tradizioni e abitudini
sub-cristiane, e ad esaminare criticamente l’ordine sociale alla luce del
Vangelo, il Consiglio delle Chiese dell’Africa_ del Sud ha pubblicato una
confessione di fede, alla quale si spera che molti cristiani si associeranno.
Certamente una larga parte della
chiesa storica preferirà la comodità
del cristianesimo cultuale. Ma ci sono
segni che mostrano che un numero
non indifferente di persone, specialmente giovani preti, pastori e laici, accetteranno il messaggio mandato dal
Consiglio, intitolato « Messaggio a tutti i cristiani dell’Africa del Sud ».
Molte persone credono che delle decisioni o azioni, compiute da chiese o
da singoli cristiani, non sono opportune se minacciano di porre fine allo
« statu quo ». A questo riguardo non
bisogna prendere soltanto in considerazione la chiesa quando si esprime
per mezzo dei suoi sinodi, o anche dei
suoi pastori. La Chiesa è tutto il popolo di Dio. Nell’Africa del Sud, sono
i cristiani bianchi che eleggono il parlamento, secondo programmi di partito preparati da cristiani bianchi. Quel
che il governo fa nell’Africa del Sud è
in realtà l’espressione sociale e politica della vita della chiesa. Non bisogna
dimenticare che la grande maggioranza dei bianchi del Sud Africa sono fedeli membri delle chiese.
In quel paese noi vediamo quindi
una parte predominante della chiesa
(pastori e laici) che adopera tutto il
potere dello stato e dei mezzi di comunicazione di massa per propagare
una ideologia e promuovere un ordine
sociale fondato su quello che altri cristiani credono essere incompatibile
con il Vangelo di Gesù Cristo. Quando
il governo espelle dal Sud Africa, o
non lascia entrare missionari, vescovi
o pastori, perché rifiutano di accettare l’ideologia dell’apartheid, noi assistiamo all’azione di cristiani che impediscono ad altri cristiani di dare
una testimonianza cristiana. Il fatto
che questi rifiuti appaiono come fatti
politici, non dovrebbe celare il falto
che dietro a loro sta l’ideologia pseudocristiana dell’apartheid.
Sia dunque chiaro che quel che sta
accadendo nell’Africa del Sud è una
lotta tra cristiani a proposito del significato della fede in Cristo Gesù. E
sebbene in altre parti del mondo le
cose stiano in modo diflereiite, nell’Africa del Sud il governo è ih reàltà
il braccio secolare di un gruppo particolare di Chiese. La missione della
Chiesa nel Sud Africa deve essere vista in questo contesto.
Roberto Coisson
Il « Movimento Cristiano Universitario », di recente formazione, è stato
l’animatore di questa determinazione
degli studenti bianchi di lingua inglese di partecipare alla protesta dei loro
fratelli neri contro gli attacchi del governo per sopprimere i diritti umani
basilari e la libertà. Questo movimento fu fondato nel luglio 1968 e comprende studenti e professori universitari di tutte le razze ed ha il sostegno
ufficiale della Chiesa Cattolica, degli
Anglicani, Metodisti, Presbiteriani e
Congregazionalisti. La prima conferenza nazionale di questo movimento
si riun . nel 1968. Essa si affermò coraggiosamente definendo le sue linee
di azione per una presenza cristiana
nelle università, e fronteggiando gli
sforzi massicci del governo per manovrare le università e ridurre studenti e professori al silenzio mediante
l’intimidazione. Il primo ministro e
parecchi membri del governo hanno
reagito violentemente. Nella università
per neri di Fort Hare il Movimento
Cristiano Universitario è stato proibito, il che non è sorprendente, perché
chi dirige l’istituto sembra essere la
polizia. Il primo ministro ha pure dichiarato la sua intenzione di promuovere una inchiesta sul Movimento Cristiano Universitario. È da sperare che
le Chiese alle quali appartengono
questi studenti daranno loro un fermo
appoggio.
RINGRAZIAMENTO
La sorella e i parenti della compianta
A(dele Fini
ringraziano quanti furono in qual-siasi
modo di aiuto e di conforto nella dolorosa circostanza.
« Io so in chi ho creduto »
(2 Tim. 1: 12)
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e un concetto più robusto della salvezza, che comprende la liberazione
dell’uomo da ogni sorta di oppressione, perché egli possa crescere liberamente fino alla pienezza delle sue possibilità umane in Cristo. È vero che,
sotto molti aspetti, la Chiesa nell’Africa del Sud è diventata, e cosi; è pure
in molte parti della terra, un santuario per la consolazione spirituale, che
ha poca influenza sulla società in cui i
cristiani vivono. Ogni sforzo per rendere la morale cristiana pertinente
nel campo sociale è un rischio, perché
può facilmente mettervi in contrasto
con la legge della nazione. Il risultato
è che i cristiani sono tentati (e non
ci può stupire) di rifugiarsi in una spe
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4 aprile 1969 — N. 14
pag. 5
PRESENZA EVANGELICA A CERIGNOLA
Annuncio deH’Evangelo e servizio sociale
radicato nella realtà locale
A una chiesa di diaspora, posta in
•un ambiente diffìcile, tra settari che
la contestano e un clima apocalittico
di giudizio, il Veggente (Ap. 3: 8) riconosce due virtù: la fedeltà e la costanza. Le dice:.... «Pur avendo poca
forza hai serbato la mia Parola », poi
aggiunge : « ecco io ti ho posto dinanzi una porta aperta». Applicarle di
peso alla nostra Comunità può apparire presuntuoso, ma vi sono qui due
-verità incontrovertibili.
Vorrei sottolineare la prima : che cosa rappresenta come forza di penetrajzione una quarantina di famiglie di
ceto contadino, con qualche artigiano,
piccolo artigiano e una dozzina di studenti? Eppure esse sono una forza se,
alla vocazione che si fa chiara, nell’ascolto ubbidiente della Parola, sanno ritrovare il modo di resistere al
continuo logorio che si esercita in un
contesto di familiari indifferenti, di
mondanità spregiudicata e spavalda e
del secolare conformismo religioso di
marca tribale di una massa che fa sentire il suo peso intollerabile, vuoi quando i Agli sono sui banchi della scuola, vuoi quando capita, alle figlie,
di imbattersi in un matrimonio misto !
