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RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno IV :: Fasc. XI-XII.
NOV.-D1C. 1915
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA ■ 30 NOVEMBRE-31 DICEMBRE - 1915
DAL SOMMARIO: I. w. Caruol: Ilmonopolio in religione. Pan-eccle-siaslicismo e Pan-germanesimo. — IVAN LlABOOKA : I nuovi orizzonti della teologia ortodossa russa. - La teologia delladommatismo. — ILLE EGO: Che ne è del "modernismo1? o meglio: che cosa fu il ' modernismo"? — GIULIO NATALI: Il pensiero religioso di Giuseppe Parini. — EDUARDO TAGUALATELA : Morale e religione. — GIOVANNI E. MEILLE: Intorno all* immortalità dell’anima. — ERNESTO RUT1U: Vitalità e vita nel Catlolicismo (Cronache). — TRA LIBRI E RIVISTE: La religiosità come prodotto della funzione contemplativa (Ugo Janni). - Kant, Rosmini e Varisco - ecc. — LA GUERRA: Notizie, voci e documenti di Germania e Inghilterra. — ILLUSTRAZIONI: Quattro disegni di Paolo A. Palchetto.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi
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D. G. Whittinghill, Th. D., Redattore per 1* Estero ------- Via del Babuino, 107 - ROMA ----AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
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Bilychnis nel 1916 “qualunque T *avvenimenti
J ______________________ continuerà a svolgere il suo programma
di cultura religiosa, dando anche larga parte all'esame e discussione di questioni vive in relazione con la guerra, come ha fatto nel 1915’:
La guerra e l’avvenire del Cristianesimo Guerra di religione?
Nazionalismo e imperialismo Germanesimo e latinità
La difesa della nostra latinità, ecc.
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ejitoinis
RJVI51À DI SlVDI RELIGIOSI EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA _______• DI ROMA-.
SOMMARIO:
I. W. Carliol: Il monopolio in religione. Pan-ecclesiasticismo e Pan-germanesimo. Il pensiero di un vescovo inglese ...... pag. 325 Ivan LiABOOKA: I nuovi orizzonti della teologia ortodossa russa. La teologia deH’adommatismo ............ » 334
ILLE EGO: Che ne è del «Modernismo»? o meglio: che cosa fu il «Modernismo»? . . . ...... . ...... » 345
GIULIO Natali: Il pensiero religioso di Giuseppe Parini . . . . » 355
Eduardo Taglialatela : Morale e religione ........ >364
Giovanni E. Meille: Intorno all’immortalità dell’anima .... » 389
CRONACHE :
Ernesto Rutili : Vitalità e Vita nel Cattolicesimo ¡X.|. .... »401
TRA LIBRI E RIVISTE:
I libri: , .
E. P. Lamanna: La religione nella vita dello spirito. - La religiosità come prodotto della funzione contemplativa (U. Janni) ............. » 42$
G. Galli : Kant e Rosmini (Gali, e B. Varisco)........... .... » 432
Le riviste:
L. Coulange: Le Christ Dieu (C. Vitanza) ................ » 435
Renato Citili1: La storia del profeta Giona (F. R.) ....... ...... » 436
Francesco Lanzoni: Le fonti della leggenda di Sani Apollinare di Ravenna
(F. Rubbiani)........................................... ’ 437
Varia (S. B.) . . ■....... • • ■ • 44<>
ILLUSTRAZIONI:
Paolo A. Paschetto: Auguri agli amici (Tavola tra le pagine 324 e 325).
Albero vecchio (Tavola tra le pagine 344 e 345).
Albero nuovo ( » » » 388 e 389).
Sovranità e... sovranità (Disegno a pag. 421).
LA GUÈRRA (Notizie, Voci, Documenti): Germania: ■
A. D. S. : I tedeschi e il regno di Dio. - Il prof. Harnack e la guerra, nella
critica di A. I.oisy ...... ...... ............. » 44*
G P.: La « moratoria » pel Cristianesimo ................. » 445
Inghilterra :
Giovanni Pioli: I pulpiti cristiani e la guerra ■ » 447
— Il pensiero di un « modernista» inglese: A. Fawkes......... » 45$
— La religione dopo la guerra ..• % • • • ....... » 462
Cambio colle Riviste .............. . ... •.................. » 44*
Pubblicazioni pervenute alla Redazione ............. » 44£
Opuscoli estratti da «Bilychnis» ........... ...... » 44$
Libreria Editrice « Bilychnis » .................. * 451
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IL MONOPOLIO IN RELIGIONE(,)
Pan-ecclesiasticismo e Pan-germanesimo
Il pensiero di un vescovo inglese
l monopolio è cosa che riesce molto cara al cuore dell’uomo « naturale®». Un ^miraggio di guadagno e di superiorità inganna la sua debolezza di carattere e l’eccita potentemente. Il monopolio non fa mai appello ai più elevati sentimenti della natura umanaj ma sempre ai più bassi; perciò, a misura che i sentimenti più bassi crescono e si irrobustiscono, cresce l’amore per ilgmonopolio, mentre a misura che i più elevati sentimenti si sviluppano] e prosperano l’amore per il monopolio diminuisce.
Nell'uomo « naturale » il monopolio è una passione sovrana: nell’uomo « spirituale » è sentito invece come « opera della carne », che va condannata e crocefissa.
... Questo articolo di un vescovo anglicano, membro della Camera dei Lords, pubblicato nell’ultimo numero della Nineteenlh Ceniury and after è molto significativo e rivelatore dello spirito politico in Inghilterra durante la grande guerra. In Inghilterra, infatti, la guerra non ha distratto l’attenzione dai gravi problemi interni. Questi sono risolti o almeno avviati verso una soluzione approfittando del grande risveglio di energie d ogni genere che ha suscitato una guerra nazionale e non messi in quarantena per addormentare gli spiriti in una fallace unità ed idillio interni. Uno fra questi problemi jè senza dubbio quello che riguarda la posizione della Chiesa ufficiale d’Inghilterra di fronte alle '* Chiese libere ”, che vanno acquistando una «sempre maggiore importanza per numero c per influenza nella vita nazionale. La Chiesa cattolica anglicana, che ha dalla sua parte nobili tradizioni nazionali, il prestigio del culto, una forte gerarchia e l’appoggio dello Stato, lungi dallo scomunicare c dal pretendere per sè un posto unico, discute, per bocca dei suoi più autorevoli rappresentanti, liberamente e fraternamente.
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Nessun uomo veramente buono desidera una cosa buona solo per se. Quanto più pienamente egli è padrone della sua bontà, tanto piti generosamente desidera comunicare questo bene agli altri.
Non c’è riprova così sicura ed evidente della bontà, come un’ardente sete di partecipare agli altri i nostri vantaggi fin dove ci è permesso; pochi i segni del male che è in fondo all’animo così evidenti, come l’egoismo che vorrebbe allontanare gli altri dai nostri vantaggi per custodirli unicamente per noi stessi. L’uomo sano vorrebbe vedere tutti gli altri sani come lui; l’uomo, i cui affari vanno bene, vorrebbe vedere gli altri godere una prosperità uguale alla sua; l’uomo felice vorrebbe che gli altri fossero felici come lui.
Se la nostra gioia che ci viene dalla buona salute o dalla prosperità e dai doni dell’intelligenza nasce in parte dal pensare che almeno in questo siamo superiori agli altri, allora la nostra gioia è simile all’egoismo. E ciò perche-, tutte le forme di amor proprio sono povere tristi e brutte cose: l’amor proprio dello specialista erudito, dell’autore e dell’oratore brillante, dell'uomo opulente che si è creato una fortuna, del demagogo insuperbito, dell’aristocratico pieno di pregiudizi di casta, del predicatore che predica se stesso, del sacerdote esclusivista. L’amor proprio è per natura sua esclusivo. Va superbo della sua superiorità. La sua gioia non sta nella comunione con gli eguali, ma nell'isolamento della superiorità. Sogna di avere un monopolio e crede che frutto del monopolio debba esser un presuntuoso amor proprio
Notate: il monopolio si trova per lo più associato, più o meno intimamente, con il despotismo, specialmente quando il despotismo porta il mantello della religione..’ Un monopolio commerciale è un tiranno del mondo del commercio. Debbo aggiungere: non solo del commercio, ma della vita sociale. Un monopolio fiorisce e s’arricchisce con le privazioni che impone alla comunità... Però è un errore il credere che i monopoli come qualsiasi altra specie di male sieno ristretti a particolari forme di governo oppure a particolari « denominazioni » religiose. Essi possono crescere prosperamente tanto sotto una forma di governo che sotto un’altra, come fiorirono sotto i Tudor e sotto gli Stuart..
Che il male sia indipendente dalle forme politiche od ecclesiastiche di governo, noi possiamo constatarlo da ciò che vediamo avvenire sotto i nostri occhi sia nell’impero Britannico che negli Stati Uniti. Fino a che il cuore umano non si sia allargato ed i suoi ideali nobilitati,, i monopoli, in forma più o meno brutale, rimorchieranno l’umanità sofferente qualunque sia la forma di governo, monarchica oligarchica o democratica.
intorno ai mezzi per un rinnovamento e per un allargamento che le permettano di risve-ghare nella nazione maggiore simpatia, e di trovare la via per divenire — sua suprema ambizione — non l'unica istituzione religiosa organizzata del paese, ma una delle più benefiche accanto alle altre. Le nobili parole del vescovo di Carlisle. ispirate ad una concezione cosi elevata del cristianesimo e della Chiesa, la vede giustamente all’opera nel pan-ec-clesiasttctstno delle grandi Chiese quello stesso male che si manifesta ora in forme mostruose nelle pretese monopolizzatrici tedesche, saranno lette con interesse e con profitto.
Mario Rossi.
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Sotto gli Stuart i monopoli fecero un vero macello, perchè erano concessi dal re e al popolo s’insegnava che il re governava per diritto divino. Fu appunto questa premessa del Diritto Divino che fece sì che le concessioni di monopolio riuscissero fatali. L'errore non è mai tanto pericoloso, come quando si riveste delle armi del diritto: e il male mai riesce tanto dannoso, come nella veste di un angelo innocente. Il despotismo svanisce come un incubo quando ci destiamo; ma il despotismo deificato, i monopoli concessi per diritto divino, queste, sì, son cose che recan con sè la morte. I monopoli che pretendono di esser concessi da Dio destano un terróre pieno di fascino specialmente nelle anime deboli e timide e divengono in modo speciale funesti quando le loro pretese, superando la frontiera della morte, invadono il mondo di là.
Qui, sulla terra, abbiamo varie occasioni di verificare la validità dei monopoli: così il Parlamento inglese verificò quei di Carlo I e i marinai della Bretannia quei del papa sopra tutte le isole dell’Oceano. Ma contro i monopoli proclamati in regioni invisibili, al di fuori del controllo deH’esperienza, noi possiamo solo servirci dell’evidenza di una illuminata analogia e dire: « Se la costituzione morale dell’altro mondo si volge lungo linee simili a queste, e se lo stesso Padre degli uomini governa ià come governa qui, allora, dal momento che Dio non concede qui nessun monopolio spirituale ma offre il suo spontaneo amore a tutti, ad eguali condizioni. Egli non potrà concedere dei monopoli neppure nel mondo di là ».
Come Dio conferisce ora il suo perdono al vero penitente senza bisogno di danaro, così, per analogia, inferiamo che Egli concederà le sue grazie a tutti quei che morranno nel Signore ad eguali condizioni. Naturalmente, se noi desideriamo l’assoluzione dai Sacerdoti, dobbiamo esser preparati a pagarla, perchè l’assoluzione sacerdotale è monopolio dei sacerdoti, e non è nelle abitudini dei monopolizzatori il far concessioni gratis. Il loro perdono deve, in un modo o nell’altro, venir ricompensato. Non sarebbe però rispondente alla dignità divina e all’ineffabile amore di Dio il ricevere un compenso per il suo perdono. Egli si è già pagato nel dono del suo Figliuolo; Egli non può ricevere un secondo pagamento senza andare incontro ad una conseguenza che sarebbe irriverenza, per non dire bestemmia, il nominare in rapporto a Dio. Se Dio fosse un despota, Egli potrebbe vendere i suoi monopoli, ma poiché in Lui non dimora nessun despotismo, non può trafficare in monopoli. Il cristianesimo, come ce lo rivela il Nuovo Testamento, non è un commercio, ma una vita. E con quei a cui Dio donò la vita. Egli si comporta come se fossero figli del suo amore e non come dei clienti.
Notate: un’altra tendenza di tutti i monopoli è quella di spingere il monopolizzatole al materialismo. Il rapporto fra Mammona e monopolio è molto intimo. Nessun uomo — parafrasando un detto di Gesù — può servire allo stesso tempo a Dio e al monopolio.
Chi ama il monopolio, un po’ per volta s’allontana da Dio. Questa incompatibilità vale per ogni specie di monopolio. I sinceri amatòri degli uomini — e l’amore per l’uomo è una sicura e inevitabile conseguenza dell’amore per Dio — hanno in orrore i monopoli, perchè « monopolio » significa l’iniqua superiorità del monopolizzatore e la restrizione ingiuriosa dei vantaggi divinamente concessi per il bene generale.
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Ma se i monopoli nelle cose terrene sono odiosi e funesti, nelle divine lo sono ancora di più.
La preghiera e le altre forme di comunione spirituale sono là necessaria atmosfera per l’anima degli uomini. In essa respirano e per essa vivono. Ora, se vi fòsse un monopolio dell'aria, vedremmo presto la morte o un arresto di sviluppo per milioni e milioni di uomini. Così anche, se venisse concesso il monopolio sull’atmosfera spirituale, avverrebbe la morte spirituale, o, nella migliore ipotesi, un arresto di sviluppo spirituale, sia per quelli che vendono come per quelli che comprano tali fantastici monopoli. Nella sfera spirituale, con tutta la sua immensità le sue libertà e il suo amore, il monopolio è la più grande ed assurda pretesa, e perciò i monopoliz-zatori in religione sono obbligati a materializzare la loro religione prima di poter trovare un punto d'appoggio per i loro monopoli.
* * *
Due delle più eminenti caratteristiche della religione del Nuovo Testamento sono: la libertà e 1'amore.
« Da ciò tutti gli uomini riconosceranno che voi siete miei discepoli — disse il suo divino fondatore — se vi amate fra voi ». La Carità, non un Credo, è dunque la vera riprova della ortodossia cristiana. Se un uomo non ha in sè lo spirito d’amore del suo Signore, qualunque sia la sua fede, non è un discepolo del Cristo. Il Cristo non può mantenere alcuna comunione con un uomo amaramente cinico, con un critico sprezzante, con un uomo ripieno di pensieri carnali o privo d’amore. Il Cristo non deprezzò la fede, la fede in Lui e nel Padre suo; Egli fece anzi di questa fede la condizione del discepolato, della salvezza e della felicità. La sua grande promessa fatta a Pietro fu la ricompensa di uña convinzione materiata di fede; però una fede che non operava attraverso l’amore non era per Lui affatto una fede. Perciò nella descrizione ch'egli fa degli eterni verdetti al Giudizio Universale (Matteo xxv) non si parla affatto di fede: non perchè la fede non sia di alcun valore, ma perchè la fede che non si manifesta nella carità è praticamente come se non esistesse.
Paolo s'innalza a grandi altezze nel valutare la fede e la speranza; eppure stima l’amore più grande di tutte e due e queste, a paragone dell’amore, un nulla. A questa carità divina ed infinita del Vangelo, il monopolio è obbligato, per amore del proprio successo ecclesiastico e del dominio a muover una guerra senza quartiere. Là dove l’amore penetra, il monopolio è costretto a fuggirsene. Mai si trovò raccolto insieme un così numeroso « comitato » di monopolizzatori come al concilio di Trento; nessuna meraviglia, quindi, che le deliberazioni di una tal assemblea finissero con degli anatemi. Anatema è l’atmosfera del monopolio: la carità è la sua morte.
La libertà è un'altra grande caratteristica della religione del Nuovo Testamento. « Dove c’è lo spirito del Signore, lì v’è la libertà »; non licenza, ma libertà. Licenza è servire il proprio egoismo; libertà è servizio di Dio. Solo nell’obbedienza ai precetti di Dio può trovarsi una perfetta libertà. Però dove la fìgliuolanza di Dio fa gli uomin liberi, essi sono veramente liberi. Servi, se volete, a Dio, essi però non sono nè schiavi d’una aristocrazia o casta e tanto meno si trovano sotto la schiavitù dei
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monopolizzatoti ecclesiastici, perchè sanno che i monopoli in religione sono di necessità irreligiosi, contrari alla libertà del Vangelo e Che perciò non vi si devé credere, e che, tanto meno, poi, debbono venir comprati dai credenti nel Vangelo.
È singolare infatti come, pur essendo il monopolio nemico sia della libertà che dell’amore evangelico, abbia guadagnato una così forte posizione nelle Chiese cristiane, la cui raison d’èlrc è quella di proclamare il Vangelo e di portargli testimonianza. Quanto strano ed incredibile dovrebbe sembrarci questo fenomeno, se noi non conoscessimo l’incredibile inganno e le illusioni del cuore umano, la sua capacità senza limiti di chiamare male il bene e bene il male e di mettere l’oscurità al posto della luce e la luce al posto dell’oscurità! Fatto sta che, non solo noi generalmente inganniamo noi stessi quando la verità non è in noi ma che amiamo di venir ingannati.
Negli affari relativamente di poca importanza, le nostre follìe, la nostra credulità e la nostra superstizione riescono soltanto ridicole; ma in campi più vasti, come nella religione, appaiono straordinariamente serie-, per le loro importanti conseguenze. Mi sembra molto profondo il grande consiglio dell’apostolo Giovanni ai cristiani dei suoi tempi: « Fanciulli, tenetevi lontano dagli idoli », cioè, dalle apparenze delle cose, dalle somiglianze Che pretendono d’esser quello che non sono e sono invece quello che pretendono di non essere. Se questo grande consiglio fosse stato seguito dalle Chiese del Cristo, l’intiero svolgimento della storia cristiana sarebbe stato del tutto diverso da quello che è stato. Un risultato, almeno, si sarebbe potuto raggiungere. I monopoli sarebbero stati tenuti lontano dalle Chiese; perchè, mentre c’è un gran numero di monopoli delle funzioni ecclesiastiche, non vi può essere alcun monopolio della verità, dell’azione, dell’amore, della grazia cristiana.
Tutto ciò è libero come l’aria e la luce. Dio ha fatto sì che nessun monopoliz-zatore potesse imbottigliare l’atmosfera che ci circonda o rinchiudere la luce del sole in una camera per farla uscire dall’unica finestra. Lo stesso avviene per la luce e per l’aria dell’eterna salvezza. Dio le offre liberamente in abbondanza, da per tutto e ad ogni'uomo. Ed è inevitabile che sia così. L’aria e la luce dello spirito sono senza misura più importanti per la vita immortale dell’uomo che l’aria e la luce materiale per la vita del corpo: e di tanto più importanti, di quanto è più importante l’anima del corpo e l’eternità è più lunga del tempo. È perciò incredibile, inconcepibile che, mentre Dio ha impedito il monopolizzare l’aria e la luce materiale ad un uomo o ad una collettività qualsiasi, abbia invece conferito ad un solo uomo, ad una casta privilegiata, ad una Chiesa, ad un’associazione di Chiese il monopolio dell’aria e delia luce spirituale. Qualunque sia la cosa che il dono meraviglioso delle « chiavi » implichi, esso non può significare che Dio, alla maniera degli Stuart, abbia conferito dei monopoli alle Chiese; monopoli che tengano la salvezza incatenata e la mettano in vendita a prezzi fissi, sì che se voi non li potete pagare moriate spiritualmente di fame e periate per l'eternità. La pura concezione di tali monopoh — se gli uomini li potessero scorgere alla chiara luce della verità — apparirebbe come una diffamazione contro la paternità di Dio e la libertà della sua grazia. Eppure, che alcune Chiese s’immaginino di esser posseditrici di siffatti monopoli e sieiio abituate a non vedere in essi nessuno sfregio fatto a Dio, è un fatto che non può venir contestato.
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... Il modo col qyale alcune Cinese si vantano dei loro monopoli, sia di retta dottrina o di sacramenti salutari, è un fenomeno altrettanto degno d'attenzione quanto gli stessi monopoli. Si potrebbe pensare che il sentimento della fraternità umana e la generosità dell’amore spirituale facessero rimpiangere alle persone buone - e molti monopolizzatori sono cèrto delle buone persone — che tutte le altre Chiese non abbiano avuto in eredità i loro stessi vantaggi e i loro privilegi redentori. Ma no! È il sentimento opposto che ha prevalso! Gran parte della soddisfazione che nàsce dal possesso di un monopolio deriva dal sentimento che il monopolio è proprio una cosa nostra che gli altri non hanno nè potranno mai possedere, a meno che non entrino nelle nostre file ed accettino le nostre condizioni.
Sembra all’illusoria e corta veduta di un uomo una gloria speciale, se cammina lungo la via che conduce ai cieli, il credere che questa sia una via tutta sua e che non ve ne sia alcun’altra. Nella lóro vanità, agli uomini sembra di essere didivenuti altrettanti dei, quando essi soltanto possono aprire la porta d'accesso a Dio.
Però i più sottili ed insidiosi pericoli del monopolio in religione non derivano dalle selvagge stravaganze a cui può condurre l’illusione di un tal monopolio. Poiché col sopravvenire di età più progredite la fede riesce ad allearsi più intimamente con la ragione e lo spirito dell’uomo entra in una più definita e più intima coopcrazione con la sua anima," siffatti oltraggi alla ragione spariscono; e la religione non ha a fare con essi, più di quello che gli astronomi oggi non hanno a fare con la dottrina tolemaica... Ma vi sono altri monopoli in religione più minacciosi di quelli evidentemente irrazionali; più minacciosi, perchè hanno almeno qualche aspetto ragionevole.
Io scelgo solo due tra questi monopoli più ragionevoli: il sistema episcopale e V ortodossia.
Io L’episcopato. [Tralasciamo di tradurre questa parte, perchè troppo lunga e meno interessante per il lettore italiano. UÀ. intende di colpire direttamente il monopolio che sta più a cuore alla sua Chiesa d’Inghilterra}.
L’ortodossia. L’ortodossia, come l’episcopato, è in sè una grande e buona cosa. Il desiderio di pensare rettamente e di credere rettamente è uno dei più nobili desideri della nostra natura. Pensare e credere rettamente ed insieme agire rettamente costituiscono nella loro armonia il più alto livello della giustizia umana. L’uomo veramente giusto cerca non solo di agire rettamente, ma anche di pensare e di credere rettamente. E per « rettamente » non intende solo « correttamente » o « secondo il costume ». Egli intende « giustamente ». Rettitudine e giustizia sono termini inseparabili e perciò un’ortodossia che significhi « pensare e credere rettamente » non può venir separata dall’agire rettamente. Una ortodossia ingiusta, non equa è per conseguenza una contraddizione in termini; una cosa impossibile ed inconcepibile! Nella misura con cui l'ortodossia è accompagnata dall’ingiustizia diviene eterodossia; nella misura con cui l’eterodossia s’accompagna con la giustizia, diviene ortodossia. Anche lo scrittore del Credo (i) Atanasiano sentì la forza di questa
(i) Detto pure “ simbolo atanasiano ”.
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verità. Infatti nei versetti introduttori della sua grande lirica dice: « Chiunque vuol essere salvato, prima d'ogni altra cosa deve seguire la fede cattolica, e la fede cattolica e questa : il venerare un Dio nella Trinità e la Trinità nell’Unità ». Poi, dopo una lunga spiegazione metafisica, non molto chiara della dottrina della Trinità, la sua poesia così termina: « Quei che han fatto il bene entreranno nella vita eterna, e quei che han fatto il male nel fuoco eterno. Questa è la fede cattolica; se un uomo non vi crede fedelmente, non può venir salvato ». Senza fermarci ad esaminare il valore della parola «eterno» o insistere sul fatto, che lo scrittore del Credo non conosce uno stato intermedio fra la vita eterna ed il fuoco eterno quale il purgatorio, mi basta mettere in rilievo, che l’autore del Credo unisce insieme, nella Fede cattolica, come necessità di salvezza il retto credere e il retto fare. Questa indissolubile unione dell’ortodossia con la giustizia può « venir provata — come dice il nostro articoloVIII (1)— con le più sicure garanzie della Santa Scrittura»,..
A chiunque, vuol salvarsi, è necessario perciò, prima di tutto esser ortodosso non solamente nel credo, ma anche nel carattere; non solo nel carattere, ma anche nella condotta; non solo nella fede verso Dio, ma anche nei sentimenti e nelle azioni verso il prossimo.
Però, non va dimenticato che l'autore del Credo Atanasiano, pur dichiarando la fede e le opere inseparabili dalla salvezza, rovescia l'ordine stabilito dal Nuovo Testamento.
Il « voler fare là volontà di Dio » è la migliore garanzia dell’ortodossia. Il Cristo mise questa volontà al primo posto. Invece, appunto perchè le Chiese han messo questa volontà al secondo posto, l’ortodossia ecclesiastica ha perduta la sua influenza sulla coscienza degli uomini. Le Chiese non possono rovesciare l’ordine dei comandi del Cristo, sia per ciò che riguarda i credi sia per ciò che riguarda i sacramenti e il governo ecclesiastico senza subire delle perdite. La misura della fede, la prospettiva della fede hanno una minore importanza rispetto alla fede stessa. E se l’ortodossia trascura la vita morale od offende la carità o favorisce Vodium theologicum o spinge gli uomini gli uni contro gli altri invece che gli uni verso gli altri, allora essa è un'ortodossia immorale e quindi non è affatto un’ortodossia nel più stretto senso della parola.
* * *
L’ortodossia è tentata potentemente a passar sopra alla moralità, quando pretende al monopolio sia del retto pensare che della retta fede in religione. La sincerità nei credenti è una bella cosa; l’entusiasmo una grande forza; piacevole ed anche confortante è la convinzione di esser sulla retta strada nel credere e nel pensare. Però non vi è dubbio, che ad un uomo di cuore umile e di mente larga debba riuscire una cosa spiacevole e ripugnante la tesi che tutti gli altri sieno in errore; che Dio si manifesti solo in una maniera e non in molte; che i diamanti della verità abbiano solo
(i) L’autore allude ad uno dei 45 articoli della Chiesa anglicana.
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una faccia; che la luce della fede solo un colore e che la Chiesa sia un corpo i cui membri sieno non solo uniti dalla vita di uno spirito comune, ma modellati uniformemente. Noi però sappiamo che ciò è impossibile. Tutti gli uomini non possono pensare e credere ugualmente, più di quello che non possono vedere e sentire alla stessa maniera: tanti volti, altrettante fedi! Anche quando si dicono gli stessi Credi — quando il Credo è là vivente espressione della nostra intiera personalità e non una pura e meccanica ripetizione di sillabe —due uomini non possono pronunciarli precisamente nello stesso senso. Ora, queste differenze sono una cosa divina: come la differenza fra le foglie di uno stesso albero o fra gli alberi di un bosco o fra i bambini in una stessa famiglia. Nessun nemico dell’unità e della cattolicità è così pericoloso quanto l’uniformità nel pensiero e nella fede. La vita è multiforme; la morte sola è uniforme. Gli uomini non sono manifatturati secondo un solo modello, come le macchine: essi sono degli spiriti vibranti e scuotenti.
È appunto questa confusione di unità con uniformità, quella che ha fatto sì che la Chiesa fuorviasse. La cattolicità è un grande e splendido ideale: ma la cattolicità stesa sul letto di Procuste di un’ortodossia ristretta meccanica e monopolizzatrice trova il letto più corto di quello di cui ha bisogno. L’ortodossia monopolizzatrice non è cattolicità, ma anti-cattolicità. Non è il segno di una Chiesa, ma la prova di una setta.
Sono appunto le pretese del monopolio religioso i principali responsabili delle nostre « infelici divisioni ». Che vi sieno delle differenze è un bene: un bene migliore di qualsiasi monotonia. Però, non dimentichiamolo, noi non, avremmo le « infelici divisioni », se non avessimo anche i nostri monopoli ecclesiastici ed irreligiosi. Per monopolio in religione, non intendo qui qualche cosa che riguardi la compra o la vendita, ma alcune opinioni credenze o pratiche religiose di carattere esclusivista, che pretendono di essere la sola porta e la sola via stretta che conduca al cielo sì che non ve ne sia nè ve ne possa essere un’altra. Le vie e le porte di Dio sono spesso strette. Ma la misericordia di Dio è sempre grande come i cieli e il suo amore si stende dall’occidente all’oriente. La loro altezza, lunghezza, larghezza e profondità Sfidano ogni conoscenza. Invece i monopoli non sono nè alti, nè lunghi, nè.larghi nè profondi, e perciò non possono essere d’origine divina. Il monopolio non può favorire una concezione di cattolicismo veramente degna di questo nome; perciò ogni ortodossia che pretenda per sè il monopolio, sia della conoscenza che del culto di Dio, è necessariamente anti-cattolico ed essenzialmente settario.
* « *
I monopolizzatori religiosi spesso sembra che non abbiano una idea chiara della natura delle loro pretese. Essi sentono vivamente gli effetti deprimenti e dannosi degli altri monopoli nel campo del commercio,del capitale© del lavoro. Essi avvertono nettamente come perfino il patriottismo da virtù possa divenire una colpa, quando, come avviene oggi nella Germania, i patrioti pensano che il loro Stato, la loro Kullur, la loro prosperità sieno solo degne di sopravvivere, mentre tutte le altre debbono venir sottomesse, se non addirittura sterminate. Però essi non riescono .a vedere che
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il pan-ecclesiasticismo, in qualsiasi forma esclusivista, ha le sue radici nello Stesso spirito malvagio, lo spirito del monopolio del pan-germanesitno. È fuori di discussione che il popolo tedesco non creda onestamente che la miglior cosa che possa sopravvenire al genere umano non sia la sua totale germanizzazione. Allo stesso modo, un gran numero di ecclesiastici crede onestamente che la migliore cosa che possa accadere a tutte 'le Chiese sia quella di poter ripetere la loro parola d’ordine e unirsi alle loro file...
I monopolizzatori sono sovente della buona gente, perchè cattivi sono i loro monopoli, non essi... Nelle nostre trincee oggi tutte le varietà di monopolizzatori religiosi stan compiendo il loro eroico dovere e nei nostri ospedali lavorano insieme nell’angelico ministero di assistenza e di cura. Eppure non dovrebbe dimenticarsi, che solo per i sogni monopolizzatori della Germania oggi noi abbiamo bisogno di ospedali militari e di trincee. Nessuna guerra internazionale mai scoppiò, della quale l’istigatore non fosse mosso da un esclusivo spirito monopolizzatore. La stessa cosa si può dire delle guerre ecclesiastiche. Fino a che lo spirito del monopolio si sforza di intrometterei nella vita religiosa, sia nella forma di esclusiva validità della dottrina o di esclusiva validità dei sacraménti, le guerre delle Chiese non potranno sparire.
...Questo articolo non si riferisce agli individui, ma solo ai sistemi...
Non molto tèmpo fa un eminente ecclesiastico pose pubblicamente il problema: « Per chi sta la Chiesa d’Inghilterra? ». Dalla risposta della Chiesa d’Inghilterra a questa domanda dipende la sua sorte futura. Se la Chiesa d’Inghilterra decide di prendere le parti del Cristo e dei suoi Apostoli, allora tutto andrà- bene ; ma se intende di prendere unicamente le parti della tradizione dei Concili e dei Padri, allora le cose andranno tutt’altro che bene.
Voi non potete avere una Chiesa cattolica unicamente patristica... Essa deve rinunciare alla formola ecclesiastica: « Là Chiesa per insegnare e la Scrittura per provare », e sostituirla con la formola cristiana: « Il Nuovo Testaménto per insegnare e la Chiesa per imparare; il Nuovo Testamento per guidare e la Chiesa per tener dietro». Se la Chiesa d'Inghilterra decide di stare dalla parte dei monopoli allora deve prepararsi a subire le conseguenze di tale posizione, perchè la Nemesi perseguita le azioni delle Chiese come quelle degli individui. Le Chiese possono scegliere la loro via, ma non possono scegliere le conseguenze della loro scelta: queste sono inevitabili ed inesorabili. I monopoli sempre si trascinano dietro di sè le divisioni, la rivoluzione e la dissoluzione lungo il loro cammino.
I. W. Carliol
Lord- Vescovo di Carslisle.
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LA TEOLOGIA DELL’ADOMMATISMO
no circa mille anni, scrivea non è guari Menscikoo, uno dei più geniali collaboratori del Novoe Vremia, sono circa mille anni che la fede ortodossa è stata il retaggio più sacrò del popolo russo. Sono circa mille anni che il clero russo dotato di scarsa coltura ma profondamente pio è riuscito nella sua missione di tramandare questa fede al popolo russo, un popolo ignorante e tuttavia di buoni sentimenti. Ma noi assistiamo attualmente a una catastrofe. Lo spirito religioso agonizza e muore. Esso si è spento
dapprima nelle classi aristocratiche; le classi intellettuali lo hanno ripudiato; nelle file del clero esso comincia ad affievolirsi. E quando i pastori disertano il lóro posto, il gregge sarà disperso ! ».
Il pessimismo del Menscikoo non è lo sfogo di un animo imbevuto di pregiu-dizii antireligiosi, o il grido di spavento di un cuore pusillanime. Nonostante le salde e profonde radici del suo passato storico, nonostante il fascino che esercita sulle masse con lo splendore dei suoi riti, la beltà insuperata del suo canto liturgico, la maestosa pompa delle sue cerimonie ecclesiastiche, la sua efficacia politica come religione predominante dello Stato, la sua naturalizzazione, direi così, nell’anima russa il cristianesimo ortodosso traversa una crisi gravissima, si dibatte con esangue vitalità tra gli artigli poderosi di fòrze avverse che vorrebbero soffocarlo, o, per usare un’espressione di Mgr. Eudokimo, ex rettore dell’Accademia Ecclesiastica di Mosca e attualmente arcivescovo ortodosso degli Stati Uniti, ridurlo ad un cadavere Sfarzosamente vestito, coperto di smaglianti decorazioni, ma inerte nello squallore silenzioso di marmorea tomba. Scrittori russi di vecchio stampo, tra questi il Kho-miakov, non hanno risparmiato le loro satire, i loro frizzi pungenti, le loro invettive ai nobili russi, che volgono le spalle al suolo natio per darsi bel tempo nei centri della corruzione europea, per infrancesarsi o germanizzarsi nel loro idioma, e quel ch’è peggio per ripudiare segretaménte o pubblicamente l’eredità ortodòssa dei loro avi e darsi in balìa al più abbietto materialismo,.© smarrirsi nei dedali dell'agnosticismo, o rinunziare alla loro libertà ed implicitamente alla loro patria abbracciando il cattolicismo romano. L’aristocrazia russa ufficialmente è ortodossa, ma essa più non si abbevera alle fresche sorgenti della vita cristiana.
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Le classi intellettuali, alla loro volta, covano nell'intimo del loro cuore il più profondo disprezzo verso la Chiesa che ha nutrito col latte più puro della fede cristiana il popolo russo. Le università sono realmente il santuario della Dea ragione, nelle cui navate più non si sente l’eco della voce del Cristo, e dai cui pergami tutte le dottrine, tutte le aberrazioni filosofiche, escluso il cristianesimo, si bandiscono ad una gioventù moralmente corrotta e intellettualmente ottenebrata. Un valente teologo russo, Mgr. Sergio, arcivescovo di Finlandia, con termini roventi condanna ciò che egli definisce il divorzio tra la Chiesa e l’intelligenza, e rigetta in parte sull’ignoranza del clero russo la responsabilità di questo morale disastro. Le scienze sacre, tranne il diritto canonico la storia della Chiesa e un corso rudimentale di apologia cristiana, sono messe al bando dalle aule universitarie. La teologia è considerata come uno svago di menti allucinate o di retori oziosi, e la non si degna neppure dell’epiteto di scienza. Il cristianesimo non è, per così dire, vissuto intellettualmente in Russia. I periodici che trattano problemi religiosi hanno una tiratura limitatissima. Basti dire che il Bogoslovsky Viestnik, la più pregiata rivista di coltura teologica in Russia, organo ufficiale dell'Accademia ecclesiastica di Mosca, giunge appena a raggranellare 1500 associati.
Questo distacco dell’intelligenza, adottiamo il termine russo, dalla Chiesa ortodossa ha impresso due tendenze opposte alla coltura teologica russa; ha scavato per dir così due solchi opposti nel dominio delle scienze sacre; ha foggiato due tipi essenzialmente diversi, due antitesi sistematiche del pensiero teologico russo. Noi abbiamo attualmente in Russia una teologia laica e una teologia clericale: una teologia ufficiale della chiesa, e una teologia autonoma dell'intelligenza; un pensiero teologico schiavo del più gretto conservatorismo, e un pensiero teologico vacante nell’indefinita immensità di una speculazione illimitatamente libera. Noi abbiamo una coltura teològica che si prostra innanzi all’idolo dell’autorità, che riconosce nelle tradizioni la norma suprema del vero, che professa il culto delle forinole, che perseguita con odio implacabile le novità dottrinali, che considera l’immobilità, la letargia intellettuale, come la nota caratteristica dello spirito cristiano ossequente al Vangelo. E nello stesso tempo, noi abbiamo una coltura teologica che inalbera il vessillo della rivolta contro l’ossificazione del pensiero, che ripudia il servilismo riguardo ai teoremi speculativi formulati in secoli lontani, che si spoglia del culto superstizioso verso il lavorio dommatico delle passate generazioni, che spezza le catene delle definizioni dommatiche, Che aspira all’esuberanza della vita, alla libertà dell’errore, al fascino della novità, all’autonomia della dottrina, che sogna un cristianesimo risorgente sulle rovine dei suoi fondamenti secolari, un cristianesimo che predichi nuove effusioni dello Spirito di Dio, che attui nuove sintesi nella vita morale ed intellettuale dell’umanità, che nutra di nuova manna celeste i popoli assetati di luce di verità di giustizia, che segni nuovi periodi nella storia del perenne progresso religioso del Cristianesimo. L’antitesi tra le due colture è lampante. Essa scava un abisso tra la Chiesa della gerarchia e la chiesa dell'individualismo filosofico o mistico. Esso schiera in due campi opposti i partigiani tenaci della tradizione, e i pensatóri religiosi dell'intelligenza. Esso crea due opposte concezioni religiose del cristianesimo, due forme di vita cristiana, due attività che potremmo definire
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l’attività incosciente del letargo e l’attività cosciente della veglia. Esso dà contorni netti, precisi a vaghe aspirazioni religiose che tumultuano, che fermentano nell’anima russa, e nello stesso tempo stimola le assopite energie del pensiero teologico ortodosso. Il conflitto è eminentemente drammatico. Ragione e tradizione, filosofia e teologia, dommatismo e liberalismo, culto del passato e fede nel futuro, tramonti di credenze e albe di rinnovamento, crolli di maestose rovine, e saggi di brillanti restauri passano come un caleidoscopio innanzi agli sguardi di coloro che volgono le pupille della mente allo studio dell’odierno movimento delle idee religiose in Russia.
In questo cozzo formidabile di due mondi ideali, là figura di Leone Tolstoi campeggia sovrana. Storico, filosofico, romanziere e sovratutto psicologo, analizzatore spietato ed insuperato delle fibre più riposte del Cuore umano, Tolstoi personifica in sommo grado quelle tendenze anarchiche che secondo il Berdiaev formano il sostrato spirituale dell’anima russa. L'anarchismo di Tolstoi si estende a tutte le forme dell’attività umana, passa come i torridi venti del deserto su tutti gli edifici ideati dal pensiero, su tutte le istituzioni sociali civili religiose militari, devasta fìnanco con la furia di un uragano i giardini fioriti dell’arte, incarna la perfezione dell’uomo nelle brulle e sconfinate lande del nihilismo. Coi suoi tentativi di rifacimenti del Vangelo, con le sue ardite negazioni della razionalità logica e della estetica del cristianesimo storico, col suo ideale di rinchiudere entro i limiti del pensiero umano tutto ciò che di ultra-razionale noi troviamo nei fondamenti dottrinali della tradizionale teologia cristiana Tolstoi è il fondatore il maestro il legislatore della teologia laica russa, il profeta l’apostolo il nume del cristianesimo rinnovellato nella sua struttura intima, riedificato su basi novelle. Nella sua critica della teologia dommatica di Macario, egli schianta e svelle con vigorosi colpi di piccone le radici dell’albero maestoso ma insecchito del cristianesimo ortodosso. Con una virulenza che non di rado prende il tono del sarcasmo egli assale tutti i domini della teologia ufficiale, egli passa come il flagello di Dio su tutti i campi seminati dalla tradizione Cristiana e nemmeno i fiorellini umili nascosti tra le spine di un roveto o in angoli remoti delle siepi sfuggono all’unghia ferrata del suo destriero.
La concezione religiosa, o piuttosto, irreligiosa del Tolstoi non è riuscita però a dominare completamente sia l’intelligenza che le masse. I suoi dettami religiosi e politici, applicati nella vita sociale dall’esiguo drappello di Duchoborlzy urta-ronsi contro la violenza legale dello Stato, e si risolsero in un tragico insuccesso. La religione ideale di Tolstoi, compendiata ed esalata nel suo assioma fondamentale della non-resistenza al male, mon è fatta per una vita reale. Essa richiede un eroismo superiore in molti casi alle forze umane; essa sconvolge concezioni sociali radicate nella mente sia individuale che collettiva dei popoli: essa implica la negazione di diritti, che sia l’individuo che la società rifuggono dall’abdicare; essa presuppone una perfezione sia dell'individuo che della collettività umana tale che l'impero del male sia sbarbicato: a dir breve, essa è una religione di allucinati, che in un periodo d’intensa esaltazione mistica sono pronti a subire le violenze gl’insulti l’esilio le carceri la Stessa morte con stoica impassibilità e sovrumana fermezza di animo.
Parimenti la religione di Tolstoi non appaga l’innato bisogno di religiosità del cuore umano, non ristora la stanchezza della mente che nelle sue faticose pere-
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grinazioni attraverso gli erti e scoscesi sentieri della ricerca scientifica anela di tratto in tratto l’oasi refrigerante di una verità suprema, inconcussa, immutabile, il lampo di una luce che non sia un pallido riflesso della nostra luce creata. Il pensiero religioso di Tolstoi è eminentemente distruttivo: è un’analisi che dissipa e volatizza tutti gli elementi, tutti i fattori della religiosità cristiana ed esclude la possibilità di una ricostruzione sintetica dell’edificio religioso. Come un antico re di Roma, con la spada tagliente, nel suo desolante criticismo egli recide i fiori più belli del mistico giardino del cristianesimo e cancella al suo passaggio le tracce della florida vegetazione che secoli di cristiana pietà e di cristiana speculazione hanno inaffiato con le lagrime del sacrificio o resa smagliante con la luce radiante del genio. Il Tolstoi, eccelso nell’analisi, è stato povero nella sintesi La sua genialità di stratega che scopre i lati deboli delle fortezze nemiche e le rade al suolo, è stata deficiente nel compito di costruire una cittadella che raccolga le sue schiere.
Non reca quindi meraviglia che il fior fiore dei pensatori religiosi i quali in Russia hanno continuato la tradizione del Tolstoi e ne hanno ereditato lo spirito caustico, l’insofferenza di giogo, il criticismo corrosivo del cristianesimo ufficiale di Stato abbiamo ristretto il campo della loro analisi e siansi ben sovente allontanati dal radicalismo irreligioso del loro maestro e duce. Essi fuor di dubbio hanno cercato il regno di Dio nel regno individuale della loro coscienza, ma il cristianesimo come religione dello spirito che getta freschi zampilli di acque purificatrici nelle vene dell’organismo sociale non ha perduto nei loro ideali religiosi la sua perenne vitalità. Il nihilismo tolstoiano ha spianato la via al cristianesimo adommatico russo, alla nuova scuola dei così detti, per ¡scherno, teologizzanti della decadenza, i quali hanno iniziato il periodo letterario della teologia laica e del cristianesimo rinnovellato.
La nuova scuola del pensiero religioso in Russia è capitanata da Merejkovsky e Rozanov. Il primo è il letterato fantasioso dell’adommatismo cristiano, il romanziere che in quadri pieni di vita e alle volte palpitanti d’intensa drammaticità rievoca la visione dolorosa di età lontane, che furono testimoni dell'alterazione delle linee essenziali del cristianesimo evangelico e del suo vitale esaurimento. Uno dei romanzi della sua famosa trilogia. Giuliano l’Apostata, è la pittura convulsiva della fase storica del pensiero cristiano, che fissando il domina soffoca tra le spire della logica lo spirito del Vangelo e inaugura il regno della violenza spirituale, della prigionia dell’intelletto, del despotismo gerarchico.
Meno sistematico, e più audace nella sua critica del cristianesimo storico è Basilio Rozanov, un letterato filosofo, il quale si è foggiato uno stile apocalittico, alle volte soave come il ritmo di una canzone di amore, alle volte rude, irto di barbarismi, intricato e confuso come i cespugli e gli arbusti di una foresta vergine. E sulle traccie di questi due scrittori famosi, altri pensatori originali con lena affannata muovono alla ricerca del cristianesimo dell’avvenire, si lanciano all’assalto delle rocche vetuste del dommatismo cristiano, scrutano gli orizzonti ideali della loro mente nella speranza che le loro pupille siano abbagliate dai fulgori di un nuovo sole di giustizia. Il Minsk studia ed analizza il misticismo filosofico, interiore di un’anima che non ha bisogno di Dio nella sua religiosità; il Berdiaev pronunzia l'avvento dello Spirito che attuerà la sintesi armoniosa tra la rivelazione del Padre e la rivelazione del Figlio;
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il principe Eugenio Trubeckoi inveisce contro la Bastiglia dello spirito, contro i baluardi che i dommatisti del cristianesimo hanno eretto per tenere in soggezione il pensiero. E questi pensatori religiosi non hanno disertato la Chiesa ufficiale. Checché si dica del formalismo rigido e dell’intolleranza dottrinale della cristianità Ortodossa, essi sembrano convinti che l’audacia e il radicalismo delle loro concezioni religiose non ripugnino a quelle libertà di aspirazioni, a quel rigoglio di vita individuale che il cristianesimo ortodosso tollera nei suoi adepti. Essi si vantano di essere gli ortodossi dello spirito, e trattano con superbo disprezzo gli ortodossi delle formule, i teologi ufficiali dell’ortodossia tradizionale. Essi sono i pionieri di una nuova via, Nowyi Pul (i).
* * *
Quali sono le linee fondamentali adommalismo russo? Un recente critico russo della nuova scuola. Paolo Stepanov scorge una differenza essenziale tra la teologia laica russa ed i sistemi adommatici del cristianesimo occidentale. In questi domina lo spirito metodico: principii gnoseologici forniscono le basi della discussione e della critica del cristianesimo dottrinale. L’adogmatismo russo poggia al contrario sovra un suolo instabile, è il prodotto di una speculazione frammentaria, è lo scintillio orgiastico di pensieri sconnessi, di metafore brillanti, di paradossi. Non vi è unità organica nei suoi schemi; non vi è stabilità di dottrina nelle sue affermazioni, non vi è logica coesione nelle sue parti. I suoi lineamenti sono vaghi, indefiniti, vacillanti come la fiamma di una candela che ondeggia al soffio capriccioso del vento. Gli adommatisti russi sono dei dilettanti che vestono la giornea dei filosofi ignorando quello a cui mirano, inetti a formulare le loro credenze e a rendersi ragione delle loro negazioni. Un confusionismo estremo è la nota caratteristica dei loro abbozzi di filosofia religiosa.
Vi è del vero in questo giudizio intaccato di parzialità. Come tutti i sistemi religiosi o filosofici al loro inizio, l’adommatismo russo non ha unità di. dottrina e rigore logico di deduzioni; esso è il prodotto dell’individualismo religioso, più che il programma di una nuova scuola di filosofia del cristianesimo. Esso incarna più una tendenza di speculazione che un sistema di dottrine. Tuttavia le sue linee fondamentali emergono chiaramente, nella penombra delle sue concezioni vaghe ed indeterminate. A parer nostro i fondamenti dottrinali dell’adogmatismo russo sono i seguenti: i® il cristianesimo evangelico ha subito un’alterazione profonda che ha sfigurate le sue divine fattezze e paralizzate le sue vitali energie; 2° la decadenza, la tisi spirituale del cristianesimo storico è il prodotto del lavorio dommatico che ha sostituito al culto dello spirito il culto delle formole; 30 la rinascenza del cristianesimo consiste nello svolgimento autonomo e interiore della sua vitalità, la quale è parafi) Tale è il titolo di un periodico di scienze religiose che sorse a Retrogrado nel 1902, e come tutti i parti del pensiero indipendente, ebbe molta fama e vita brevissima in Russia.
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lizzata ma non è morta; 40 questa rinascenza sarà il prodotto dell’attività libera dello spirito umano, accoppiata all’azione costante della divinità, il cui Verbo non cessa di rivelare agli uomini nuove forme di vita religiosa, nuòve interpretazioni e nuovi sensi della verità rivelata. L’adommatismo russo è quindi l’incrocio di una critica razionalistica dei sistemi di dommatica cristiana colle aspirazioni di un Messianismo ringiovanito e di concezioni apocalittiche. Esso prende il suo slancio dal suolo stabile della critica storica per inoltrarsi nei sentieri di un misticismo filosofico a base di neoplatonismo, e smarrirsi infine nei dedali di un misticismo visionario, il quale esorbita dal dominio del pensiero per ¡spaziarsi nei campi aerei dell’immaginazione.
Anzitutto il cristianesimo subì un periodo di stasi spirituale, d’interna decomposizione che avvizzì la freschezza delle sue foglie e fè svanire il profumo celeste dei suoi fiori. La catastrofe morale del cristianesimo, il lento esaurimento della sua vita, la rigidezza cadaverica delle sue membra sono il prodotto di quel lavorìo dommatico che si svolse dal iv aH’viii secolo. Intenta a formulare definizioni dom-matiche, a scrutare misteri inaccessibili alla ragione, a rinchiudere le verità rivelate in sillogismi dialettici la Chiesa perdè il suo spiritò evangelico. L'aroma cristiano della sua vita, la fragranza delle sue virtù, la candida semplicità della sua parola svanirono al gelido contatto del dommatismo cristiano. I gigli del Vangelo, i quali sono più belli che le sfarzose vesti regali di Salomone, si avvizzirono sgualciti dalle mani sacrileghe dei teologizzanti, che insoddisfatti della loro casta beltà vollero anche i lussuosi paludamenti del re d’Israele. Giudicandosi più sapienti dei pescatori di Galilea, Pietro Andrea Giovanni; lusingandosi di possedere con più larga abbondanza le effusioni dello spirito, i dommatisti cristiani rimpicciolirono inaridirono le fresche sorgenti della verità evangelica. Essi rinunziarono alle fiorite aiuole del Vangelo, ai gigli candidi e fragranti, e come venditori di stoffe cominciarono a usare la spanna per misurare al pallido lume della loro logica le verità sublimi predicate dal Cristo. I pescatori della Galilea furono messi in oblio. La loro predicazione, il loro verbo sembrò rozzo, insipido ai palati raffinati di sofisti avvezzi a tutte le sottigliezze della dialettica. Clemente di Alessandria ed Origene inaugurarono un nuovo tipo, una nuova scuola di cristianesimo dottrinale. La verità rivelata orpellossi con le false gemme dei filosofi del gentilesimo, imbrattossi con belletti greci e romani, perdè il suo nativo candore, divenne goffa e pesante sotto la cappa di piombo di una indigesta erudizione, adottò i sistemi ed i metodi di scienze umane che ingombrano l’intelletto disseccando lo spirito.
Il cristianesimo si cristallizzò; acquistò la durezza e la rigidità dei fossili; s’irrigidì in una crosta di marmo. Una dommatica sterile, ciarliera, rissosa sostituì il Vangelo. Invece d’informarsi allo spirito del Cristo, di succhiare le linfe vitali della verità divina, di applicare nella vita sociale e individuale le massime ed i precetti del codice della Redenzione, nuovi Scribi e Farisei o plebi corrotte tumultuarono nelle strade, nelle piazze, nell’ippodromo di Bisanzio, arzigogolarono sulle processioni divine, sulla volontà la natura l’essenza in Dio, si affannarono a strappare la divinità dal suo trono per anatomizzarla con la loro dialettica, disseccarla con lo scalpello tagliente della loro critica dommatica, e le chiese ed i monasteri ed i concilii si trasformarono in campi di pugilato intellettuale, in giostre alle volte
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tragiche, alle volte comiche che degradarono la maestà sublime della religione del Cristo. Il giovane organismo, le membra vigorose e robuste, il volto luminoso del cristianesimo evangelico della prima età assunse i lineamenti di una statua volgare di creta inanimata. La verità cristiana, rugiada del cielo, manna di vita, zampillo sgorgante da fonti paradisiache, palmeto celeste carico di (rutti deliziosi. Eden del pensiero e dello spirito divenne una religione di biblioteca, una burocrazia amministrativa, un’arida materia di discussioni, uno svago di eruditi, un pomo di discordie intellettuali, una perenne scintilla di dissenzioni, un elemento di perturbazione sociale. Di Dio non si parlò più secondo lo spirito che vive in noi, ma secondo i libri, secondo l’autorità, secondo la tradizione, secondo le aeree asserzioni dei filosofi e dei mistici. Le anime assetate di verità che inonda le regioni più nascoste del nostro essere spirituale come un’ondata purificatrice e illuminatrice, rivolgendosi alla Chiesa per penetrare nel santuario della vita divina, dai maestri della legge più non ebbero che formole matematiche, termini sapientemente elaborati, assiomi metafisici, definizioni enimmatiche di misteri divini.
Il vero cristianesimo, il cristianesimo che visse rigoglioso e produsse frutti abbondanti e imporporò la terra col sangue dei suoi martiri, il cristianesimo dell’età apostolica si eclissò, si appassì, esaurì la sua vitalità tra i ceppi del dommatismo. Da cristianesimo evangelico divenne un cristianesimo storico, che tiene un posto di onore nella storia dell’evoluzione religiosa dei popoli, che assume le linee architettoniche di un edificio dottrinale costruito con rigore geometrico. Il grande errore, l’illusione sovrana del cristianesimo storico è stata l'idolatria delle formole domma-tiche alle quali si è attribuito l’immeritato vanto di esprimere il cristianesimo nella sua pienezza e purezza. Le formole dom maliche sancite, elaborate, promulgate dai concilii ecumenici, secondo l’adommatismo russo, sono rudimentali schemi di fede, enunciazioni transitorie del pensiero religioso di una data epoca, simboli di concezioni religiose di un dato periodo storico, principio attivo ma effimero di una vita religiosa ormai estinta. Le condizioni del suolo nel quale esse prosperavano si sono radicalmente mutate. Se la vita è una serie incessante di albe e tramonti, di luci che si spengono e che si riaccendono, di gridi di rinascita-e di silenzi di morte, anche la vita dello spirito, la vita del pensiero religioso non può esimersi dal traversare le fasi alternate di decadimento e di risorgimento. La fede è così vasta nel suo contenuto, la sua ricchezza spirituale è così ampia, i suoi orizzonti sono talmente illimitati, che svaniscono gli sforzi di coloro i quali tentano di rinchiudere i suoi tesori nel carcere angusto delle formole o offuscare gli splendori del suo firmamento con le nebbie degli umani ragionamenti.
I saggi schematici della teologia conciliare non sono eterni per chi eternamente non dura; essi portano l’impronta della loro epoca, la data della loro origine, la patina del secolo che li elaborò, la scoria delle passioni umane che reagirono contro i loro artefici, il germe della decadenza che s’infiltra in tutte le laboriose costruzioni del pensiero umano. Se i secoli passano trascinando nella loro corsa vorticosa le generazioni i monumenti le idee, e alle volte anche la storia civile e letteraria dei popoli, i templi maestosi e gl’idoli dorati, le caste sacerdotali e le scuole filosofiche, gli Atenei della coltura, e i focolari della superstizione, se il tèmpo tutto distrugge e tutto rin-
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nova, alterando le esterne fattezze delle contrade, delle città, della compagine sociale e della civiltà, anche gli schemi religiosi, i simboli del cristianesimo storico, ’le forinole magiche di un dommatismo che più non è una vivente energia della società cristiana non possono non essere travolte dalla fiumana del tempo, rotolati dalla corrente spumosa che ne altera i primitivi lineamenti. A forinole dommatiche che sintetizzano l’esperienza religiosa i concetti teologici di età lontane, noi dobbiamo infondere un’aria di modernità, un soffio di vita vissuta da noi, un’ondata di pensiero che non viva sempre nella scialba bianchezza di un’alba che con ardita metafora direi archeologica, ma che si svolga, s’immerga nella luce abbagliante del sole giunto a metà della sua corsa.
Ma che cosa sono i donimi nel cristianesimo? Le catene dello spirito, risponde il Merejkovski. Le speculazioni dommatiche, insiste a sua volta il Rozanov, sono l’acido corrosivo della verità cristiana. I domini sono un principio di morte, un germe di corruzione, un’argilla senz’anima, le pietre poste invece di cibo sulla mensa del cristiano, la tavola di moltiplicazione della verità rivelata. I domini infransero l’unità della Chiesa; i domini inflissero un dardo avvelenato nel cuore della cristianità; i domini deturparono la verginale beltà del Vangelo. I padri della Chiesa non furono le colonne della verità cristiana, ma i Sansoni che rovesciarono al suolo il tempio maestoso della fede. La loro azione deleteria si svolse come quella di un medico che provoca il sonno letargico di un organismo vivente per disseccarlo, amputarne le membra, ridurlo in una massa esangue ed amorfa. Essi sono i precursori di Kant, gl’indotti maestri di Strauss. Sotto la loro penna e nelle loro elucubrazioni dialettiche Gesù Cristo rinunziò alla sua aureola divina per vestire la giornea del filosofo, per camuffarsi in erudito che cita ed analizza testi. I teologi del periodo dell’elaborazione dommatica sono arrabbiati controversisti o sognatori che spacciano le loro fantastiche visioni come la quintessenza della verità cristiana. La teologia è una formosa sonnambula che incespica tra burroni scoscesi, che vacilla sull'orlo dei precipizi. I Padri formularono antologie di testi, di chiose, di formole, che, imprigionando il pensiero e soffocando la libertà, incitarono i legulei ad accendere roghi, a predicare l’obbedienza ai tiranni, a conculcare ogni libera attività sociale e intellettuale. Secondo il Merejkoviski i domini sono un terrapieno che ostruisce la marcia in avanti delle schiere che combattono pel trionfo del progresso, • della civiltà. Sono dei fossili che non hanno più valore pratico nella vita moderna e che meritano solamente di essere catalogati tra gli scheletri.0 i ciarpami di un museo preistorico. Prendiamo per es. il mistero della Trinità. Il suo valore pratico è nullo nella ridda di problemi tormentosi per la cui soluzione si affannano tante nobili intelligenze, tanti cuori ardenti. Sottili controversie sulle processioni e distinzioni delle persone divine non isprazzano un pallido barlume di luce nelle menti dei pensatori che studiano riforme sociali, accordi tra il pensiero religioso ed il pensiero scientifico, relazioni cordiali tra lo Stato e la Chiesa, ecc. Si compendiano le verità cristiane come se fossero delle regole di grammatica e di aritmetica; si costringono i fanciulli a mandarle a memoria come formole magiche. Secondo il principe Trubeckoi qualsiasi forma umana, qualsiasi veste dialettica paralizza i movimenti spontanei dello spirito in noi, e i dommi sono in certa cotal guisa una prigione angusta che segrega il Divino Maestro dal consorzio degli uomini.
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Vi è tuttavia una differenza essenziale tra il concetto del domina della teologia tradizionale ed il concetto del domma della teologia progressiva. Se il domina nella teologia dei concilii ecumenici e dei Padri della Chiesa è una larva pietrificata, una forma vitale cristallizzata, nella teologia progressiva esso è un fattore di progresso, un germe perenne di vitalità, una forza evolutiva che rinverdisce al sorgere di nuove primavere i campi isteriliti dall’algido soffio dell’inverno. La dommatica, secondo il Merejkovski, è una conoscenza vitale che organicamente si svolge nell’uomo esuberante di vita, c spande le sue radici, e estende i suoi rami, e invigorisce il suo tronco, e moltiplica i suoi rampolli. La dommatica cristiana, dichiara a sua volta il Minsky, è una indefinita creazione intellettuale, un processo evolutivo di nuove forme, nuove sembianze della verità universale e suprema. La dommatica ufficiale concepita come serbatoio intangibile di verità teoretiche eterne ed immutabili, come mausoleo di forinole infallibili non è il prodotto dello Spirito di Dio o della vitalità intellettuale del cristianesimo. Il domma come fondamento eterno della verità cristiana è essenzialmente una verità interiore, una verità che si scopre solamente alle pupille spirituali dell’anima, e, come tale, si trasforma in principio di vita cristiana. Il domma è composto di due elementi: l’involucro esterno, la forinola che lo esprime, ed il nocciuolo interno, la sua sostanza dottrinale. Questo secondo elemento è la parte vitale del domma, la scintilla divina che lo rende prezioso, la fiamma che rischiara la nostra mente e purifica le nostre fibre; costringere il cristiano a un culto idolatrico verso la formola che lo determina è lo stesso che violentare lo spirito libero dell’uomo.
I simboli, le forinole dommaliche della fede non possono e non devono essere strumenti di tortura, canoni obbligatori, perchè la nostra fede sprizza come fresca polla di limpida acqua dai più nascosti penetrali del nostro spirito, e perciò non ha bisogno di esterne palizzate, di siepi che tracciano i suoi confini. Non vi è cristiano che non abbia la sua esperienza religiosa personale. Il seme evangelico cade dal cielo nella coscienza individuale, trova una zolla che lo raccoglie, lo umetta e lo sviluppa, germoglia e vi prende una forma distinta personale, una fisionomia sua propria che lo scevera da altri semi abbarbicantisi in altre coscienze. Se tale è il domma per sua natura, sarebbe follia il concepirlo come una espressione fissa, immutabile, come una maschera che copra tutti i volti umani e dia ai singoli individui le identiche sembianze, l’identico sorriso, le medesime rughe. Il domma è una verità dello spirito prodotta dall’esperienza religiosa personale. La sua determinazione esterna non ha quindi valore essenziale, e la sua necessità è subordinata a certe teoretiche esigenze, le quali sono il prodotto della nostra educazione spirituale, le regole artificiose della nostra disciplina intellettuale. E poiché la conoscenza teoretica del cristiano si sviluppa individualmente e collettivamente, passa di grado in grado, da uno stato rudimentale sorge ad uno stato di perfezione evolutiva: parimenti le forinole dommatiche, lungi dal restare immutabili, e fisse, seguono l’evoluzione della coscienza individuale e collettiva, entrano per così dire nella circolazione perenne della vita del pensiero. In un dato periodo dello sviluppo, della vita storica del cristianesimo esse sono considerate come assiomi immutabili: in un altro non sono più tali. Un cristiano erudito possiede le sue formole dommatiche le quali sono
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I NUOVI ORIZZONTI DELLA TEOLOGIA ORTODOSSA RUSSA
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diverse da quelle di un cristiano ignaro. Nello stesso modo le concezioni domma-tiche di un cristianesimo rudimentale si differenziano da quelle di un cristianesimo evoluto. Qualsiasi determinazione esterna della fede ha un valore e una durata relativi. Le formole elaborate dai concili ecumenici sono quindi conformi alla mentalità cristiana dell’epoca alla quale appartengono, rappresentano la tessera di ortodossia che distingueva coloro che vi aderivano dai loro avversari eterodossi. Una dommatica cristiana rivestita di formole e concetti platonici è logica in un periodo di fioritura del platonismo, di preponderanza e supremazia spirituale della filosofia platonica sugli altri sistemi filosofici, ma è fuori di posto, è un anacronismo in un secolo in cui il platonismo è sepolto nell’oblio ed il pensiero filosofico si è incanalato in solchi novelli o spazia in più vasti orizzonti. Il torto della teologia ufficiale è quello di considerare la giornea platonica come il solo ed immutabile paludamento delle verità di fede e di attribuire all'involucro esterno tessuto dagli uomini quella perennità di vita che noi rivendichiamo unicamente alla verità divina.
Il cristianesimo è una religione eterna ed universale e perciò il suo contenuto non può esaurirsi con definizioni e formole elaborate in un dato periodo. Nelle singoli fasi della sua vita storica esso si veste di fiori diversi, che variamente esprimono la molteplice beltà dei suoi lineamenti e l’opulenza dei suoi tesori vitali. Esso è una pietra preziosa di valore inestimabile le cui faccette si accendono di bagliori distinti a seconda che riflettono il verde marmoreo dell'oceano o l’azzurro chiaro del cielo italiano o la pallida luce lunare.
E non solo periodi diversi hanno i loro rispettivi simboli, le loro formole peculiari, ma eziandio nel medesimo torno di tempo, a seconda delle loro disuguaglianze intellettuali i membri del cristianesimo si differenziano nell’espressione dottrinale delle loro credenze. Il Cristo, per esempio, del Simbolo pel commun dei fedeli che non assurgono a metafisiche speculazioni è il Figlio di Dio: per gli ossequenti alla tradizióne giudaica è il Messia: per gli adepti del Platonismo è il Logos. « In materia di fede, sentenzia Tolstoi, non è possibile trovare una formola che risponda nel medesimo tempo con significato identico a tutte le concezioni individuali. Ciascuno la pensa a modo suo: ciascuno interpreta diversamente l’identica formola secondo i suoi criterii subbiettivi. Non solo è inutile, ma è anche pericoloso rinchiudere la varietà dottrinale della fede in formole immutabili. Principii teorici possono certamente assurgere alla dignità di formole perenni ed universali, se hanno attinenze alla vita pratica, per es. il comandamento del decalogo. Non uccidere, o l’assioma del Cristo: Non resistere al male. Ma nel campo della dommatica non vi è niente di definitivo, di costante. La norma della fede è nei singoli fedeli, e i fedeli sono i creatori della dommatica». Il domina quindi germoglia e si sviluppa interiormente nello spirito cristiano dei singoli individui, secondo il grado di progresso spirituale dei medesimi e il processo evolutivo del loro libero pensiero. Al pari della verità che sfonda le barriere dell’ignoranza ed esplora nuovi sentieri grazie al costante lavorìo intellettuale delle generazioni umane, il cristianesimo svolge la sua vita per via di evoluzione. Esso è una tensione dello spirito, una ricerca affannosa verso la verità, ma non la verità intiera piena ed assoluta.
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« • *
Tale è l'adommatismo russo nel suo lato distruttivo. Esso è una reazione contro il formalismo eccessivo esagerato dell'ortodossia greca, contro il culto della forma esterna a danno della vita interiore, contro la lettera che uccide a danno dello spirito che vivifica. La reazione, è legittima quando il sentimento religioso si cristallizza, quando la vita religiosa si riduce al meccanico compimento di pratiche rituali, all’adesione incondizionata a pretesi oracoli della divinità, a obbedienza passiva a tutti i capricci di una tirannia che si proclama ispirata dall’alto, ma che forse più di coloro a cui comanda è soggetta all’impero delle passioni umane e alle deviazioni dell’ignoranza. La reazione dell’adommatismo russo è prodotta dalla brama di rendere più puro e meno materiale il culto della divinità, di porre in sodo che il sentimento religioso il quale sgorghi dalle sorgenti più nascoste dell’animo non può regolarsi come un corso di acqua entro le dighe delle forinole o modellarsi come cera molle da artefici inesperti. La coscienza religiosa, in ciò che ha di più elevato, vale a dire nella tensione irrefrenabile di tutte le potenze dell'animo verso Dio, nei battiti accelerati del cuore che cerca Dio, nella mistica unione dell'anima con la divinità che abita in regioni inaccessibili, la coscienza religiosa, ripeto, sfugge alle determinazioni dei legulei, alle clausole dei canonisti e sovratutto alla grettezza del fariseismo. Parimenti il pensiero religioso che in uno slancio di amore si aderge verso Dio e sulle cime eccelse della contemplazione nuota in un oceano di luce increata, dimentica nel fulgore dei lampi divini che lo abbagliano la freddezza delle formolo sapientemente redatte da abili dialettici, e scopre in Dio tesori nascosti che invano la superbia o il fanatismo vorrebbero rinchiudere in proposizioni sibilline.
Il sentimento religioso germoglia nel mistero, vive nel mistero, si svolge e si raffina nel mistero, e qualsiasi tentativo per ¡strapparlo al cielo misterioso che è il suo trono e la sua sorgente è lo stesso che trapiantarlo in un suolo sterile e roccioso dove ben presto s’intristisce e muore. « Non appena un simbolo diviene l’obbietto di una determinazione scientifica — scrive William Boyd Carpenter, vescovo anglicano di Ripon — la sua forza religiosa svanisce. I cristiani potranno avversare il dom-matismo del simbolo Atanasiano o guardarlo con diffidenza, e tuttavia vi è più senso religioso nell’affermazione solenne della sua fede nel Padre incomprensibile, nel Figlio incomprensibile e nello Spirito Santo incomprensibile, che in una sedicente religione le cui credènze e proporzioni poggiano sovra un diagramma, e sono misurate sovra una superficie piana. Se ci è lecito esprimerci in questi termini, la traiettoria religiosa deve tendere verso l’infinito ultramondano, se noi desideriamo che essa serbi il suo posto e la sua dignità come religione fatta per gli uomini. I credi scientifici devono espandersi verso l'inconoscibile e l'infinito prima di assurgere alla dignità di religioni viventi ».
Ivan Liabooka.
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L’ALBERO VECCHIO
(1915. Xl-XII|
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CHE NE È DEL “MODERNISMO”?
0 MEGLIO:
CHE COSA FU IL “MODERNISMO”?
(Leggendo l* Autobiografia di G. Tirrell)
auliamo di cose passate. E lontane. Ma non così lontane che il ricordo — solo esso? — non ne sia vivo. Perchè fra il 1900 e il 1910, per un decennio, di modernismo tutti sentirono parlare; e brevi, motuproprii, encicliche, scomuniche pontificie richiamarono l'attenzione del mondo su questo movimento che fu detto, infine, contenere il veleno di tutte le eresie. La Chiesa cattolica si commosse come per il fremito occulto di una nuova primavera di vita o si spaventò come per la minaccia di una
rovina imminente, che bisognava a tutti i costi deprecare.
E le altre Chiese guardarono stupite e con intensa aspettazione quello che avveniva nella Chiesa romana e cercarono in se stesse, scuoprendo i segni di una stessa rinascita o di uno stesso male; e anche i profani trovarono, per lo meno, estetica-mente bello e pieno di interesse il gesto degli oscuri che uscivano dalle file additando nuove vie all’organismo millenario e del papato che fulminava scomuniche, avvolto nei nembi di una delle più fitte bufere che si sieno mai alzate sino a tanta vetta.
E oggi? A ripensarci, si ha l’impressione che prendeva Carducci sulle fonti del Clitumno quando, dopo la commossa evocazione delle guerre e dei trionfi romani, si guardava intorno osservando la bruna cerchia dei monti e ascoltando il gorgogliare delle acque nel silenzio largo della verde campagna. Tutto tace.
Io mi sono spesso chiesto con meraviglia come mai fu possibile che un movimento così vasto e clamoroso, da scuotere dalle fondamenta la Chiesa di Roma e
richiamare l’attenzione del mondo potesse finire così, intieramente, nel nulla; sì che, a poco più che un quinquennio di distanza, non par che ci sia più nè un modernista nè uno il quale ritenga che valga la pena di occuparsi di modernismo (salvo, come si vede, il sottoscritto); e Benedetto XV, succeduto al profligatore dell’eresia, non avrebbe avuto in alcun modo da occuparsi di modernismo, salvo che per una rapida e sommaria liquidazione dell’eredità del predecessore, anche se egli non fosse così occupato come è nella ricerca delle parole più neutrali e dei gesti più diplomatici e delle iniziative più proficue in occasione della guerra.
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Spesso mi son posto tale domanda; e, pur conoscendo, come pochi, le origini e i motivi e i principali attori e le vicende del modernismo e delle persecuzioni contro di esso, non riuscivo a darmi una risposta. La persecuzione, da sola, non spiega nulla; perchè nessuna idea viva, nessun movimento che avesse le sue ragioni nelle cose, ha mai ceduto dinanzi ad una persecuzione. Se mai, sarebbe potuto nascere uno scisma; molto più che gli scismatici, nei moderni regimi di libertà civile, se non religiosa, non avrebbero avuto da temere carceri o rogo, ma, se mai, solo il blocco economico e la sistematica diffamazione.
La risposta mi è balzata viva, ultimamente, innanzi al pensiero mentre leggevo il grosso volume della autobiografia di Giorgio Tyrrell e della biografia che ad essa ha aggiunto la signorina Petre (i); e mi è apparsa così semplice ed evidente e conforme a tutto quello che sapevo già, di quel movimento, che essa è divenuta subito familiare al mio spirito, come le verità definitive, conquistate ieri, sulle quali nessun dubbio è-più possibile.
Perchè dalla lettura di queste nitide pagine del Tyrrell, confessione di una giovinezza scritta con meraviglioso candore, una verità balza evidente: che cioè il celebre teologo e gesuita inglese, entrando a diciotto anni nella Chiesa cattolica e nella compagnia di Gesù, $? è sbaglialo; e tutto il suo modernismo non è stato che la lenta e penosa espiazione di quell’errore giovanile; come se qualcuno, cercando una fanciulla della quale gli avevano descritto ed egli aveva poi lungamente sognato la meravigliosa bellezza e bontà, sbagliasse il numero della casa e si trovasse, d'un tratto, dinanzi alla grazia insidiosa c al viso dipinto di una futura Santippe. E al suo distacco dalla Chiesa papale e dalla autorità di Roma e dalla Compagnia di Gesù si potrebbe applicare la frase di spirito che A. Briand diceva dei divorzi dopo un matrimonio male assortito: non mi divido da mia moglie; esco a cercar moglie.
Giorgio Tyrrell, coscienza squisitamente religiosa fin dalla prima giovinezza, cercava la religione interiore; cercava, per la sua coscienza pura e la sua precoce esperienza mistica, la calma di una dottrina certa e di una vita raccolta e armoniosa. Egli non avrebbe cercato una Chiesa nè sarebbe andato incontro al doloroso errore se non avesse pensato che quella religione interiore della quale aveva sete esistesse, certo, in una chiesa storica, proveniente dal Cristo; poiché per lui, come per tanti altri, il dono della rivelazione cristiana era appunto, e doveva essere, un sistema esteriore di dottrina certa, di rito santo e divino, di pia confraternità dei credenti, nel quale la sete dell’anima fosse sopita, ed al viaggiatore giunto nella sua casa non rimanesse che prender possesso del patrimonio paterno ed amministrarlo e dispensarlo con amorosa bontà, per i fratelli minori.
L'esperienza dolorosa dell’errore fu, in qualche modo, immediata; ma, per mille cause d’ordine psicologico, non così decisiva, dal principio, da forzare il Tyrrell a chiedere garbatamente scusa dell'equivoco e ritirarsi con un sorriso acerbo.
(i) Giorgio Tyrrell. Autobiografia (1861-1884) e Biografia (1884-1000), per cura di M. D. Petre. Milano, Libreria editrice milanese, 1915.
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Alla delusione immediata, infatti, si intreccia tenacemente l'illusione voluta, ostinata, che cerca e, se non ne trova, attende da una ulteriore esperienza i motivi che la mantengano in vita; che esagera affettuosamente, e quasi affannosamente, l’importanza di quel poco che pure le è offerto; che, invece di inveire contro altri, dubita quasi di sè e si chiama in colpa dell’aver troppo preteso ed atteso e, soprattutto, rifugge dall’ansia di un nuovo, e forse desolato, vagabondaggio spirituale per le vie del mondo.
Come si illuse; come fu deluso; come continuò per anni, i migliori della giovinezza e della vita sua, i pochi anni lungo i quali ha condotto il suo racconto, a persistere nella esperienza male avviata e meditare e cercare, questo ci dice il Tyrrell nell’autobiografia. Peccato che non abbia voluto o potuto condurla sino agli ultimi tempi; poiché il dramma sarebbe stato evocato intiero per i venturi, sino allo scioglimento della dolorosa liberazione.
L’autrice della biografia, miss Maud D. Petre, amica e seguace devota ed erede spirituale del Tyrrel, ha ripreso il racconto dove l’autobiografia si interrompe, e lo ha continuato sino alla morte di lui. Ma per quanto bene conoscesse tutte le vicende e gli scritti, anche privati, e il pensiero del T. quale poteva più liberamente rivelarsi nella conversazione amichevole, la signorina Petre non ha osato raccogliere il filo conduttore delle pagine autobiografiche di lui. Ma il racconto stesso del suo distacco dalla Compagnia e da Roma e gli scritti di lui, e più specialmente gli ultimi e i postumi, mostrano come egli, sciolto dà ogni riguardo verso la gerarchia e il domma, andasse diritto verso una reinterpretazione storica e mistica del cristianesimo nella quale appaiono nitide le direttive profonde della sua vita interiore.