Pesante conformismo che il cattolicesimo ufficiale, in barba agli sbandierati ecumenismi, non solleva neanche
con un dito. Quando questa nostra
biamo preso le mosse, il Veggente fa
questo solenne avvertimento : « Se non
rinnegherai il mio Nome». La fede è
sempre al vaglio delle potenze che la
contrastano, potenze che bisogna sempre smascherare perché hanno un loro
volto seducente, che bisogna combattere, è sempre tra un no al male ed
un si, sempre più pieno, al Nome, quello di Gesù Cristo nostro Signore.
Pertanto ci sia dato di percepire ciò
che Dio dice alle chiese, di ascoltare
quella voce robusta che ci giunge da
tanto lontano e ci è così,' vicina, quella del montanaro Giosuè Gianavello,
tenace nel suo buon combattimento
della fede quanto pochi altri lo furono : « Nulla, 0 Valdesi, sia più forte
della vostra fede».
G. E. Castiglione
Un po’ di cronistoria
(e molta gratitudine)
24 settembre 1961
L’Assistente di Chiesa Carmen Trobia e
la sua amica Elisabetta Ginsberg chiedono e
ottengono dalla Chiesa di Solingen un dono
per l’acquisto di una macchina per maglie
Comunità riuscirà a trasmetterlo il
messaggio, perché lo ha dentro come
un fuoco, in che modó lo estrinsecherà?
Quando può e come può.
‘ La Tavola, quasi a premiarla di una
fedeltà vissuta in semplicità e senza
ostentazioni, ma sempre pagando di
^persona (il ricordo resta nella memo' ria e nelle pagine della sua storia) la
premierà cinquant’anni dopo con l’acquisto di un magazzino nel 1932. Questo magazzino ha la sagoma di una
chiesa, non è grande, ma ha il vantaggio di avere una stanza retrostante. I giovani vi si possono ritrovare e
organizzarsi. Ma la Comunità che finora f .stata sul piede di guerra, guerra di difesa, ora passa sul piede del
servizio. Quella saletta farà come le
veci di una Camera di Lavoro, allora
scomparsa sotto il regime fascista, e
sarà aperta oltre che ai giovani ai giornalieri. Sono quelli che, come nella parabola evangelica, aspettano la grazia
di essere ingaggiati da un padrone che
non sempre giunge e che hanno trovato la protezione dei nostri Anziani,
i quali, esperti potatori, godono, insieme alla fiducia dei feudatari, la facoltà di formare le squadre di lavoro.
Lo stesso avviene per l’Asilo quando
si fa strada nella staff delle responsa
bill, tutte evangeliche, il concetto che
'Si tratta di una diakonia, nel nome di
Cristo, verso le madri costrette a lavorare fuori di casa o oberate da tante
preoccupazioni e verso le loro creature su cui incidere, come sulla cera, sentimenti buoni.
Analoga disponibilità abbiamo trovato in quella bella schiera di collaboratori e collaboratrici ai quali si possono affidare determinati compiti in piena tranquillità. In questo senso possiamo parlare di una porta che il Signore ci ha aperto.
Tutto questo però può non essere
^ne un apparato, là dove manca quel
fuoco della fede che è sempre personals e ha carattere convincente e diffuso (a meno che non sia un fuoco di
^ngala). La porta è aperta quando è
*^'0 stesso ad agire nel centro del nostro essere, il cuore, liberandolo, rinnovandolo, rendendolo disponibile. Infatti, in quella pagina dalla quale ab
z;o urge avere macchine per la confezione.
Al no.stro S.O.S. gli amici di Solingen, nella
persona di Heinz Flammersfeld, rispondono.
Da quel momento ci si prende sul serio ed
un industriale di Bari ci offre in prestito delle macchine.
Maggio 1966
La nostra opera a favore del popolo non
passa inosservata e il Comune che già ci pas■sa un modesto sussidio per l’Asilo ci interpella e poi ci preferisce per l’acquisto di un
suolo che dovrà alienare nelle mediate vicinanze del nostro centro di attività.
1 maggio 1967
11 Moderatore, sig. Neri Giampiccoli, firma l’atto d’acquisto per conto della Tavola.
La somma sarà coperta ancora una volta, in
due tempi, dalla Chiesa di Solingen.
Maggio 1968
Si presenta l’occasione di prendere in fitto
una stanza nelle vicinanze; non ce la facciamo sfuggire. Possiamo così accogliere altre
Qui accanto il
getto del nuovo Centro comunitario che.
grazie alVaiuto di
fratelli, soprattutto
tedeschi, sta per sorgere a Cerignola.
Esso ospiterà, oltre
alle varie attività
della chiesa, l'asilo,
il ricreatorio e la
scuola - laboratorio
di maglieria, che si
spera di sviluppare
in vera e propria
"casa della giovane”.
Nelle altre foto: in
alto^ ressa intorno
alCultima macchina,
nella scuola-laboratorio; in basso, un
gruppo di piccoli nel
refettorio dell'asilo.
apprendiste ed altic macchine raggiungendo
così il massimo delle nostre possibilità fino
a dare posto ad una giovane che si aggrega
con la macchina propria.
28 ottobre 1968
La nostra visita cj-tiva alla cara Comunità
di Solingen produee insperati risultati. Il
28-10-68 il Sinodo rr^gionale accoglie ed approva la domanda pr.’Sentata dalla Tavola e
appoggiata dal Pasture Heinz Flammersfeld e
dalla sig.na Elisaln 'la Ginsberg di finanziare
per i due terzi il progetto della costruzione
che prevede nel si :ii; interrato refettorio e
servizi, nel piano ritiizato il Laboratorio, e
al primo piano la t is.i pastorale.
Novembre 1968
La nostra richie t.
trova benevola acci ,1
torità scolastiche.
di legalizzare l’Asilo
i-nza da parte delle Au
ria. Sorge, nel piccolo locale preso in fitto
ed a carico della Comunità, la possibilità di
dare lavoro a due ragazze.
Luglio 1963
Carmen Trobia ottiene un aiuto dada Chiesa di Colonia tramite l’amica Renate Kratzsch
e un dono dalla Chiesa Valdese di Bari per
Tacquisto di un piano terra limitrofo al locale di culto. Chiede la mia collaborazione.
Infatti l’acquisto risulterà travagliatissimo
per cui occorrerà Pintervento autorevole dell'araico Loffredo Di Pietrantonio, giudice a
Foggia.
Ottobre 1963
Per la seconda volta, già vi fummo negli
anni ’.36-.37, ci viene affidata la Comunità di
Cerignola.
12 gennaio 1964
Il locale acquistato viene trasformato ab
imis e adattalo ad Asilo con servizi igienici
e doccia, dispensa e cucina in modo da servire per vari usi : asilo, refettorio per le lavoranti e sala per le varie attività di Chiesa.
Porterà infatti il nome di Ricreatorio.
Aprile 1965
Già dairottobre del ’63 trasferiamo macchina e lavoranti nella saletta retrostante il
locale di Culto. Un amico di Bari ci presta
due macchine usate, ospitiamo nuove apprendisle ma se vogliamo un lavoro più redditi
li successo? Quando ci si chiede a
che cosa è dovuto il successo delle iniziative a sfondo sociale prese dai due
ultimi Conduttori dall’anno 1961 in
poi si dimentica di trovarne la radice
in quella che è ,a più simpatica componente della pietà religiosa dei Vaidesi di Cerignola : l’amore verso il più
debole. È da ricercarsi nell’impegno di
due, poi di tre, poi di quattordici ragazze che trovano più che naturale
far partecipare l’estranea all’uso delle
poche macchine, insegnare all’apprendista, accoglierla alla mensa comune
e poi, senza l’ombra di voler fare del
proselitismo, leggere ogni giorno l’Evangelo, spiegarlo e pregare insieme.
Esperienza sconvolgente e liberatrice
questa dell’Iddio che parla nella Sua
Parola e al quale ci si può rivolgere direttamente.
Un impegno che, se anche gravoso,
si giustifica? Sì, se si parte dall’idea
che una comunità altro non ha da fare che servire come il suo Signore.
Apre il cuore alla speranza vedere circolare nel Ricreatorio questa parte più
bisognosa dell’umana famiglia: bimbi che cercano calore e premure e venti ragazze che realizzano la gioia di
guadagnarsi il pane quotidiano.
Un’assistenza a tutti i livelli di questo genere impone, e domani ancora
imporrà, altri pesi, non lievi preoccupazioni ma il Signore non ci ha forse
confuso con la Sua provvidenza in
tutto questo tempo?
Una nuova via per l’annunzio? Lo
speriamo. Dipende dalla disponibilità
dei credenti e dall’azione dello Spirito
Santo se questo tipo di predicazione
che non resta nell’astrazione ma raggiunge l’uomo innanzi tutto nella prigionia di creatura disorientata e
sola perché schiava del peccato, sapremo portarla avanti.
Solo allora usciremo dalla conventicola per predicare l’Evangelo dai
tetti.
Con la realizzazione della Casa per
la giovane operaia
1) daremo all’iniziativa il suo carattere preciso di Scuola inserendoci
nella città ove questo tipo di servizio
reso alla giovane della famiglia rurale
manca.
2) Incorporeremo nella casa l’Asi
lo onde i bambini godano altri vantaggi come il riscaldamento, ampie
finestre, ecc. Il Ricreatorio potrà essere così restituito alle sole attività
della Chiesa. ‘
Molto cammino ci resta da percorrere, molte difficoltà da superare, perciò confidiamo su quanti Amici di ieri
e di oggi, vedendo le cose come noi le
vediamo, ci aiutino a superarle.
Emma e Giuseppe Castiglione
La parola agli studenti della Media del Collegio Valdese di«Torre Pellice
i Che ci vivíanlo e lavoriamo
Diamo la parola agli allievi della Media
del Collegio: questa sarà la migliore risposta alla relazione della Commissione ad referendum sull’istruzione secondaria ed in
particolare a ciò che in essa è detto riguardo alla scuola media inferiore valdese di
Torre Pellice. E’ evidente che le affermazioni che qui trascriviamo rispecchiano anche
il pensiero dei genitori, A. M.
« Uno dei motivi per cui frequento il Collegio è il carattere religioso. Il Collegio è
una scuola valdese... dove l’argomento religioso è p’ù toccato di altre scuole, avendo
anche tutti i professori di questa religione.
Essendo io valdese, i miei genitori non avrebbero mai pensato di farmi frequentare altre
scuole, lo penso di unirmi al pensiero dei
miei compagni dicendo che il Collegio deve
restare aperto... Vi è poi anche il motivo
dell’insegnamento: i miei genitori hanno
giudicalo che al Collegio c’è serietà, i ragazzi sono seguiti negli studi... » {Grand, Torre
Pellice).
« La scelta del Collegio è stata fatta per
una valutazione di carattere educativo, didatlico e di serietà nell’insegnamento che sono
tradizionali nel Collegio valdese. Se dovessi
continuare gli studi, avrei il grande vantaggio di trovarmi sia al ginnasio che al liceo
con insegnanti che già conosco e che hanno
la più grande stima e fiducia da parte dei
miei genitori » {Bellion, Torre Pellice).
Il Ho trovato nel nuovo ambiente tanta
comprensione... ho potuto constatare che vi
sono ottimi professori e che il loro insegnamento è una vocazione e gli allievi sono per
loro come figli » (Gallizio. proveniente da
CasalboTgone).
Il Tutti gli anni ci sono sempre gli stessi
professori che ti insegnano con Io stesso metodo. Al Collegio sono un po’ più severi, però uno è sicuro di uscire ben preparato dalla scuola Media per affrontare quella superiore i) {Piatti, Torre Pellice).
Il Prima di incominciare le medie, a me
non importava di andare al Collegio o in
un'altra scuola, ma adesso vedo che ho scelto bene » {Catedin, Bobbio Pellice).
Il ...se qualche cosa non va, gli insegnanti
si preoccupano subito e cercano le cause... »
{Michelin Salomon, Luserna S. Giovanni).
« Ci sono delle persone che dicono che al
Collegio vengono solo i figli dei privilegiati,
ma non è vero, perché qui ci sono molti figli
di operai » {Long, Villar Pellice).
Il Io frequento il Collegio, perché è una
scuola valdese e per il metodo d’insegnamento... i professori ci seguono per tutti i tre
anni della Media... » {Dema, Torre Pellice).
Il Dicono che questa scuola è chic... ma io,
per primo, sono figlio di operaio, come pure
tanti miei compagni » {Ricca, Torre PeT
lice).
Il Al Collegio, oltre al latino ed aUe altre
materie, ci insegnano a vivere in questo
mondo... L’insegnamento ha anche uno spirito più religioso che nelle altre scuole. Ci
insegnano la religione, oltre che con una le
zione di un'ora, anche per mezzo del breve
culto » (Bertot R. Angrogna).