Al dramma Tyrrell l’umanità deve dunque talune delle più belle pagine sulla religione che sieno state mai scritte. Ma voi vedete come nel modernismo di Tyrrell la Chiesa cattolica c’entra un poco come quel numero di casa sbagliato del quale parlavo. Egli è passato per essa, portando nel suo animo il sogno e la speranza; non fu mai, non un momento solo, gesuita o cattolico per intiero, perchè la ricerca non potè convertirsi mai in accettazione, anche se lottò a lungo e duramente contro una tenace volontà di accettazione.
Il modernismo di Tyrrell non fu dunque, in realtà, che cosa e fatto di una persona sola, crisi di un’anima, non ostante il valore universale della sua esperienza religiosa; esso è la storia di un errore di fatto; l'errore di chi, avendo già nell’inizio stesso della sua ricerca superato inconsciamente il cattolicismo, entra in questo con una aspirazione che riinan subito insoddisfatta e che un poco alla volta corrode e sgretola le fragili basi di un edificio costruito su quell’errore. Chi non è cattolico, non può capir nulla di quella crisi interiore; chi è stato, anche per un giorno solo della sua vita, sinceramente ed interamente cattolico, non può mai esser modernista a quel modo.
Prendete ora un altro caso, il caso di Loisy. Sostanzialmente diverso, come esperienza psicologica, esso ha, per quel che riguarda la domanda che ci siamo posta, lo stesso valore. Sarebbe facile dimostrarlo, con alla mano i volumetti rossi del celebre esegeta francese.
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Alfredo Loisy è una intelligenza fredda, serena, ragionatrice, assetata di certezza; della certezza che si acquista indagando, confrontando, vagliando, che scuopre gli idoli, per vedere di che materia son fatti, che vuol possedere la realtà con quella speciale forma di presa di possesso che è l'intendimento accurato ed intiero; e una intelligenza che era fatta per essere un sovrano in questo territorio. Così voi dovrete intenderlo, per comprendere lui e il suo caso. Immaginate voi, ora, un Ippolito Taine, ad esempio, cattolico e prete?
Alfredo Loisy si è trovato cattolico e prete. Del fatto, la causa in parte risale a quella spontanea ed impersonale generazione e concatenazione di eventi che chiamiamo caso; in parte è nella stessa sua libera volontà; ma, si noti, una volontà nella quale è implicato il pregiudizio che nella Chiesa, ed essendo cattolici e preti, la ricerca della verità positiva e scientifica non è vietata, anche quando essa si applichi a libri sacri ed alle dottrine ecclesiastiche; che il cattolicismo è la verità e la verità non solo non ha nulla da temer dal sapere, ma non può anzi che trarne vantaggio. Un caso Loisy c’era già stato, e si chiamò Renan, come c’era stato un caso Murri, e si chiamò Lamennais. Tyrrell è un caso nuovo, nella celebrità; ma quanti casi Tyrrell nell’ombra !
Anche per Loisy dopo l'errore sopravvenne la delusione dolorosa, l’intima contraddizione fra quel che si è necessariamente, per natività spirituale, e quei che si è divenuti nella empirica vita esteriore; e poi il distacco lento, contrastato e pure inesorabile.
Anche qui, dunque, il modernismo non è punto un vasto movimento di anime cattoliche, un precipitare di eventi collettivi; è la storia di un errore individuale, di una coscienza; di una grande coscienza, naturalmente, come quella, che andando diritta ed inflessibile per la sua strada, trova la forza di scrollare da sè qualche cosa che si chiama la Chiesa di Roma ed il suo sacerdozio, in un paese, come la Francia, dove una logica convenzionale e sociale può essere, più che in ogni altro paese, giudice severo e fastidioso di chi la sfida.
Ora che cosà c’è di comune, ad es., fra le timide audacie di un A. Baudrillart e di un P. Lagrange, un monsignore e un domenicano per i quali la ricerca scientifica non è la sostanza stessa dell’anima, la volontà di sapere e di esser fedeli alla verità, ma l'occupazione, l'impiego, il modo di avanzare, il comando del p. superiore? Se questi sono i modernisti, si capisce bene che il modernismo non poteva essere che una moda, un certo latitudinarismo dottrinale, un liberalismo alla Leone XIII; se modernismo è quello del Loisy, si capisce egualmente bene che qui non siamo avanti a nulla di sostanzialmente nuovo e di collettivo; è uno studioso smarritosi per caso in una casta che ha altro per la mente, anche quando studia, ed al quale la petulanza e il cattivo gusto di coloro fra i quali è capitato rendono difficile la liberazione. Il modernismo c’era prima di Loisy, e si chiamava critica; c’è dopo le scomuniche di Pio X, e si chiama critica.
Lo stesso si può dire di qualche altro noto modernista. Eccone uno, ad es., che sin dalla prima giovinezza sogna democrazia e cultura e battaglie civili e giustizia e libertà. Gli capita d'esser educato in un seminario, ed egli sente dire e si persuade che la Chiesa cattolica è l’ambiente ideale per tutto quello che il mondo ha di bello
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e di buono e di giusto; e si fa prete, ma con quelle sue idee e con que’ suoi propositi e per essi. Anche egli ha sbagliato il numero della casa; le baruffe domestiche e le infelicità coniugali non hanno nulla che fare con la sua vita vera e la ragione e lo scopo di essa; sinché un bel giorno egli esce di casa, cercando... se stesso; cercando cioè altrove quello che sempre e sopra a tutto volle essere o fare.
Ora, bisogna esser maligni come un gesuita o come un giornalista clericale per dire: l’infelice Tyrrell, l’infelice Loisy, l’infelice tale altro. Infelici, sì, ma solo di esser capitati nella loro compagnia; una volta riconosciuto l’errore commesso, non rimaneva ad essi altro che andarsene. E se l’andarsene è così difficile, ciò avviene solo per le male abitudini della brigata; dalla quale chi scampa tanto più ragione ha quindi di chiamarsi fortunato, anche se acquistò il diritto al loro odio, per tutta la vita.
Gli esempi che abbiamo addotto parlano con sufficiente evidenza; perchè in pochi nomi si raccoglie tutto il modernismo e perchè essi ci permettono di giudicare della intima vacuità di tutto un grande movimento apparente, che si risolve poi in un piccolo numero di crisi individuali, dovute ad un errore di fatto. Queste, come esperienze «cattoliche», possono essere istruttive, ma solo per spiegare come nell’ultimo quarto del secolo xix fosse ancora possibile l’illusione della quale caddero vittime. Nella Chiesa, per il sistema di educazione che vi prevale, l’esperienza non si accumula nè si continua, ma è sempre rifatta su tipi fissati una volta per sempre, e quel che non rientra in essi reciso; e ciò spiega gli anacronismi e gli equivoci dei quali abbiamo parlato, il ripetersi di illusioni identiche di generazione in generazione. L’uno non sa dell’altro.
Lo spavento della Chiesa romana e il cattolicismo del terrore si spiegano, non come provocati da uria nuova eresia, ma come brividi provocati da un contatto occasionale con queste terribili forze dissolventi che sono il misticismo, la critica, la democrazia.
La rapida sparizione del modernismo si spiega quindi assai facilmente; essa non è che il dileguare d’un’ombra. Un modernismo cattolico non c'è mai stato. Ci sono stati degli uomini i quali, mossisi per cercare la religione interiore, la critica, la democrazia, hanno finito con l’imparare, attraverso dolorose peripezie, che esse non abitano al numero tale, della via tale, in quel quartiere di Roma che si chiama Borgo. La religione interiore continuerà ed essere il delicato affanno di poche anime elette; la critica e la democrazia erano prima di quel modernismo e rimangono, dopo di esso, quello che erano, senza commuoversi molto per la crisi d’anima per la quale è passato taluno di loro seguaci.
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Ma c’è forse chi non si persuade di questa così semplice e piana verità; e ci chiede: Ma, e tutte le dottrine del modernismo, esposte in innumerevoli libri? E la schiera enorme di modernisti e di periodici e di associazioni e di iniziative loro?
- È facile rispondere. Una dottrina modernista non è mai esistita; non c’è una eresia di Loisy, di Tyrrell, di Murri. L’eresia classica deve essere ed è sullo stesso
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terreno dell’ortodossia: domma opposto a domma, bibbia opposta a bibbia, Dio a Dio, Cristo a Cristo. L’ortodosso e l’eretico sono parimenti i custodi della « vera ■ rivelazione; e ogni ortodosso è eretico per qualcuno, e viceversa.
Una pretesa di questo genere manca intieramente nei modernisti maggiori. Tyrrell indaga e scruta la sua coscienza e fa della psicologia religiosa: sperimentatore, egli stesso, ed esperimento, ad un tempo, osserva e dice le esigenze e le leggi della vita interiore, con una incomparabile finezza, e dà quello che dice come sua esperienza, per coscienze sorelle. Se si incontra con « verità » ecclesiastiche, il suo atteggiamento è di chi non nega, ma vuol spiegare. Ci sono molti i quali non capirono che il modernismo non ha mai negato nulla. Se si avesse la pretesa, assurda, di raccogliere in una frase quello che Tyrrell ha insegnato, si dovrebbe usare una quasi tautologia, dal significato il più semplice e innocuo, all’apparenza: che cioè il bene è la volontà buona e il male è la volontà cattiva. Non c’è forse altro nel Tyrrell; ma in queste parole c’è la più fiera requisitoria che possa essere elevata contro l’ecclesiasticismo romano.
Quando i gesuiti e il Vaticano cominciarono a trovare incomodo quest’uomo che diceva delle cose tanto semplici e tanto rivoluzionarie, non seppero che cosa opporgli; avevano dieci libri e cento articoli, di lui, e... lo pregarono di sottoporre a revisione la sua corrispondenza privata.
E Loisy che cosa ha insegnato? Già oggi non si insegna più nulla, si suggerisce. La pretesa di insegnare è una caratteristica delle vecchie chiese: e, anche per questo, non è una dottrina, ma è un metodo che le abbatte.
Oggi lo studioso o l’insegnante suggerisce ed anticipa; pronto a correggersi egli stesso, a cercare ancora, a integrare la sua verità in una verità più comprensiva e più vasta, egli ha abolito in sè lo spirito dommatico; sa che ogni verità deve essere riconquistata e che ogni riconquista è una invenzione.
Loisy ha trovato, formulate e applicate molto innanzi a lui, le norme della ricerca filologica e storica; le ha, dopo molti altri, adottate nello studiare bibbia e vangelo; si può respinger tutto di lui, ma in nome di un esame critico più accurato; si può accettar tutto, ma provvisoriamente, per quello che vale, e salvo ulteriore revisione dei risultati. Ma un loisysmo non esiste e non è neanche immaginabile; si può tessere una lunga serie degli « errori » di Loisy, cioè di conclusioni critiche che sono in contrasto con le dottrine dei teologi; ma quelle conclusioni non pretendono in alcun modo di essere teologia; sono la critica stessa, nel suo sviluppo, fatale come le leggi della razionalità umana, indipendenti da ogni interesse di teologi o di Chiese, da ogni atteggiamento personale o vicenda di condanne e di resistenze.
Lo stesso dicasi di quell’altra forma di modernismo che ebbe aspetto più particolarmente politico e sociale. Nessuno è, sino ad oggi, riuscito a dire esattamente quale fosse 1’«errore» del cosìdetto murrismo; esso negò che al papa si dovesse obbedienza assoluta anche in materia politica e sociale, ed era d’accordo, in questo, con tutta la dottrina e la tradizione cattolica e poteva esporre la sua tesi con le espresse parole di S. Tommaso d’Aquino. L’eretico, se mai, fu il Vaticano, in questa materia.
E come il modernismo non fu eresia, dottrina e domma opposto a dottrina e domma, così esso non fu neanche scisma nè tentativo di scisma. A nessuno dei capi
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passò in mente di proclamarsi Chiesa e di fare anche solo due proseliti per essere, in tre, un collegium. Anzi, e la cosa non fu sufficientemente notata, nessuno di essi volle prendere l’iniziativa del distacco dal cattolicismo; si lasciarono, tutti, metter fuori, ed opponendo la più lunga e tenace resistenza che fosse loro possibile. Più ancora, sin quasi all’ultimo essi furono, più che dei critici, degli apologisti del cattolicismo. Non ne erano contenuti, perchè in tutti essi c’erano un postulato ed una esigenza irriducibile, che importava superamento del cattolicismo; ma si sforzavano di contenerlo, di adattarlo cioè ad uno sviluppo storico e ad una interpretazione, razionale o mistica, che lo conducesse, come verso il suo sbocco naturale, a nuove forme di vita; e non cedettero che dinanzi all’evidenza palmare della impossibilità di ogni accordo. Si direbbe quasi che essi fecero ogni sforzo per rimuovere dalle loro crisi ogni elemento personale e soggettivo; per non essere, dinanzi alla storia, che dei documenti.
Più ancora; questa loro crisi, esaminata nei documenti che possediamo amplissimi, non ci si presenta mai come uno stato di dubbio interiore e di angoscia. Nè Tyrrell dubita mai della voce interiore che lo spinge a vivere la sua vita religiosa in intima comunione col Dio di sincerità e di verità, andando incontro a qualunque ostacolo, nè Loisy dubita della giustezza delle esigenze critiche, nell’opera alla quale si è accinto, nè Murri è incerto un momento fra la religione della democrazia e la religione del clericalismo ufficiale. La loro scelta, se scelta deve essere, si sa già dal principio, quale sarà. Tutto il loro sforzo è nell’evitare la scelta, ma senza infingimenti e compromissioni, e senza le reticenze e le riserve e gli alibi dei quali il cattolicismo ufficiale è maestro: il loro merito nel non evitarla più, quando la sincerità e la coerenza la esigono, e nell’andarle incontro ineluttabilmente, quasi ingenuamente, negli stessi sforzi che fanno per evitarla.
Il fatto è dunque incontroverso, e gli ultimi capitoli della autobiografia del Tyrrell lo rivelano con una evidenza meravigliosa: tutta l’esperienza di questi uomini nella Chiesa è esperienza crescente, rivelazione progressiva di un insanabile dissidio e contrasto fra quello che essi pensavano, volevano, facevano e la Chiesa cattolica, quale essa è oggi, accentrata nel Vaticano, corpo ecclesiastico e dottrina di sola tradizione morta e di autorità. E il processo non era di insurrezione e di resistenza ma di discernimento. Se fossero stati degli eretici, dei veggenti, o anche solo dei romanticamente mistici, essi avrebbero appellato al cristianesimo primitivo, opposto dottrina a dottrina. Padri a Padri, riti a riti; appunto come fa quell’abbé Fouchet del romanzo di Paul Bourget Le détnon du midi, personaggio e tipo che non è esistito se non nella fantasia di un romanziere a tesi e che rivela una perfetta inintelligenza di quello che fu, nelle sue linee essenziali e nei suoi uomini caratteristici, il modernismo.
Ma con che diritto, ci si chiederà, noi riduciamo un movimento così vasto e complesso solo a pochi uomini caratteristici e pretendiamo di trovarne nell’autobiografìa di Tyrrell o in ¿«tour d'un petit livre eChoses passées, o nella Lettera a monsignor Castelli i tratti essenziali? È vero, c’è altro da notare. Esso fu preceduto ed accompagnato da altre manifestazioni e correnti. Chi non ricorda, ad es., l’americanismo, con la sua esaltazione delle virtù attive, in opposizione alle passive, sorta
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di conciliazione cattolico-mistica fra il pessimismo paolino del peccato originale e l’ottimismo romantico? Chi non conosce, almeno per la fine narrazione di Loisy e di Houtin, gli sforzi fatti da Mons. d’Hulst e da tanti altri per conciliare il concetto tradizionale della rivelazione contenuta nei libri sacri degli ebrei e dei cristiani con talune più umili e decisive conclusioni della critica storica? Chi non sa le buone intenzioni di quei cattolici-sociali di Francia e d’Italia che si affaticarono tanto per conciliare la giustizia proletaria con l’egemonia ecclesiastica e papale, divellendo quella dalle sue origini storiche e dalla democrazia contemporanea per farle un tepido ambiente di serra nell’ovatta del Medioevo comunale e corporat¡vista, scambiando le origini della borghesia con l’avvento del quarto Stato?
E potremmo continuare. Tutti questi movimenti, si, erano indigeni, e non allogeni, al cattolicismo; tanto è vero che continuano dentro di esso e vivacchiano, con tenacia degna di miglior causa.
Ci fu sotto Leone XIII, caratteristico del pensiero e della politica di questo papa umanisteggiante, un dilettantismo cattolico liberale che ebbe vastissima influenza e che ci offre in parte la spiegazione dell’errore psicologico e storico nel quale caddero i modernisti; ma col modernismo esso non va in nessun modo confuso, come non si può confondere Loisy con Baudrillart, Tyrrell con il card. Newman, Murri con Toniolo.
E ci sono stati degli altri i quali si spinsero molto lontano, così lontano da mostrare che della fede cattolica non rimaneva oramai nulla in essi, come i famosi ignoti della Risposta dei modernisti all'enciclica Pascendi o delle Lettere di un prete modernista, od altri dei quali in Italia, ad es., tutti conoscono i nomi; e che poi, quando venne la bufera, rimasero nel cattolicismo continuando a godervi stipendi ed onori.
Questi, sì, si provarono, subito dopo l’enciclica, a foggiare, contro il cattolicismo papale, un cattolicismo immanentista e assunsero, per un’ora, atteggiamento di eretici e di scismatici; ma l’inanità del loro effimero tentativo è anche essa, se ben si consideri, una riprova evidente di quanto ho detto. Per essere essi rimasti nella Chiesa — certo con molta parte delle loro idee; e pei' esservi rimasti altri, mistici che accettarono l’autorità e la disciplina, e taluno sinanche il giuramento anti modernista con restrizioni autorizzate, si potrebbe forse oggi parlare di un modernismo di dentro la Chiesa, distinto da quell’altro di fuori, del quale parleremo e tendente a ricongiungersi con esso, quandochesia. Ma, a parte il caso singolo di taluni mistici, la cui ortodossia è un singolarissimo fenomeno psicologico di rinunzia e insieme di superiorità e di individualismo religioso (caso che meriterebbe anche esso d’essere attentamente esaminato) noi dobbiamo dare la sua parte, nella storia recente del romanesimo, ad un altro fatto, ed ha spiegazioni antiche quanto l'umanesimo. Tutta la storia di questo ci insegna che, per essere cattolici, nel significato gerarchico od ecclesiastico della parola, non è necessario scegliere fra la fede o le dottrine cattoliche ed altre dottrine e fedi e visioni della vita che sieno opposte a quelle; in verità, non capisce nulla del cattolicismo e del papato di questi ultimi secoli chi non capisce ciò. Il problema psicologico è, in questo caso, un altro; e può essere paragonato a quello del celibato del clero. Come, per questo, l’essenziale non è astenersi, ma solo il considerare i rapporti con l'altro sesso come un peccato,
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CHE NE È DEL «MODERNISMO»? O MEGLIO: CHE COSA FU IL «MODERNISMO»? 353
dinanzi alle convenzioni sociali ed alla legge ecclesiastica, e quindi avvolgerli di peccaminoso pudore, così il problema, per le dottrine eterodosse, non è di rifiutarle, ma di considerarle come un peccato intellettuale e quindi perpetrare ed avvolgere anche esse dentro una specie di pudore peccaminoso. Non solo lo spirito romano non ripugna a queste conciliazioni che salvano la dottrina e la causa cattolica, conservando ad esse i servigi anche di chi nell’intimo le rigetta, e salvano la virtù, assicurandole gli omaggi del vizio, ma vive anzi di esse ed è fondato su di esse in assai larga misura Ma non è qui il caso di insistere.
Il modernismo ci si presenta, quindi, in sostanza, come un fenomeno di deflusso di energie vive dal cattolicismo. Sorgono, per un fortuito concorso di circostanze empiriche nella Chiesa degli uomini i quali appartengono spiritualmente ad altre correnti e famiglie ideali, sono figli di altri tempi; per la legge inesorabile che regola lo sviluppo delle personalità morali saldamente costituite, e che è un bisogno di sintesi e di coerenza, essi cercano di compiere le loro esigenze spirituali e, neH’anibiente nel quale per caso si trovano, persuasi di non essere in esso degli estranei, ma di avere una missione da compiervi, parlano e agiscono richiamando intorno a sè molti nei quali sono in grado minore, più confuse’ed inconscie, le stesse aspirazioni; sinché il conflitto immanente fra il loro spirito e le esigenze del cattolicismo ecclesiastico apparisce, si rivela, ingrossa, crea dolorose crisi interiori e vasti disagi, si risolve con il distacco; e il distacco lascia nella compagine ecclesiastica una debolezza che non rinsanguerà, un vuoto che non si colmerà se non lentamente e, spesso, solo apparentemente; sinché l’illusione rinasce e nuovi moti, nuove crisi, nuovi distacchi appariscono, impoverendo ancora l’istituto ecclesiastico e spingendolo verso la sua dissoluzione. Tale il processo, che perennemente si rinnova, sino alle dissoluzioni decisive, che restituiranno alla storia gli elementi vivi di cristianesimo e di romanità oggi imprigionati nell'irrigidito organismo, contributo forse prezioso alle nuove formazioni religiose, che la coscienza umana attende e prepara.
Ma non ci si interpreti erroneamente. Noi non diciamo che ogni manifestazione di modernismo non includa in sè una viva questione storica e spirituale, di natura strettamente religiosa; e che tale questione non riguardi più o meno, ma sempre, anche il cattolicismo come realtà storica da elaborare e dominare e modificare, come materia grezza di nuove creazioni religiose. Vorremmo anzi ora dimostrare che questo è proprio il caso, se la misura di questo scritto ce le permettesse. Prendete il caso Tyrrell. Esso è, concretato in una mirabile esperienza religiosa, il caso tipico di un misticismo rinvigoritosi alla fresca e ricca fonte dell’individualismo puritano inglese, che cerca la sua disciplina interiore, nella tradizione, nel rito, nella socialità; e la cerca appunto nel cattolicismo, e vi trova sì una disciplina, ma che non è più capace di diventare interiore.
Prendete il caso Loisy. Loisy concepì il cristianesimo come storiaecome sviluppo; un poco alla volta, egli fu condotto a cercare sempre più da vicino i titoli e le giustificazioni storiche della fede cristiana; e le trovò difettose. La fede si era costruito da sè le sue prove. Queste stanno o cadono insieme con essa. Anche ieri, dopo Loisy, nella Francia stessa, a Parigi, i giovani che avevano bisogno di credere per agire, fosse anche solo per scuotere di dosso la minaccia germanica, volevano la fede e non si preoccupa-
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vano delle prove e tornavano eattoliei. Ma e chi ha bisogno di sapere? Chi ha risolto le religioni storiche nelle loro origini, mettendo a nudo il momento decisivo in cui la fede crea le sue prove? Il postulato dell’accordo tra la fede e la ragione l’ha posto, si noti bene, la stessa teologia cattolica medioevale. Come Tyrrell, Loisy è uno scolastico.
Prendete, infine, il caso Murri. È il problema della democrazia come movimento spirituale e religioso. Può essa mettersi d'accordo con il cattolicismo? Può essa risalire direttamente al cristianesimo? Da quali fonti mistiche procede, quali concezioni della vita elabora, quali fedi va creando? Si tratta, anche qui, in sostanza della ricerca di una disciplina interiore, essenziale ad una dottrina e ad una pratica politiche che si fondano essenzialmente sulla libertà. L’autorità come posizione consapevole e voluta dello spirito, ecco il problema della democrazia. E quale profondo dramma spirituale in questa esigenza !
Il modernismo, adunque, non fu un movimento interno della Chiesa cattolica, ma appartiene ad un ciclo enormemente più vasto di generazioni e di creazioni spirituali; il problema che esso elabora non è quello di una riforma del cattolicismo, come parve, per l’errore che abbiamo mostrato, ai principali sostenitori, ma quello stesso delle assise spirituali della coscienza contemporanea che ha eroso, con la critica e con la democrazia, ogni immaginata e presunta e creduta eteronomia della dottrina e dell’autorità. La Chiesa cattolica aveva due buone ragioni di difendersi: quella che la toccava in proprio, in quanto i modernisti erano fra i cattolici, e quella che ha comune con ogni altro istituto o tradizione di eteronomia o di autorità discendente dall’alto e iinponentesi dal di fuori.
Nel più vasto ciclo degli affanni e delle esigenze della coscienza contemporanea il modernismo ha il merito grande, e non ancora riconosciutogli, di aver posto la questione dell’autonomia dello spirito come una questione religiosa e di aver cercato nelle religioni storiche e particolarmente nel Cristianesimo, gli antecedenti e quasi la preistoria della nuova, e non ancora visibile, celebrazione religiosa della vita.
Sotto questo aspetto esso non può-essere in nessun modo concluso nella breve storia delle vicende ecclesiastiche di taluni modernisti più noti e del periodo dell’attività loro che si svolse nella Chiesa cattolica, ma continua e deve essere continuato. Ed allora altre domande ci si presentano. Quale fu, in ordine a questo problema di universa cultura umana, il messaggio proprio dei modernisti? E in che modo è possibile ed utile, ripigliando il solco che appare interrotto, rinnovare in qualche modo quel movimento con scopi meglio consaputi e con più adatte iniziative?
Questo diremo in un prossimo studio.
Ille ego.
Chi ha scritto queste pagine avrebbe grande piacere di uno scambio di idee con persone che parteciparono al movimento modernista e con altre per le quali le idee da lui svolte e in particolare il quesito finale, possono avere interesse. Dirigere a Ille ego presso Bilychnis.
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IL PENSIERO RELIGIOSO DI GIUSEPPE PAR1NI*
n Giuseppe Parini, cuore che vibrava al pianto d’ogni miseria umana, come al riso d’ogni umana gioja, intelletto aperto a ogni corrente d’idee, è facile scorgere contradizioni, in verità più apparenti che reali, in fatto di religione.
Ordinato prete senza vocazione, per necessità, indulse spesso alle seduzioni della voluttà, sentì sempre un accorato desiderio delle dolcezze familiari, che più volte, con mirabile intùito, degnamente cantò.
Io non gustai del maritale amore.
Però che giovinetto a la sua rete San Pier m’ha còlto papa e pescatore.
(Capitolo Per le nozze di Rosa Giuliani).
Generalmente si conosce quasi soltanto (un po’ di colpa ce l’ho anch’io) il Parini poeta dei contrasti sociali, mentre egli è anche il poeta ottimista della natura, madre amante degli uomini (L'innesto del vajuolo, v. 132) (1); il poeta che gli uomini conforta a vivere sotto a le leggi sante De la natura in suo voler costante (La tempesta, vv. 109-10).
Studioso di Lucrezio, come dimostra il fatto di aver quasi tradotto in fine de La Notte alcuni superbi versi del De natura rerum (I, 928-30), scioglie nel frammento A gentil donna un inno lucreziano alla natura,
A la madre del semplice, del puro. Del verace piacere, a la, ohimè! tardi Conosciuta natura. Oh somma diva! Oh Venere immortale! Oh de le cose Eterna genitrice!
* Da un volume di prossima pubblicazione: Idee, costumi, uomini del Settecento-(Torino, S. T. E. N.). Lo studio da cui sono tolte queste pagine, s’intitola: Giuseppe Parini e il pensiero religioso nel secolo XVIII, e comprende i seguenti paragrafi : I. « La religione in Italia nel Settecento». - IL «Il pensiero religioso di G. Parini». - III. «II Patini e gli enciclopedisti ». - IV « La letteratura religiosa in Italia nel Settecento ». -V. «Il Metastasi©, il Goldoni e l’Alfieri». - VI. «Conclusione»,
(1) Cfr., per l’ottimismo del P.» il frammento di un’ode Alla Duchessa Serbelloni Ottoboni.
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L’anima del Parini è veramente lontana da ogni asceticismo, e le sue inspirazioni non hanno nulla di trascendente, movendo sempre dalla realtà e dalla vita: ma il culto della natura, opera di Dio, si concilia in lui con un sereno misticismo, che non va confuso col puro teismo dei filosofi, ma è tutt’uno con quel cristiano e francescano sentimento di amore universale, che assai bene s’attaglia allo spirito italiano, pratico e idealistico a un tempo.
Il pensiero religioso di Giuseppe Parini non è stato diligentemente ricercato. Vi accennano il Dumas (i) e il Carducci (2), ma un po’ alla lesta e in modo da lasciare, massime il secondo, qualche dubbio.
Il giudizio complessivo del Dumas, che mi pare quasi tutto accettabile, è il seguente: — Il Parini seppe essere insieme cristiano e filosofo. Egli si mostra ne' suoi scritti e nella sua condotta spiritualista e teista convinto. Se non fu, benché prete, un fervente cattolico, fu un vero discepolo di Gesù Cristo. Non ebbe nulla di comune con gli esprits forts e gli abati increduli del secolo xvm, tranne lo spirito di tolleranza, più meritorio in lui, perchè non proveniente da scetticismo, nè confondentesi con l’indifferenza. Nemico del fanatismo e della superstizione, non temette d’incorrere nella censura ecclesiastica, scrivendo versi cui l’Enciclopedia avrebbe fatto plauso, difendendo i sacri diritti dell’umanità. « A la foi et aux esperances chré-tiennes, dans lesquelles nous le verrons mourir, il unit toujours une ardente charité, l’amour et le respect de ses semblables. Le fanatismo et la superstition n’eurent pas, dans le camp des incrédules, d’adversaire plus declaré que ce disciple du Christ ».
Secondo il Carducci, invece, il Parini è «il men naturalmente cristiano tra i poeti nostri del secolo xvm »; nel Giorno e nelle Odi non v'è traccia di cristianesimo, e ne’ suoi venti sonetti di devozione manca il senso del divino, assai vivo nell’Alfieri, e manca quella immaginazione biblica (3) onde eccellono il Varano e il Monti. Nel sonetto La pietà divina (L’arbor son io), tanto vantato, campeggia, a scapito di Dio, la pretensione scientifica (4). Il sonetto per la Vergine col Bambino non si stacca da quella lascivia ch’è propria della letteratura gesuitica, dal Puer Jesus al Bresciani. Il Carducci fa eccezione per quattro sonetti, che, tra i religiosi, sono veramente i migliori: Per riscatto di schiavi insubri, Per Girolamo Miani, Per Caterina da Pallanza, il sonetto per monaca Quanti celibi e quanti al mar consegna; e conclude: « Per virtù del suo temperamento, di certo più civile che mistico, sentì più simpaticamente ciò che nel culto cattolico era meglio in attenenza alla vita sociale....: accennò infine a un cristianesimo civile: al che come e quanto potessero conferire le idee giansenistiche diffuse allora in Lombardia, altri vegga ». Credo che il lettore potrà vederlo,
0R. Dumas, Parini, sa vie, ses œuvres, son temps, Paris, Lauriel, 1878, pp. 253-9. G. Carducci, Dentro fuori intorno ai sonetti di G. P., in II Parini minore. in opere, XIII.
(3) Scarso valore hanno infatti le cantate bibliche del P. (Opere, ed. Reina, v. Ili), La figlia di Jefte e L’Abigail. Lo stesso dicasi dell’allegoria biblica del sonetto Predaro i Filistei.
(4) Anche il sonetto A Dio (Virtù donasti al sol) è più ammirabile per la scrupolosa .verità scientifica che pel sentimento.
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II. PENSIERO RELIGIOSO DI GIUSEPPE PARIMI
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dopo quanto ho detto del giansenismo lombardo e dopo quanto seguiterò a dire delle idee religiose del Parini. Qui noterò soltanto che il poeta il quale combatteva i privilegi nobiliari, non poteva non incontrarsi anche col giansenismo, che moveva guerra all’aristocrazia ecclesiastica.
I quattro sonetti lodati dal Carducci son veramente assai degni di nota. Quelli Per Girolamo Miani e Per Caterina da Pallanza celebrano la santità civile eh’è propria dei grandi santi popolari d’Italia. Il primo è l’eroe della carità:
Però che tutti con affetto eguale
Sa gli uomini abbracciar quell’alma immensa E fa suo cittadino ogni mortale.
L’altra è la santa operosa, che,
... non mai di sè grave a! suol natio, A ben orare e a bene oprar fu dotta.
Come si vede, al Parini la sterile vita contemplativa sembrava grave al suol natio. Il Muratori {Filosofia morale. XXI) aveva osato scrivere: « Se cristiano alcuno fuggisse in un romitaggio, o in un chiostro, solamente ad oggetto di schivar le fatiche e le molestie e cure del secolo, costui, oltre al non far punto di guadagno per l’altra vita, meriterebbe il titolo di epicureo, di vile e di codardo fra gli altri mortali ». Nei contemporanei del Parini la critica del monachiSmo è un luogo comune. Il Baretti, antivolteriano, nella quistione de’ frati s'incontra una volta tanto col Voltaire {Scelta di lettere familiari, I, 1, 6, 13; II, 7, 17, 25, 28). Il Denina biasima gli ozii degli ordini monastici {Rivoluzioni d’Italia, 1. XXIV, cap. V). Lo stesso dicasi di Pietro Verri {Pensieri politici su la Corte di Roma, 1783). Pietro Tamburini al concilio di Pistoja proponeva addirittura l’abolizione di tutti gli ordini monastici, salvo il benedettino, ma con l’obbligo del lavoro manuale.
Il quarto dei sonetti citati è il più bello dei sonetti pariniani per monache. È una difesa, contro i filosofi, delle verginelle,
a cui la face Di caritade accende il divin lume E penitenza e solitudin piace.
Fu scritto nel turbine riformatore giuseppino contro le instituzioni monastiche? Il Parini, antivaticanista in altri versi, che citerò, per Giuseppe II, non avea molto a lodarsi (veggasi La Tempesta) delle sue riforme. « A ogni modo (scrive il Carducci) questi sono scatti di reazione bell’e buona contro la intolleranza filosofica, declamante sul celibato religioso e che non aveva poi ire pel celibato obbligatorio militare e incoraggiava col sorriso il celibato libertino ». Certo, noi ci aspetteremmo dal Parini, poeta della vita, ben altra parola per le « figlie che si chiudono ne' conventi e seppelliscono con sè stesse la loro posterità » (1); dal Parini che altrove {L’in(1) Parole di C. Beccaria, Lezioni di economia pubblica, I, 39.
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nesto del vajuolo, 169-71) lamenta il languore
Del pigro Imene, che infecondo or erra. Contro a Putii común, di terra in terra!
Ma tant’è: il genio spesso prova un gusto matto a navigare contro corrente! Ben altra intonazione hanno, del resto, due altri sonetti: quello che finisce:
Ma guàrdati da Amor: co’ suoi quadrelli Aspetteratti insidioso al varco Fra gli oziosi e striduli cancelli,
(dove si pensa alla licenziosità di certi monasteri), e quello, bernesco, che comincia 0 monachine mie (1).
D’un Parini antivaticanista può dubitare chi conosca un sonetto del 1758, pubblicato dal Cantò e riferito dal Dumas (2), scritto per l’assunzione al pontificato di Clemente XIII, dove il Poeta augura al Pontefice di difendere la fede dalle velenose spade d( saggi ingannatori {i novi so fi, di cui dirò, del Mezzogiorno). Ma, chi ben guardi, piò che un omaggio al Pontefice, è qui da vedere una dichiarazione di guerra, che il Parini continuerà per tutta la vita, al volterianismo.
Certo si è che, quando Giuseppe II nel 1769 entrò improvvisamente in Roma a raggiungere il fratello Leopoldo, e apparve nel conclave, con la spada al fianco, per ammonire i cardinali circa l'elezione del papa, il Parini scrisse il sonetto Quando il Nume improvviso, che al Carducci sembra « singolare fra tutti del Parini e in tutto il secolo xvni ». « Non mai dottrine regaliste parlarono sì alto e sì aperto, special-mente per bocca d’un prete: è un sonetto più che antivaticanesco, a dirittura ghibellino». La visita fu vana:
Ma la Superstición col cieco -morso
Frenò gl’impeti arditi a Roma in petto...
Così in Toscana Leopoldo, che proteggeva il vescovo Ricci, trovò nel popolo impedimento alle riforme religiose (3).
Seguitiamo a studiare l’atteggiamento del Parini verso la gente di chiesa.
Il Reina pubblicò un sonetto Sull’abolizione dei gesuiti, apponendovi la nota: « Alcuno dubita che questo sonetto sia di Parini; la voce comune lo vuole suo; uomini autorevoli amarono che si pubblicasse tra le cose di lui» {Opere, II, 24). In questo
(1) Su i sonetti pariniani per monache, cfr. F. Colagrosso, Un'usanza letteraria in gran voga n. Settecento, Firenze, Le Monnier, 1908, p. 144; e G. Ferretti, Amici e nemici d. raccolte n. Settecento, estr. dal Bullelin Italien, Bordeaux, 1909, pp. 25-6.
(2) Un altro sonetto per l’assunzione di Clemente XIII è in Opere, li, 6.
(3) Altri due sonetti {Opere, II, 30-1) scrisse il P., meno notevoli, per la venuta dello stesso imperatore a Milano nel 1784.
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IL PENSIERO RELIGIOSO DI GIUSEPPE PARIMI
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sonetto, che è un inno a Clemente XIV, il Poeta si compiace che sia finalmente caduto l’albero fatale che aduggiava il mondo, e conclude:
Bello il veder con pronte accese brame
L’alme Virtudi e il gran Pastor Romano I lor colpi alternar sul tronco infame.
L'ode L'Impostura (1761? o 64?) è una battaglia contro il gesuitismo, con quel vivacissimo ritratto ipocrita Crispino (vv. 69-84), che, se procede dal Tartufo del Molière e dal Don Pilone del Gigli, anticipa il Don Basilio del Beaumarchais. 11 Parini se la prese con gl’ipocriti anche nel sermone La maschera (cfr. L’educazione, 139-44; La caduta, 92).
A Carlo conte di Firmian, che nel 1769 lo aveva eletto professore di belle lettere nelle Scuole palatine, diresse il Poeta una relazione Delle cagioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia: nella quale nota « l’esser cadute per molte e replicate combinazioni quasi sempre in mano de' frati molte cattedre dell’università, e specialmente quella dell’eloquenza »; il che « vi ha introdotto il medesimo spirito corrotto e fazionario, che si vede nelle loro instituzioni domestiche, ne’ loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute sotto alla loro cura ». Ho già notato l’accenno de La Notte all’educazione femminile de’ conventi.