« I miei genitori, avendo sentito dalla comunità di Verona parlar bene dell’insegnamento svolto al Collegio valdese di Torre
Pellice, hanno deciso di iscrivermi al Convitto, da dove avrei potuto frequentare il
Collegio... Tra ragazzi e professori vi è affiatamento e reciproca comprensione. L’anno
scolastico comincia subito a pieno ritmo. Il
Collegio è in piedi ormai da più di cento
anni e per me dovrà restarcene ancora almeno altrettanti » (Brizi, proveniente da Verona).
« La nostra è una scuola povera, ma ’’forte” perché i suoi professori sono tutti molto
in gamba e vengono scelti dalla Tavola Valdese. Essi hanno la vocazione dell’insegnamento, fanno volentieri degli straordinari
pur avendo magri stipendi. I professori vengono qui. pur avendo delle richieste nelle
scuole statali. Si è tutti più uniti, perché
gli insegnanti si occupano dell’uno e dell’altro, facendo si che tutti capiscano e nessuno rimanga indietro. Io preferisco questa
scuola perché è indipendente e i professori
ci rimangono ad insegnare dal giorno che
vengono chiamati fino a che andranno in
pensione ed anche dopo! » (Piva, Luserna
S, Giovanni).
Il Chiesi ai miei genitori quali erano i
motivi per cui mi volevano iscrivere al Collegio. Il primo era un motivo religioso. Sono
valdese : quindi è naturale che io sia iscritta
a una scuola, in cui la religione è una cosa
molto importante. Al Collegio, poi, il lunedì
si fa il culto. Tutti i professori sono valdesi
e lasciano un’impronta particolare delle loro
lezioni. Il secondo invece era un motivo di
serietà della scuola... Spero di tutto cuore
che non si chiuda il Collegio e che tanti altri bambini possano impararvi cose buone e
utili » (Pascal. Villar Pellice),
Il ...sono stato mandato al Collegio, perché,
essendo io un tipo piuttosto discolo, i miei
genitori sono tranquilli, perché sanno che i
professori non pensano soltanto a spiegare
la lezione, ma pensano anche alla formazione del carattere e della personalità di noi
che saremo gli uomini di domani. Poi, è risaputo che quando gli allievi di questa scuola frequentano più tardi altri Istituti a Pinerolo o a Torino ecc., vengono sempre riconosciuti molto ben preparati e la base che ha
dato loro jl Collegio se la portano appresso
tutta la vita. Un altro motivo è che io spero
di poter continuare a studiare ed, arrivare
alla fine del liceo a Torre Pellice, nel mio
ambiente, con i miei compagni ed a casa
mia, senza dover affrontare le incognite di
un’altra scuola, fuori del paese » (Impiglia,
Torre Pellice).
« Io sono venuto qui perché sono valdese
e qui vanno specialmente i valdesi... Poi vi
è un bel campo di foot-ball e ogni mattina
possiamo giocare per un quarto d’ora... poi
vi è un’ora di lezione di nuoto e un’ora di
ginnastica alla settimana, che a me piaccio
no molto... E vi è anche una bella biblioteca » (Zorer, Villar Pellice).
« Io abito a Luserna S, Giovanni, però i
miei genitori mi hanno mandato al Collegio,
perché già mia mamma ai suoi tempi lo ha
frequentato... Questo è rinomato non soltanto nella nostra vallata, ma anche nei paesi
vicini » (MoselU, Lusena S. Giovanni).
« Malgrado sia scomodo per me andare e
venire in bicicletta con qualsiasi tempo, oggi
trovo che la decisione dei miei genitori di
mandarmi alle medie al Collegio, è stata una
scelta ben fatta, perché ora comprendo con
quale pazienza i professori ci aiutano e si
avvicinano a noi per farci capire e studiare
le cose » (Gaydou, Luserna S. Giovanni).
« I miei genitori mi hanno mandato al
Collegio, perché c’è il culto una volta alla
settimana e perché i professori esigono che
i ragazzi si comportino bene, e non danno
soltanto insegnamenti, ma anche un’educazione morale e spirituale » (Lazier, Villar
Pellice).
« E’ opinione di alcuni che il Collegio sia
frequentato per la maggior parte da ragazzi
provenienti da famiglie di alto prestigio sociale; questo, però, a mio avviso, è errato e
questo errore dipende quasi esclusivamente
dalla inesatta conoscenza dei fatti e dei motivi che hanno spinto i genitori a iscrivere
i loro figli al Collegio. Da molti anni è risaputo che questa è una delle migliori scuole della vallala, dove gli insegnanti per
mezzo di metodi adeguati ai nascenti rinnovamenti avvenuti nel campo della scuola forniscono ai giovani un elevato grado di preparazione che permetterà loro di frequentare, senza incontrare eccessive difficoltà,
qualsiasi tipo di scuola superiore, li Collegio non deve e non può morire. Tutti noi
dobbiamo contribuire a diffondere l’idea che
il Collegio non è una scuola da ricchi, ma
apre le porle a tutti. Specialmente noi ragazzi sentiamo molto vivo questo problema,
dato che noi non siamo toccali né dall’interesse né dall’ipocrisia che regna nel mondo,
quindi non facciamo differenza tra classi sociali, ma ci mettiamo tutti allo stesso livello, tutti infatti siamo proiettati verso il domani e dobbiamo, ricchi e poveri, impossessarci del bagaglio culturale che permette il
completo sviluppo della personalità umana »
(More, Torre Pellice).
et II Collegio si chiuderà se non ci sarà più
neppure un solo allievo in tutta la scuola,
ma finché esso sarà frequentato, dovrà rimanere aperto e chiunque potrà andarci. Non
ci sono forse i diritti dell’uomo, oggi? Ognuno può andare a scuola dove meglio crede »
(Demalteis, Torre Pellice).
COLONIA MAOINA 1009
La Casa Valdese di Vallecrosia rende noto che si sono ultimate le iscrizioni di bambini presso la sua Colonia
Marina per raggiunti limiti di disponibilità.
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pag. 6
4 aprile 1969 — N. H
Notiziario
ecumenico
a cura di Roberto Peyrot
RISPOSTA DELLE CHIESE
ALLE NECESSITA' DEL MONDO
Ginevra (soepi) - Il presidente del comitato di coordinamento del personale del Cec
per lo Sviluppo, durante il suo discorso alla
Conferenza sullo sviluppo mondiale tenuto
il 5 marzo scorso all’Organizzazione dell’ONU
per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) a
Roma, ha annunciato che un gruppo di esperti si riunirà nel prossimo maggio a Montreal (Canada).