Il Parini onorò delle sue lodi immortali i preti dabbene, come G. C. Passeroni (La recita dei versi, 44-8) e il curato Ciocca, che
Nulla per sé, nulla di proprio avea;
Quel podi ben de ca' soa e dell’aliar Tutto co’ i poverelli dividea.
Vituperò invece il Casti (La recita dei versi, 31-36, e sonetto Un prete brutto, vecchio e puzzolente)} non rifuggì dal satireggiare preti e frati corrotti e corruttori, quantunque la sua satira antiecclesiastica sia molto scarsa a confronto di quella abbondante, ma meno efficace, perchè sorretta da meno oneste 0 a dirittura disoneste coscienze, che si trova nei poemi giocosi e nelle novelle del Forteguerri, di Carlo Gozzi, del Casti, del Batacchi. Abbiamo già visto il ritratto degli abatini galanti nel sermone II Teatro. In questo stesso sermone troviamo frate Uguccione in maschera:
Dàn le maschere ardir: sotto di quelle
Frate Uguccion, che dal convento scappa,
, Copre il rossor di pizzicar le belle;
E mentre, per veder chi ’1 cor gli arrappa, Levas’ in piedi e con chi è dopo alterca. Casca improvviso al poverin la cappa.
Ben di raccorla in un baleno ei cerca;
Ma già tutto fischiando il gran teatro
Vede apparir la mascherata cherca.
Si veda un altro frale'dabbene nella novella l ciarlatani (1).
(1 ) Non posso citare, per la loro oscenità, altri versi che si leggono in Opere, III, 24.
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Argutissime infine le Lettere del conte iV. N. ad una falsa devota, tradotte dal jrancese, pubblicate nel tomo IV delle Opere, e degnissime di essere, più che non siano, conosciute. Sono proprio del Parini? Il Reina dice di non aver potuto mai rinvenirne l’originale; ma per le idee, pel tono dell’ironia, per la dizióne, per le correzioni de’ manoscritti, le crede opera del nostro poeta. A me piace considerarle uno de’ più notevoli tra i componimenti coi quali il Parini si preparò all'ironia del Giorno.
Sono tre lettere a un’Elisa. Nella prima si maraviglia del capriccio entrato in capo alla spiritosa devota di volerlo scegliere per maestro e direttore nella via della devozione.
Io mi sono, se voi noi sapete, un cotal pezzo d'uomo fatto alla carlona, che conosco poco più là del Decalogo. Ho mille passioni, che mi agitano continuamente— Io per mia disgrazia non mi sono mai curato di penetrar troppo addentro nell’oscuro santuario de’ mistici e degli ascetici... Confesserovvi ancora ingenuamente una mia debolezza; ed è ch’io non ho mai potuto avvezzare queste mie labbra un poco indomabili a recitar troppo lunghe preghiere, e che i mattoni mi hanno ad avere grand’obbligo, perchè le mie ginocchia non hanno soverchiamente logorata la loro molle superficie.
E sarebbe bella che il Diavolo lo facesse innamorare di lei, come spesso accade a’ direttori, « che prendono a guidare pel cammino della devozione qualche ancor fresca e spiritosa penitente! » Tuttavia egli accetta l’impresa di scriverle delle lettere edificanti, e augura che i lor nomi vadano famosi tanto da fare scomparire quelli de’ due celebri devoti amanti Eloisa e Abelardo (i); e si propone di mettersi « a meditar ferocemente sulla scienza della divozione ».
Frutto di questo aspro meditare è la divisione dèlia devozione in due classi. Nella seconda lettera tratta della prima classe.
La prima, che alcuni troppo scrupolosi vogliono che sia la vera ed unica divozione, perchè non sanno applicare ponderatamente le cose alle diverse qualità de’ loro sug-getti.'si può definire una pietà ed un culto di Dio esercitato con ardore e con sincerità. Se questo ardore avesse ad esser ardore di mente piuttosto che di cuore, e questa sincerità di parole piuttosto che d’anima, io ardirei di proporvi che voi v’applicaste a questa prima classe di devozione. Ma come questo non è, e, d’altra parte, troppe cose e troppi incomodi ci vogliono per riuscirci plausibilmente, io non ¡stimo che questa sorta di divozione sia ben adatta alla dilicatezza della vostra natura e al fervore del vostro temperamento.
I caratteri di questa prima devozione sono l’umiltà, la sincerità e la carità. Ora questi caratteri non possono in lei accoppiarsi con la devozione. Può ella esser umile, e disconoscere i suoi meriti, spiritosa com’è, merito di cui non deve essere ingrata a Dio? Quanto alla sincerità, come si può, senza mancare notabilmente alla prudenza, come si può in certi frangenti non lasciar cadere in errore il nostro amato prossimo? Come si potrebbe vivere senza un poco di simulazione?
Bisogna pur confessare che un poco di restrizion mentale è uno dei maggiori comodi dell umana vita, specialmente per una divota, a cui non è tanto lecito quanto a'
(x) Messi in voga nel Settecento da Alessandro Pope, la cui Epistola di Eloisa ad Abelardo fu più volte tradotta fra noi.
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Seccatori il dir bugie. E non per altro cred’io che tanti dottori le abbiano così fortemente ifesc e sostenute, se non per lasciare un meschino asilo a qualche anima pia che si trovasse impacciata tra l’interesse e la divozione.
Dopo tale stoccata al probabilismo gesuitico, aggiunge, quanto alla carità, che bisogna trovare « un soave nodo, col quale congiunger si possa il nostro comodo e il nostro interesse colla pietà e colla devozione ».
Nella terza lettera si lagna di non aver ricevuto risposta alla precedente lettera; ma sa che la sua « divotamente amabile Elisa » non ha potuto scrivergli, impedita da gli esercizii devoti: ai quali egli avrebbe voluto trovarsi presente per due motivi:
L’uno si è per udire quel grazioso Padrino, che diceva così bene, e che in que’ suoi esami pràtici delle ore pomeridiane sapeva così bene sollecitare alcune piaghette di cuore, che stavano sul rimarginarsi, di modo che, come Voi scrivete alla Marchesa, vi faceva quasi svenire per la spirituale dolcezza che Voi ne sentivate; l’altro motivo più forte si è per aver la spirituale consolazione di veder Voi esercitar que’ fiori e quelle spiritose penitenzuole di cui scrivete a lungo, e da cui, come Voi dite pure, rimaneva edificata tutta quella tenera assemblea di giovani ed amabili penitenti.
Poi viene a parlare della seconda classe di devozione, che crede più adatta al temperamento di Elisa. Ecco la ricetta: « Recipe per far diventare una femmina divota: due dramme di fragilità umana, quattro dramme di paura di Casa del Diavolo, otto di vanità ». (Simili ricette si trovano nelle Lettere Persiane del Montesquieu, al Parini ben note). E qui finiscono le Lettere a una falsa devota.
Come la falsa devozione, il Parini, pieno d’entusiasmo per le scoperte della scienza, combatte La superstizion, del ver nemica (L’innesto del vajuolo, 161).
Il filosofo e il cristiano insieme troviamo nell’epistola Sopra la guerra e nel frammento L’auto da Je, nei quali il Dumas sente il tono e l’inspirazione delle epistole del Voltaire. Nella prima il Poeta osa fieramente riprovare (vv. 107-10) le guerre di religione, come tutte le guerre, del resto, non combattute per la salvezza della patria. Nel secondo descrive gli orrori del sant’Uffizio in Ispagna. Citerò pochi versi che ci fanno conoscere, se non proprio il valore dell’artista, il coraggio civile dell’uomo e il cuore del poeta:
S’avanzan primi i figli di colui
A cui '1 Ciel die’ la spada e disse: Uccidi
Gli empj fratelli tuoi cui ’1 ver s'asconde;
Indi gli altri ministri i quai di tanto Gran potestade fur chiamati a parte. Ma già vengon co’ pie’nudi, seguendo L'immagine di Quel che per salvarne Morì sul legno, i duri peccatori.
Il colui del primo verso è san Domenico dei Gusmani (cfr. Voltaire, La Pidcella ¿Orléans, tradotta dal Monti, V, 24-8), che stabilì in tutta regola il tribunale dell’inquisizione. Si noti negli ultimi due versi l'accorato accenno a Colui che, lungi dall’.uccidere i peccatori, morì per salvarli! (1).
(1) L’abolizione dell’inquisizione fu propugnata da C. A. Filati nell’opera Di una riforma d'Italia, Villafranca (Venezia). 1767.
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362 BILYCHNIS
Forse il Carducci non vide tracce di sentimento religioso nelle Odi, pensando a L'Impostura, dove con volteriana audacia il Parini taccia d'impostori i fondatori di religioni (salvando, naturalmente, la cristiana): Numa, Alessandro Magno e Maometto (vv. 25-36).
Qui è da notare che è un errore proprio del razionalismo dei secoli xvn e xvm questo concetto della religione come artifizio di scaltri (1): errore combattuto dal solo Vico, che scoprì l’origine della religione non nella « impostura d’altrui », ma nella « propria credulità » (corollario della degnità XL), vide nella religione un prodotto naturale dei primi uomini, tutti passione e fantasia, una rudimentale filosofia, una spiegazione primitiva dell’universo. Il Parini, come tutti i filosofi del Settecento, s’accorda questa volta col Voltaire (cfr. la Pulcclla tradotta dal Monti, III, 4-6). Ma, lasciando da banda i filosofi, possiamo risalire al Bracciolini, e propriamente all’ultimo canto delio Scherno degli dèi, nel quale Momo fa il processo a gli dèi, che, secondo lui, non furono che uomini forti e potenti, o inventori di nuove cose, deificati dai poeti. Nei settecentisti questo concetto è assai comune (si vedano, per esempio, i vv. 193-6 dell’/wvi/o del Mascheroni); e da essi lo eredita il Foscolo, che lo espone in una delle considerazioni {Le deificazioni) che accompagnano la Chioma di Berenice (2), e nell’ode All’amica risanata promette l’immortalità alla sua donna, come i poeti la diedero a tre donne, che divennero Diana, Bellona e Venere.
Il Parini rivela il suo sentimento religioso nell'ode L'educazione (1764), nella quale delinea un compiuto sistema pedagogico. Chirone-Parini crea un Achille cristiano, forte di membra, nobile d’anima, intimamente religioso, amico della giustizia e della verità, lontano da ogni ipocrisia, pronto a combattere per la salvezza della patria, ma pietoso anche coi nemici. Siamo lontani dall’educazione gesuitica del Settecento! Ecco l’insegnamento di religione:
Onora, o figlio, il Nume
Che da l’alto ti guarda;
Ma solo a lui non fume Incenso, o vitti m’arda. È d’uopo, Achille, alzare Ne l’alma il primo altare (3).
Pensiero generoso e coraggioso, massime quando la religione, come a’ tempi del Parini, è pura devozione, e anche falsa, è lassa consuetudine di pratiche esteriori. Pensiero, aggiungo, intimamente cristiano. Sant’Agostino (lontano, in questo, precursore della Riforma) nelle Confessioni (1. IX, c. 4; 1. X, c. 26; 1. XII, c. 25; 1. XIII, c. 22) pone il focolare dove s’inizia e si compie il processo religioso, nell’intimo del cuore; stabilisce in somma che la relazione dell’anima umana con Dio non
(1) Così la concepiva il Beccaria (Canti-, B. e il diritto penale, Firenze, Barbèra, 1862, p. 87).
(2) Opere, I, 382.
(3) Cfr. l’ultima terzina del cit. sonetto Per Caterina da Pallanza: Popol, che a lei consagri incenso e canto, Fa' che gl'inni e l'odor soli non sièno, Ma ad imitar le sue bèl-¡'opre impara.
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IL PENSIERO RELIGIOSO DI GIUSEPPE PARINI
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può essere evidentemente che diretta e non deve aver bisogno d’intermediarii. Di Dante cito per brevità un solo luogo: « Iddio non vuole religioso di noi se non il cuore» (Convivio, IV, 28).
Finalmente, per conoscere il sentimento religioso del nostro poeta, bisogna por mente a quel famoso luogo del Mezzogiorno, nel quale .egli ricorda i novi sofi che la Gallia e l'Alpe ammirando persegue, dei quali nomina naturalmente i più famosi: il Voltaire, morbido Arislippo del secol nostro, e il Rousseau, novo Diogene. Dal verso 941 al 1021 ci fa sapere in che s’accorda coi novi sofi e in che ne discorda. Egli ha con essi comune l'idea dell’uguaglianza degli uomini, ma non s’accorda con essi nella irreligiosità.
S’ui ti segnalerai co’ novi sofi, chernendo il fren che i creduli maggiori Atto solo stimar l’impeto folle A vincer dei mortali, a stringer forte Nodo fra questi e a sollevar lor speme Con penne oltre natura alto volanti. Chi por freno oserà d’almo Signore A la mente od al cor? Paventi il vulgo Oltre natura: il debole Prudente Rispetti il vulgo; e quei cui dona il vulgo Titol di Saggio, mediti romito Il Ver celato; e alfin cada, adorando La sacra nebbia che lo avvolge intorno. Ma il mio Signor, com’aquila sublime, Dietro ai sofi novelli il volo spieghi.
Il Giovin Signore deve seguire gli enciclopedisti solo nel deridere la religione. Ci fa sapere il Lerminier: « C’était surtout dans les salons de la noblesse que l’athéisme avait trouvé faveur. On s'y moquait de Rousseau pour écouter d’Holbach et Saint Lambert (1). Le peuple ne se fait pas athée: il a besoin de Dieu... » (2). Viene a mente il motto mazziniano: Dio e Popolol II vero saggio, secondo il Parini, s’accorda con l’umile popolo, col vulgo, nell’adorazione del Mistero (la sacra nebbia). Si noti da ultimo il nobile concetto che il Parini ha della religione, che per lui, come per i suoi maggiori, è il freno atto a vincere il folle impeto delle passioni, a stringer gli uomini con vincoli di carità e d’amore e a dar loro speranze immortali.
Giulio Natali.
(1) Il Saint-Lambert ê l’autore del Catéchisme universel (1798-1801).
(2) E. Lerminier, De l’influence de la philosophie du xvm siècle sur la législation et la sociabilité du xix, Leipzig, 1833, p. 113.
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MORALE E RELIGIONE
«Cum béatitude» nihil aliud sit quam adeptio Summi Boni, non potest esse beatitudo sine delectatione concomitante ». Tommaso d’Aquino.
« E Ja sua volontade è nostra pace ». Dante.
« Our wills are ours, we know not ho w : «Our wills are ours, to make them thine ». Tennyson.
i proponiamo, in questo breve saggio, di indagare i rapporti fra Morale e Religione sotto l’aspetto storico, epistemologico e psicologico.
Non per gretto esclusivismo delle altrui interpretazioni, nè con stolta pretesa di dar .noi un’assoluta definizione del fatto etico e del fatto religioso, ma soltanto per eliminare ogni possibile malinteso nell'ulteriore discussione, è bene chiarir fin da
principio i termini del rapporto, come sono da noi concepiti.
Accostandoci allo Schleiermacher, intendiamo per religione il sentimento di dipendenza onde lo spirito umano sentesi avvinto allo Spirito Divino; ed accostandoci al Littré, intendiamo per morale il rapporto delle azioni umane con i principi! che ne son la regola.
• • *
Cultori insigni di storia e psicologia delle religioni — dal Laurent al Reville, dal Kidd al Ladd, dal Max Müller al Vinet — han messo in evidenza il magnifico influsso ognora esercitato dalla religione, nel volgere dei secoli, sull’incremento delle industrie e dei commerci, delle arti e delle lettere, delle scienze e della politica. Chi, d’altronde, rifletta anche un istante sulla reciproca dipendenza delle varie esplicazioni della nostra vita spirituale, non può non comprendere l’indissolubile rapporto fra lo sviluppo dell'esperienza religiosa e lo sviluppo delle altre molteplici attività ' dell’uomo. «Omnes artes quae ad humanitatem pertinent, habent commune quoddam vinculum et, quasi cognazione, inter se continentur » (i).
(i) Cicerone, Pro Archia
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MORALE E RELIGIONE 365
Ma il rapporto che intercede fra religione e morale è ancor più intimo, profondo, complesso, indistruttibile, giacché amendue si svolgono entro la sfera della condotta. È lo stesso spirito umano che fonda i sistemi etici ed i sistemi religiosi; e ciò che lo spirito compie nel dominio morale avrà certo una significazione per l'attività sua nel dominio religioso, come, per converso, ciò che lo spirito compie nel dominio religioso non può non influire sul suo codice etico. Ovunque raggiungasi alcun grado di sviluppo, la natura morale è il fattore precipuo nel determinare le concezioni religiose; le quali, per contro, potentemente reagiscono sulla natura morale. Francesco De Sanctis, ministro, rispondendo in piena Camera ad un’interrogazione del deputato Martini sull’insegnamento religioso nelle scuole, diceva argutamente che l’anima umana non è composta di fette, sì che si possa mettere sentimento religioso di qua e sentimento morale di là... » (1). E recentemente l’Orestano ha più volte lumeggiato questo concetto, che la vita è una unità che non può disintegrarsi per obbedire nell’unità di tempo a un doppio e diverso sistema di determinanti ideali e pratiche, a sistemi teleologici eterogenei ed eteronomi e persino, eventualmente,. repugnanti fra loro: la vita deve continuamente scegliere, e per ogni scelta inclusio unius est exclusio alterius; mentre poi la religione tende a subordinare a sé tutta la vita, non soltanto individuale, ma sociale, e costringe l'evoluzione umana in direzioni inderogabilmente segnate (2). Che se il Cremonini soleva dire: Inlus ut libel, foris ut ntoris, convien rammentare ch’egli era materialista, e non credente (fe’ porre sulla sua tomba l’epigrafe : Hic jacel Cremoninus Ictus). E se Pietro Pomponazzi ripudiava, come « philosophus simplex », l’immortalità dell’anima, e in omaggio alla Chiesa ammetteva quello stesso dogma, l’apparente contraddizione si spiega con l’intimo scetticismo di lui: di lui che in fondo all’anima non sentiva la fede, e considerava la Chiesa come una gerarchia esteriore, a cui basti il semplice ossequio esterno, e raccomandava agli scolari la sommessione alla gerarchia ecclesiastica, « per non fare la morte delle castagne », cioè quella d’essere abbrustoliti al fuoco della Santa Inquisizione (3).
(1) Cfr. Alti del Parlamento. 1878.
(2j Francesco Orestano, Gravia Levia, v. I, pp. 128 e 135: Prolegomeni alla Scienza del Bene e del Male, pp. 68-69.
(3) «Tantum crédité in philosophia, quantum rationes dictant vobis, in theologia crédité tantum, quantum vobis dictant theologi, et Arist. (Anlislilesì omnes cum tota Romana ecclesia, quia aliter facerent vobis lacere mortem castanearum ». (Cfr. in proposito: Fr. Fiorentino, Studi e Ritratti della Rinascenza, pp. 63-79).
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BILYCHNIS
I.
Indagine storica.
Il parallelismo etico-religioso, che suppone l’una dall’altra indipendenti la morale e la religione, ripugna all'esperienza ed ai moniti di coloro che più a fondo scandagliarono i misteriosi abissi del cuore umano e furono gli apostoli più rappresentativi dei grandi moti religiosi.
« Dilige, et quod vis fac », ammoniva Sant'Agostino. Null’altro occorre: le tue inclinazioni verranno in tal guisa trasformate dall'amore verso Dio, che esse saranno ognora volte al bene. E come Gesù avea riassunta l’intera legge nell'unico precetto dell’amore, verso Dio, così il mistico, vescovo d’Ippona diceva che la virtù è, nella sua essenza, amore a Dio, nient’altro che ordo amoris (i) e perciò obbedienza alla volontà divina, ch’è l’eterna legge della morale, e con grande ingenuità egli comprendeva in questo amore le quattro virtù cardinali della classificazione greca: temperantia, amor inlegrum se praebens et, quod amatur; forliludo, amor facile tolerans omnia propter quod amatur; justitia, amor soli amato serviens et propterea recte dominane; prudentia, amor ea, quibus adjuvatur, ab eis, quibus impedilur, sagaciter seligens » (2). Ma nell’asserir questa supremazia della religione su tutta la multiforme attività dello spirito umano convengono unanimi gli antesignani delle più diverse correnti teologiche in seno al Cristianesimo.
Scoto Erigena insegna che l’uomo è l’immagine del Creatore, il quale si manifesta in lui, e lo sforzo morale dell'uomo va indirizzato alla completa unione con Dio, alla sua progressiva realizzazione in Dio. (3) Secondo l’Aquinate Dio è buono per essenza, e l'umana creatura è buona in quanto è ordinata a Dio (4). Gli scolastici non fanno che interpretare sub specie divinitatis i sistemi etici degli antichi filosofi. Quanto ai mistici, l’autore <\c\V Imitazione di Cristo vuol che tutte le cose si riferiscano a Dio, loro ultimo fine (III, 9). Fra Gerolamo Savonarola assume a programma della sua missione il motto: «Cristo, Re di Firenze», tanto l’indomito predicatore è convinto dell’efficace rivoluzione morale che un risveglio religioso produrrebbe nel paese. È noto che per Martin Lutero l’Etica viene addirittura
(1 De Civ. Dei, XV, 22.
(2 De Moribus eccì., c. 15; c. 25; De Lib. Arb., 1, 13; 2, io.
(3 Scotus Erigena, De divisione natura, II, V.
(4 Tommaso d’Aquino, Compendio di Teologia, c. CIX.
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assorbita nella Teologia; che per lui, come per Giovanni Calvino e Ulrico Zuingli ed Aonio Paleario e Bernardino Ochino e per tutti i riformatori del xvi secolo, le opere buone son l'immancabile ed esclusivo frutto della «salvazione per grazia mediante la fede ». Ricorderemo, dei giansenisti, quel Biagio Pascal secondo il quale la religione dev’essere « tellement l’objet et le centre où toutes choses tendent, que qui en saura les principes puisse rendre raison, et de toute la nature de l’homme en particulier et de toute la conduite du monde en général » (1). La Guida Spirituale di Michele Molinos fa consistere la religione e la morale nel vivere assortì in Dio e separarsi dal mondo; e il Malebranche dice: « Noi scopriamo, per la chiara visione dello spirito, che noi siamo uniti a Dio in una maniera ben più stretta ed essenziale che al nostro corpo; che senza Dio noi non siamo nulla; che senza lui nulla possiamo, nulla conosciamo, non vogliamo e non sentiamo nulla, che egli è il nostro tutto, e che noi facciamo con lui un tutto, se così si può dire, di cui non siamo che una parte infinitamente piccola »; e altrove: « Se Dio non vi viene in aiuto, voi non farete che sforzi vani, non concepirete che dei desideri impotenti » (2). Le opere di Jonathan Edwards — il più grande apostolo di religione, forse, che l’America abbia prodotto — s’inspirano al concetto che l'amore verso Dio è tutto e l’unico dovere dell’uomo, e chi manchi di quell’amore manchi d’ogni bene. Così per Giovanni Wesley la perfezione consiste nell’amore e sussegue alla rigenerazione che Dio opera nel cuore dell’uomo; e per Guglielmo Paley l’unica sanzione morale è la sanzione religiosa, e se perisse la fede in Dio, verrebbe meno tutta la morale.
Nell’orbita stessa del Cristianesimo, quando più viva si ha la preoccupazione per gli urgenti problemi sociali, ecco il Saint-Simon che, come applicazione del principio cristiano « tutti gli uomini debbono amarsi come fratelli », così riassume la missione del xix secolo : « Toutes les institutions sociales doivent avoir pour objet l’amélioration physique et morale de la classe la plus nombreuse et la plus pauvre... La morale la plus générale, la morale divine doit devenir la morale unique: c’est la conséquence de sa nature et de son origine... Le meilleur théologien est celui qui fait les applications les plus générales du principe fondamental de la morale divine... Il est une science bien plus importante pour la société que les connaissances physiques et mathématiques: c’est la science qui constitue la société, c'est celle qui lui sert de base: c’est la morale. Il y a plus de dix-huit siècles que son principe fondamental a été produit, et, depuis cette époque, toutes le recherches des hommes du plus grand génie n’ont point fait découvrir un principe supérieur par sa généralité ou sa précision à celui donné à cette epoque par le fondateur du Christianisme: je dirais plus, quand la société a perdu de vue ce principe, quand elle a cessé de le prendre pour guide générale de sa conduite, elle est promptement retombée sous le joug de Cesar; c’est-à-dire sous l’empire de la force physique, que ce principe a subordonné à la force intellectuelle » (3).
(1) B. Pascal, Les Pensées, II p., art. IV.
(2) N. Malebranche, Pensieri metafisici, p. 48 e 54 (edizione R. Carabba, Lanciano, 1911).
(3) Saint-Simon, Nouveau Christianisme (aprile 1825).
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Ma oltrepassiamo i limiti delle Chiese, entro i quali ci siam finora indugiati, e consultiamo dei testimoni che, pur essendo profondamente religiosi, nessuno vorrebbe sospettare di preconcetti ecclesiastici.
Pel «santo eretico» Spinoza il sommo bene di quanti seguon la virtù consiste nel conoscere Iddio; nel conoscere Dio sta pure la virtù suprema dell’anima; chi possiede tal conoscenza giunge al colmo della beatitudine; la quale beatitudine non è la ricompensa della virtù, ma essa medesima è la virtù, e noi non godiamo la beatitudine perchè freniamo gl’impulsi nostri, ma piuttosto possiam frenare i nostri impulsi perchè godiamo la beatitudine (i). E il trattato spinoziano conclude: « La beatitudine consiste nell’amore verso Dio; questo amore è la virtù essa stessa; più l’anima gode l’amore, e maggiormente comprende, ed è maggiormente capace di dominare gli affetti propri, e men patisce delle affezioni malvage » (2).
E che dice Emerson il veggente? Dice che l’unione di Dio e dell’uomo in ogni atto dell'anima è ineffabile. La più semplice persona che nella sua integrità adori Iddio, partecipa essa stessa della divina natura, e Dio allora le infiamma l’anima, e l’anima si raddoppia, ed acquista il potere di espandersi e d’aprirsi d'ogni lato un novello infinito. Tanta unione inspira aU’-uomo una infinita fiducia; egli allora acquista l’intuizione come tutto ciò ch’è il buono sia puranco il vero, com’ei possa scacciare con tal pensiero tutte le incertezze particolari, tutti i timori, e prorogar sino alla certa rivelazione del tempo la soluzione dei problemi che gli son propri. Dio diventa solidale con l’uomo, e questi dalla presenza di leggi universali nello spirito suo è riempito di così universale fiducia, che nei flutti della fiducia ei tuffa tutte le più care speranze e i più saldi propositi della sua condizione presente. Nel fondo dell'anima sua egli già reca tutto intiero l’avvenire (3).
Il James afferma e dimostra nel suo libro su Le varietà della coscienza religiosa che la più grande rivoluzione morale è fatta dalla conversione dell’anima a Dio; e la stessa tesi è illustrata dal Begbie nel suo volume: Tvice-born Men {Uomini nati due volte»). La drammatica conversione di Leone Tolstoi e le candide confessioni che egli fa in proposito sono una delle più eloquenti conferme della tesi del James e del Begbie, e provano come e quanto la religione influisca sulla morale. Narra il Tolstoi: «Pendant trente-cinq annés de ma vie, j’ai été nihiliste, dans l’exacte acception du mot, c’est-à-dire non pas un socialiste révolutionnaire, mais un homme qui ne croit à‘ rien. Il y a cinq ans, la foi me vint; je crus à la doctrine de Jésus et toute ma vie changea subitement. Je cessai de désirer ce que je désirais auparavant et je me mis au contraire à désirer ce que je n’avais jamais désiré. Ce qui, auparavant, me paraissait bon, me parut mauvais, et ce qui me paraissait mauvais me parut bon... Ma vie et mes désirs subirent une transformation complète; le bien et le mal prirent pour moi une signification inverse. Pourquoi cela? Parce que je compris la doctrine de Jésus autrement que je l’avais comprise jusque-là...» (4)
(1) B. Spinoza, Ethica, 1. IV, theor. 36;, 1. V, theor. 27 e 42.
(2) Ibid., 1. V, theor. 42.
(3) Cfr. R. W. Emerson, The Oversoul, passim.
(4) L. Tolstoi, Ma Religion, pp. 1-2.
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E nel trattato: Quest-ce que la Religion?, il finissimo psicologo e moralista russo spiega com’egli intenda la religione : « La Religion, c’est la définition du rapport de l’homme envers l’origine de tout, de la destination de l'homme qui en résulte, et des règles de conduite qui découlent de cette destination. Et la religion commune, formée des principes fondamentaux de toutes les croyances, satisfait à ces exigences Elle définit le rapport de l’homme envers Dieu, comme celui d’une partie envers l'entier, elle tire de ce rapport la destination de l’homme, qui consiste en l’augmentation en soi des attributs divins; et la destination de l'homme est de déduire les règles pratiques de la loi générale: fais aux autres ce que tu veux que les autres te fassent, etc. (1).
Tutte queste testimonianze provano vero l’asserto del De Wette, che la religione è la fede nella validità della legge morale nel mondo invisibile, è la contemplazione, mercè l’occhio della fede, del tipo e del centro d’una comunione morale: e provano vero l’asserto del Vinet, che la religione è la morale medesima avente Dio per obietto, e non v’è in essa una fibra, un’idea, un articolo che non abbia una efficacia etica.
Alle esperienze e dichiarazioni dei credenti corrispondono certe confessioni, anch’esse preziose, di moralisti che han cercato di costruire i loro sistemi etici indipendentemente dal sentimento religioso, oppure hanno sottoposto alla più severa critica i vari tentativi che si son fatti per organizzare la scienza e l'arte del costume. Così Enrico Sidgwich conclude la sua opera : The Melhods of Ethics, ammettendo che solo il presupposto della sanzione d’un Legislatore divino trasforma in interesse di tutti e di ciascuno la ricerca della felicità universale. J. F. Stephen in Liberty, Equalily, and Fraternily, dice che, una volta spente in grembo all’uman genere le idealità religiose, sparirebbe insiem con esse la moralità dei costumi. E J. S. Mill conclude i Three Essays on Religion, sciogliendo un entusiastico inno alla sublime, perfetta figura morale del Cristo ed alla magnifica azione restauratrice esercitata dal Cristianesimo durante i più tenebrosi e corrotti secoli, e rilevando qual somma di fervide energie spirituali il credente può derivare, nella pratica della vita, dalla sua fede in un Essere invisibile che governa il mondo e che in Sè riassume e personifica tutti i più eccelsi ideali.
Che se finora ci siam limitati a testimonianze concernenti in ¡special modo il Cristianesimo, non è perchè l’indagine di altre manifestazioni del sentimento religioso potrebbe invalidare la tesi nostra, ma perchè il Cristianesimo ci tocca più da vicino, e perchè esso è, senza dubbio, la sintesi degli aspetti essenziali della religione e degli indirizzi varii e culminanti della coscienza religiosa. Il Cristianesimo è come una fusione dialettica del principio della trascendenza giudaica col principio della immanenza pagana, formando di questi due concetti una organica unità; è un’imperitura energia che sospinge l'uomo e l’umanità a Dio e li vuol collocati in Dio; è, insomma, la più perfetta forma di religione, stata sin qui raggiunta (2). E in questa
(1) L. Tolstoï, Qu’est-ce que la Religion?, pp. 71-72.
(2) Cfr. R. Mariano, Giudaismo, Paganesimo, Impero Romano, pp. 243-249. (Barbèra, Firenze, 1901).
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modesta indagine sull’efficacia etica della religione in generale ci sembrava giusto seguire il criterio che F. Max Müller voleva adottato per l’esame delle religioni pagane: valutar cioè le religioni, come Si misurano le Alpi, dalle più alte vette che desse ci presentano. « La religione è da per tutto un’aspirazione più che un’attuazione, ed io esigo per la religione del negro non più di quanto chiedo per la nostra, se affermo che dovrebb’esser giudicata, non solo da quello che sembra, ma da quello che è : anzi, non solo da quello che è, ma da quello che è capace di essere, e da ciò che essa è stata nei suoi adepti più virtuosi » (i).
Merita poi considerazione un altr’ordine di testimonianze. Che valore attribuirono governi e statisti alla religione, come fattore di onestà, di giustizia, di prosperità civile?
Niccolò Machiavelli, 7 che se ne intendeva, si espresse in questi termini: « Quelli Principi, o quelle Repubbliche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della Religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perchè nissuno maggiore indizio si puole avere della rovina d’una provincia che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la Religione, ove l’uomo è nato; perchè ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo » (2). Secondo il Bovio, i due massimi statisti italiani sono stati Niccolò Machiavelli e Paolo Sarpi: consideriamo dunque se anche il Servita si trovasse d’accordo col segretario fiorentino.. Il critico superficiale risponderebbe di no, memore delle lotte sostenute da fra Paolo in nome della Repubblica e contro la teocrazia pontificia. Ma il parallelismo fra Stato e Chiesa, che il Servita insigne propugnava, non contrasta al principio del Machiavelli; anzi! Il Sarpi era credente; e invocava una riforma nei costumi e nella organizzazione della Chiesa, precisamente affinchè, purificata da ogni tabe ed abuso, la religione potesse esercitare il benefico suo influsso sulla vita morale dei singoli cittadini e sull’incremento della pubblica cosa.
L'antico monito di Plutarco — esser più facile edificare una città in aria che costituire una società senza la credenza negli Dei — vien da G. B. Vico ampliato in quest’altro: « Oinnem humanitatem a Deo existere, a Deo regi, ad Deum ipsum redire: et sine Deo in terris nullas leges, nullas respublicas, nullam societatem: sed solitudinem, feritatem, foeditatem et nefas esse... (3); e nella stessa sentenza convengono le menti più elette che si travagliarono nell’agone della politica e nei momentosi problemi della legislazione sociale.. Tutti, in questo, vanno d’accordo: il Rousseau e lo Spedalieri, il Montesquieu e il Gioberti, il Mirabeau e il Sismondi, il De Tocqueville e il Castelar, il Thiers e il Gladstone, il Laurent e il Balfour. Citeremo almeno il Leroux, l’apostolo della religione .della solidarietà, il quale chiamava la politica « il gesto ’della religione », e stimava impossibile trattar di quella, un po’ profondamente, senza preoccuparsi di questa; egli anzi, discepolo del Saint(1) Fr. Max Müller, Lectures on the Origin and Growth of Religion, p. 105. SN. Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, 1. I, cap. 12.
G. B. Vico, De Uno Univ. Juris Prine, et Fine Uno.
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Simon, voleva un « allargamento » del Cristianesimo, perchè la società ne risentisse benefici anche maggiori di quelli, già cospicui, che ne aveva ottenuti (1).
L’opera di Beniamino Kidd: The Social Evolution, è tutta un’eloquente documentazione di questa interpretazione del fatto religioso : « Una religione è una forma di credenza che offre una sanzione sovrannaturale a tutti gli atti dell’ individuo là dove gl’interessi individuali e gl'interessi dell’organismo sociale sono in opposizione, e subordina i primi agli ultimi nell’interesse della grande evoluzione che la società compie » (2).
Che cosa valga il sentimento religioso per la grandezza e la prosperità d’un popolo, dovremmo ben riconoscerlo noi Italiani, perchè l’edificio dell’unità e indipendenza patria venne costruito nel nome di Dio, da un nucleo di eletti che ebbero il cuore pieno di Dio. Basterebbe, ricordare Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini, Cesare Balbo e Niccolò Tommaseo, Gino Capponi e Giuseppe Montanelli, Camillo di Cavour e Giuseppe Mazzini, e lo stesso Garibaldi. Il Barzellotti ha già illustrato, in uno dei suoi geniali cd eleganti saggi, il valore dell’idea religiosa negli uomini di stato del nostro Risorgimento (3): e le sue pagine andrebbero ben meditate dalla novella generazione che auspica una patria sempre più grande e più forte! Tornate, o giovani, alla scienza e coscienza dei nostri padri!
Soleva dire Lorenzo il Magnifico che chi non crede nella vita futura non sa vivere nemmeno in questa; e Giordano Bruno ammoniva in De V infinito, universo e mondi: « Il mondo facilmente si può avvedere di non poter sussistere senza religione... Gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre han faurito le religioni, perchè sanno che la fede si richiede per l’institutionc di rozzi popoli, che denno esser governati ». L’ateo Felice Le Dantec spontaneamente riconosceva e confessava, non ha guari, nel suo libro su L'Ateismo, gli effetti funesti dell’ateismo, se mai questo si propagasse a tutt’infiera la società: « une telle societé, formée exclu-sivement d’athées, finirait naturellement par une épidémie de suicide aneSthésique ».
Pur dichiarando ormai sorpassata l’età dèlia teologia e sopragiunta quella, del positivismo. Augusto Comte ebbe forse sentore della necessità d’un qualche vincolo arcano per la consistenza e l’incremento degli ordini sociali, e s’accinse a fondare... un nuovo culto dell'umanità con quei motivi e quelle sanzioni religiose, ch'egli illudevasi aver bandite per sempre nell’età teologica... E John Stuart Mill, riluttante a questo nuovo culto, nel medesimo saggio dove si proponeva dimostrare che la morale più non dipende dalla fede, non potè esimersi dall’appellare « religione » la supremazia dei sentimenti morali destinati a permanere come i più validi e più utili: «Chiamar questi sentimenti con l’esclusivo titolo di morale, è troppo poco. Essi sono una vera e propria religione!... » (4).
(1) Cfr. P. Leroux, De l’Umanité; D’une Religion nationale ou du culte du Christianisme cl de son origine démocratique, passim.
(2) B. Kidd, The Social Evolution, specie il capitolo sull’«Influenza sociale delle credenze religiose».
(3) G. Barzellotti, Dal Rinascimento al Risorgimento, pp. 148-195.
(4) J. S. Mill, Utility of Religion, p. roo.
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La religione, dunque, torna sommamente preziosa come vincolo sociale, come suprema moderatrice di pubblici costumi, come fiamma di purificazione e di entusiasmi in seno alla grande massa del popolo. È un criterio pragmatistico di valutare il fatto religioso; ma legittimo anch’esso, se assunto cum grano salis e con tutta sincerità. Ne hanno, ahimè, perfidamente abusato, quando, per esempio, s’è preteso far di Dio il gendarme, custode e vindice di troni e caste che opprimevano gli umili; quando, « promettendo il cielo », s’è tentato di « usurpare la terra »; quando, pur professando, per proprio conto, indifferenza, incredulità, materialismo, certi superuomini affettano una compassionevole tolleranza per la religione come per una « filosofia spicciola » che possa appagare l’ingenuo vulgo, o addirittura la s’invoca come unico possente freno per le plebi incivili e corrotte... Ignobile, e vile abuso; che, d’altronde, non ottiene gli effetti sperati; giacché, fatte ormai accorte, le moltitudini s’arrendon meno alle parole che agli esempi delle classi dirigenti. Ma è naturale e giusto che i savi governi abbian cercato e cerchino d’avvalersi del fattore religioso per mantener la pace, per inculcar la rettitudine dei costumi, diffonder la coltura, promuovere le opere pie, per rinvigorire, insomma, gl'istituti sociali, e a tal fine agevolino, nell’orbita della legge, l’illuminata e feconda attività delle Chiese. Ammonisce Gian Domenico Romagnosi, che la politica «deve protegger la religione fino a quel segno che il ministero della religione è realmente necessario al ministero della buona politica » (1).
A confermare l'asserto che un intimo nesso vincola l’una all’altra la religione e la morale, giova infine far parola dello sviluppo ch'entrambe hanno avuto pari passu, nel corso della storia, con un costante rapporto armonico.
Alcuni obiettano che in origine religione e morale furon termini distinti e totalmente fra di loro diversi; solo in seguito l’una sarebbe venuta ab externo a ricongiungersi all’altra, fortuitamente. Ma i più eminenti studiosi dell’antichità s’accordano nel riconoscere « che ogni buon costume dell’uman genere trasse la sua prima origine dalla fede religiosa e dal culto » (2). Fr. Max Müller mostra che anche i selvaggi hanno una loro morale ed una loro religione (3). Siamo noi a sbagliare allorché, prendendo a pietra di paragone le nostre attuali convinzioni, ci domandiamo se l’idea che gli antichi si facevano della divinità corrisponda ideale nostro, se i doveri che le primitive fedi imponevano ai loro seguaci corrispondano al nostro concetto del dovere; e, non trovando questa corrispondenza, concludiamo col negare ogni nesso fra l’antica moralità e l'antica religione. Il vero è questo, che le concezioni morali dei selvaggi sono altrettanto diverse dalle nostre, quanto dalle nostre son diverse le loro concezioni religiose! Ma è incontestabile il fatto che la moralità primitiva strettamente connettevasi con la primitiva religione, e che l’origine di
(1 ) G. D. Romagnosi, Assunto Primo della Scienza del Diritto naturale, § XXXVII-(2) D. Pfleiderer, Religione e Religioni, cap. II (trad, ital., edita dal Bocca). Confronta anche, dello stesso autore. Philosophy and development of Religion, ediz. inglese (di Wm. Blackwood and Sons, Edimburg and London).
(3) Fr. Max Müller, Lectures on the Origin and Growth of Religion, pp. 52-121.
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tutte le costumanze sociali e di tutte le legali ordinanze fa d’uopo rinvenirla nelle nozioni religiose e nelle pratiche cerimoniali. La consacrazione della famiglia ebbe principio dal culto: il focolare era l’ara, il padre era il sacerdote, che a nome della famiglia celebrava il rito in onore degli dei domestici. Il culto dei domestici lari o degli spiriti aviti era il vincolo ideale che univa i membri della famiglia in perenne comunione. Quando la moglie entrava in comunione di culto col marito, il matrimonio veniva sanzionato, elevato, cioè, da una mera relazione naturale ad una relazione morale con permanenti doveri e diritti.
L’autorità paterna aveva fondamento e limiti nell’ufficio del padre come sacerdote della famiglia; persino l’inalienabilità della proprietà domestica basavasi su religiose sanzioni. E come la religione del primo periodo limitavasi al culto dei lari, domestici, così la cerchia delle obbligazioni morali si restringeva alla famiglia; ma in questi angusti limiti la fede religiosa era il motivo dei sentimenti morali.
L'espansione poi della cerchia dei vincoli morali domestici in più generali legami di solidarietà seguì a mano a mano l’evoluzione delle idee e delle costumanze religiose. La solidarietà fra tribù e tribù, fra gruppi e gruppi di tribù poggiavasi sulla comunanza di riti e divinità. Il governo civile fu un prodotto della religione, e non della violenza o dell’agglomerazione. Il potere e l'autorità regale derivarono an-ch’essi dal culto: indi i re furon chiamati « prole di Giove ». Le antichissime leggi e le antichissime assemblee legislative eran ritenute come istituite per divina rivelazione e non per umane combinazioni; le leggi erano una sacra tradizione connessa a luoghi santi ed a pie leggende della comunità. La religione s’immischiava nelle azioni di guerra e di pace; regolava le usanze domestiche e cittadine, la mensa, le feste, le assemblee del popolo, i tribunali. Vita morale e vita religiosa erano una sola e medesima cosa: e nella stessa guisa che i motivi religiosi costituivan la base della moralità, così, fin dagl’inizi della civiltà, i principi morali, reagivan sulla religione, purificandola e raffinandola. In origine, a mo’ d’esempio, la religione non poteva elevarsi a nozioni ideali sulla natura della Deità, giacché gli uomini non avrebbero potuto assurgere alla conoscenza di ideali etici prima di pervenire essi stessi ad una qualche pratica ed esperienza sociale. Ma quando alcune fondamentali concezioni del giusto e dell'ingiusto si furon sviluppate, la Divinità venne naturalmente assunta a custode, garante, vindice dell’ordine sociale, a punitrice non solo delle trasgressioni strettamente religiose ma pure dei delitti civili; e dopo che gli dei vennero ritenuti rappresentanti del sacro ordine della giustizia, era altresì naturale che un analogo sentimento s’attribuisse loro, e che essi fossero considerati amici, promotori, esempio di tutto, ciò che i loro adoratori credevan buono e nobile. In tal modo si formò il concetto degli dei come ideali etici, e questa concezione, a sua volta, reag va sulla coscienza morale ond’era originata, e ritempravaia ed innalzavala a sempre più eletti sentimenti: flusso e riflusso, adunque, vicendevole azione e reazione. Ma tuttavia la religione avea piuttosto un carattere conservativo, tradizionale, mentre l’etica procedeva più libera, a seconda degl’immediati bisogni della vita e dei sempre più complessi organismi sociali: onde, a volte, si apriron delle breccie fra le antiche tradizioni religiose e le novelle correnti etiche, brecce dapprima in singole coscienze, poi in intiere generazioni; ed allora la mo-
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rale si scalzava dalle sue antiche basi religiose e cercavasi un fondamento autonomo nella natura umana. « Un carattere proprio della religione è quello di mantenere con grande tenacia idee ed usanze tradizionali. In ciò sta la sua forza, con tal mezzo essa dà stabilità, durata, consistenza alla fuggevole e varia vita degli uomini, ma ciò che è la sua forza è anche la sua debolezza. L’uomo nella sua aspirazione a procedere e a salire non può rimanere sempre incatenato alle vecchie tradizioni e ai vecchi statuti. Aprendo gli occhi e guardandosi attorno nel mondo, egli trova molte cose diverse da ciò che gli fu tramandato di generazione in generazione nelle pie leggende. La cultura della società si fa più complicata, l’operosità degl’individui più libera e più intensa, e così l’una e l’altra si spastoiano dalle rigide forme tramandate dalla religione. Non più gli usi e le fedi dei padri ; l’uomo stesso, la sua opinione, la preferenza individuale diventa misura delle cose. Questo mutamento non è per se stesso un miglioramento, anzi è più una perdita che un guadagno, ma pure è un passo importante dell’evoluzione spirituale così al tempo dei sofisti greci come nel rinascimento dell’evo moderno. Questa liberazione degl’individui dal dominio della fede e delle usanze tradizionali crea fra la religione e la morale un’opposizione che diventa poi una vera lotta... ». Così il Pfleiderer (i).
— Dunque — si obbietterà — se v’è lotta fra religione e morale, salta per aria la vostra tesi dell’intimo rapporto fra le due!
Rispondiamo: la nostra tesi riman più salda che mai.
i° Questi conflitti rappresentano singoli momenti, singole fasi della storia etico-religiosa dell’uman genere, non ne costituiscono l’essenza. La nostra tesi — del flusso e riflusso, della reciproca azione e reazione fra religione e morale — implica evidentemente che ora l'ideale religioso ed ora l’ideale etico siano all’avanguardia.
2° I conflitti non s’avverano punto fra tutti i credenti da un lato e tutti i moralisti dall’altro; nemmeno avvengono fra tutti i più eletti assertori della fede da una parte e tutti i più eletti assertori della scienza e idealità morale dall’altra parte: sono, piuttosto, conflitti di scuole, di gruppi.
3° Son molte volte dissidi, dispute, che non concernono principi fondamentali, essenziali, della religione, ma dottrine, interpretazioni di secondaria importanza.
4° Questa controvèrsia, questo urto d'idee e di sentimenti, questa lotta aspra, faticosa, assillante, è condizione sine qua non dell’ incremento morale e religioso delle genti umane. « La verità, senza la ricerca della verità, è mezza verità », diceva A. Vinet; e, prima di lui, il Lessing aveva detto: « Non la verità, della quale ognuno è in possesso, ma il sincero sforzo ch’egli ha fatto per giungervi determina il valore dell’individuo. Poiché non per il possesso della verità, ma per la ricerca di essa si svolgono sempre meglio le sue forze, nel che soltanto consiste la sua sempre maggiore perfezione. Il possesso rende inerte, pigro, superbo... Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo eterno impulso verso la verità
(i) O. Pfleiderer, Religione e Religioni; pp. 29-30 (trad. Giuliano; ediz. Bocca).
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e ancora con la condizione di dover andare errando per tutta l’eternità, e mi dicesse: — Scegli ! — io mi precipiterei umilmente alla sua sinistra sciamando : — Padre, ho scelto! La verità pura non è che per Te solo! ».
5° Questi antagonismi momentanei sono spessissimo dovuti ad equivoci dall’una e dall’altra parte, ad erronei esclusivismi, a dimenticanza di alcuni principi veri per mettere in evidenza soltanto qualche altro principio anch’esso giusto. Val la pena di riferire queste acute osservazioni del Pascal: «Il y en a plusieurs qui errent d'autant plus dangereusement qu’ils prennent une vérité pour le principe de leur erreur. Leur faute n’est pas de suivre une fausseté, mais de suivre une vérité à l’exclusion d’une autre. Il y a un grand nombre de vérités, et de foi, et de morale, qui semblent répugnantes et contraires, et qui subsistent toutes dans un ordre admirable. La source de toutes les hérésies est l’exclusion de quelques-unes de ces vérités; et la source de toutes les objections que nous font les hérétiques est l’ignorance de quelques-unes de nos vérités. Et d’ordinaire il arrive que ne pouvant concevoir le rapport de deux vérités opposées, et croyant que l’aveu de l’une renferme l’exclusion de l'autre, ils s’attachent à l'une; et ils excluent l'autre.... » (i).
6° Dopo tutto, quel che preme non è di salvare — attraverso i conflitti — l’autorità dei concilii, le formule dogmatiche, le organizzazioni ecclesiastiche, il prestigio delle caste sacerdotali. È il profondo sentimento religioso che deve rimanere saldo; il sentimento religioso inteso — secondo la definizione dello Schleiermacher — come sentimento di dipendenza da Dio. Or non sembra che questo sentimento religioso si vada estinguendo ! Federico Harrison, uno dei più agguerriti seguaci del Comtismo in Inghilterra, malinconicamente confessava: che il risultato di tutti gli attacchi contro l’Evangelo era stato di meglio impregnare della morale cristiana l’intiera società » (2).
Riprendiamo adesso la breve indagine sul simultaneo e correlativo sviluppo della religione e della morale.
Secondo l’Hegel lo sviluppo della coscienza religiosa genera dapprima la religione della natura, poi la religione dello spirito, quindi la religione dello spirito assoluto. L’Oriente è il momento delle religioni della natura; il mondo greco-romano è il moménto delle religioni dello spirito (inteso nel senso esteriore e superficiale della parola); il mondo cristiano è il momento della religione dello spirito assoluto, vale a dire della religione definitiva, alla quale la ragione umana non è finalmente pervenuta che dopo aver attraversato tutte le religioni inferiori. Il Cristianesimo è la religione verace, perchè consegue -l’unione di Dio con l'uomo. Il fine della vita universale, dice l’Hegel, è di dare allo spirito umano la convinzione d'essere una sol cosa con Dio. Nel Cristianesimo, religione perfetta, s’integrano e confondono la religione e la filosofia. Religione e moralità progrediscono insieme. La distinzione fra la religione e il mondo è semplicemente questa: « che la religione, come tale,
(1) B. Pascal, Les Pensées, seconde partie, art. XVII, § 13.
(2) F. Harrison, The Future of Agnosticism, nella Forthnightly Review del gennaio 1889.
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è la ragione nell’anima e nel cuore, cioè il tempio nel quale verità e libertà in Dio sono presentati alla facoltà intellettiva; lo stato, d’altra parte, regolato dalla ragione, è un tempio della libertà umana in quanto concerne la.percezione e volizione d’una realtà, il cui proposito può esso stesso chiamarsi divino. Così la libertà nello stato è preservata e stabilita dalla religióne, giacché l’attitudine morale nello stato è semplicemente l'attuazione di quanto costituisce i principi fondamentali della religione (i).
Il Bousset tratteggia invece il processo evolutivo religioso nelle fasi seguenti: religioni selvagge, religioni nazionali, religioni profetiche, religioni legalistiche e religioni di redenzione (2). Ad ognuno di questi momenti dell’evoluzione religiosa corrisponde analoga fase dell’evoluzione morale della società. Se all’epoca dell’animismo è quasi nulla la vita morale, a misura che si sviluppano le idee e i sentimenti religiosi si svolgono le relazioni sociali. La religione va man mano diventando un fatto della comunità, divien la base dei rapporti sociali. In questa fede comune gli uomini s’elevano a piò alti poteri. La vita religiosa — dice il Bousset — non è più il teatro dell’egoismo umano. Si svolge un impulso morale che invero si limita e restringe alla sola vita di tribù; nondimeno, l’idea morale comincia ad esistere. Il sentimento di solidarietà eleva la percezione degli obblighi positivi. È vero che quest'idea appare in forme orribili — vendetta di consanguinei, feudalismo di famiglia, sacrifici umani, etc. — ma tuttavia il sentimento d’assoluta adorazione pulsa in energie di vita sociale. La Deità ha potere — completo, regale potere: — e l’uomo deve obbedire. Con le religioni nazionali, poi, va formandosi la credenza che il destino dell’uomo, dopo mòrte, dipenda dalle azioni che questi compie in vita; e ognun vede di quanta importanza sia questo principio, per il buon ordinamento sociale, specie quando altre idealità non soccorrano all’umana fralezza. Qui la religione è legata alla moralità e ai doveri della vita nazionale. In guerra l’uomo sacrifica per la sua patria e i suoi dei. E gli dei controllano i diritti pubblici e privati; e l’uomo deve accostarsi all'altare con nette le mani e puro il cuore. Ma la morale è ancora riposta nelle osservanze cerimoniali, avvinta ai riti del culto. Ecco sopraggiungere l’età dei profeti (ottavo-sesto secolo avanti Cristo) ; ed ognuna di queste eminenti personalità protesta contro tradizioni, pregiudizi popolari, leggi, costumi, usanze vigenti, e, denunciando la corruzione delle caste sacerdotali e delle masse, proclama che Dio è un Sovrano d’assoluta giustizia e santità, entro e fuori il popolo d’Israele, e per amor di giustizia annichilirà il suo popolo traviato. L’ideale dei profeti non è più circoscritto all’ùnica, eletta nazione; le leggi della giustizia divina sono obbligatorie non solo in Israele, ma dovunque. Trionfa il monoteismo, la religione di spirito e verità? Non ancora, ma i profeti preparano la vittoria... La luce illumina le vette più alte; ma giù sui colli, sulle valli si stèndono ancora le
(1) G. W. Hegel, Philosophy of History, p. 335 della trad, inglese (The Colonial Press. London and New York).
(2) Wilhelm Bousset: is Religion? passini. Citiamo dalla traduzione inglese
di F. B. Low (ediz. G. P. Putnam’s Sons, New York and London, 1907).
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tenèbre... Segue un altro momento, quello dèlie religioni del legalismo. Riti e cerimonie sovrabbondano. Religione e giurisprudènza stringono adesso un’intima alleanza. La religione accenna ad assumer la natura d’un contratto fra Dio e l’uomo. E come la giustizia legale è per sua natura — almeno in pratica — casistica, e negativa più che positiva, così la religione assume il carattere di casistica, e minaccia di rovinare per l’eccesso di regole e specialmente di proibizioni. Tuttavia, qualche progresso si compie anche nell’ordine etico: una cultura maggiore — grazie alla necessità di leggere, meditare, interpretare, predicare le norme della Legge sacra, — una sempre maggiore preoccupazione della vita futura e del giudizio finale, un sempre più vivo desiderio di un ideale unico, armonico, supremo che trascenda gli angusti limiti della vita presente. Ed eccoci alle religioni di redenzione (i). Col Buddismo è. il Platonismo la religione s’innalza ad altezze di puro spiritualismo e interiorità, ad idea di unità ed entità, spezzando e oltrepassando i limiti del nazionalismo, e divenendo internazionale nei suo carattere. Ma nel Buddismo il sumimim bonum è il Nirvana, liberazione dall’esistenza, nel Platonismo è l’elemento intellettuale della vita; per l’uno la vita ideale è quella del monaco, per l’altro è quella del filosofo: per entrambe, l’allontanamento dalle cure quotidiane del mondo. E vedete come l’insufficiente idealità etica trovi riscontro in una insufficiente idealità religiosa. Con la completa o quasi completa negazione della vita umana si dilegua la concezione vitale della Divinità. Quando l’io umano s’affievolisce o dispare, s’affievolisce e dispare con lui l’Essere divino. Nel Platonismo il concetto del Divino è tutto mistico ed astratto; nel Bramanismo Dio diventa l’Essere universale, indefinibile, in opposizione all’esistenza individuale ch’è necessariamente penosa; nel Buddismo il concetto di Dio è abbandonato interamente, l'obietto della fede dileguandosi allorché svanisce la personalità del credente. In entrambe le religioni l'elemento etico è relegato in posizione inferiore. Per entrambe, l’ostacolo non è nel male morale, ma nel mondo esso medesimo. 'Manca perciò l’efficacia d’azione etico-religiosa (2). Dove, per contro, l'idea di redenzione si congiunge all’elemento etico, la forma perfetta di religione è Conseguita, siccome vedesi nel Cristianesimo che precisamente risponde ai due bisogni dell’umana coscienza. Gesù stringe intimi vincoli tra religione e morale. Insiste sulla possente concezione d’una vita avvenire e d’un giudizio supremo, spogliandone il concetto da ogni pregiudizio di sètta', di ritualismo, di nazionalismo. Il giudizio non si basa sulle opere, ma sui motivi. La fede nella paternità divina implica rapporti tra padre e figli: i figli han da essere
(1) Questa classificazione del B., che a prima vista sembra soddisfacente, non resiste ad un attento esame. Le religioni di redenzione sono molto diverse secondo che ascrivono la redenzione ad un processo tutto proprio delle anime o all'azione d’un salvatore personale, e non si possono conglobare in una classe. Poi, non vi sono anche le religioni di contemplazione i o meglio non c’è una religione superiore alia quale arrivano le anime elette ¿Ielle varie religioni, e che forma un’entità a sè quantunque non abbia un suo proprio culto e un proprio nome? La formazione di questa religione superiore è uno dei fenomeni più notevoli della coscienza e della storia religiosa degli ultimi tempi.
(2) W. Bousset, What is Religioni cap. VI.
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perfetti come il loro Padre celeste. Implica altresì relaxioni di fratellanza fra tutti i figliuoli, cioè reciproco amore. L’Evangelo ci sospinge verso la solidarietà della vita sociale, verso la comunanza di vita spirituale che trascende i secoli. Il Cristianesimo rispetta i due principi dell’individualità e della solidarietà sociale, integrandoli l’uno nell'altro. L’assemblea dei credenti è il tempio sacro nel quale aleggia lo Spirito di Dio. Ónde — concludiamo col Bousset —il Cristianesimo è religione eminentemente etica, che si accentra nell’idea di giustizia animatrice di volontà; che, mirando ad una vita superna, non dispregia tuttavia la presente, anzi fa di questa il vestibolo e la preparazione di quella (i).
L’Hòffding distingue due fasi principali dell’evoluzione religiosa: religioni di natura e religioni etiche; ma fra quelle e queste intercede una moltitudine di forme mediane. Osserva che anche le religioni naturali hanno una loro etica, giacché impongono all’uomo definiti doveri. L’uomo, che deve obbedire alle divine possanze, le quali esigono cerimonie e sacrifici in loro onore, passa per un tirocinio d’obbedienza e di auto-vigilanza, ed apprende a subordinarsi altrui, mentre acquista un più vasto orizzonte alla propria esistenza. Ma nelle sue età classiche la religione somministra all’uomo tutta intera la concezione e valutazione dell’esistenza, e gli dà una morale completa, indicandogli i più alti ideali del pensiero e del volere, offrendogli esempli, formulandogli regole e leggi: l’etica, allora, si fonda sopra una storia sovrannaturale. Ed anche l’Hòffding, studiando le relazioni fra etica e religione nel loro storico sviluppo, trova un costante processo di azione e reazione, sì che non solo la religione influisce sull’etica, ma, inversamente, lo sviluppo morale dell'uomo reagisce sul carattere e sul contenuto della sua religione (2).
Un altro insigne indagatore del fatto religioso, Eduardo Caird, è ancora più esplicito nelle sue conclusioni: « Il rapporto dell’uomo con Dio è inevitabilmente concepito come fondamento d’un rapporto sociale fra lui ed i suoi simili, — rapporto sociale che immediatamente gli determina le. pratiche obbligazioni vicendevoli fra tutti e singoli gli uomini. In tal senso possiamo dire che, quale è la religione dell’uomo, tale è la sua moralità (In this sense, we may say that, as is a man's religion, so i§ his morality) » (3).
Senonchè là testimonianza della storia ha, nel caso nostro, un valore, se pur grandissimo, non decisivo. La vita umana non è sviluppo meccanico, ma dinamica evoluzione: i nostri destini ulteriori non sono a priori scritti nella storia nostra passata, come a priori può descriversi la traettoria d’un punto le cui condizioni di movimento son determinate. Quando trattasi dei fatti dello spirito, quel ch’è stato è solo un’inadeguata misura di ciò che può essere o dev’essere. Non basta, dunque, per stabilire gli essenziali rapporti tra morale e religione, considerare e interpretare la storia di quei rapporti, ma occorre un'indagine più profonda e filosofica.
(1) W. Bousset, What is Religion?, cap. VII ed Vili.
(2) Harald Hòffding, The Philosophy of Religion, cap. IV. (Citiamo la versione-inglese di B. E. Meyer, edita dalla Mac Millan Co., London).
(3) Edward Caird, The Evolution of Religion, vol. I, lecture ninth.
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li.
Indagine gnoseologica.
Passiamo allo studio gnoseologico della questione.
È l’Etica una scienza indipendente, fondata solo sulle nostre intuizioni morali, ovvero involge pure delle concezioni speculative, religiose?
Qualsivoglia teoria ateistica o materialistica, spinta all'ultime sue conseguenze, induce a disperante scetticismo; e nel generale sconvolgimento della ragione, implicato nell’ateismo, l’Etica partecipa anch’essa alla sorte disastrosa. L’automatismo sottinteso nelle dottrine atee risulta fatale all’Etica, giacché non si comprende come ad un automa s’impongano doveri, e com’ei possa adempirli, o come possa esimersi dal compierli, e come nell’un caso e nell'altro possa ritenersi responsabile.
Nondimeno alcuni sostengono che il dovere è indipendente da ogni postulato teistico. A loro avviso, i giudizi morali, come gli estetici, non dipendono necessariamente dal problema della libertà, e, come indipendentemente da questo problema, si determina ciò ch’è belio e ciò ch’è brutto, si può del pari determinar ciò ch’è buono e ciò ch’è male. Ma, rispondiamo, l’Etica non riguarda solo una serie di giudizi morali, ma pure un sistema di norme da osservare, l’osservanza delle quali è merito e la trasgressione demerito, e pertanto il presupposto della libertà umana v’è assolutamente necessario. Se ci si obietta che i fatti umani si giudicano per quel che valgono, a prescindere dal modo onde avvengono, e il nostro giudizio sulle persone non è perciò condizionato dal presupposto della loro libertà, — replicheremo che tali giudizi si pronunciano secondo un duplice criterio, quello di perfezione e quello di capacità, ed è secondo quest’ultimo criterio che la colpevolezza o l’innocenza dell’agente vien dichiarata. Per quanto imperfetto un individuo sia, egli non può esser tenuto responsabile per ciò che trascende i limiti della sua capacità — nemo ultra posse tenetur; — sicché rimane insoddisfatta la triplice domanda: Come può un automa avere degli obblighi? E come può adempirli, se necessità lo incalza verso altra direzione? E se pur necessità lo preme all’adempimento di quei doveri, come potrebb’egli esimersi dall’osservarli? E ancora: quale poi è la causa di tanto divario morale fra l’uno e l’altro automa?
Di queste ovvie considerazioni non si preoccupano gli avversari, e insistono nel dichiarare che i doveri sorgono dalle concrete relazioni della nostra esistenza at-
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tuale, e nessuna teoria speculativa li modificherebbe (i). E sotto un certo aspetto, questa tesi ha del bello e del giusto.
L’Etica consta di generici principi morali e insieme di concezioni ideali che condizionano l’applicazione di quei principi. I principi morali (giustizia, benevolenza, e simili) si fondano direttamente sul nostro intuito etico e, almeno in astratto, non abbisognano d’altra base. Nell’imprudente lor zelo certi sostenitori dell’Etica religiosa han confuso l'esterna sanzione « indispensabile ad assicurar l’obbedienza esteriore », con la sorgente stessa dell’obbligazione morale, asserendo che, negata la sanzione, anche l’obbligazione cesserebbe. Essi non hanno badato al fatto che la sola esteriore obbedienza non fa la vera obbedienza morale; ed han così provocato sdegnose critiche degli avversari. I quali, peraltro, proclamando l’assoluta autonomia della morale, non han rilevato che, in pratica, e per esseri umani nell’attuale stadio di sviluppo, l’argomento della sanzione esterna può assumere un gran valore, come il comminar di pene per i trasgressori delle leggi comuni. In tal guisa il dibattito sul problema della vita futura nei suoi riferimenti etici è stato viziato da concezioni unilaterali e incomplete, gli uni proclamando l’onnipotenza dei puri principi e ripudiando ogni « vìi calcolo di conseguenze », gli altri tesoreggiando le supreme retribuzioni come unico fine e motivo di condotta.
Ed ecco un altro tema di controversia: da una parte si esalta il magnifico contributo del Cristianesimo alle dottrine etiche ; dall’altra recisamente si nega tal contributo. E in proposito convièn riconoscere il torto di certi cristiani dalle ubbie ascetiche. Ubbie dovute • o ad una reazione all’epicureismo invadente, ovvero ad una erronea interpretazione dell’insegnamento biblico sull’incomparabile valore dell’anima, ovvero anche alla feroce, presentissima ironia della morte che dilegua d’un soffio le più dolci speranze terrene, che infrange le più amorose costruzioni delle nostre fatiche diuturne. Allora si diserta dal mondo pieno d’inganni e tentazioni, s'evita allora ogni cura della vita quotidiana, si sfugge a tutti gli obblighi dell’organismo sociale e politico. Il mondo è perverso, la politica corrompe e fa nausea: non v’ha speranza e salvezza che in una sovrannaturale irruzione dall’alto... Riflessioni di tal sorta hanno spesso ridotto i credenti in disutili cittadini ed inetti membri della società.
Tornando alla questione teorica, i principi formali di condotta potranno, forse, reggersi da soli, a prescindere da ogni supposto religioso,.come tante altre concezioni del nostro intelletto; in pratica, però, la condotta umana dipende non solo da principi formali, ma anche da concezioni ideali che condizionano l’osservanza di quelli. L’impossibilità di costruire una salda scienza etica senza costruire insieme tutta una filosofia che abbia «carattere e valore.definitivi », l’ha ben dimostrata il Va-risco. « La morale — egli dice — implica la determinazione di ciò che valgano la vita e la morte, l’uomo in relazione col tutto, il tutto; consiste in essa determinazione... I problemi della metafisica, i problemi della morale, in sostanza non differiscono: sono i massimi problemi » (2). I pratici risultati della condotta umana
[1) Cfr. Louis Buchner, Force et Matière, ch. XXVI.
¡2) B. Varisco, I Massimi Problemi, cap. su • Morale e Metafisica ».
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dipendon non meno da quelle concezioni ideali che dai principi formali. Se Platone potè scrivere mirabilmente intorno al giusto ed al buono.e tuttavia ammise l’infanticidio e l’uccisione dei vecchi e degli invalidi, se Aristotele lasciò indelebile orma nel campo delle indagini etiche, e tuttavia sostenne il diritto di contrattare e mantenere gli schiavi, fu perchè essi ebbero una inadeguata filosofia dell’uomo, una inadeguata concezione del valore e dei destini della persona umana. Senza un alto ideale della dignità umana, i diritti dei singoli, e specie degli umili, non avranno il loro inviolabile carattere sacro, e vani riesciranno gli sforzi per l’incremento individuale e sociale; tutti, infatti, i più magnifici moti di riforme umanitarie comin-cian sempre dall’affermazione d’un più alto concetto dell’uomo e de’ suoi destini. Ma il valore e i destini della vita umana dipendono dalla generale concezione che ci facciamo dell’universo. Se riteniamo che il mondo dipenda da una forza cieca e che tutte le cose spariranno un giorno nell’infinita vanità del tutto, l’uomo non diventa altro, per noi, che un effimero prodotto della natura, privo d’ogni nobile missione o destino; e la mutua commiserazione sarà, tutt’al più, la quintessenza della nostra morale. Se crediamo che la vita umana termini con la sua fase terrena, la nostra volontà perde la sua più viva inspirazione e il suo impulso più potente, checché ne dica il Feuerbach (1), non tanto perchè un’altra vita occorra per la retribuzione delle opere compiute in questa, quanto perchè altrimenti ogni cosa diverrebbe per noi frammentaria, insignificante. La continuità della vita è necessaria per dar senso alla vita, per nobilitare scopi e speranze, per vivificar le energie e rinvigorire gli sforzi all'attuazione degl’ideali supremi. L’uomo ha bisogno di proporsi fini degni d’esser conseguiti a costo d’ogni travaglio spirituale, e questi fini dipendono dal significato e dal destino che si attribuiscono alla vita; il conseguimento stesso di questi fini dipende in buona parte dal concetto che ci formiamo dell’universo, della struttura dell’universo! I fini che ci proponiamo sono, in altri termini, implicati nella nostra teoria della vita e dell’esistenza, vale a dire nelle nostre concezioni religiose e speculative. È vero che Socrate fondò la morale sull’osservazione dell’uomo; ma Socrate era un’anima profondamente religiosa. Credeva l’uomo in immediata comunione col Divino; credeva a leggi divine, di cui le leggi umane non sono che imitazione, e scrutare la natura umana era per lui non un allontanarsi dagli dei, ma un accostarvisi. Onde possiam dire col Boutroux, che la morale come scienza è stata messa implicitamente del suo fondatore sotto l’invocazione della Provvidenza divina (2). Bene osserva il Wundt, che quando l’Etica imprende a tracciare le supreme e perenni sorgenti della moralità, invece di limitar la sua attenzione alle forme puramente individuali ed ai fenomeni esteriori, deve riconoscere che la più duratura fra le fonti dell’azione morale, quella che determina la direttiva di tutti gli sforzi individuali e sociali, è l’aspirazione ad un ideale, a cui la realtà creata dall’azione
(1) L. Feuerbach, Trenta Lezioni, sulla Essenza della Religione, lez. XXX.
(2) W. Wundt, The Principles of Morality and the Departments of the Moral Life. Cfr. il cap. sulla cultura intellettuale. (Citiamo dall’ediz. inglese: Swan Sonneschcin and Co., London).
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morale si avvicina, ma che non realizza giammai. L’ideale così diviene trascendente, e pur sempre immanente nello spirito umano mediante gl'impulsi morali; ed è la religione che rappresenta il trascendente ideale etico in una forma corrispondente all’attuale stadio della moralità ed alla cultura dell’intelletto (1).
Ed eccoci ad una difficoltà gravissima, quando si tenti di costruire un qualunque sistema etico. Il grande ostacolo è lo Scoraggiamento generale, è l’assillante dubbio se, nelle circostanze della vita nostra, alcun risultato convenevole si possa mai conseguire. La vita è breve ed uggiosa. Sì, è possibile qualche virtù spicciola, se non si mira al di là dell’esistenza cotidiana; ma quando si va in cerca d’uno scopo supremo che dia senso e dignità alla vita e la renda degna d’essere vissuta, allora comincia l’imbarazzo. Già l’uomo stesso è uno spettacolo desolante. Com’è meschino in confronto d’un modello ideale! Per quanto lo si scruti, l’uomo — qual’è veramente — non offre motivo d’inspirazione, non promette nulla di bene. Ricordate la triste confessione 0 riflessione di Giuseppe De Maistre? «Je ne connais pas le coeur d’un scélérat, je ne connais que le coeur d’un honnête homme, mais c’est affreux! ». È troppo severa la sentenza del De Maistre ? Ma anche il Pfleiderer, più sereno, si domanda se gli uomini — come si esibiscono in esperienza — sian davvero così amabili da render facile di amarli incessantemente, di spender tutte le proprie energie pel loro bene, e di compiere per essi i più grandi sacrifici... (2). Neppur l’immenso ordine cosmico par costruito a fini morali, anzi sembra indifferente c persino avverso a fini morali. Tommaso Huxley, che volea sostituire la natura a Dio e « nei metodi del cosmo fisico cercare una sufficiente sanzióne alla morale », confessava egli stesso, nella medesima opera e nel modo più franco, il fallimento dello sforzo scientifico «di rendere intelligibile l’esistenza e ridurre l’ordine delle cose in armonia- col senso morale dell’uomo » e parlava dell’ « impenetrabile ingiustizia della natura delle cose » (3). E fu proprio lui, Tommaso Huxley, che pose in evidenza
(1) E. Boutroux, Morale et Religion, in Revue dec deux Mondes, sett. 1910.
(2) O. Pfleiderer, Philosophy and Development of Religion, lecture II. L'Autore stesso risponde: « Può amar gli uomini d’un amore perenne ed energico colui solo che guarda non alla mera realtà che gli si presenta dinanzi agli occhi, non alla realtà comune, ma crede all’indistruttibile elemento divino nell’uomo; ma cerne si può credere al divino «e/Z’uomo, senza la fede nel divino che è superiore e precedente all’uomo, lo spirito eterno, dal quale e mediante il quale ed al cui fine sono tutte le cose?... » (p. 62).
(3) Th. Huxley, Lectures on Evolution and Ethics, pp. 8 e 12. Anche George Romanes, quando accolse le teorie evoluzionistiche, che in sulle prime sembravano dovessero sconvolgere dalle basi il credo cristiano, malinconicamente espresse la profonda crisi che gli dilaniava l’animo- « And forasmuch as I am far from being able to agree with those who affirm that the twilight doctrine of the " new faith " is a desiderable substitute for the waning splendour of “ the old ’’, I am not ashamed to confess that with this virtual negation of God the universe to me has lost its soul of loveliness; and although from henceforth the precept to " work while it is day” will doubtless but gain an intensified force from the terribly intensified meaning of the words that " the night cometh when no man can work ", yet when at times I think, as think at times I must, of the appalling contrast between the hallowed glory of that creed which once was mine, and the lonely mystery of existence as now I find it, at such times I shall ever feel it impossible to avoid the sharpest pang of which my nature is susceptible... I cannot but feel that for me, and for
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l’irreducibile contradizione fra progresso sociale e processo cosmico, e dichiarò che l’esercizio della bontà e della virtù—di ciò che eticamente vale di più — implica una linea di condotta che per ogni rispetto s’oppone alla via che mena al successo nella cosmica lotta per l’esistenza, sicché la storia della civilizzazione è il ricordo delle tappe onde gli uomini son pervenuti a costruire un mondo artificiale entro l’universo cosmico ! (1). Che se pure egli cadde nell'esagerazione dicendo che il processo cosmico non ha relazione alcuna col processo etico, dimostrò chiaramente, non di meno, che i due processi non sono identici affatto.
Ma chi riconosca il dualismo fra natura ed etica, ovvero deve seguir l’atteggiamento degli agnostici e dichiarar che le basi dell’etica sono inesplicabili, essendo il mondo cosmico contrario al mondo morale, ovvero ha da cercare un’altra spiegazione del fatto morale, e tentare di rispondere alla domanda dello Spencer: Se l’uomo etico non è un prodotto del processo cosmico, di che mai sarà il prodotto? (2). Ora, la soluzione agnostica è assurda, perchè è assurdo aspettarsi dall’ignoto e dall’inconoscibile alcuna inspirazione alla vita morale; e si comprende, così, che tante anime fervide, ma prive del raggio della fede, precipitino in desolante pessimismo. Non v’è rimedio, se non in qualche presupposto religioso. Se la natura è cieca, indifferente, capricciosa, amorale, non v’è speranza Che nell’azione sovrannaturale, nella causa creatrice che — useremo parole di Vincenzo Gioberti — in ogni istante della vita cosmica, conservando l’esistenza delle forze create, attuandole con un primo impulso, e a sè come fine ultimo indirizzandole, le muove e rapisce in giro, ponendo il loro esito colà dov’è il loro principio, cioè in se stessa (3).