Nel suo discorso intitolato « La risposta
delle Chiese alle necessità del mondo » egli
ha descritto il lavoro della Commissione di
Ricerca del Cec e della Chiesa cattolica sulla
Società, lo Sviluppo e la Pace (SODEPAX)
creata nel 1968.
SODEPAX, che ha organizzato la Conferenza di Beirut (aprile 1968) suUo sviluppo,
è inoltre incaricata di studiare i problemi
della pace e .della comunità mondiale, le
questioni teologiche legate allo sviluppo e alla pace, ed il dialogo con gli uomini di altre credenze.
L’oratore ha aggiunto che il Cec dedica particolare attenzione all’educazione per lo sviluppo. La cosa comporta uno sforzo per rendere attente le sue chiese membri al problema della giustizia economica; una diffusione
molto vasta di informazioni al fine di creare
un’opinione pubblica favorevole al programma di sviluppo e incoraggiare i gruppi di
pressione a fare in modo che la convinzioni
cristiane vengano prese in considerazione dalle persone responsabili delle decisioni.
A BUON RITMO LA PREPARAZIONE
DELLA FUSIONE FRA RIFORMATI E
CONGREGAZIONALISTI
Ginevra (spr) - Proseguono i preparativi in
vista deralssemblea del 1970, nella quale
rAUeanza riformata mondiale (ARM) e il
Consiglio congregazionalista internazionale
(CCI) si fonderanno.
Dna guida allo studio biblico, da utilizzare nella comunità, dovuto alla penna del
prof. D. N. Mathers, di Kingston (Canada)
è pubblicato in questo mese, in una prima
edizione di 80.000 esemplari. Seguiranno
traduzioni in tedesco, francese, svedese e altre lingue.
E’ pure in preparazione un manuale per i
delegati: tratterà il tema principale e i vari
prgomenti proposti all’assemblea. Il prof.
Jürgen Moltmann, dell’università di Tubinga, ha accettato di trattare il tema principale : « Dio riconcilia e libera ». Gli altri autori del manuale sono i proli. H. Berkhof
(Leida): «La riconciliazione e la creazione;
la libertà del mondo appartiene a Dio »; G.
B. Caird, del Mansfield Collège (Oxford) :
« La riconciliazione e l’uomo; la libertà dell’uomo nuovo»; Ch. West (Princeton): «La
riconciliazione e la società; la libertà di un
ordine giusto»; C. S. Song, decano del collegio teologico di Tainan (Formosa): «La riconciliazione e la Chiesa; la libertà della testimonianza cristiana ».
L’assemblea del 1970 avrà luogo a Nairobi (Kenya) dal 20 al 30 agosto.
IN GRAN BRETAGNA, CONGREGAZIONALISTI E PRESBITERIANI : QUANTO PIU' PRESTO UNITI, TANTO MEGLIO SARA'
Londra (spr) - Il past. A. L. MacArthur,
segretario generale della Chiesa presbiteriana
d’Inghilterra, chiede che si passi rapidamente e definitivamente alla realizzazione del
progetto d’unione fra la sua Chiesa e la Chiesa congregazionalista d’Inghilterra e del Galles: li P.il presto sarà, meglio sarà, Vindecis'one costa davvero cara ». Il past. McArthur
dichiara che « se diciamo no, le due Chiese
potrebbero facilmente affondare in un letargo che le renderebbe del tutto inefficaci ».
Il segretario generale conclude : « Ora che a
livello mondiale i presbiteriani e i congregazionalisti si uniscono in una grande Alleanza
riformata, questa unione in Inghilterra ci
fornirà l'occasione di essere una Chiesa più
viva, più sana, più efficace di quanto non
lo fossero le nostre due Chiese al tempo della loro separazione ».
Convegno a Vallecrosia
I monitori delle Scuole Domenicali del 2°
Distretto nonché i predicatori laici sono invitati a partecipare a un convegno per trattare dei problemi che maggiormente li interessano, e che avrà luogo mercoledì 30 aprile
alle ore 17, proseguendo fino al pomeriggio
del 1° maggio. Ci è stato gentilmente assicurato l'intervento dei Pastori Paolo Ricca e
Thomas Soggin e del Prof. Roberto Eynard.
Allo scopo di incoraggiare la partecipazione
ad ambedue le giornate, la Commissione Distrettuale offre il soggiorno gratuito a Vallecrosia per i partecipanti che giungeranno
nel pomeriggio del 30, a condizione che preannunzino il loro arrivo alla direzione della Cas,i Valde.se per la gioventù - 18019 Vallecrosia (Imperia). Chi giungerà nella mattinata di giovedì verserà un contributo di lire
mille, sempre che si prenoti in anticipo.
La Commissione distrettuale
Direttore responsabile: Gino Conte
Dio, che ha fatto cose meraviqlinse, alle prese con i piccoli uomini savi
# FATTI £ IL MITO
La concessione dell’uguaglianza dei
diritti civili ai cittadini di religione
Valdese (ovviamente il testo delle Lettere Patenti non usa questa espressione per evidenti ragioni piolitiche, ma
parla della « fedeltà e dei buoni sentimenti deUe popolazioni Valdesi»)
trovò sostanzialmente impreparata la
Chiesa Valdese di fronte al nuovo
campo di attività che, in qualche modo, doveva aprirsi nel Regno di Sardegna.
Una situazione molto delicata, non
priva di pericoli p>er la vita della Chiesa si poteva prospettare.
Da un lato la Chiesa era legata alla riconfermata proibizione : « Nulla
è innovato » ; d’altro lato ai suoi figli
si apriva un nuovo campo di attività
economica di cui essi ben seppero approfittare, contribuendo alla costituzione di ima borghesia attiva che doveva dare un nuovo volto alla tradizionale configurazione sociale delle
Valli.
D’altra parte quali sarebbero stati
i rapporti sul piano della vita spirituale tra questa borghesia nascente,
piena di vita, di entusiasmo, pronta
alla lotta politica, che avrebbe, un
giorno 0 l’altro, dovuto optare tra la
politica di Cavour e l’ombra di Mazzini, e la Chiesa; la vecchia Chiesa
Valdese che usciva da un travagliato
periodo di crisi religiosa, nella quale
l’apporto della missione di Felix Neff
non è ancora stato adeguatamente
valutato? Una Chiesa che si rendeva
perfettamente conto della gravità dei
problemi che le stavano davanti ;
che sentiva l’urgenza di affrontarli,
ma che aveva, dietro di sé, accanto
al glorioso patrimonio di secoli di persecuzione, anche quel XVIII secolo,
funesto sul piano della vita spirituale ed ecclesiastica, la cui religione naturale continuava ad avvelenare spiriti e menti.