Nè ci si voglia confutare con l’asserto che la virtù è premio a se stessa, perchè questa obiezione ci ricorda un'altra difficoltà che sorge nel campo dell’etica: difficoltà dovuta al fatto che noi siam sottoposti a due leggi, quella del dovere e quella della felicità. I dettami della coscienza non sono sempre quelli della prudenza. In molte critiche contingenze, la scrupolosa rettitudine non par savia, e un compromesso sembra più accorto di una coerente rigidezza. Sovente il bene del singolo non coincide con quello della maggioranza: perchè allora immolarsi all’altrui vantaggio? Avere un cuore troppo sensibile alle altrui pene, cedere ai generosi impulsi della coscienza e rintuzzare l'iniquità che prevale, vivere in contemplazione e in sete di purissimi ideali, affannarsi pel rilevamento del prossimo, — ah, non questo è il segreto per goder l’agio e la quiete. Agio a quiete s’ottengon più presto nella pratica d’un giudizioso egoismo e d’una sottile furberia!
others who think as I do, there is a dreadful truth in those words of Hamilton, philosophy having become a meditation not merely of death but of annihilation, the precept know thvself has become transformed into the terrific oracle to Oedipus: " Mayest thou ne’er know the truth of what thou art. ” (Cfr. The life and Letters of George John Romanes, written and edited by his wife: Longmans, Green and Co., London, 1896; pp. 83-84). II Romanes, corn’d noto, si riconciliò più tardi con « l'antica fede ».
(1) Ibid., 33.
(2) Cfr. Athenaeum, 5 agosto 1893.
(3) V. Gioberti, bel Buono, c. VII.
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Senza dubbio il successo esteriore de’la legge non sembra essenziale all’idea stessa di questa legge; e l’uomo onesto, in quanto concerne il suo personale benessere, potrebbe non preoccuparsi di questa antinomia tra la propria felicità e il dovere. Ma egli non- può disinteressarsi della felicità 'altrui, e non può non volere il conseguimento d’una certa relativa perfezione per la società umana. Se il genere umano dovesse viver sempre in balia di bassi e feroci istinti, di cieche e crudeli forze naturali, anche i più moralmente forti tra gli uomini, anche quelli più sinceramente devoti alla legge del dovere, sgomentandosi della vanità dei propri conati, verrebbero a perdere le energie necessarie al proseguimento della loro missione. A che vale soffrire e lottare, se la sofferenza e la lotta non possono ottenere nessun risultato? La fede nel trionfo della virtù è condizione fondamentale per divenire e rimanere virtuosi. Ma credere nella virtù significa credere che la virtù esista nel , mondo e vi operi con efficacia; significa credere che l’universo sia sottoposto al principio del bene e non al principio del male. La virtù è la conformità alla legge, ossia all’ordine universale delle cose; ma siccome è proprio dell’ontoti il compiere gli esseri che vi si conformano appagandone le. sacre aspirazioni, cosi la virtù dovrebbe necessariamente menare alla felicità: questa sarebbe dunque subordinata a quella come un effetto alla causa, come un conseguente al suo antecedente. Il fine ultimo, a cui vanno rivolte le libere nostre azioni, dovrebb’essere la perfetta virtù come dovere imposto dalla legge morale, e la beatitudine come necessaria se pur non immediata conseguenza della virtù. Per tal guisa la virtù, sebbene associata alla beatitudine, serberebbe tutta la sua dignità e tuttodì suo pregio incondizionato, assoluto, perchè seguita non per ragion della conseguente felicità, ma come un dovere emergente dall’ordine universale;-laddove la felicità, voluta non per se stessa ma Come conseguenza della moralità, avrebbe solo un pregio condizionato e relativo. Virtù che non meriti ricompensa di beatitudine è, secondo il Gioberti, una contraddizione: l’idea di virtù importa quella di un perfezionamento compiuto, e noi sentiamo che la felicità si richiede alla nostra piena perfezione (1).
Più l’uomo si sviluppa nelle sue potenze spirituali, e più anela alla conquista del vero e alla effettuazione del bello e del bene, mentre nessuna vita limitata può bastare ad un simile compito. L’esperienza poi dimostra che noi abbiamo tal bisogno di attività e di progresso, tal bisogno di esprimere il nostro essere, che nessuna occupazione presente può soddisfarlo: indi gl’innumerevoli propositi che riempiono la vita nostra più e meglio che non la riempiano l’opere nostre, e in mezzo ai quali viene a sorprenderci lo spettro della morte. Ecco un’altra delle angoscianti contraddizioni della vita!
Ora, se noi possiam presumere che il vantaggio collettivo e quello de’ singoli è in fondo in fondo una sola e medesima cosa, talché il consacrarsi al común bene mena al più alto bene individuale, resta eliminato il dissidio tra il corso della vita e la nostra natura morale. Se parimenti possiam presumere che la rettitudine, in
(x) V. Gioberti, Meditazioni filosofiche inedite, p. 243 (Barbera, Firenze, 1909).
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ultima analisi, coincide con la prudenza e la sicurezza, la nostra natura etica riman soddisfatta nelle sue aspirazioni, giacché la prima esigenza dell’etica è di essere razionale, e non vi può esser dovere che trascenda il vero interesse dell'agente. Che se la legge morale è troppo vasta per l'esistenza visibile, ovvero dobbiamo ampliare la vita p.er attuare la legge, ovvero dobbiam ridurre la legge e adattarla alla vita. Da queste difficoltà sorgono le antinomie della coscienza; le quali si manifestano, in primo luogo, nel rapporto del benessere individuale col benessere collettivo, e in secondo luogo nel sacrificio del bene visibile.
Riguardo alla difficoltà implicita nel primo punto, poiché l'immoralità assume ordinariamente la forma dell’egoismo, l’etica mette in evidenza il dovere dell’abnegazione, ma non sempre con l’opportuno discernimento. L’egoismo così funesto all'etica sta nel considerare gl'interessi altrui solo in quanto servono al nostro proprio interesse e nel sacrificare gli altri al nostro vantaggio particolare. Ma non va neppure negletto, d'altro lato, l’interesse del singolo. L’individuo che non si cura del bene collettivo è meritevole di biasimo, ma ugualmente egoistica e odiosa è la tesi che vorrebbe sacrificare l’individuo alla società: l’unica concezione che appaghi è quella del bene comune, al quale tutti cooperino e del quale tutti godano. La maggiore felicità di tutti è il più nobil fine dell'azione individuale, purché questa felicità collettiva sia compatibile con quella d’ogni singolo individuo; e se appare un’essenziale opposizione fra l’una e l’altra, nessuna teoria può pretendere che il singolo si sacrifichi per i molti, ma ognuno ha diritto di provvedere alle proprie esigenze purché non danneggi il suo prossimo. Il qual partito si giustificherebbe non con l’egoistico desiderio di garentire l’individuo, ma colla morale avversione ad un cosmo in cui il bene dei molti non si concilia col bene del singolo. La solidarietà sarebbe dovere sacro in un mondo ove fosse realmente possibile il bene di tulli; non in un mondo dove questo bene di tutti fosse inattuabile. E che dir poi, quando, per un malinteso vantaggio della maggioranza, si pretendesse domandare ad un individuo di compiere un’azione degradante?
Ma se noi possiam presumere che la vita terrena non è tutto, e che i più veri e maggiori interessi di tutti sono riconciliati e garantiti nell’essenziale struttura dell’universo, la difficoltà è sormontata. Allora il vantaggio comune diviene vantaggio del singolo, l’individuo non è più sacrificato alla società, la società non è più la sfruttatrice dell'individuo. Gli ostacoli derivanti dal fatto della morte sono altresì rimossi, e il sistema cosmico, allora, non sembra più essenzialmente irrazionale e amorale. I profetici presentimenti dell’intelletto, della coscienza, del cuore non sono allora smentiti. Dice John Fiske: «Quanto più profondamente noi comprendiamo quél processo dell’evoluzione onde le cose son pervenute ad essere quali sono, tanto più noi sentiamo che negar l’immortalità dell’elemento spirituale dell’uomo gli è spogliare del suo significato l’intiero processo... Io credo, per parte mia, nell’immortalità dell’anima, non nel senso nel quale accetto le verità dimostrabili della scienza, ma come un supremo atto di fede nella razionalità dell’opera divina »(1).
(1) J. Fiske, Man’s Destiny, p. 115.
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E il Fiske, ci sembra, ha ragione. Alcuni ritengono che l’essenza della religione sia la fede nella vita avvenire, nell'immortalità dell'anima, e che nessuno penserebbe a Dio se non per la speranza d’ottenere il Paradiso. Ma è l’opposto: per il vero credente, Dio è tutto, e il Paradiso non è che una conseguenza della giustizia e della bontà divina. E qui è il vincolo della religione con la morale. Se anche la religione non fosse la base teorica della morale, sarebbe la condizione della sua efficacia. Emmanuele Kant ha ben compreso questo vincolo, facendo dell’esistenza di Dio un postulato della morale. La legge morale implica il presupposto che il mondo possa conformarsi ad essa. Ma come sarebbe questo possibile, se il mondo fosse l’effetto d’una cieca necessità? « È dovere per noi promuovere il sommo bene; e quindi è non solo un diritto, ma anche una necessità legata come bisogno col dovere, supporre la possibilità di questo sommo bene; il quale, avendo luogo soltanto Con la condizione dell’esistenza di Dio, lega inseparabilmente la supposizione di questa esistenza col dovere; ossia è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio » (i) « Possiamo — dic’egli altrove, — possiamo dunque supporre un uomo onesto (come per esempio Spinoza), il-quale sia fermamente convinto che Dio non esiste, nè esiste una vita futura (perchè circa l’oggetto della moralità la conseguenza è identica); come giudicherà egli la sua destinazione interna mediante la legge morale che egli operosamente onora? Dall’osservanza di essa egli non desidera per sè alcun vantaggio, nè in questo mondo nè in un altro; vuole anzi effettuare soltanto quel bene, cui quella santa legge dirige tutte le sue forze. Ma il suo sforzo è limitato; e se dalla natura può aspettarsi un concorso accidentale, non può mai sperare un concorso legale e regolarmente costante (come sono, e debbono essere, le sue massime interne a vantaggio dello scopo che egli si sente obbligato e spinto ad attuare. La frode, la violenza, l'invidia dominano sempre intorno a lui, sebbene egli sia onesto, pacifico e benevolente; e gli onesti, che ancora gli è dato d'incontrare, malgrado tutto il loro diritto d’esser felici, sono sottoposti dalla natura, che non fa f ali considerazioni, a tutti i mali, alla miseria', alle malattie e ad una morte prematura, come gli altri animali della terra, finché un vasto sepolcro li inghiottisce tutti insieme (onesti o disonesti, non importa), e li rigetta, essi che potrebbero credersi lo scopo finale della creazione, nell’abisso del cieco caos della materia, da cui erano usciti. Sicché quest’uomo di buoni sentimenti dovrebbe abbandonare assolutamente come impossibile quello scopo che, seguendo la legge morale, aveva, e doveva avere, davanti agli occhi; o, se vuol restar fedele ancora, alla voce della sua destinazione morale interna, e non vuole indebolire il rispetto che gli ispira immediatamente la legge morale, ritenendo vano l’unico scopo ideale adeguato alla sua alta esigenza (ciò che non può avvenire senza scapito del sentimento morale), dovrà ammettere, il che è possibile, perchè almeno non è contradittorio, dal punto di vista pratico, cioè per farsi almeno un concetto della possibilità dello scopo finale che gli è moralmente prescritto, Pesili) E. Kant, Critica della Ragion pratica, p. 148 (ediz. Laterza).
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stenza di un autore morale del mondo, cioè di Dio » (x). Così, secondo il filosofo di Konisberga, la religione è la condizione sine qua non della moralità.
Se non che, Emmanuele Kant non ammette che l’esistenza di Dio debba esser ritenuta come principio d’ogni obbligo in genere « poiché questo principio si fonda soltanto sull’autonomia della ragione stessa » (2). Che sia manchevole, a tal riguardo, la concezione kantiana, ci sembra evidente, perchè — se Dio è il nostro creatore e se, nella vita futura, sarà lui il nostro giudice, egli ha da esser pure il nostro presente legislatore. Altrimenti il giudice (Spirito assoluto, infinito, onniscente) dovrà giudicare in base a leggi dettate dall’uomo (creatura finita ed imperfetta), il che ripugna. Eppoi: come può essere autonoma la volontà nostra? Se 1’« io », soggetto dell’attività morale, obbedisce, non può essere lui stesso che comanda, e bisognerà cercare più in alto il fondamento dell’imperativo categorico, il quale non vien certo dall’« io », ma dal « non-io ». Ancora: donde possiam noi ricavare l’ideale di perfezione? Non da noi medesimi, perchè il proporci un ideale di perfezione implica appunto che noi siamo imperfetti e che dobbiamo affaticarci a conseguir la perfezione. Non possiamo trarlo dall’umanità; poiché, se son cattivi gl’individui, non potrà esser migliore la specie: molte imperfette copie addizionate non possono creare la perfezione! Esisterebbe codesto ideale, astrattamente, nelle sfere metafisiche? Ma nessun concetto si forma senza un essere intelligente che lo produca. La perfezione implica una personalità perfetta, vale a dire che non la si può comprendere indipendente da Dio.
La dottrina kantiana dell’autonomia della vita morale è nondimeno giusta in quanto esige un rapporto intimo, e non esterno, tra il legislatore e chi adempie la legge. Dio e l'uomo devono essere, nella loro essenza, una medesima cosa. Dio, — fonte e principio supremo, alfa ed omega della vita morale, — è la personalità eternamente perfetta, alla cui imagine l'uomo è stato creato, ed a cui deve tendere di continuo. Il compianto Giuseppe Allievo poneva a fondamento del suo sistema antropologico ed etico il principio della personalità. L’ideale, egli diceva, non va ricercato nel mondo finito e sensibile dell’esperienza, ma deve rispondere alla natura personale e ragionevole dell’umano soggetto. Ora il nostro io è una realtà vivente e sussistente in sè; per conseguente il suo ideale deve anch’esso sussistere in realtà. Ma non basta all’uopo una realtà qualsiasi, bensì occorre una realtà personale, affinchè risponda alla personalità dell’umano soggetto. L’ideale trascende sempre il soggetto che lo vagheggia e che si argomenta di tradurlo in atto: dunque la persona umana non può rinvenire l’ideale della sua vita in un essere personale finito, ma in un soggetto personale infinito, ch’è Dio. « La personalità divina è l’ideale della persona umana, perchè in quella risplende viva e reale tutta l’infinita eccellenza propria della persona, mentre in questa la perfezione è finita ed ancora in via di esplicamento. Nè altri ci appunti di contraddizione, perchè proponiamo un ideale che è ad un tempo una
(1) E. Kant, Critica del Giudizio, pp. 317-3x8 (ediz. Laterza, 1907).
(2) Cfr. Critica della Ragion Pura Pratica, p. 148.
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realtà. La contraddizione scompare quando si distingua che Dio è il tipo ideale di perfezione a nostro riguardo, mentre riguardato in se stesso è una vivente realtà » (i).
La relazione etica fra Dio e l’uomo è relazione personale, è un rapporto d'unione e comunione fra il volere umano e il volere divino, e non è affatto identità dell’uomo con Dio. Gli è la distinzione fra Dio e l’uomo che dà alla loro comunione tutto il suo significato morale e religioso. Gli è perchè l’uomo può dire: «Io voglio», che acquista infinito valore la stia parola d’ubbidienza: « Non la mia, ma la tua volontà sia fatta ».In comunione con Dio, noi siamo una cosa con Lui, e nondimeno manteniamo distinta la nostra personalità.
Si obietta che concepire Dio come persona è contraddire alla sua infinità, è attribuire a lui pensieri e sentimenti limitati e mutevoli nel processo del tempo. « O la persona è finita — dice il Bradley, — ovvero non ha senso » (2). Ma quando noi concepiamo la personalità come essenzialmente finita, confondiamo la personalità con l’individualità. L’individuo è essenzialmente finito, la persona è essenzialmente infinita. Non solo il concetto di persona non contraddice a quello d’infinito, ma, come osserva H. Lotze, solo l’infinito è veramente personale (3). La personalità non è limitazione, anzi, nel vero senso della parola, può predicarsi soltanto dell’infinito, che è a se et per se, che in sè stesso contiene le condizioni della propria esistenza.
Nella personalità divina così concepita s'integrano i due principi della trascendenza e dell’immanenza: l’intima natura di Dio non si esaurisce nella manifestazione cosmica, ma trascende ogni manifestazione fenomenica.
Così anche la morale teistica ammette che il principio della legge etica è fondato sulla natura dell’uomo, cioè nella coscienza, e che la coscienza è l’unica e sola base di tutte le leggi razionali; giacché realmente la legge ha il suo fondamento prossimo, immediato nella natura, e tutte le leggi razionali hanno nella coscienza la condizione dejla lóro esistenza reale. Ma non è l’uomo che ha dato a se stesso la propria natura; non è la coscienza umana che s'è imposta da per sè le proprie leggi: coscienza e natura, l’uomo le ha> ricevute' insieme con la propria esistenza. Natura e coscienza sono esse medesime l’opera di Dio; e in quanto hanno il loro fondamento in Lui, possono essere a loro volta la base della morale e della società. L’etica teistica è eteronoma in quanto ha in Dio il suo fondamento assoluto, primissimo; è autonoma, in quanto ammette coscienza e natura come suo fondamento immediato.
(La fine al prossimo numero). Eduardo Taglialatela.
fi) G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, p. 15 (Torino, 1904).
(2) Bradley, Appearance and Reality, p. 532.
(3) H. Lotze, Philosophy of Religion, ch. IV, §41.
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L’ALBERO NUOVO
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INTORNO ALL’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
A rivista Bilyc'nnis, proseguendo l’intelligente sua opera di cultura religiosa ha mandato, or son due anni, in dono ai suoi abbonati un volume, Verso la Fede', al quale è stata fatta da tutti la più lieta accoglienza.
In questo volume è pubblicato fra gli altri un notevole studio del prof. De Sarlo, dell’istituto Supcriore di Firenze, intitolato Idee intorno all’immortalità dell’anima.
Io vorrei — fatte le debite scuse pel mio ardire — non sol
tanto riassumere qui il lavoro ponderoso del dotto pensatore, ma discutere e, se mi sarà possibile, confutare alcune sue opinioni.
A ciò mi spinge non il desiderio di procurare a me stesso per il primo e forse ad altri un altissimo diletto, intellettuale, sì ma puramente accademico. A ciò mi
spinge invece il bisogno prepotente di chiarire sempre meglio agli occhi della mia mente e della mia fede quei concetti che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'umana stirpe.
I.
Il De Sarlo comincia col domandarsi che concetto possiamo e dobbiamo formarci dell'anima e fissa l’attenzione su quei significati che rappresentano gli aspetti principali e fondamentali da cui la realtà psichica può esser considerata: l'animismo, il realismo associazionistico, lo spiritualismo dualistico classico, la concezione di-namico-evolutiva. Dall’accenno da lui fatto risulta evidente che ciascuna delle quattro concezioni urta contro difficoltà non facilmente superabili nè eliminabili. L'autore cerca quindi di trovare un’altra via d’uscita, e giunge alla seguente definizione che certo non pecca per eccessiva chiarezza: « L’anima è quell’ente reale individuale fornita di certe capacità o altitudini le quali, mentre richiedono per la loro esplicazione l’azione di determinali stimoli provenienti dal di fuori, hanno però il loro fondamento ultimo nella costituzione dell’anima stessa ».
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BILYCHNIS
II.
Il prof. De Sarlo passa quindi a considerare per quale via noi arriviamo a conoscere noi stessi come soggetti. Non c’è via di mezzo: o bisogna ammettere uno sdoppiamento ed una moltiplicazione di coscienze in ciascun sito del cervello, ovvero bisogna ricorrere al concetto di una unità (autocoscienza) diversa da quella aggregativa. L’autore accoglie e difende abilmente questo secondo punto di vista: da uno studio accurato dei fatti psichici scaturisce la necessità di ammettere l’unità di coscienza, ed è fuori dubbio che, solo postulando una percezione diretta dell’io, si riesce ad intendere l’esplicazione dell’attività psichica nelle sue principali forme.
Aperta una parentesi il prof. De Sarlo confuta l’opinione di coloro che pensano che, con la derivazione della coscienza dalla permanenza della memoria, si riesca a risolvere la permanenza dell’io in una successione di stati ciascuno dei quali fornito di potere retrospettivo e quindi ritentivo degli stati antecedenti (i).
Chiusa la parentesi l’autore risponde a varie obbiezioni che possono farsi alla tesi da lui sostenuta: cioè che la percezione dell’io quale principio unico delle varie funzioni psichiche, costituisce il fondamento e il punto di partenza di ogni costruzione concettuale della propria personalità. Particolare attenzione è data alle idee del Fichte, dell'Hcrbart e dello Schopenhauer.
IH.
Lo scrittore esamina in seguito i rapporti dell’io con la sostanza psichica. È ammissibile una identificazione? A prima vista pare di no. Ma ciò dipende da un. modo particolare d’intendere la sostanzialità e insieme la coscienza. « Quando si parla della coscienza come di presenza della realtà a se stessa non si vuol certo limitare la coscienza all'attualità psichica di un dato momento, ma si vuol comprendere sotto il nome generale di coscienza e di io l’attitudine o la disposizione all'attualità inerente al reale psichico; e ciò, diciamo noi, è indubbiamente molto acuto e sarà probabilmente molto vero, ma non è chiaro. Ammiriamo quindi la lealtà del De Sarlo quando egli conclude: «Non vi ha dubbio che qui ci troviamo di fronte a qualcosa che ci rimane e, chi sa, forse ci rimarrà sempre oscuro, ma la chiarezza non si raggiunge col cancellar le differenze esistenti tra i vari ordini di realtà o col negare una forma di sostanzialità. sol perchè non coincide con una certa definizione più o meno arbitraria di essa ».
IV.
La discussione intorno alla natura e alla realtà dell’anima ci porta a quella della sua origine. In che maniera e da che cosa ha potuto sorgere in un dato istante il primo raggio di coscienza? , ,
(r) Vedi in questo senso un articolo nella Rivista Cristiana, del 1913.
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La coscienza non ha potuto originarsi dal nulla, nemmeno ha potuto derivare da ciò che noti è coscienza, p. es. dalla materia; e neppure da altra coscienza quando si pensi al carattere essenziale della psichicità che è appunto l’incomunicabilità. Poi ci si trova di fronte alla difficoltà di dover porre come condizione essenziale della produzione di un nuovo essere la cooperazione di due esseri.
Alcuni non hanno trovata altra via d’uscita se non quella di proclamare l’eternità delle anime, escludendo quindi qualsiasi origine nel tempo; le anime, da tal punto di vista, sarebbero come pensieri di Dio a varie riprese incarnati e partecipanti quindi di alcuni dei suoi caratteri. Ma la teoria della preesistenza, appena è sottoposta ad un esame rigoroso, rivela anch’essa insufficienze, contraddizioni e oscurità che il nostro autore si compiace forse eccessivamente di mettere in luce.
E allora?
Il De Sarlo comincia con una premessa che, a prima vista almeno, non può non riuscire un po’sconcertante. « Il problema dell’origine dell’anima non può—dic’egli — esser utilmente discusso se non a condizione che vengano prese in considerazione, oltre l’anima umana, anche tutte le altre anime che indubbiamente esistono sulla terra. Che si debba o non si debba riconoscere una psiche nei vegetali, è fuori dubbio che gli animali, dai meno complicati a quelli più vicino all'uomo, esplicano un’attività psichica la quale necessariamente implica presupposti analoghi a quelli dell’attività psichica umana. La questione dunque dell’origine dell’anima dall’uomo va estesa a tutti gli esseri animati e nessuna teoria potrà essere soddisfacente insino a tanto che non formuli un’ipotesi plausibile e intelligente sia per l’uomo che per gli animali ».
Date queste premesse, qual’è l’ipotesi esposta e sostenuta dal prof. De Sarlo?
È questa: che l’anima sorga realmente in un dato punto del tempo per l’azione di un potere spirituale sommo, del quale a noi è dato formarci una certa rappresentazione per mezzo di analogie tratte da quell’esperienza spirituale che è la più elevata e che noi meglio conosciamo: l’esperienza spirituale umana. E l’autore trova in medo speciale le analogie che fanno al caso suo nel modo di funzionare della fantasia estetica.
Ogni anima dunque, per l’ufficio che compie nel mondo e in quanto è parte dell’ordine universale, può essere considerata come avente eternamente sede nella mente divina, può essere concepita come pensiero di Dio; ma tale idea allora solo passa nel campo della realtà quando si completa con un atto del volere c della fantasia divina in risposta all’incitamento proveniente dalle condizioni determinantesi nel mondo in un dato punto dello spazio e del tempo.
Noi vorremmo fare, a questo punto, alcune brevi osservazioni.
•
i. L’attribuire un'anima a certi animali superiori, al cavallo, al cane per esempio, non è idea nuova, sia che venga collegata o no colla teoria della metempsicosi. Ma ciò che costituisce un ardimento insolito è l’attribuire l’anima a tutti gli animali,
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--ìTwaa»?
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telai meno complicali a quelli più vicino all'uomo». Ha l’egregio professore avuto la visione degli animali « meno complicati », non dico degli uccelli, dei pesci, degl’insetti, ma dei miliardi di molluschi minuscoli che formano le barriere madreporiche nell’Oceano Pacifico, delle miriadi di vermi impercettibili che appariscono dovunque c’è un sintomo di decomposizione, della infinita quantità di microbi, malamente distinguibili al microscopio, che esistono in una sola goccia d’acqua? Tutti questi sono animali, pochissimo complicati, ma pure animali. È possibile, io mi domando, scoprire in loro, attribuire loro l’anima anche se concepita solo come autocoscienza? C’è in un bactero, in un protozoo una traccia qualsiasi di quell’«ente reale individuale fornito di certe capacità ed attitudini Je quali, mentre richiedono per la loro esplicazione l’azione di determinati stimoli provenienti dal di fuori, hanno però il loro fondamento ultimo nella costituzione dell’anima stessa »?
Sappiamo benissimo ciò che ci risponderà l'egregio professore: « Una volta che concedo l’anima agli animali, bisogna che la conceda a tutti perchè la scala dello sviluppo psichico animale è composta di gradini tra i quali c’è una distanza così infinitesima che non è possibile trovare un punto dove ci sia lo spazio sufficiente per tirare una linea di separazione ».
Ma noi risponderemo pronti. Appunto per questo, perchè tra i vari gradini della serie animale non c’è mai lo spazio immenso che c’è invece tra l’animale più psichico e l’uomo, appunto per questo, per non essere condotti a delle difficoltà insormontabili e a delle situazioni quasi ridicole, occorre tirare la linea non tra animale e animale, tra l’animale e l’uomo.
Tanto più che, dati gli ultimi risultati e‘ le maravigliose scoperte delle scienze naturali, quella tal linea, se non la si tira dopo l’uomo è affatto arbitrario di tirarla dopo l'ultimo animale. Ci sono delle piante assai più complicate e assai più psichiche del bactero o del protozoo.
Ammesso per ipotesi, facendo un colossale atto di fede, l’eente reale individuale» nel più infimo microrganismo animale, nulla vieta, facendo un atto di fede certamente minore, di ammettere ¡’«ente reale individuale» nel mondo vegetale, in ogni pianta più o meno complessa, in ogni umile filo d’erba, in ogni fiore di campo. E, date le ultime rivelazioni sulla materia radiante e sulla vita dei cristalli, c’è ancora modo di ammetterlo, l’ente reale individuale, nel mondo minerale.
Dice il De Sarlo: « Noi conosciamo così poco della vita psichica degli animali, che non siamo affatto autorizzati ad escludere certe possibilità ».
E noi soggiungiamo: Lo stesso si può dire allora del mondo vegetale e del mondo minerale. Tanto più che la scienza tende ogni giorno più a considerare che tutte queste distinzioni di animale, vegetale e minerale sono fittizie, artificiali, convenzionali.
E allora dove va a finire e che cosa diventa il problema dell’immortalità dell'anima? A stabilire questa equazione: anima = ... cletlrono?
2. Ma anche — escludendo tutto questo — è accettabile, io mi domando, l'ipotesi del De Sarlo? Dato e non concesso che per essa vengano «sufficientemente interpretati i fatti », c'è un fatto che rimane ad ogni modo molto male interpretato: ed è quello dell’« atto di volere 0 di fantasia divina in risposta all’incitamento prò-
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veniente dalle condizioni determinatesi nel mondo in un dato punto dello spazio e del tempo ».
È concepibile moralmente che un alto determinato di volere o di fantasia Di Dio sia in balìa del capriccio umano o animale o sottoposto al funzionamento o meno di una legge di natura producente o non producente in date circostanze lo sbocciare di microrganismi? È spiritualmente ammissibile che un intervento specifico e attuale di Dìo dipenda, ad esempio, da un accoppiamento sessuale umano, che può anch’essere occasionale, immorale, licenzioso, oppure ad un incontro qualsiasi di un animale maschio con un animale femmina, oppure magari semplicemente da circostanze favorevoli di umidità, di luce, di freddo o di caldo sulla terra o nei mari?
Quando si parla di Dio si dimentica troppo spesso , di salvarne almeno... la dignità...
L'ipotesi dunque del nostro autore ci sembra destinata anch’essa a non risolvere la questione. E ciò sopratutto a motivo di questo voler solidarizzare ad ogni costo la natura e il destino degli animali — non importa se soltanto superiori o anche inferiori—colla natura e il destino dell’uomo. Che altrimenti, applicata cioè soltanto all'origine dell'anima umana, la teoria del De Sarlo ci avrebbe anche discretamente soddisfatti.
V.
Ma alla solidarietà di cui sopra il nostro autore ci tiene e l’applica sino alle sue ultime conseguenze svolgendo un altro paragrafo del suo studio: che cosa si deve dire della durata e del destino dell’anima*
Il prof. De Sarlo comincia col dimostrare che non sono applicabili, nè diretta-mente nè per analogia, i principi proclamati dalla scienza dell’indistruttibilità della materia e della conservazione dell’energia. A prescindere che la scienza non ha potuto provare il suo asserto se non per i cangiamenti fisici producentisi in sistemi chiusi, limitati, essa in fondo non ha affermato la permanenza se non della pura quantità lasciando quindi impregiudicata la questione circa la qualità di cui appunto si conserverebbe la quantità. La scienza non può dunque illuminarci intorno alla possibilità della permanenza psichica sotto la forma che più importa e che poi è anche la sola intelligibile: sotto la forma dell’individualità. Del resto i postulati della scienza, stando alle più recenti ricerche, non troverebbero nemmeno conferma in tutti i fatti che si svolgono nella natura esterna. E fin qui sta bene. Ma a questo punto il prof. De Sarlo, fedele alle premesse stabilite nel paragrafo precedente, si domanda: « Perchè dovrebbe perdurare solo la psiche umana? » Le ragioni che valgono per questa non c’è motivo di non estenderle alle altre psichi (animali).
Si potrebbe osservare, è vero, che la psiche umana si mostra fornita di attitudini per cui merita veramente una considerazione speciale: essa può rendersi esatto conto della sua natura, delle sue aspirazioni più profonde e deH’inadeguazione dello stato della vita attuale per la realizzazione degl’ideali che sembrano contenere la ragione della sua esistenza; poi — fornita com’è di funzioni (intelligenza, volere, fan-
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tasia) che mirano ad obbietti oltrepassanti le limitazioni dello spazio e del tempo — non può non partecipare in certa guisa della natura di codesti obbietti e quindi non può non aspirare alle condizioni di trascendere lo spazio e il tempo.
Ma, concependo in tal maniera la possibilità dell’ immortalità dell’anima umana, si verrebbe a limitarla a quegli individui che, per circostanze speciali o per doti naturali, possono assurgere a quel grado di sviluppo psichico per cui realmente allo spirito umano si rivela un mondo inaccessibile alle psichi inferiori. E che avverrebbe allora dell’anima di tutti gli altri uomini?
Per il prof. De Sarlo non c’è dunque via di mezzo: o tutto o niente. « 0 la psiche è di tal valore e significato che merita sempre e in ogni caso di essere in qualche maniera conservata — e allora sarà possibile dedurne la conseguenza che l’anima umana realmente permane, e si tratterà di determinare le modalità speciali in quanto fornita di natura specificamente differente e in quanto compiente determinati uffici nel mondo — o la psiche è un atto transitorio, contingente, avente valore di semplice mezzo e quindi non avente diritto alla persistenza a cui può aver diritto solo ciò che è fine e che ha dignità per sè», e allora non è immortale neanche la psiche umana.
Il De Sarlo non vede altra via per giungere ad una dimostrazione dell’immortalità. « O la perennità, l’indistruttibilità è considerata come una conseguenza del pregio intrinseco dell’anima e allora tutte le anime, non soltanto quella umana, devono essere dichiarate indistruttibili; o non si crede che la perennità rappresenti un carattere de\\'esistenza per sè e allora nessun’anima a rigore dev’esser ritenuta immortale dalla nostra ragione ».
♦ • *
Noi abbiamo un bel sforzarci di comprendere il pensiero del De Sarlo: non riu sciamo a sentirci colle spalle al muro di fronte al dilemma da lui posto.
i. Lasciamo stare la questione degli animali inferiori, e prendiamo solo in considerazione quelli superiori in cui è più agevole di supporre e magari di constatare una certa « autocoscienza » e ai quali, con molta buona volontà, possiamo prestare «un senso d'insoddisfazione, il bisogno di evolversi, l’impulso a progredire». Ma, lo domandiamo al nostro autore: Non ha egli ammesso esplicitamente che « la psiche umana si mostra fornita di attitudini per cui merita una considerazione speciale? Non dichiara egli: « La forma di essere che, esistendo non solamente per altro—com’è di tutti i fenomeni — ma per sè e che per di più si avverte, si sa e si possiede e che per ciò stesso è capace di affermarsi, di contrapporsi, di far valere la sua indipendenza di fronte a tulio il resto, tale forma di essere ci si presenta come fornita delie prerogative necessarie per una reale permanenza ». Ora si riscontrano queste capacità negli animali anche superiori?
Non afferma l’autore che —- ammessa la persistenza in qualunque grado della psiche — « si tratterà di determinare le modalità speciali dell-immortalità umana, in quanto fornita di natura specificamente differente e in quanto compiente determinati uffici nel mondo »?
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Che più? L’autore, proclamando l’indistruttibilità di tutte le anime, cioè di tutte le psichi, afferma sempre che non c’è psiche là dove non c’è autocoscienza e libertà. Ma a un certo punto, dimenticando che ha concesso la psiche — cioè l’autocoscienza e la libertà— a tutti gli animali, egli dichiara testualmente: a Sarebbe strano che le preregative libertà, .autocoscienza, che noi riscontriamo solo nell’uomo e che certo contribuiscono a determinare la sua superiorità rispetto a lutti gli altri esser si dileguassero nel nulla, nel qual caso si avrebbe veramente ima perdita irreparabile ed incomprensibile ».
2. Così stando le cose noi ci domandiamo per quali ragioni il De Sarlo ci tiene tanto a dichiarare l’immortalità individuale anche fra gli animali.
Quando si ammetta la necessità della peimanenza del valore non ne viene di conseguenza la necessità della permanenza individuale di esistenze (numericamente identiche) in cui il valore si attua! Finalmente, vi sono varie forme di conservazione e di permanenza: già il mondo fisico — come si è visto — ci presenta una forma di permanenza puramente quantitativa; poi c’è la permanenza mediante l’accumulazione degli effetti; poi c’è la permanènza per via di riproduzione o di rappresentazione in una coscienza singola quale si ha nella memoria; poi la permanenza per via di trasmissione dei fatti psichici o anche di fatti fisiologici come si ha rispettivamente nella tradizione.e nell’eredità, e infine si ha la permanenza sotto forma di efficienza degli ideali come si osserva in tutte le correnti di pensièri e di aspirazioni agenti spesso per tutto un periodo storico e anche da un periodo all’altro. In tutti questi casi si può certo parlare di permanenza dei valori pur attraverso il vorticoso avvicendarsi di esistenze individuali. Non poteva il prof. De Sarlo, così tenero per gli animali, gratificare questi di una di queste immortalità? Egli avrebbe salvato le bestie dalla distruzione senza aver bisogno di sostenere una tesi la quale non solo può apparir « stravagante » com’egli stesso riconosce, ma che, contrariamente a ciò ch’egli con baldanzoso calore afferma, potrebbe anche non essere « vera ».
3. Ma ci vien fatto ora di domandarci se. per avventura, l’egregio professore non si sarebbe già inconsciamente lasciato sedurre dalla nostra proposta, di non associare cioè gli animali al destino umano. Leggiamo di fatti alcune pagine più avanti la seguente sua dichiarazione: « La permanenza non può essere uguale in tutte le anime; è chiaro che le differenze esistenti tra le varie anime si rifletteranno anche sulle varis forme di loro permanenza. A noi è vietato di far congetture precise, ci •sembra però al più alto grado probabile la veduta per cui sia escluso il passaggio, diremo così, eia un ordine di anime all'altro ». E più avanti ancora: « Si è in diritto di pensare che per l'uomo la permanenza dell'esistenza abbia un significato diverso da quello che è presumibile abbia per gli altri esseri ». E ancora: « Le differenze tra l’anima umana e quella di tutti gli altri esseri animati, quali risultano dal complesso delle manifestazioni esterne e specialmente dalla struttura di tutto quel mondo, del mondo propriamente umano, che lo spirito ha saputo elevare al di sopra del mondo della natura, fanno pensare necessariamente ad un destino e ad una forma di immortalità, per l'uomo, diversa da quella di ogni altra psiche ».
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Tutte quéste dichiarazioni non equivalgono desse ad attribuire agli animali una forma di permanenza, un tipo o’immortalità affatto diversi da quelli riservati all'uomo ed all’uomo soltanto?
Decida l’intelligente lettore!
4. Se non che il prof. De Sarlo ci potrà rispondere che, se ha dato l’immortalità individua alle bestie, non l’ha fatto per eccessiva tenerezza verso di loro, ma per necessità di cose, perchè trascinatovi dal suo stesso ragionamento e ci ricorderà ancora una volta il suo aui aul. Se la perennità non rappresenta un carattere del!’t?s>-slenza per sè, allora nessuna anima a rigore dev’esser ritenuta immortale dalla nostra ragione. Alia persistenza ha diritto soltanto ciò che è fine e che ha dignità per sè. Per dimostrare l'immortalità dell’anima umana è giocoforza ammettere l’immortalità di ogni psiche, quindi anche di quella degli animali. Ribatteremo alla nostra volta: Voi stesso ammettete una differenza tra l’anima umana e quella di tulli gli altri esseri animati, voi stesso affermate la possibilità di diversi ordini di anime; voi stesso dichiarate che per l'uomo la permanenza dell’esistenza ha un significalo diverso e una forma diversa da quello che è presumibile abbia per gli altri esseri. Non saremmo dunque in realtà più di quel che sembra vicini ad intenderci? Perchè non riserbare il termine « anima » all'ordine umano della psiche e al significato umano della peimancnza dell’esistenza?