A questo proposito basti accennare
ad una nota redazionale del Témoin
(il 1° numero del glorioso 1848!) a
proposito dell’imminente sinodo. È
una nota amara che deplora il disinteresse dei Valdesi (popolo-Chiesa!)
per il loro sinodo; i laici (come diremmo oggi) non ci vogliono partecipare perché non ci vedono nessun
interesse materiale, perché vogliono
vìvere in pace. Tanto in pace che la
’’Garde Nationale” di Rorà non si sente di rifiutare di partecipare in pompa magna alla processione del Corpus-Domini il 22 giugno 1848 (Ecumenismo ante litteram?!).
E il tema di quella nota redazionale viene ripreso e svolto in modo più
sistematico in uno studio pubblicato
nel n. 8 (1° febbraio 1849 - L’Echo des
Vallées) col titolo significativo: « Com
ment remédier à notre manque de courage moral? ».
L’autore esordisce con una premessa
malinconica: non si rivolge né agli
adulti né ai vecchi, perché questi potrebbero essere utili sulla via delle riforme solo con la loro morte, non essendo possibile di chiedere loro di modificare le loro consuetudini, soprattutto sul piano morale ! I
Quindi si imposta il problema:
« Comment réussir à inspirar à la génération qui s’élève, ce courage moral
que n’a pas celle qui l’a précédée? ».
È una grave, onesta confessione; diremmo oggi autocritica: «Come riuscire a ispirare ai -giovani questo coraggio morale che i vecchi non hanno
avuto? ».
L’articolista dà a questo proposito
vari suggerimenti fra i quali il primo
posto concerne il potenziamento della
istruzione: non l’istruzione fine a se
stessa, ma in funzione di un arricchimento dello sviluppo religioso e morale. Ma questa Chiesa travagliata da
tanti problemi non è Chiesa di Stato,
non vuole essere tale, né tale diventare.
NeT numero del 1° marzo dell’Echo
des Vallées, 1849, leggiamo con interesse un dialogo tra barba Jean David
ed un giornalista che gli vuole spiegare lo Statuto. Ad un certo punto interviene nella conversazione un certo
Paul, che non è molto soddisfatto delle
spiegazioni del giornalista valdese, il
quale ha osservato che, dopo tutto, lo
Stato avrebbe dovuto riconoscere ufficialmente la Chiesa Valdese e pagare i
suoi pastori.
Il buon Paul, che non è teologo né
giurista, prorompe con un no reciso.
Non ha nulla in contrario al fatto che
lo Stato abbia la sua religione e ne
paghi i sacerdoti, purché questa religione non sia la Valdese; si augura
che una simile proposta non sia mai
fatta, ché se venisse avanzata « je voudrais... que nous refusassions ». E continua nel suo sfogo: il diritto comune
è la sola cosa che una Chiesa deve domandare. La salvezza non dipende dallo Stato, che deve lasciare ogni cittadino libero di cercarla, nel rispetto delle leggi.
Il dialogo si conclude con una stretta di mano e due osservazioni non inutili del giornalista
1) « La causa deU’intolleranza religiosa è sempre stata, in ogni tempo,
da ricercarsi nella mancanza di convinzioni personali»;
2) L’esigenza della libertà religiosa
viene sempre ultima, i>erché essa, figlia
di convinzione personale, implica un
impegno personale; introduce un elemento di turbamento, disturba la politica dei politici.
Dulcis in fundo: il giornalista sug
Echi della settimana
Reg. al Tribunale di Pinerolo
n. 175, 8-7-1960
Tip. Subalpina s.p.a. - Torre Pellice (To)
L'ANTISEMITISMO IN POLONIA
Il celebre fisico francese (premio Nobel)
Alfred Kastler, J. P. Sartre e Simone de Beauvoir, Louis Aragón e Elsa Triolet, inoltre
Maurice de Gandillac, Michel Gordey, e Jacques Madaule, tutte personalità ben note della
sinistra francese, hanno firmato il seguente
documento :
« Sotto il pretesto delVantisionismo, si sta
da qualche mese sviluppando l’antisemitismo
in Polonia, col concorso d’una parte (almeno) della classe dirigenti. Benché l’antisemitismo sia sempre ufficialmente condannato,
benché anzi gli atti ufficiali non ne parlino
neppure, si respira in Polonia un’atmosfera
che potrebbe ricordare taluni precedenti spiacevoli (...).
Da molto tempo amici della PolonUi, noi
deploriamo questa situazione con tanto maggior vigore, quanto più essa e contraria a tutti i principi ai quali si richiama il governo
polacco.
Chiediamo con insistenza alle autorità polacche di far cessare, al più presto, la campagna di denigrazione sistematica e di sospetto,
di cui i cittadini polacchi d’origine ebraica
sono oggi le vittime. Chiediamo che vengano
ritirate le senzioni ingiustificate da cui troppi
di quei cittadini sono già colpiti, sanzioni che
costituiscono un rinnegamento della loro esistenza passata.
Ne va l'onore della nuova Polonia ».
(Da « Le Monde » del 30/31-3-1969)
LA CRISI D'ANGUILLA
Nell’editoriale de « Le Monde » del
21-3-1969 si riferisce ampiamente .su un’interrogazione fatta recentemente, nella Camera
dei Comuni, al ministro inglese Michael
Stewart, a proposito della ben nota operazione
militare. Gl’interroganti « rimproveravano al
governo d’aver due pesi e due misure, secondo ché si tratta d’Anguilla o della Rhodesia. Il sig. Stewart ha affermato che l’impiego
della forza in Rhodesia avrebbe provocato una
catastrofe, del tutto priva di risultati politici.
Pertanto, in un editoriale violento che denuncia gli "errori” commessi da Wilson e Stewart
in politica estera (sia che si tratti dell’Europa in generale, sia dei rapporti con la Germania e con la Francia, e sia ancora della Nigeria), il “Times” di giovedì 20-3 scrive:
’’Tutto ciò che noi abbiamo dimostrato, è
che noi possiamo trattare sei ìnila negri dei
Caraibi con metodi che non avremmo mai
osato applicare a duecentomila bianchi della
Rhodesia... Noi risuscitiamo tutti j pregiudizi
anticolonialisti, esagerando in modo assurdo
una questione priva d’importanza ».
a cura di Tullio Viola
« L’Astrolabio » del 30-3 commenta lungamente ed acutamente (a nostro parere) il significativo episodio.