In fondo l’errore vostro, egregio professore, non consisterebbe appunto nel vostro punto di partenza, cioè nella definizione che voi date dell’anima?
5. L’anima non è la psiche l’anima non è «quell’ente reale individuale fornito di certe capacità o attitudini le quali, mentre richiedono per la loro esplicazione l’azione di determinati stimoli provenienti dal di fuori, hanno però il loro fondamento ultimo nella costituzione dell’anima stessa». L’anima non è «l’intelligenza, il volere, la fantasia ». L’anima non è neppure « il senso deH’inadeguazione dello stato della vita attuale per là realizzazione dell’ideale », se a quest’espressione si dà un significato puramente estetico o intellettuale. Ci sono forse alcuni animali, ci sono certamente molti uomini che hanno tutte queste cose, che .posseggono magari ad un grado eccessivo il senso dell’io e che pure non si può dire che abbiano l’anima!
L’anima è tutt'altra cosa* è appunto quello spirito (-vsóaa) a Ciri accennate voi stesso, quello spirito che < ha saputo elevare al disopra del mondo della natura tutto un altro mondo: il mondo propriamente umano ». È appunto quel quid che, come dichiarate, è « un carattere per cui l’immortalità dell’anima umana va distinta dalia permanenza di qualunque altra anima ». È appunto, secondo vi. esprimete voi stesso, « la capacità di compiere funzioni che la mettono in rapporto col sovra-sensibile », il che costituisce una « prova » che l’anima umana « possiede una natura speciale differente da quella di ogni altra anima ».
Una delle manifestazioni dell’anima è appunto il «senso deH’inadeguazione dello stato della vita attuale per la realizzazione dell’ideale », dando a quest’espressione il significato morale e spirituale. L’anima è il senso del divino, la sete ardente di perfezione, il desiderio irrequieto, insaziabile, vasto quanto l’universo, di prender
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contatto Coll’Essere supremo, di purificarsi, di nobilitarsi, di santificarsi, di salire, di evolversi, ma in un modo di evoluzione che non ha nulla a che fare con tutte le evoluzioni di cui parlano la filosofia e la scienza.
L’anima è quell’ente reale individuale che manda verso il cielo dei sospiri ineffabili, quell'ente di cui voi stesso parlate cosi bene nell’ultima parte dèi vostro stuoio: « L’uomo, perciò solo che riconosce la verità, la quale non nasce e non muore, e perciò solo che pensa lo spazio, il tempo e l’infinito, elevandosi al disopra del mutevole e oel transitorio, per ciò Stesso che può oltrepassare fìnanco se medesimo, mostra di posseder titoli sufficienti per appartenere anche ad un mondo diverso dall'attuale ». E ancora:. « Chi créde in un ordine razionale del mondo e per ciò stesso non può non attribuire un valore obbiettivo alla legge morale, è costretto a riconoscere come, date le dissonanze, i contrasti, le ingiustizie della vita attuale, s'imponga la necessità di ammettere un’altra esistenza in cui, da un canto possa esser raggiunto quello stato di perfezionamento che per gli ostacoli incontrati non fu possibile prima raggiungere; e dall’altro si possa avere quell'attuazione delle esigenze morali, quel trionfo del bene e della giustizia in cui risiede il vero ordine morale ».
Questa è l’anima, l’anima umana. E questo concetto dell’anima vi avrebbe dato, egregio sig. professore, il mezzo di uscire dal vostro dilemma lasciando in .pace gli animali che di tutte queste cose non hanno mai saputo e non sanno e non sapranno mai niente.
6. Di fronte al vostro dilemma noi non esitiamo a scegliere la seconda alternativa. È verissimo: «se non si creile che la perennità rappresenti un carattere del-l'esisienza per sè, nessun’anima a rigore dev’essere ritenuta immortale dalla nostra. ragione ». Ñon v’è dubbio: « Alla peisistenza ha diritto soltanto ciò che è fine e che ha dignità per sè ». Ma se vogliamo essere veramente spregiudicati e obbiettivi, dobbiamo riconoscere che nell’uomo non c’è solo la ragione ma c’è anche l'intuizione religiosa basata sopra esperienze morali che hanno tutte le caratteristiche di realtà possedute dalle più rigorose esperienze scientifiche. E l’intuizione religiosa dice all’uomo che, se la sua anima non è immortale, egli può renderla tale accogliendo in essa, innestando in essa degli elementi divini. L’intuizione religiosa dice all'uomo che, se ha diritto alla permanenza solo ciò che ha dignità per sè, l’anima umana acquista questi diritti alla permanenza quando l’uomo affisi tutte le energie della sua volontà nel raggiungimento della perfezione.
Se così stanno le cose, noi non abbiamo più bisogno di ricorrere al misero ragionamento: l'anima umana è immortale perchè è immortale ogni psiche; ma ci basta arditamente affermare: l’anima umana è immortale quando essa contenga degli elementi divini, poiché ciò che è divino è immortale.
7. Rimane, è vero, l’obiezione già precedentemente posta dal nostro autore: Concependo in tal guisa la possibilità della immortalità dell’anima umana, si viene a limitarla a quegli individui che, per circostanze speciali (età, educazione, influenza dell’ambiente, ecc.) o per doti naturali possono assurgere a quel grado di sviluppo psichico per cui realmente allo spirito umano si rivela un mondo inaccessibile alle psichi inferiori ».
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Noi potremmo qui ricordare ancora una volta al De Sarlo le sue parole circa « la differenza tra l’anima umana e quella di tutti gli altri esseri animati», ma non vogliamo evitare l’obbiezione, noi al contrario vi veniamo incontro di proposito.
Non abbiamo difficoltà'a riconoscerlo, così stanno davvero le cose. Anzi più logico e quindi più rigoroso ancora è l’insegnamento cristiano genuino, cioè spoglio di ogni colpevole attenuazione.
Che cosa insegna il Cristianesimo? Insegna che l'anima, di sua natura immortale perchè diretta emanazione, imagine e somiglianza di Dio, ha perso questa sua caratteristica dal momento in cui il peccato l’ha separata da Dio. L’anima umana, nelle sue condizioni naturali attuali, è degenerata, è snaturata dal peccato, e quindi non è di per se stessa immortale; essa lo è solo virtualmente, in potenza. Il destino normale dell’uomo, voluto da Dio che lo ama, l’ordine umano della psiche, il significato umano della permanenza dell’esistenza consiste, secondo l’insegnamento cristiano, nell’aspirare al divino, nel tendere al divino, nel riprendere contatto col divino, nel realizzare gradualmente e progressivamente il divino, nel farsi assorbire dal divino, e ciò senza perdere la propria personalità, ma assumendo una personalità nuova, integralmente permeata dal divino.
Di questa trasformazione dell’anima psichica in anima pneumatica il Cristianesimo spiega l’origine, lo sviluppo, il fine; di questa conquista dell’immortalità il Cristianesimo descrive il processo di cui le fasi principali sono quattro: incontro personale con Cristo, accettazione personale del perdono, di Dio in Cristo, ubbidienza personale a Cristo, vita personale in Cristo.
Fuori di lì, insegna il Cristianesimo, non è possibile prendere contatto con Dio, e quindi fuor di lì non c'è possibilità di « salvezza dell’anima », o, in altri termini, di « vita eterna », cioè d'« immortalità » perchè, ancora una volta, immortale non è ciò che è psichico, ma ciò Che è pneumatico, cioè spirituale, cioè divino.
Dio solo vive, Dio solo, e ciò che è o si è messo in comunione con lui!
8. A me pare che questo sia veramente un « modo di stabilire la persistenza degli individui finiti ».
Ma sono forse con questo sparite tutte le difficoltà del problema? No certamente. Rimane tra le altre la più grande di tutte, quella contenuta appunto nella obbiezione di cui stiamo parlando. Se l'immortalità non è naturale per l'attuale anima umana degenerata, snaturata dal peccato, se la persistenza o meno della psiche dipende dall’avere o dal non avere acquistate speciali attitudini morali che. le permetteranno o no di sussistere in altre condizioni di vita, allora l’immortalità è limitata a quel numero ristretto d'individui che hanno avuto l’opportunità di conoscere eo appi» ¡»riarsi queste cose.
Rispondiamo: la non accettazione della salvezza può dipendere da cause volontarie o da cause involontarie . Nel primo caso non rimane altra via d'uscita che la speranza nella infinita misericordia di Dio, nel secondo caso è logico e morale l’ammettere che Dio, nella sua giustizia, troverà modo di offrire agli uomini, oltre questa vita terrena, una qualche opportunità per decidersi.
Ma qui anche noi dobbiamo fermarci, qui anche noi, come lealmente e nobil-
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INTORNO ALL'IMMORTALITÀ DELL’ANIMA mente dichiara a un certo punto il nostro autore, siamo costretti a brancolare nel buio, mancandoci qualunque dato positivo per pronunziarci in un senso piuttosto che in un altro.
VI.
Con queste prudenti riserve, che idea possiamo formarci dell’esistenza e del modo di agire di un’anima staccata dal corpo?
È questa l’ultima domanda a cui cerca di rispondere il prof. De Savio, e ben possiam dire che leggendo queste pagine del nostro simpatico autore noi abbiamo meditato e sognato con esso.
i. Come già si accennò di sopra, è tanto stretto il vincolo che unisce la vita dell’anima a quella del corpo, che non si vede come l’una vita potrebbe esplicarsi senza la collaborazione dell’altra. Si ha dunque il diritto di congetturare che, col distacco da un determinato corpo, si accompagni la costruzione e la '.funzionalità di un’organizzazione compiente ufficio analogo a quello che compie il corpo degli esseri animali, quale noi al presente l'osserviamo.
Questa idea, bellamente illustrata con varie analogie dal De Sarlo, ci sembra perfettamente accettabile. Noi cristiani siamo abituati al concetto del « corpo spirituale.» per l'insegnamento datocene da s. Paolo.
2. Qual’è la forma di esistenza che ci attende dopo assoluto il nostro compito su questa terra?
L’uomo, anche in questa vita, è essenzialmente persona cosciente di sè e del suo posto nel sistema delle cose. Ciò che ha maggior valore per lui è la permanenza nella quale la persona conserva quei tratti fondamentali per cui possa riconoscersi e ritrovarsi. Si è dunque in diritto di pensare che l’uomo possa legare, mediante la memoria, lo stato in cui verrà a trovarsi con tutta la vita antecedente e possa quindi completare la sua evoluzione, mettendo sempre più in valore gli acquisti già fatti. A ragione una delle prove ed indizi per ammettere l’immortalità è stata riposta nel-l’incompiuta esplicazione di quelle forme di attività psichica che rappresentano come le prerogative dell'anima umana (ricerca della verità, aspirazioni al bello e al bene, esigenza della giustizia, tendenza alla felicità completa). È lecito dunque pensare che esista un’altra sfera della realtà in cui la vita umana raggiunga veramente il suo completo sviluppo.
Si presenta a questo punto la solita obbiezione: che la credenza nell’immortalità minaccia la purezza dell'intenzione morale, per il fatto che motivo della volizione non sarebbe il puro rispetto della legge, bensì l’idea di un premio o di una pena futura. Il De Sarlo scrive in proposito una bellissima e vittoriosa pagina.
3. Un altro ordine di considerazioni che vale a rinsaldare la credenza nell’immortalità è quello suggerito dalla riflessione sui caratteri della conoscenza umana. Questa, elevandosi al disopra del contingente e del particolare, si affisa nell'eterno, nell’universale, nell'immutabile, nel trascendente lo spazio e il tempo. Ora l’adegua-
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zione della mente all'obbietto richiesta dà tale forma di conoscenza come potrebbe esser ottenuta se il soggetto non partecipasse in qualche maniera delle proprietà caratteristiche dell’obbietto?
4
Conclusione.
Se la tesi dell’immortalità non può essere derivata, allo stato delle nostre conoscenze attuali, dall’osservazione di fatti scientificamente accertati, se non può essere presentata come il risultato di generalizzazione empirica, e se infine non può esser dedotta da principi razionali, trova però una sufficiente garanzia in un complesso di considerazioni, le quali, attinte come sono da forme differenti di esperienza, finiscono per avere efficacia persuasiva. Già è per sè significativo il fatto che nè l’esperienza presa in largo senso, nè alcun principio razionale o metafisico è in contraddizione con la credenza nella sopravvivenza; ma poi il fatto che, solo ammettendola, è possibile dare veramente un significato al mondo e all’evoluzione storica della natura e dell’uomo non può non esser assunto al valore di prova.
• * * .
Questo per la tesi fondamentale della sopravvivenza dell’anima umana.
In quanto al quando, al come, al dove.. .. è naturale, è utile, è inevitabile di avere delle idee, o meglio delle credenze in proposito. Ma non c’è modo di trovare nella scienza, e neppure nella ragione, e neppure nella religione, dei dati positivi (i).
Quanto saviamente scrive il prof. De Sarlo queste belle parole che serviranno di chiusa al nostro studio:
« Noi certo non abbiamo modo di determinare nè il come, nè il dove, nè alcuna modalità della persistenza delle anime dopo che hanno compiuto il lóro ufficio sulla terra. Possiamo forse presumere di conoscere per filo e per segno l’òrdinamento dell’universo? Possiamo presumere di conoscere, o anche di congetturare, il senso di questo vasto dramma che è la vita del mondo? Se qualche cosa possiamo dire di sicuro è che ogni filosofia che si limiti alla considerazione del mondo quale appare alla visione dell’uomo su questa terra, finisce per essere angusta e fondamentalmente falsa. Ne l’uomo in quanto lo conosciamo sul nostro pianeta, nè la vita quale ci si presenta su di esso può rappresentare il fine della creazione: ogni veduta teleologica, geocentrica od antropocentrica dà nell’assurdo e nel grottesco appunto perchè vuol leggere nella mente di Dio, fermandosi all’osservazione di ciò che ci presenta un atomo o un granello di polvere sospeso nello spazio infinito. È naturale che l’interpretazione riesca press’a poco falsa come sarebbe quella del senso di un libro di migliaia di pagine nel caso che fosse desunto da una sola frase ».
Pianprà - Milano. Avv Giovanni E. Meille.
(f ) Per certe deduzioni logiche dal pensiero cristiano - o meglio dalla fede cristiana — che in questo campo ci paiono legittime, vedi lo studio di T. Failot pubblicato nel precedente numero di Bdychms. (N.d. R )
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Vitalità e vita nel cattolicismo
x.
Reviviscenze polemiche tra i cattolici italiani: Ciò che non si può dire — li « quos ego » del card. Cagiano — La rivincita dei liberaloidi: La liquidazione di Medolago-Albani e del conte Gentiioni.
La politica di Benedetto XV: L’intervista Latapie— Il valore delle smentite e delle repliche — Il papa e-l’Italia — «La Nostra diletta Italia » — Il caso di monsignor Baudrillart — Divisionismo.
Accenni di guerra di religione: L’allocuzione pontificia del 21 novembre e il contegno degli evangelici.
Il Papa e il Congresso della Pace: Il postulato dei clericali — Accademia — Le « guarentigie » nel discorso Orlando e le inutili riserve. — Benedetto XV lamenta la condizione del pontefice romano— La replica del Guardasigilli alla Camera—Verso un « centro cattolico »?
Il loro Dio.
I cattolici d’Italia. 0 più precisamente gli esponenti più battaglieri, fra essi, abituati alle quisquilie eterne ed agli eterni lamenti si son trovati disorientati pel fatto della guerra. Essi fino all’ultimo intrigarono a favore della neutralità assoluta — ciò è noto, — non tanto, io credo, per una preferenza assoluta per l’uno o l’altro degli aggruppamenti delle potenze, ma forse per aver la possibilità di dedicarsi al loro giuoco abituale .dell’altalena tra il sì e il no.
Oggi questo giuoco non è più possibile. Il Vaticano proclama, come istituto, la propria neutralità e propugna la pace. Ma il Vaticano è una cosa ed i clericali — parlo per il momento di quei d'Italia, sebbene la proposizione possa bene adattarsi a tutti come vedremo — un’altra. Di fronte alla guerra, checché se ne pensi, occorre far buon viso, perchè si correrebbero altrimenti dei seri guai. Si può sempre, è vero, pensar ciò che si vuole; si può conservar sempre le stesse simpatie di prima; si può susurrarsi alle orecchie o in camera charitatis le previsioni più disastrose, e così di seguito. Ma ciò che resta nel pensiero o che si va nascostamente cicalando
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non è possibile proclamarlo forte (i); altre cose, già care abitudini dei nostri clericali, bisogna fare a meno di dirle — direttamente almeno — sui loro giornali. Così, ad esempio, non si può più affermare che la guerra nostra sia ingiusta, che è l’imperatore apostolico che ha ragione, che il re d’Italia è un usurpatore del dominio pontificio, non si può scrivere tutto il male che se ne pensa del governo, nè maledire le istituzioni politiche, e così per una lunga serie di soggetti, con cui si riempivano i vari fogli neri d’Italia. Tutti questi luoghi comuni dei bizantinismi clericali sono ora interdetti. Come sostituirli? Qualche giornale che si era fatto una missione di rivangare ogni giorno e di innaffiare la secca pianticella del potere temporale e delle impossibili condizioni del papa, si trovò quasi del tutto disorientato e si dette alla ricerca affannosa negli altri quotidiani e riviste del regno e di fuori di tutto ciò che anche lontanamente fosse per porre in mala luce la guerra e l’attuale stato di cose, tutto ciò che significasse o indicasse divisione d’animi e di partiti, e sforbiciato tutto questo
(i) Non sarebbe certo possibile, come si faceva fino a pochi giorni prima che l’Italia dichiarasse guerra all’Austria, trovare oggi chi manifestamente affermi e pubblichi che, per decreto divino, la vittoria sarà immancabile per gli Imperi centrali, per quanto essa, sempre per ordine della divinità, possa essere ritardata. A titolo di documentazione riferisco qui parte di uno scritto stampato sull’ Unità Cattolica del 5 maggio sotto il titolo: «Teosofia sulla guerra», in cui si dà relazione di un presunto dialogo tra un teosofo ed un cattolico. Ne sottolineo le parti in cui la sfrontatezza stupida dello scrittore risalta più evidente.
« Teosofo. Questa guerra non accenna a finire...
Cattolico. Ah! purtroppo! Si vede che non abbiam finito, in nessun campo, di scontare i peccati...!
Teosofo. Eppure tutti invocarono Dio...
Cattolico. Qualcuno si tenne nel silenzio di Dio, come nell’ignoranza del Papa:... i più, è vero, invocarono Dio, ma si fermarono a parlargli di vittoria sui nemici esterni, e non sappiamo se e quanto pensarono ai nemici interni, alla superbia che fa odiare il cattolicismo e perseguitare ¡'cattolici, all’ambizione che non può vedere il bene degli altri e pretende di chiudere tutto e tutti nel suo pugno!...
Teosofo. Vorrebbe dire dunque, che forse non tutti han pregato come si deve?...
Cattolico. È certissimo, che di qualcuno la invocazione è stata esecranda! Come volete che Dio ascolti la invocazione, di chi provocò la guerra con gli assassini... o quella di chi li favoreggiò da vicino o da lontano?...
Teosofo. Dunque Dio deve punire i Serbi, i Russi e loro aderenti?...
Cattolico. Quel che deve fare Dio, non istà a noi definire: Egli sa benissimo dare a ciascuno quel che merita e' quel che meglio conduce alla manifestazione delle misericordie sue infinite: ma possiam dire con tutta certezza che non han meritato la vittoria i Serbi, e non la meritano i Russi, nemici in primo luogo del Regno di Cristo fondato sul Primato di giurisdizione spirituale conferito a S. Pietro. Se poi Dio volesse col beneficio delle vittorie terrestri attirarli alla vittoria sull’errore in cui stanno, e farli cosi rientrare in quella Chiesa e Fede loro predicata dai Santi Cirillo e Metodi©, ben mantenuta dai loro fratelli di Moravia, Boemia, Polonia, Croazia e Dalmazia, allora ogni cattolico giubilerà per questo ritorno, dovuto non agli assassini} e alle perfidie ma unicamente alla misericòrdia di Dio... Per ora intanto passa la giustizia divina, non sterminatrice, no; ma ritagliatrice dei tumori purulenti, sradicatrice delle zanne più abituate al sangue e alla preda!...
Teosofo. Ma dunque voi credete che Dio farà vincere gl’imperi centrali; badate, sono teosofo, ma non condivido i sentimenti inglesi contro la Germania....
Cattolico. Io non so chi vincerà,... dico solo che se Dio ritarda a questi Imperi la vittoria finale (il generalissimo Joffre la ritiene riserbata alla Francia), è segno che an-
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lo ammanniva ai suoi lettori, aggiungendovi qua e là delle tirate — un altro dei luoghi comuni non del tutto interdetto — contro la massoneria.
Contuttociò, malgrado la terribile tragicità dell’ora che volge, in Italia i clericali non han saputo scordarsi delle vecchie astiose differenze che li separano in due campi, differenze che volta a volta Siamo venuti illustrando e documentando e di cui dobbiamo registrare anche durante la guerra degli episodi curiosissimi. Di uno è stato l'eroe un cardinale, il Cagiano de Azevedo, che, posto a successore del famoso Vives y Tuto nella prefettura della Congregazione dei Regolari, animato dello stesso spirito del predecessore, non si limitò a seguirne le orme durante il pontificato di Pio X, ma ha voluto insistervi malgrado che Benedetto XV avesse cambiato rotta. Così ha fatto mostra di non essersi accorto che il nuovo papa aveva ribenedetto ciò che l'altro aveva deprezzato e sconfessato, e che anzi le preferenze del Della Chiesa erano e sono tutte per i giornali già detti modernizzanti, avverso ai pochi papali integrali (1), e che egli ha chiamato a collaborar con lui i maggiori rapche gli Ungheresi hanno molto da correggere e da purgare: che l’Austria pure, generalmente cattolica, ha da persuadersi che nella pratica cristiana si domanda maggiore esattezza: che la parte cattolica della Germania deve star più attenta contro le perverse teorie morali e sociali; che la parte luterana o incredula ha bisogno di riconoscere come la razza germanica, non cominciò luterana e non deve finire protestante, ma sinceramente e interamente cristiana, cioè cattolica, o almeno benevola verso il cattolicismo.
E siccome questa convinzione, forse incominciatasi sui campi di battaglia, non ha per anco invaso le città e i villaggi; perciò la guerra continua: dico, ancora per questo motivo, che non ne escludo tante altre cause seconde.
Teosofo. Ma alla fin dèi conti chi vincerà?...
. Cattolico. Dio solo sa chi vincerà, perchè da lui dipende la vittoria; lo mostrò anche ai Vespri dell’invenzione di S. Croce, questo mese, quando in Galizia occidentale agli austro-ungarici, sempre disfatti secondo i giornali russi, accordò magnifica vittoria... I bavaresi pure stavano colà col Rosario alla mano e le cartucce al posto... di tiro che pare succedessero alle Ave Maria! »
Io non sono tenero della Censura, ma è fortuna che questa vi sia per impedire che simili melensaggini e simili bestemmie si ripetano.
1 u L anti.co rancore tra i due tipi di giornali cattolici si è manifestato in maniera abbastanza virulenta in questi ultimi giorni dell’anno, a scopo di accaparrare abbonamenti. Leggere, per credere queste righe stampate nel Corriere del Friuli il io dicembre e riprodotte con commovente interesse dall’Uwttó Cattolica del 22 dello stesso mese, sotto il titolo «Aiutate i giornali veramente cattolici... ». Visi parla così dei giornali clericali dell altra tendenza :
• Parlo di altri giornali in Italia, che vorrebbero essere cattolici, ma accendono facilmente un « moccolo ■ anche al liberalismo.
« Credono di farsi strada e di cooperare meglio all’avvenire cattolico d’Italia.
" Sono troppo preoccupati di essere e di apparire patriottici, magari nazionalisti, pensando di annientare la taccia, che viene fatta ai cattolici di non amare la patria’ Annientare quella taccia ? Non è possibile, perchè è insito alla natura dell’avversario del cristianesimo, qualunque nome egli abbia e in qualsiasi tempo viva e operi, di gettare in faccia ai cattolici quella taccia. Conosciamo la stona.
« Cotesti giornali, dalla marca tristamente moderna, più 0 meno hanno cooperato a illanguidire la purezza dell’ideale cattolico in Italia, a indebolire il nerbo della forza combattiva, onde l’organizzazione sociale dei cattolici perseguiva l’altissimo scopo di « instaurare omnia in Christo ». 1
« Cotesti giornali attaccati più o meno in coda al carro del liberalismo, che nei suoi
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presentanti del giornalismo avversato dal defunto pontefice. Fingendo dunque di vivere in un altro mondo, il D’Azevedo — vecchia nobiltà spagnuola — ha ripetuto ai suoi soggetti, i frati e le monache d'Italia, l’antica proibizione, già fatta per piacere a Pio X, di leggere i giornali suaccennati, e più particolarmente quello Che Benedetto XV .predilige, il Corriere d'Italia di Roma. Questo quos ego del cardinale ha suscitato un bel tramestìo in Vaticano dove si son precipitati i colpiti così a tradimento a domandare spiegazioni e a chiedere riparazione. Il papa, uomo di tatto fine, ha voluto che si ponesse subito la cosa in tacere, promettendo di rimediare egli stesso all’eccesso di zelo del suo servo smemorato.
Difatti, profittando della vacanza creatasi per la morte del cardinale Agliardi al posto di cancelliere di Santa Chiesa, onorificentissima carica senza dubbio, ma senza alcuna attribuzione reale di attività o di ingerenza, vi destinò il Cagiano de Azevedo, mettendolo così nell’impossibilità di ripetere gesta consimili. Nè Benedetto XV si fermò a questo, poiché arguendo che dietro al Cagiano altri doveva esservi a muoverlo, volle colpire anche chi, nell’opinione comune, era nel collegio cardinalizio il rappresentante più vero del così detto intransigentismo. Sottrasse così al card. De Lai l’alta supremazia sui seminari e sulle università pontifìcie, creando una nuova Congregazione ecclesiastica indipendente dalla Concistoriale. Chi ricorda l’azione del De Lai su questi istituti di studio e di educazione, comprende facilmente come questa diminuito capitis sia un fiero colpo recato alle tendenze reazionarie.
In tal modo il tentativo di galvanizzare i resti dei papali integrali è miseramente caduto. Non è detto però che tale tentativo sia stato l’ultimo della serie. Ne vedremo forse altri in avvenire non lontano.
Dal canto loro i clericali liberaloidi hanno voluto prendersi subito la rivincita contro l’attentato imprevisto e,dati i tempi, imprevedibile servendosi dei rappresentanti delle Federazioni Nazionali aderenti alla Unione economico sociale tra i cattolici italiani riuniti a Milano il 16 settembre per la costituzione del consiglio direttivo in conformità delle nuove disposizioni statutarie. Fin dai tempi dell’opera dei Congressi, cioè da più che quindici anni, dell’Unione economica sociale aveva tenuto le redini il conte Medolago-Albani, il quale era stato risparmiato persino da Pio X quando questi, della vecchia Opera clericale, che — orribile a dirsi! — chiedeva nel campo politico ed economico un pochino di libertà, fece tabula rasa. Di modo che il conte Medalago Albani era nel seno delle istituzioni clericali oggi vigenti, come rudere intangibile, una specie di sacro palladio per i clericali d’ancien stylc. Ma i giovani filistei delle tendenze nuove non hanno certi rispetti, e nella votazione del 16 settembre il Medolago non solo non ebbe la pienezza dei voti dei convenuti, ma
movimenti di guerre, di alleanze e di paci ha sempre nel sottosuolo della sua azione scopi anticristiani macchiavellicamente ora nascosti ora palesi, hanno contribuito e contribuiscono a turlupinare la pubblica opinione e a mantenere nell'ubbnacatura di un menzognero patriottismo il popolo cristiano, che ha bisogno di essere saturato di verità, di quella verità redentrice e pacificatrice, senza la quale non è possibile la realizzazione dell’ideale cristiano coincidente in perfetta armonia di mezzi e di fini coll’ideale patriottico».
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fu escluso fin dalla terna da sottoporre alla Santa Sede per la nomina del presidente. A far parte di detta terna furono invece chiamati l’ex deputato Angelo Mauri, uno dei maggiori esponenti del trust giornalistico modernizzante, il prof. Boggiano, le cui avventure qual candidato politico abbiamo già illustrato, ed il conte Carlo Zuc-chini di Faenza, che nella vecchia Opera dei Congressi figurava come gli altri due, all’estrema sinistra. Su quest’ultimo cadde poi la scelta di Benedetto XV.
Il corrispondente da Milano àe\V Unità Cattolica, riferendo l’esito di tale votazione, tristemente commentava:
Sarà permesso rilevare e stigmatizzare francamente la guerra che da alcune poche persone venne mossa prima della votazione a) conte Medolago Albani, già presidente. Forse perchè non ha lasciato l’illustre conte penetrare nell’Unione E. S. un certo spirito aconfessionale non voluto dalle direttive pontificie?
È doloroso constatare che, mentre il S. Padre raccomanda l’unione e la concordia, vi sono purtroppo certuni che cercano di alimentare attriti e divisioni e fanno ogni sforzo per eliminare dal campo cattolico uomini benemeritissimi, i quali alia causa di Cristo e della Chiesa non diedero soltanto delle chiacchiere, e che hanno il solo torto di essersi mantenuti sempre tutti d’un pezzo, senza mai piegare per amore di popolarità, o d’altro, fedelissimi alla voce del Pontefice,' si chiamasse Leone, Pio o Benedetto.
E la redazione del giornale presentava dal canto suo le alabarde al caduto, con queste parole, poste in calce a quelle ora riportate:
All’illustre veterano conte Medolago Albani vada, in questo momento, il nostro saluto riverente e il plauso di tutti i cattolici papali per la lunga, utilissima e benefica opera spiegata in seno all’Unionc E. S. e al movimento cattolico italiano, coll'augurio Ch’Egli rimanga ancora nelle prime file per servire di esempio e di conforto agli altri.
Non molti giorni dopo la detronizzazione del Medolago si annunziava il karakiri di un altro pezzo grosso, e cioè del conte Gentiioni, che doveva presentar le dimissioni da presidente feW Unione Elettorale malgrado che a suo favore parlassero le infinite miserie delle elezioni politiche del 1913.
Da questi episodi caratteristici appar manifesto che antichi rancori ardono ancora ben vivi tra cattolici d’Italia e chela loro storia non è stata ancor, chiusa malgrado i decreti pontifici. In ciò Benedetto XV non è più fortunato di Pio X, se, nonostante la terribile tragedia che si sta svolgendo ed in cui siamo stati tratti ancor noi a far da attori, neppure in tali momenti si trova l’accordo nelle sue file (1).
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Ma non sono soltanto i clericali italiani che si perdono con simili miseriole. Anche i loro confratelli francesi fanno lo stesso, sebbene il giuoco di questi ultimi sia più serio e più pericoloso.
(«) Se la guerra non fa dimenticare a certi cattolici gli odii reciproci, non fa purtroppo dimenticare neppure gli interessi economici del loro clero e qua e là il conseguente sfruttamento materiale e morale dei poveri fedeli. Fra i documenti che ce ne offrono, riportiamo il seguente, facendo notare espressamente che non si tratta di una mani-
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La famosa intervista del Latapie con Benedetto XV. è valsa e non solo in Francia a commuovere e ad indispettire l'opinione pubblica, assai più che presi insieme i quattro lustri di schermaglie dei cattolici d'Italia.
Sull’in tervista a cui abbiamo ora accennato (che ebbe luogo il 12 giugno), per negare autorità alla quale parecchie e parecchie volte si è insistito dal Vaticano, è bene intrattenersi per l’importanza indubbia che invece essa ha. E cominciamo col darne le parti essenziali.
— In Francia — disse il giornalista al pontefice — sono commossi per il silenzio della Santa Sede in presenza di tanti delitti.
— In Francia sono ingiusti a mio riguardo, o piuttosto male informati. E sopra tutto i giornalisti, che vogliono trovare che non ho detto abbastanza. Dal principio del mio Pontificato rivolsi al mondo cattolico una lettera in favore della pace, dove pregavamo, scongiuravamo ardentemente coloro che dirigono i destini dei popoli di dimenticare le loro vertenze allo scopo della salvezza della società umana. Proposi una tregua di Natale; mi sono sforzato di ottenere lo scambiò dei prigionieri divenuti inetti al servizio militare ed ebbi la gioia di ottenere un risultato pregevole. Espressi tutto il mio dolore,
festazione del Mezzogiorno ma che invece ci viene dalla Lombardia, e non da un’umile borgata ma da un’importante terra. Ecco, senza altro, il documento in parola:
« Pel VII Centenario della nascita del glorioso S. Contardo, Patrono di Broni.
Io sottoscritto per la salvezza del soldato.prometto di versare alla
Fabbriceria di Proni L...entro un anno dal suo ritorno per onorare il VII Centenario della nascila del glorioso S. Contardo.
N. B. — Volendo domandare altra grazia si cancellino le parole per la salvezza del soldato .............e si indichi qui sotto la grazia che si domanda:
per ottenere..........
Broni, in occasione della festa di S. Contardo, 28 agosto 1915.
Firma...........»
In Francia hanno semplicemente rialzato i prezzi delle loro specialità. Ho sott’oc-chio un avvisetto dell'amministrazione di Lourdes con cui si annunzia il rialzo del costo dell’acqua. Credo non dovere defraudarne i lettori. Eccola:
« Vu la hausse du prix des récipients et emballages, l’Administration de ¡’Œuvre de la Grotte s’est vue dans l’obligation d’augmenter, — très légèrement d’alleurs et dans la mesure de la nécessité, — le prix des expéditions d’Eau de la Grotte.
« Voici quels seront désormais les prix de ces expéditions :
« Les caisses de 1, 2, 4 bouteilles sont expédiées en port payé.
« La caisse de 1 bouteille, franco à domicile, en France......... 2* 10
■ de 4 » . • » • » .... . . .- . . 3 00
« de 4 ■ » » ......... 4 50
« Les prix de ces mêmes envois pour l’étranger, varient suivant les pays.
« La caisse de 12 bouteilles, livrable en gare de Lourdes, camionnage et frais de bureau compris . ............................................5 75
» La caisse de 20 bouteilles, livrable en gare de Lourdes, camionnage et frais
de bureau compris ......................... 8 50 « Le caisse de 30 bouteilles, livrable en gare de Lourdes, camionnage et frais
de bureau compris ............ ............. 11 50
* ipes caisses de 12, 20, 30 bouteilles sont expédiées en port dû et par petite vitesse ».
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il mio affetto, in lettere inviate ai cardinali Lu$on e Amette che si rivolgevano anche a tutta la Francia cosi crudelmente colpita; pronunciai in Concistoro, il 22 gennaio, un discorso in cui riprovavo ogni ingiustizia, aggiungendo che non sarebbe utile, nè conveniente implicare l’autorità Pontificia nei litigi dei belligeranti.
— Ñon si tratta di litigi, ma di delitti.
— Vorreste che biasimassi ogni delitto in particolare? Ognuna delle vostre accuse provoca una replica da parte dei tedeschi; non posso istituire qui un dibattito permanente, nè fare attualmente un’inchiesta.
— Occorre forse un’inchiesta per sapere che là neutralità del Belgio venne violata?
— Era sotto il Pontificati» di Pio X.
—- Non sanno forse tutti che numerosi preti belgi e francesi vennero presi in ostaggio e fucilati?
—- Ricevetti dai vescovi austriaci l’assicurazione che l’esercito russo aveva preso ostaggi tra i preti cattolici, che aveva una volta spinto dinanzi a sè millecinquecento ebrei costituendosene una barriera vivente contro i proiettili nemici. Il vescovo di Cremona mi informa che l’esercito italiano ha già preso in ostaggio diciotto preti austriaci. Sono altrettanti eccessi che riprovai nella mia enciclica proclamando « che non è permesso a nessuno, per qualsiasi motivo, di violare la giustizia ».
— I tedeschi commisero anche altre violenze.
— Il cardinale segretario di Stato ricevette i rappresentanti di 7 congregazioni religiose del Belgio: le suore dichiararono che non potevano citare un solo caso di violenza nella loro congregazione, protetta dalla Vergine o da qualche santo. Rimaniamo male illuminati su questo argomento.
Dopo ciò, secondo il giornalista, si passò a parlare dell’incendio di Lovanio e del bombardamento delle chiese ed il papa affermò di non aver protestato solennemente « perchè non è giunta l’ora di discernere la verità in mezzo a tutte le informazioni contraddittorie »; aggiunse che il card. Mercier non fu mai arrestato e, in rapporto all’affondamento del Lusitania, disse che si tratta, è vero, di un misfatto orribile, ma che pure il blocco, che l'Inghilterra e gli alleati stringono attorno ai due imperi centrali, non è neppur esso ispirato a sentimenti molto umani. Dichiarò poi che emanerà un Sillabo sulle leggi morali dei belligeranti quando la guerra sarà finita.
Venendo a parlare dell’Italia il giornalista chiese perchè il Vativano avesse favorito il mantenimento della neutralità nel nostro paese, rendendo così un servizio alla diplomazia tedésca. Benedetto XV rispose:
:— Riconosco nettamente che eravamo neutralisti, abbiamo dato istruzioni in questo senso ai nostri amici e ai nostri giornali. Volevamo la pace per tre ragioni: anzitutto perchè sono rappresentante di Dio sulla terra. Dio vuole che la pace regni tra gli uomini; il Papa non può volere, non può predicare'che la pace. Secondariamente siamo in Italia: volevamo risparmiare a questo paese che amiamo le sofferenze della guerra. Infine non possiamo nascondere che abbiamo pensato anche agli interessi della Santa Sede. Lo stato di guerra mette tali interessi in pericolo. Siamo attualmente in una situazione incerta.
— Il Papa non è forse libero? Non può forse sotto la legge delle.Guarentigie esercitare liberamente la sua missione?