« L’operazione contro l'isola di Anguilla ha
coperto di ridicolo il governo e l’esercito britannico. Si è trattato di uno sbarco eseguito
secondo i crismi sacri della stategìa: la copertura di due cannoniere che brandeggiano
minacciosamente le armi di bordo a un centinaio di metri dall’isola, una compagnia di
berretti rossi che piove dal cielo seminata dai
capaci trasporti truppa “Hercules”, e, dulcis
in fundo, a simboleggiare il ripristino della
legalità civile, lo sbarco di un distaccamento
di ’’bobbies” (i supereducati poliziotti inglesi)
col cappello da pizzardone e le impeccabili
divise blu.
Anguilla è un’isoletta caraibica, devastata
dal vento e dalla siccità, che misura solo 60
chilometri quadri di superficie: contro la sua
popolazione, formata in massima parte da negri e mulatti “armati ed istigati da elementi
mafiosi che avevano preso il sopravvento nell’isola”, si è svolta questa ridicola esercitazione che, ispirata al massimo verismo, chissà
per quale miracolo non si è conclusa con
qualche deciiut di morti. Unici a non perdere
la testa, gli isolani non hanno reagito che
con schiamazzi e irriferibili rumori alle operazioni di sbarco ed alle successive “di rastrellamento” che dovevano concludersi con un
ben magro bottino. Vecchie carabine buone, al
massimo, per delle partite di caccia e qualche carica di dinamite sicuramente destinata
alla pesca di frodo.
Ma perché tanto fracasso? Anguilla, da colonia britannica, acquistando un paio di anni
fa l’indpendenza, aveva costituito un miniStato federale insieme con altre due isolette,
S. Kitts e Nevis. Successivamente, per dissapori con S. Kitts, l’isola decideva di separarsi dalla Federazione; da quelle teste calde
che sono, gli anguillani, a questo punto, non
hanno trattato con molti riguardi il "plenipotenziario” che era stato inviato, qualche settimana fa, da Londra a metter pace. Anche se
non siamo più ai tempi della regina Vittoria,
il governo (laburista) di Sua Maestà Elisabetta non ha voglia di scherzare sulle questioni d’onore. Così il solito menù delle cannoniere è stato aggiornato con un robusto contorno di paracadutisti: ora, se il rhodesiane
Smith prosegue sulla via della ribellione e della politica razzista, c’è da scommettere che almeno sono finiti i tempi belli per i tanti contrabbandieri, biscazzieri e “mafiosi' che popolano il mini-impero coloniale britannico ».
gerisce di turbare le acque con una
petizione alla Costituente (1849), anche se questa proposta desterà scandalo tra i benpensanti, tra quei bravi
Valdesi che si apprestano a celebrare
il 17 febbraio per ricordare le « choses
merveilleuses » del passato... « que Dieu
a faites ».
Si ha l’impressione che lo strumento, il nuovo re di Sardegna Vittorio
Emanuele II, ed i fatti, le conquiste
della borghesia Valdese nascente, abbiano un posto rilevante in questa celebrazione. Forse che la benedizione
dell’Eterno non si manifesta anche nel
successo economico dei suoi figli? E
Giuseppe Malan non è forse il tipo di
questo nuovo Valdese, fedele al suo
Dio, alla sua Chiesa, al suo re, e, perché no, alla politica di Camillo Cavour? Forse che non è un segno dei
tempi nuovi il fatto che nell’amministrazione della Société anon5mie du
chemin de fer de Pignerol, accanto ai
nomi gloriosi di Brignone, De Fernex,
Ceresole, Ceriana si trovi quello di
Joseph Malan, nell’anno 1852?
Il mito del 17 febbraio è nato all’indomani stesso del primo 17 febbraio;
«Dieu qui a fait ces choses merveilleuses» è alle prese con gli uomini savi,
che reggono la sua piccola Chiesa Valdese, la quale non considera affatto
un tabù la presa di posizione sul piano
politico, e si inserisce nella sua patria
terrena : Chiesa e popolo : popolo =
Regno di Sardegna = Piemonte, e la
opera nuova, quella di Evangelizzazione nasce sotto l’equivoco.
Si chiede il terreno per un tempio a
Torino perché, fra l’altro « molte famiglie ricche e stimate sarebbero indotte
a stabilirvisì per la presenza del Tempio ».
Ed a Genova e Firenze il mito Sabaudo si sgretola di fronte alla realtà :
le comunità degli esuli, degli Italiani,
non riescono a capire la mentalità di
questi evangelisti « Piemontesi » ; e gli
« evangelisti » Valdesi si sentono come
oppressi da questa incomprensione che
sentono di non meritare; ma anche
una mente aperta, come quella di quel
Paolo Geymonat che a Genova e Firenze ha dato la sua vita, realizza la
pericolosità dell’ombra di quel Mazzini che turba i piani del grande tessitore.
Il mito del 17 febbraio, celebrazione
di una borghesia dinamica ed ancora
religiosa, segue il doloroso cammino
della società italiana; si svuota lentamente ed inesorabilmente del suo contenuto. E la Chiesa e l’Evangelismo
italiano tentano invano di ricostituire
questo contenuto.
Non possiamo procedere qui che per
accenni, perché è una storia ancora da
scriversi, che può facilmente prestarsi
a interpretazioni ideologiche più o meno tendenziose; ma ci sembra di poter
affermare che questa celebrazione è diventata presto la commemorazione di
un fatto storico, alla quale il laicato
Valdese fuori delle Valli non sembra
aver prestato grande interesse ; ha tentato, se non andiamo errati, di dargli
un contenuto unitario, facendone una
celebrazione della libertà di un evangelismo unitario, con una iniziativa
senza grande seguito.
Così, come la Chiesa Valdese tentò a
più riprese di ritornare alle origini spirituali del mito, con la Settimana Valdese, con la Settimana di Rinunzia;
tentativi che durarono l’espace d’un
matin.
E il XVII febbraio è rimasto cosi, a
trascinarsi straccamente con la sua
agape fraterna, che agape non è (e
neppure banchetto ! ) e fraterna non
sempre ; con la sua borghesia che non
è più la forza viva della Chiesa (e non
è più un’audace componente dinamica
della vita sociale delle Valli); una celebrazione dove «parlar male» della
coccarda provoca reazioni impreviste
di sacro sdegno e solenni professioni
di amor paterno e patriottico in difesa
della vigna di Naboth, ma anche una
celebrazione di una classe che assiste
pavida al progressivo smantellamento
delle sue istituzioni, sulle quali versa
calde lacrime, alza grida di sdegno, iria
cui non dà i suoi soldi né i suoi figli.
A difesa di questa bistrattata borghesia Valdese, sarebbe un’indagine interessante formulare un quadro statistico del depauperamento borghese delle Valli, e del corrispondente potenziamento borghese fuori delle Valli.
Forse, tutto sommato, dobbiamo esser grati alla pervicace outrecuidance
di quei contestatori che, attaccando
aspetti che potevamo ritenere margiriali nella celebrazione del XVII febbraio,
hanno messo in luce cruda che questi
« marginalia » erano « sostanziali », riproponendo cosi, in modo più crudo
ancora l’interrogativo spietato al quale
dobbiamo rispondere: Che cosa c’è di
vivo e di morto nella nostra Chiesa?
Che cosa celebriamo il 17 febbraio?
Dio che ha fatto queste cose maravigliose o le cose maravigliose?
Abbiamo tentato con la Settimaiia
di Rinunzia; non sarebbe forse più
onesto riconoscere la propria infedeltà
e porsi sul puro e semplice piano della
commemorazione storica, con una Settimana della Storia Valdese, al di fuori e al di sopra di ogni equivoco?
L. A. Vaimal
Notiziario
Evangelico
Italiano
a cura di Renato Balm»
Dalla Chiesa Apostolica
Dal 6 all’8 aprile si terrà a Grosseto presso la Chiesa Apostolica di via Oberdan 39 il
10® Convegno nazionale di Pasqua sul tema:
<( La Santa Vocazione della Chiesa ». L’8 aprile si avrà, sempre a Grosseto, anche la riunione del Consiglio nazionale degli Apostoli e
Profeti che stanno a capo dell’organizzazione
gerarchica di questa Chiesa secondo quanto afferma il 9“ punto di fede (a Governo spirituale della Chiesa mediante Apostoli, Profeti,
Evangelisti, Pastori, Dottori, Anziani e Diaconi »). Secondo questa chiesa « lo Spirito Santo^
opera nella Chiesa non immediatamente ma
mediatamente per mezzo dei santi ministeri »■
(M. Affuso).
Nel numero di marzo dell’Araldo Apostolico » si legge, oltre a questa notizia, che a Certosa di S. Donato Milanese è stato effettuato
nel mese di gennaio un breve ma sostenuto
colportaggio da parte di quattro fratelli provenienti da « Operazione Mobilitazione » (movimento interdenominazionale per Pevangelizzazione attraverso la stampa). « Lo scopo della
distribuzione è stato anzitutto quello di mettere la Parola di Dio nelle mani di ognuno, ajiche se nel nord Italia non c’è molta disposi^
zioiie per le cose spirituali ».
Dalle Chiese dei Fratelli
La chiesa dei Fratelli è presente nella zona
terremotata della Sicilia con una baracca a
Rampensieri dove si tengono delle riunioni
settimanali e dove si raccolgono ogni giorno
diversi bambini per insegnare loro le S. Scritture. Sono salite a tre le tende che questa
estate effettueranno delle campagne di evangelizzazione. La Tenda Azzurra opererà a Napoli, Città di Castello, Terni e Massa Carrara;
quella di « Operazione Mobilitazione » a Cremona, Reggio Emilia, Pavullo nel Frigi ano e
Carpi di Modena; quella della « Buona Novella » a Foggia, Apricena, Monte S. Angelo
e Paglietta (Chieti).
Dalle Chiese Pentecostali
In gennaio si è tenuto a Milano il Vi Reduno Campistico delle Chiese del Nord che ha
raccolto centinaia di campisti provenie/rLi da
25 chiese. In questo incontro si è parlato, tra
l'altro, del nuovo campeggio che ha , ede a
Poggiale-Vado di Monzuno a 30 km. \l:- Bologna.
Dall’Esercito
della Salvezza
Nel « Grido di guerra » del 16 marzo 1969
sono riportate alcune notizie sulla missione
evangelistica in Sicilia diretta dal Segretari
Generale D’Angelo, già annunciata ii! questo
notiziario. A Lentini, malgrado Posiarolo del
tempo inclemente, le riunioni all’apei io hanno raccolto centinaia di persone rendemio cosi
possibile la distribuzione di migliaia ili opuscoli. A Castelvetrano poi uno dei coji.ertiti
ha messo a disposizione dell’Esercito delia Salvezza un locale di sua proprietà per sostituire
l’attuale sala che risulta inadeguata per la
nuova comunità.
PINEROLO
LA SITUAZIONE EUROPEA
DI FRONTE ALL'EVANGELO
Domenica 13 aprile, alle 14,30, nel lrinpio>
di Pinerolo avrà luogo un incontro Ira i concistori e i responsabili delle comunità delle
Valli — caldamente invitati — e il past.
Glen Garfield Williams, presidente della Conferenza delle Chiese europee, il quale recentemente ha parlato a Torino. Tema dell ncontro: La situazione europea di fronte all’Evangelo.
Colloquio pastorale
Il colloquio pastorale che ha avuto
luogo lunedi 10 marzo a Pinerolo e
stato consacrato all’esame del problema della cura d’anime. Nelle comunità molti sono i credenti che avvertono il problema e spesso si rimprovera ai pastori di non fare abbastanza in
questo settore. Si è messo in luce n
fatto che la cura d’anime per essere
vera e proficua ha bisogno di essere
fatta nel quadro di una comunità. »1
ritorna cosi al problema primo: sono
o non sono, le nostre parrocchie, delle
vere comunità? Il dibattito del pomeriggio, sul problema dell’istruzione, è stato animato e ricco di spunti. La materia è troppo ampia per essere svolta
in poco tempo e la discussione proseguirà nel corso del prossimo incontro.
« i|( 4«
Il prossimo colloquio avrà luogo,
sempre a Pinerolo, lunedì 14 apri e,
con il seguente programma:
ore 9,30 - culto precieduto da du
ciano Deodato. .
ore 10-12 - proseguimento della mscussione sulla predicazione e sulla
ra d’anime oggi, con la partecipazion
del past. G. G. ■Williams, presidente
della Conferenza delle Chiese europee
ore 13,30-14,30 - problemi del Di
stretto e comunicazioni della Tavola
ore 14,30-16 - dibattito suUa reia
zione della Commissione sinodale s"
gli Istituti d’istruzione.