— Debbo riconoscere che il Governo italiano ci dà prove di buona volontà. I nostri rapporti sono migliorati, ma le cose non procedono ancora con nostra piena soddisfazione. Non si poteva, per esempio lasciare intatta la mia guardia? Ho bisogno di garantire la sicurezza materiale della mia persona, delle ricchezze che mi circondano e mi sono state prese venti guardie, parecchi ufficiali, impiegati che non posso facilmente sostituire e sono state mobilizzate delle guardie nobili. Ma questo è poco accanto al grave inconveniente di non potei- comunicare coi miei fedeli. Il Governo aveva offerto
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la libertà del cifrario segreto ai rappresentanti delle Potenze accreditate presso di noi, ma sotto il controllo e la responsabilità della Santa Sede. Era troppo pericoloso: ci sarebbero state attribuite indiscrezioni relative a cose di guerra. Ho rifiutato quel modo e mi è stata promessa libertà di corrispondere fuori il controllo della censura, ma al mìo segretario di State hanno portato stamattina una lettera del patriarca di Venezia i Cui suggelli erano stati'spezzati. Il Tribunale della Penitenzieria, che si occupa di affari privati, concernenti i fedeli che sottomettono casi individuali di coscienza, ricevette parecchie lettere aperte. Udiamo un solo suono di campana. I rapporti con le nazioni nemiche dell’Italia sono praticamente soppressi. I rappresentanti da esse accreditati Crosso di noi hanno dovuto lasciare l’Italia. Le nostre garanzie, i nostri mezzi sono indo-oliti. Abbiamo fiducia nel governo attuale, ma paventiamo di vederci esposti alle incertezze della vita pubblica italiana. Roma è un focolare ih perpetuò fermento. Direte forse che sarebbe stato assurdo temere ultimamente una giornata rivoluzionaria. Che accadrà domani? Come accoglierebbe il popolo una sconfitta? Come si comporterà nella vittoria? Tutti i movimenti di questo popolo che è il più mobile della terra hanno qui il loro contraccolpo e noi oggi ci sentiamo meno protetti. Comprendete ora perchè ci opponevamo con tutte le nostre forze alla rottura della neutralità italiana: l’avvenire è oscuro.
Il Latapie aveva fatto precedere la pubblicazione della sua intervista riferendo sommariamente una presunta conversazione che egli avrebbe avuto con un prelato francese, il quale l’aveva messo sull’avviso dicendogli che in Vaticano si sarebbe reso conto della disgrazia della Francia per non avere un rappresentante ufficiale presso la Santa Sede, ciò che ha costato alla repubblica gravi disfatte, poiché il papa è tratto in inganno dagli abili rappresentanti politici degli imperi centrali.
Come abbiamo già detto, la pubblicazione di tale intervista ebbe una eco profonda, di modo che il Vaticano cercò dapprima di attenuarne l’effetto con un comunicato dell’Osservatore Romano del 24 giugno, in cui — come se ciò avesse avuto qualche valore in effetto — si ripeteva che occorre distinguere tra documenti ufficiali e pubblici della Santa Sede e le private pubblicazioni. E questa del Latapie come altre del genere, contiene, diceva il comunicato, « parecchie inesattezze ».
Il rimedio fu peggiore de) male, perchè, ed a ragione, il comunicato vaticano veniva implicitamente ad amméttere che per quanto gravi potessero essere le « inesattezze » nell’intervista pubblicata, il fondo ne restava assolutamente vero. Onde il rumore piuttosto che acquetarsi si accrebbe, di modo che il cardinale segretario di Stato credette opportuno servirsi anch’egli del comodo mezzo d’una intervista pubblicata sul Corriere d'Italia del 29 giugno, nella quale intervista confutava quella del Latapie che la Liberté aveva stampato. Ma neppur questo espediente valse a porre la cosa in tacere, poiché il giornale parigino si sentì in dovere di replicare al card. Gasparri. La Liberté infatti, dopo avere riferito la controin ter vista del segretario di Stato la faceva seguire da questa nota (n. del 29 giugno):
Facciamo osservare, con tutta la deferenza dovuta alla sua origine, che questa intervista emana del segretario di Stato del Vaticano, cioè dal Ministero degli esteri della Santa Sede. Si vede quindi che si tratta di soggetto diplomatico di politica estera, materia che, contrariamente al dogma, non ha nulla di assoluto e di immutabile. Abbiamo detto che l’influenza tedesca esercitandosi con tutti i mezzi ha deformato presso la Corte pontificia la realtà delle cose. Saremmo felici se, come sembra indicarlo l’insieme delle dichiarazioni riprodotte dal Corriere d’Italia, l’intervista redatta da Luigi Latapie avesse questo felice risultato. Tale fu lo scopo della nostra collaborazione. Condurre l’ufficio politico del Vaticano ad avvicinarsi, per quanto riguarda le atrocità tedesche e le necessarie sanzioni, ai sentimenti che sono quelli dell’umanità del mondo civile.
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Qualche giorno appresso alla intervista del card. Gasparri, lo stesso Benedetto XV interveniva direttamente scrivendo all’arcivescovo di Parigi, card. Amette, che in data 25 giugno gli aveva chiesto che cosa dovesse pensarsi dell' intervista accordata al Latapie, significandogli la dolorosa emozione che essa aveva prodotta in Francia. La smentita del papa fu recisa e tagliente. Egli scriveva:
Vous savez que Nous refusons toute autorité à M. Latapie qui n’a reproduit, dans son article, ni Notre pensée, ni Notre parole et qui a voulu le publier sans aucune re-vision ou autorisation de Notre part, malgré la promesse qu’il en avait faite.
La Libertè non si tacque, ed in una breve nota, pur affermando la propria riverenza al papa e dicendo comprendere le ragioni per cui in Vaticano si era stati indotti a smentire, confermava ancora una volta la genuinità dell’ intervista dal papa accordata al suo redattore, che l’aveva con piena coscienza e veracità riferita.
Questo lo stato della questione. Ci sia permesso ora un breve commento. Esaminando l’intervista pontificia due parti in essa si rivelano distintissime: la prima che riguarda l'atteggiamento del papa verso le nazioni alleate e piti particolarmente verso la Francia, l’altra che si occupa esclusivamente dei rapporti tra l’Italia e il papato. Che nel riferire la prima parte, « la passione politica o le prevenzioni personali ». come scriveva Benedetto XV al card. A mette, abbiano potuto far dare al giornalista una intonazione — non dico una espressione — diversa alle parole del papa di quella che esse avessero avuto in realtà, è ben possibile. Questo anzi potrebbe essere coonestato dal cappello che il Latapie poneva al suo scritto, in cui rendeva responsabile la politica laica della Francia, con la diuturna rottura di relazioni diplomatiche con la Santa Sede, dell’atteggiamento tedescofilo del Vaticano. Era una spinta ai dirigenti la repubblica a tornare agli antichi amori. Ciò sembra costituire il sogno di un gruppetto di francesi, che cercano in tal senso di montar l’ambiente-. Il tentativo del Latapie, supposto sempre che sì tratti di un espediente a tale scopo, era in tal caso destinato certo a fallire, poiché oggi più che mai la Francia ha altro da fare. Cosicché; pur ritenendo come fondamentalmente esatta la relazione dell’intervista per questa parte, può — ripeto — ammettersi che il giornalista l’abbia molto colorita mischiandovi parecchio del suo.
Dove però questo non sembra logicamente sia avvenuto è nella seconda parte dell’intervista, quella che riguarda i rapporti tra l’Italia e il Vaticano. Non perchè i più retrivi dei clericali non si somiglino dovunque, in Italia come in Austria, e in Francia come in Germania nel ripetere le loro melopee sulla « condizione impossibile fatta dall’Italia all’augusto prigioniero» (1), ma perchè l’attuale momento
(i) E bene non farsi illusione su questo punto e convincersi che la denigrazione dell’Italia da parte.de! clericalismo legittimista internazionale fa parte di un sistema ben fisso. Alcuni giornali italiani hanno recentemente menato assai scalpore, servendosene ai propri fini di attizzamento d’odio c di passioni, di alcuni articoli che nella clericale Germania di Berlino e nella Frankfurter Zeitung sono stati scritti e sottoscritti da notissimi fanatici clericali tedeschi. Uno dei giornali italiani, pour épater le bourgeois, giungeva, riferendo simili esercitazioni accademiche, a porre un titolo su tre colonne con que-
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e la odierna fratellanza d’armi tra Francia ed Italia, avrebbero dovuto consigliare al Latapie di attenuare piuttosto che caricar le tinte di ciò che, nei rapporti dell’Italia, Benedetto XV gli aveva confidato. Eccetto adunque le necessarie deficienze dovute al giornalista nel ripetere qualche dato di una non breve conversazione, è da ritenersi che il pensiero pontificio in riguardo all’ Italia fosse ben riferito dal Latapie. Di qui lo sgomento ridicolo dei vecchi organi del più vecchio liberalismo italico, cullantesi nell’eterna speranza d’essere riuscito ormai ad addomesticare il Vaticano. Persino il Bellonci del Giornale d'Italia, Che si atteggia volentieri a pronubo del nuovo amplesso tra... Cesare e Pietro, pianse tristi lacrime pel disinganno provato ed ebbe l'aria di ripetere a Benedetto XV il « tu quoque? ».
L'avveduto pontefice decise di calmare un poco le apprensioni di questi spauriti gazzettieri; ed in una sua lettera diretta al card. Serafino Vannutelli, in qualità di Decano del S. Collegio, datata il 25 maggio 1915, scriveva fra l’altro:
Nella Nostra prima Enciclica, mossi dal desiderio supremo di veder cessata l’orrenda carneficina che disonora l’Europa, Noi esortavamo i Governi delle nazioni belligeranti, affinchè considerando quante mai lagrime e quanto sangue già erano stati sparsi, si affrettassero a ridare ai loro popoli i vitali benefici della pace: « Ci ascoltino, dicevamo, coloro che hanno nelle loro mani i destini dei popoli. Altre vie certamente vi sono, vi sono altre maniere onde i lesi diritti possano aver ragione: a queste, deposte intanto le armi, essi ricorrano, sinceramente animati da retta coscienza e da animo volenteroso. È la carità verso di loro e verso tutte le nazioni che così ci fa parlare, non già il Nostro interesse. Non permettano dunque che cada nel vuoto la Nostra voce di padre e di amico ». Ma la voce dell’amico e del padre, lo diciamo coll’animo affranto dal dolore, non venne ascoltata; la guerra continua ad insanguinare l’Europa e neppur si rifugge in terra ed in mare da mezzi di offesa contrari alle leggi dell'umanità ed al diritto internazionale.
sta scritta: « Guglielmo II ripristinerà il potere temporale ». Gli espedienti giornalistici di tal fatta sono forse buoni ma non cessano di essere... espedienti. Nella « nostra sorella latina », ad esempio, non siamo meglio trattati che in Germania, dove il rancore contro di noi è assai più spiegabile. Leggete per curiosità queste poche righe che La Croix di Parigi, il 22 maggio scorso, nei giorni stessi della nostra entrata in guerra, pubblicava:
« L’entrée de l’Italie en scène soulève une question de la plus haute gravité, celle de la liberté des relations du Saint-Siège avec les puissances. Nous n’abordons pas dans cette note la question pour la traiter. La diplomatie trouvera les combinaisons nécessaires pour que des ambassadeurs des puissances neutres représentent auprès du Pape les nations qui resteront sans mandataire direct.
« Nous n’écrivons ces quelques lignes que pour constater que cette question existe et qu’elle attend sa solution. Peut-être la guerre, du reste, pourra-t-elle l’apporter. Les catholiques du monde entier veulent que le Saint-Siège soit indépendant: c'est son droit absolu et c’est une nécessité primordiale».
Si potrebbe forse notar da qualcuno che la Croix è fra i giornali clericali più retrivi della Francia. E ciò è vero. Ma non è meno vero che uno dei grandi Organi liberali. Le Gaulois, di cui anzi qualche giornalista nostrano e, se non erro, lo stesso Gabriele d’Annunzio hanno magnificato l’amicizia verso di noi; riferendo la riportata nota della Croix, nonché farvi, le sue riserve e deplorarla, la confortava della sua approvazione con questa breve postilla (n. del 22 maggio):
« Nous nous associons complètement aux conclusion de notre très distingué confrère ».
E allora perchè meravigliarsi di qualche giornale tedesco, in cui, se più diffusamente, non certo più malignamente di altri francesi ci si ricantano le cose stesse?
Per quanto riguarda l’Italia, vedere più innanzi in questo stesso articolo.
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E quasi ciò non bastasse, il terribile incendio si è esteso anche alla Nostra diletta Italia, facendo pur troppo temere anche per essa quella sequela di lagrime e di disastri che suole accompagnare ogni guerra, sia pur fortunata.
A quelle due parole «diletta Italia» i sullodati signori si aggrapparono dispe-' ratamente, come naufraghi alla tavola di salvezza. E fu un coro di plausi e di riconoscenza al pontefice, che s’era degnato di largire un aggettivo qualificativo così stuzzicante alla patria nostra. Nè vollero credere ad una amabile presa in giro da parte di Benedetto XV, neppure allorché, lasciate passare due settimane perchè il lirismo avesse tempo a celebrare con le iperboli migliori il grande evento, il solito nero giornale fiorentino rideva loro in faccia e santamente li schiaffeggiava con una noticina che vale la pena di riporre sott’occhi ai nostri lettori e di conservare per la storia. Diceva dunque V Unità Cattolica del 6 giugno:
Saremo molto tardi d’intelligenza, ma non possiamo giungere a comprendere come si sieno potuti scrivere dei poemi, sulla stampa di tutti i colori, a proposito della frase usata dal Papa: « la diletta Italia »! Come se i Papi, specialmente poi gl’italiani, sieno mai stati nemici dell’Italia, o avessero odiata l’Italia, come se l’Italia non fosse stata sempre a preferenza amata, favorita, protetta dai Papi.
Come se il Papa che scrive ai « diletti » figli della Francia, ai « diletti >• figli del Belgio, ai « diletti » figli di tutte le altre nazioni, solo per la patria sua, per 1’ « Italia • sua, non avesse potuto dire: la diletta Italia!
Leggansi le lettere, encicliche e allocuzioni di Pio IX, di Leone XIII, di Pio X e si troverà quanto ha détto Benedetto XV dell’Italia.
E allora perchè tanto chiasso fra i liberali?
La dottrina dei Papi verso l’Italia è e fu sempre l’eguale, specie se furono Papi italiani.
Dunque non novità, ma coerenza nei successori di S. Pietro.
Ma v’è ancora di più a dimostrare la ingenuità dei liberaloidi italiani. Avendo Benedetto XV nel brano che abbiamo riferito della sua lettera accennato che in questa guerra « non si rifugge in terra ed in mare da mezzi di offesa contrari alle leggi dell'umanità ed al diritto internazionale », i predetti signori crédettero scorgere in tali parole una condanna non equivoca dei tedeschi. Questa volta fu lo stesso Osservatore Romano a dimostrare ad essi la presa cantonata, poiché, diceva l'organo pontificio, il fugace accenno di protesta non esorbitava nelle intenzioni del papa dai termini neutrali di una generica riprovazione dispensata a tutti i belligeranti senza distinzione e senza parzialità.
Di quest’arte del dire e non dire, di far credere d'aver detto ciò che poi smentisce di avere dichiarato, di riservarsi sempre una porta di salvataggio. Benedetto XV s’è dimostrato maestro. La sua «neutralità» ne ha affinato ancor più questa prerogativa, di modo che nelle circostanze più scabrose, in cui una decisione fra il sì e il no sembrava indeprecabile, il pontefice ha potuto praticar la sua manovra di tergiversazioni. Basterà qui accennare alle fiere polemiche tra cattolici delle varie nazioni belligeranti. Pio X, se fosse vissuto ancora, avrebbe approvato senza sottintesi o condannato senza attenuanti le manifestazioni d'una delle parti, o si sarebbe assiso senz’altro arbitro in mezzo ad esse, e, imposto silenzio, si sarebbe fatto obbedire. Benedetto XV ama invece le vie traverse. Ne è prova tutta la sua azione durante la guerra. Ed una riprova specifica può dedursi dal recente caso Baudrillart, in rapporto al volume da lui redatto: La guerre allemande et le catholicisme, a cui il Cardinal Amette,
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arcivescovo di Parigi aveva voluto apporre una sua significativa prefazione. Il libro costituisce un fiero attacco vivacissimo contro i cattolici della Germania ed esorbita spesso, acceso com’è d’amor patrio, dai limiti della carità e fors’anche della giustizia. Il libro infatti, avendo uno scopo polemico ed una tesi fissa, non poteva non incorrere in tali difetti in questo momento di tremenda tensione di animi, e la sua importanza non sarebbe stata molta e avrebbe costituito uno dei tanti volumi di occasione che la guerra — e non è certo l’ultimo dei danni di questa — ha fatto pullulare senza che alcuno se ne commuova troppo, se non avesse avuto a redattore il rettore dell’istituto Cattolico di Parigi ed a presentatore un cardinale. Da ciò il rumore fatto attorno al volume, rumore che indusse l’episcopato germanico à presentare al papa le sue recriminazioni con la domanda d'una sconfessione del libro stesso.
Se Benedetto XV avesse aderito alla richiesta e avesse ordinato che il volume fosse stato posto all’indice, lo scandalo sarebbe stato ben grave e le conseguenze in Francia forse incalcolabili per le personalità coinvolte, senza contare che nel parere di certuni avrebbe costituito un atto di violata neutralità da parte del pontefice. Il quale, d’altronde, non poteva alienarsi i cattolici di Germania non dando loro alcuna soddisfazione. Onde Benedetto XV cercò di girare il pericolo. Si vide, infatti, venire a Roma il Baudrillart e l’Amette, i quali, come si è supposto da qualche giornale, ebbero dal papa una forte lavata di capo per la loro impresa letteraria, contrastante, secondo Benedetto XV, col carattere e con gli obblighi morali d’ogni cristiano e tanto più con quelli di sacerdoti e di vescovi, che mai, in nessun caso, dovrebbero abbandonarsi a tali intemperanze anche contro i nemici della propria nazione.
Monsignor Baudrillart accennò timidamente a smentire la voce corsa e che era purtroppo rispondente a verità, della refirimande pontificia, dicendo che aveva avuto assicurazioni a Roma che il suo volume non sarebbe stato censurato. Ma era egli appena rientrato in patria, che Benedetto XV dirigeva al cardinale di Colonia, Hartmann, e per suo mezzo all’episcopato tedesco, una sua lettera autografa, redatta in questi termini
Il vostro indirizzo ci ha recato la testimonianza del vostro affetto per Nói, come dello zelo con cui vi sforzate per proteggere e per incoraggiare gli interessi cattolici della vostra patria. Per questo doppio merito vi felicitiamo e notiamo con gioia che il vostro convegno annuo è stato tenuto presso la tomba di San Bonifacio. Pigliaste il santo come esemplare per modellare la vostra attività sulla sua. Nelle condizioni attuali del mondo, quando scossi da tempesta gli Stati più floridi in Europa vedono la loro esistenza quasi minacciata, comprenderete facilmente, cari fratelli, quali siano i sentimenti del nostro cuore e come noi pensiamo giorno e notte a tanti uomini morenti quotidianamente, a tanta gente accasciata dalle terribili prove. .
E evidente che, man mano che le ruine della guerra si accrescono, il desiderio di pace diviene più intenso in tutti i popoli. Ma noi vorremmo che questa aspirazione generale pigli il cammino maestro dell’amore degli uomini, la sola via per giungere alla pace. Da questo cammino si allontanano molto quelli che si credono riservato il diritto di biasimare l'azione degli altri cattolici appartenenti ad altri paesi, con la parola e con la penna, così che. secondo il linguaggio dell’apostolo Paolo, si sfidano Ira loro, accrescendo lo strazio, aggiungendo esca al fuoco, quando dovrebbero cercare di estinguerlo con la serenità delle loro disposizioni. Cosi, mentre invochiamo ardentemente la pace, una pace rispondente alle esigenze della giustizia e della dignità delle Nazioni, esortiamo tutti i cattolici ad evitare qualunque disputa, uniti nel fraterno amore di Cristo a lavorare insieme per l’avvento di quella pace.
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Il titolo del libro di cui abbiamo parlato e il nome degli autori non erano espressamente indicati da Benedetto XV, ma non occorreva sforzo alcuno di intelligenza, nè ombra di malizia per leggerli in questa deplorazione.
Le ripetute prove di separazionismo tra i cattolici dei vari paesi, e più precisa-mente tra quelli delle due parti belligeranti, tentate particolarmente dal blocco anglo-latino, si spezzavano così di fronte alla volontà ed è bene dirlo, alla abilità politica del papa. Un ultimo tentativo — ultimo fino ad ora —, è stato fatto da un gruppetto di cattolici italiani, che fa capo ad una rivista milanese, iniziando una campagna per una più stretta unione dei clericali dei due paesi, l'Italia e la Francia, per un’azione concorde anche a guerra ultimata. Tale proposta si dimostrava a colpo d’occhio d’una fenomenale ingenuità. Poiché o essa, propugnando un’alleanza tra i cattolici di due popoli, si proponeva scopi puramente religiosi e ciò significava e supponeva uno stato di guerra verso i cattolici di altri popoli, ovvero aveva scopi politici, ed allora o era una manovra di politicanti che svelavano troppo presto il loro giuoco, invero assai puerile, di riuscire ad impossessarsi con moto ed aiuto concorde del potere nei due paesi, ovvero significava voler perpetuate le divisioni e gli odi di razza, i cui frutti amari raccogliamo quest’oggi, e prepararne di nuovi.
Anche su tal progetto Benedetto XV non si espresse direttamente, ma lasciò che V Osservatore Romano (numero del i° novembre) lo seppellisse con un suo articolo, di cui diamo qualche periodo:
Guai se volessimo impicciolire il grande ed universale sentimento di fratellanza cristiana, costituendo delle falangi di cattolici contro altre falangi di cattolici. Sarebbe questa certamente la distruzione di ogni e qualsiasi sentimento cristiano; poiché per noi ogni cattolico, a qualsiasi nazionalità egli appartenga, è un fratello, ma più che nelle contingenze temporali, nei vincoli morali, spirituali e religiosi, che sono gli unici che veramente non mutano mai. Però anche questi vincoli di natura terrena hanno grandissima importanza materiale, rendendo, come abbiamo detto, meno feroce la guerra, meno crudele la carneficina, meno raffinato l'estremo cimento. Se tutti i capi di Stato e i comandanti d’esercito subissero l’influenza del sentimento cristiano universale, anche nella immane guerra attuale, non verrebbero posti in opera tutti quegli strumenti di distruzione che non servono direttamente agli scopi della guerra e non costituiscono che un raffinamento di crudeltà e di barbarie e che rendono per opera dell’uomo tanto più crudele quello che è già per se stesso un flagello.
Come si vede il vero sentimento cristiano sarebbe buono a qualche cosa anche quando non impedisca la guerra, con tutte le sue conseguenze inevitabili e fatali. Ed è su questo sentimento veramente universale, che si appoggia l’unica internazionale che non si sfascia al primo comizio «pro guerra», ma rimane sempre, come segnacolo di solidarietà umana, come vessillo di civiltà, come perenne protesta contro la nuovissima barbarie che infesta il mondo in nome di interessi che sono infinitamente minori dei danni che la guerra arreca al mondo ed agli uomini.
E quando tutto sarà finito allora bisognerà ricorrere alla internazionale cristiana per ricostruire quello che nel mondo morale e nel mondo fisico i popoli avranno distrutto.
dfr
Benedetto XV, che, anche quando supreme esigenze di giustizia e di diritto avrebbero richiesto la sua parola, continuava ad osservare il silenzio, volle un giorno dir chiaro tutto il suo pensiero.... e parlò. In verità non si riesce a concepire cosa più
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volgare della diatriba pontificia tenuta contro persone e ministri di altri culti che onestamente e con sincerità professano c propagano la loro fede.
Già da qualche tempo cominciava a notarsi un piccolo venticello di fronda più particolarmente contro gli unici organismi religiosi Che, all’infuori del cattoli-cismo, dimostrano una qualche vitalità in Italia., le chiese evangeliche. Io non giudico qui della purezza, della bontà, della assolutezza o della contingenza, della perfezione o meno delle rispettive credenze, a cui sono estraneo, ma registro e giudico i fatti che si vengono producendo. E bisogna pur dire che in terra di libertà, e che per tutte le libertà e contro ogni asservimento dicesi che combatta, sembra inesplicabile come, ad esempio, un giornale della capitale, ufficioso del governo, potesse stampar queste parole incastrate come a caso in una iperbolica relazione di dimostrazioni fatte a soldati partenti per la guerra:
Vorremmo ripetere a quel garibaldino, dalla barba bianca, che con la brava camicia rossa fregiata di medaglie e berretto segnato dal n. 9 stamani in piazza Termini, trasformatosi in pastore protestante, stava fra un gruppo di soldati vendendo copie degli Evangeli sulla versione ©iodati, che egli poneva in raffronto con quelli della chiesa cattolica.
Non facciamo questione né di protestantesimo né di catolicismo: la santità della parola divina resta alla persona incolta così nell’una come nell’altra versione: diciamo solo al vecchio garibaldino: spoglia la tua divisa e predica, quanto vuoi nelle piazze, Lutero, Calvino, il Concilio di Trento, la Riforma, ecc. (Giornale d'Italia, 3 giugno).
Come se in un paese dove è permesso al primo scamiciato che s’improvvisi retore e al primo asino che s’improvvisi uomo politico, 0 magari uomo di Stato, di blaterare a sua posta in ogni piazza 0 t rivi©, dove è permesso a preti in veste o in calzoni e a raffinate dame de la haute andar distribuendo sino nei treni militari amuleti sacri e gingilli, dovesse farsi osservazione dal primo gazzettiere capitato ad un vecchio che, dopo aver pugnato eroicamente per la patria, mostrava alle giovani reclute senza sottintesi e senza rispetti umani la propria fede e ne diceva loro la bontà.
Altri fatti consimili si potrebbero registrare a dimostrazione cóme in Italia intendano la « Sacra unione » i nuovissimi guelfi.
Da questi precedenti deve aver tratto Benedetto XV incoraggiamento a pronunziare le irruenti parole che ora citeremo. Egli deve aver pensato che se altri aveva dissodato un poco l’ingrato terreno, egli poteva ben seminarvi. Perciò, ricevendo il 21 novembre i componenti l’Opera della preservazione della fede, così parlava loro:
Noi vi saremo grati» o diletti figli, se vorrete perseverare nello zelo che avete dimostrato fin qui; più grati ancora, se non vi spaventeranno i maggiori sacrifizi che le accresciute difficoltà dell’epoca nostra potranno forse richiedere da Voi. Ma Noi vorremmo soprattutto che il vostro proposito di adoperarvi più efficacemente a favore della « Opera della Preservazione della Fede in Roma ■ si traducesse in una cura più costante di far conoscere ad altri il gran pregio di quest’opera. Basterebbe all’uopo che a quanti parenti ed amici vi fosse dato avvicinare. Voi domandaste animosi, sé vedendo un fratello assalito da masnadieri, improvvisamente sbucati dalle foreste, lascerebbero derubare quel povero fratello di ogni suo più prezioso avere. No, mille volte no, risponderebbero quei parenti e quegli amici, memori dei precetti della carità e della giustizia. E allora perchè non incalzereste Voi col mostrare i fratelli di Roma esposti agli assalti dei ladri peggiori che i ladri usciti dalle forèste? Vi faremmo torto, o figliuoli, se non vi sup-
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Sonessimo consapevoli che la fede è un tesoro di gran lunga più prezioso di tutti i beni ella terra, perchè « radice e fondamento » di tutta la vita cristiana, perchè senza di essa il cristiano « non può piacere a Dio », anzi viene ad essere una contraddizione con se stesso, in quanto che un fedele senza fede non si concepisce. Égli è perciò superfluo l’insistere nel dimostrare che a chi ruba la fede deve darsi il nome di ladro. Ma che cosa fanno cotesti emissari di Satana che in mezzo alla città santa innalzano templi ove a Dio si nega il vero culto, che erigono cattedre pestilenziali per diffondere errori in mezzo al popolo, che spargono a piene mani la menzogna e la calunnia contro la religione cattolica e i suoi ministri? Queste arti diaboliche sono altrettanti assalti alla fede dei figli di Roma, e sono assalti più pericolosi quanto più frequenti, e quante più insidiosi perchè accompagnati troppo spesso dall’allettamento di vantaggi temporali! Oh! poveri Eadri di famiglia, ai quali è offerta la gratuita educazione dei figli a prezzo del loro al-•ntanamento dalla Chiesa! Poveri figli, ai quali è promesso un aiuto per la cadente età dei genitori, se genitori e figliuoli daranno il loro nome alla setta evangelica!
Non fa mestieri insistere più oltre nel descrivere il pericolo che minaccia la fede dei figli di. Roma; basta percorrere le vie di quest’alma città per conoscere le arti molteplici onde la fede cattolica è'assalita in questa naturale sua sede. Nè fa d’uopo spendere molte parole per mettere in rilievo la maggiore iniquità dell’assalto, appunto perchè mosso contro il centro della cattolica religione. Oh! non vi è punto a temere che le porte dell’inferno possano aver prevalenza; ma nondimeno chi non vorrà lamentare, prima il danno che ne verrebbe a questa santa città e poi lo scandalo che ne avrebbe il mondo cattolico, se Lutero e Calvino giungessero a piantare stabilmente le loro tende nella città dei Papi ? Voi soprattutto lo lamentereste, o diletti figli che avete la sorte di apprezzare nel suo giusto valore il tesoro della fede, voi che a ragione deplorate con Noi quell’indifferentismo religioso, che è il primo effetto dell’atmosfera malsana in cui sono costretti a vivere i giovani dell’epoca nostra. Ma che gioverebbe la tardiva lagnanza? È d’uopo preservare la fede in questi nostri poveri fratelli, è d’uopo impedire che ai loro danni si compia l’esecrabile furto. Non ci sembra, o figliuoli carissimi, che il nostro linguaggio possa essere tacciato di esagerazione, se «opera di veri ladri » chiamiamo l’insieme degli assalti mossi contro la fede dei figli di Roma. Ma la congiura di questi ladri dev’essere distrutta da una forte organizzazione di difensori della fede, e questa voi l’avete nella • Opera della Preservazione della fede in Roma ».
Le aspre parole e le insinuazioni di Benedetto XV verso uomini meritevoli d’ogni stima, ricordano gli strani metodi di una apologetica fatta a base di pie bu-giole e di invereconde sfacciataggini, poiché si attribuiscono ad avversari dichiarati ma leali, facendone loro colpa, abitudini invalse purtroppo e largamente praticate nella chiesa di Roma, ove la « sacra cambialetta » è da qualche tempo una istituzione, e dove il non meno « sacro » boicottaggio, o il tentato affamamento verso chi.non si mostri rigido praticante, son cose d’ogni giorno (I).
Di fronte alle parole del papa, i rappresentanti delle varie istituzioni evangeliche in Roma, seppero trovare il linguaggio opportuno, dimostrando di aver più. senno e maggior padronanza di se del pontefice. Essi, infatti, riunitisi, votarono il seguente ordine del giorno:
I rappresentanti di Chiese e di Opere evangeliche in Roma presa nota di un’allocuzione pronunziata dal capo della Chiesa cattolica romana a loro riguardo; considerato
(i) Non intendo qui, io che non appartengo a confessioni religiose costituite, assumere le difese di queste. Mi limito a registrare e a commentare. Non occorre però parteggiare, per rilevare come il pontefice parlando in modo cosi irruento si sia fatto compatire dagli osservatori estranei a beghe di chiese e chiesuole.
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che sarebbe antipatriottico assecondare qualsiasi polemica di natura tale da turbare la concordia degli animi nell’ora storica e solenne in cui i figli d’Italia, senza distinzione di fede, danno il loro sangue e la loro vita per una patria più grande; ritengono non essere dignitoso rispondere, e passano all’ordine del giorno.
E basta di quésto episodio di guerra religiosa, stupida guerra questa e infame sempre, ma tanto più peccaminosa adesso, in quanto oggi lottano con vera fraternità, a difesa e per l’onore delle nazioni rispettive, senza distinzione di razza e di battesimo, con prodigi di valore, tutti gli uomini atti alle armi.
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Accenniamo, in fine, alla schermaglia in cui vengono esercitandosi i cattolici italiani a proposito del futuro Congresso della pace. Naturalmente anche in questo si tratta di pure esercitazioni accademiche, in cui si contrastano e battagliano, dal tavolino rispettivo, uomini che par non abbiano altro da fare che arzigogolare sempre, senza trovarsi d’accordo mai. Come sempre, però, anche stavolta, il postulato da cui partono è unico, cioè: il papa deve intervenire alla Conferenza per la pace. Le divergenze si manifestano nella questione subordinata: Che va a fare il papa o il suo delegato alla detta conferenza?
In verità non si conosce ancora la ragione del postulato fondamentale poiché le giustificazioni addotte per sostenerlo sono piuttosto tali da escluderlo. Infatti, tutte le giustificazioni si riassumono in questa: il papa è rappresentante del mondo religioso—cattolico, si sottindende,—quindi è la più alta potenza morale che non può essere esclusa dal Congresso, ecc. Dato che il principio valga, esso dovrebbe parimenti essere giustificato per la Federazione delle chiese evangeliche, che dovrebbe inviare il suo rappresentante, pel santo sinodo russo, e, perchè no?, per le religioni ufficiali del Giappone e della Turchia. E non v’è da obbiettare che tutte queste religioni siano inferiori per importanza (almeno di numero, poiché, a parlar di eccellenza, ognuno afferma che la sua è la più perfetta), al cattolicismo. Nè si dica che solo la cattolica ha il pregio dell’unità, poiché mai abbiamo visto, come in questo anno di guerra, degli uomini non belligeranti azzuffarsi più fieramente come i cattolici fra di loro, con improperi e vituperi reciproci, e con propositi di odio duraturo.
Ma, ritornando all’argomento, i cattolici, data come cosa che non necessita di dimostrazione, la imprescindibilità dell’intervento pontificio, si chieggono, ciò che tutti si chiedono, che cosa egli farebbe tra i parlamentari e quale tesi egli sosterrebbe. E... hic sunt leones. Perchè le due o tre tendenze che nel clericalismo battagliano non riescono a porsi d’accordo. Pomo di discordia è, come sempre, la Questione Romana. C’è chi vuole che essa esuli completamente dalla Conferenza per la pace, chi vuole che essa vi venga introdotta di sotterfugio, c’è, infine, chi vorrebbe e propugna che essa vi sia posta in tutta la sua integrità e gravità e sia risòluta radicalmente, restituendo al papa il « mal tolto », 0, quanto meno, la « sua » Roma.
In una intervista con un cardinale, il cui nome naturalmente si sottaceva, ma che era facile identificare, pubblicata dal Resto del Carlino di Bologna (numero del
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13 agosto 1915), alla-domanda rivoltagli dal pubblicista circa la Questione Romana, il porporato rispose:
— C’è o non c’è (la Questione Romana) — non è questo il momento di giudicarlo. Quello, viceversa, che è indiscutibile è questo che non un solo soldato, fra i milioni che combattono, ha mai pensato alla Questione Romana. Seppure tale questione esiste ancora, essa certamente esula dal conflitto attuale, e dovrà essere assolutamente estranea a quella Conferenza, che dovrà comporre in pace codesto immane conflitto.
La Conferenza, si capisce, dovrà discutere e dibattere una serie di transazioni reciproche, a base di compensi territoriali, doganali, coloniali e pecuniarii; i rappresentanti degli Stati belligeranti discuteranno energicamente, ciascuno difendendo i pro-prii interessi. Ma, se il Papa facesse complicare le cose gettando sul tappeto anche la famosa Questione Romana, tutti i diplomatici degli Stati belligeranti si troverebbero d’accordo, automaticamente, nel riconoscere la inopportunità della novella complicazione, per opporle, unanimi, ciò che suol chiamarsi una pregiudiziale di inammissibilità, o, se vi piace meglio, un « fin de non recevoir ».
D’altronde, vi dimandò io, quale competenza avrebbe il Messo pontificio a discutere di altri affari materiali, che egli, probabilmente non conoscerebbe neppure? Egli rischierebbe di dar luogo a stonature incorreggibili, cantando come suol dirsi, « extra chorum ».
Basterebbero, mi pare, queste ragioni — cosi sommariamente esposte — per dimostrare che il rappresentante del Papa, ammesso alla Conferenza, dovrebbe finire col riconoscere in breve la inutilità, se non anche la inopportunità del suo intervento, e ridalla Conferenza.
Il prelato, che così parlava e che era evidentemente uomo di buon senso, rappresentava, sto per dire, l'estrema sinistra fra i clericali e faceva quasi le parti di avvocato del diavolo. Onde, contro di lui si levarono altri a sostenere le altre tesi, e fra questi, per esemplificazione, accennerò ai due più tipici, che valgano, insieme al cardinale di cui sopra ad illustrare le tre tendenze del campo nero.
Uno scrittore aulico, che passa ora per il confidente e spesso anche, a seconda dell’opportunità, per portavoce di Benedetto XV, il marchese Filippo Crispolti, parteggiò apertamente per la tesi dell’intervento del rappresentante del papa al congresso, il quale rappresentante avrebbe la missione di far la guardia contro l’introduzione abusiva di quella tale questione. Egli infatti scriveva nel Cittadino di Genova, (n. del 18 maggio), sotto il suo pseudonimo di Fuscolino:
L’interlocutore del Carlino non ha pensato che la presenza di un rappresentante pontificio servirebbe anzi ad impedire che la Questione Romana fosse posta. Poiché ci vuol poco ad immaginare che le potenze, le quali di fatto si son viste mancare, in seguito all’intervento italiano, i loro ambasciatóri presso la Santa Sede, possano aver voglia di sollevarne incidente, di domandare, cioè se non ha inconvenienti la condizione attuale del Papa a Roma, la quale, in caso di guerra fra l’Italia ed altre nazioni europee, consiglia per prudenza o per dignità i rappresentanti diplomatici di queste ultime presso il Vaticano, a lasciare il loro posto finché le ostilità durano.
Ora, ci vuol poco a capire altresì, che se alla Conferenza un rappresentante pontificio sia presente, questi tutto intento, secondo lo spirito pacificatore del Papa, a facilitare i modi di comporre fra le potenze il dissidio sanguinoso con provvedimenti che impediscano il suo riaprirsi, vedrà la necessità di non complicare il complicatissimo problema coll’aggiungere ai molti punti questionari anche il punto della condizione della Santa Sede in Italia. E quando questo contegno sia tenuto dal rappresentante pontifìcio, quale delle Sitenze si prenderà la briga d’essere, in materia papale, piò zelante di lui? La Questione omana, appunto per essere eliminata, è un motivo per augurarsi la presenza del Papa nella Conferenza, non un motivo per escluderla.
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Questa tesi subordinata dell’intervento senza Questione Romana, anzi contro la Questione Romana, non poteva trovar consenzienti gli « integrali », per i quali V Unità Cattolica (20 agosto) così commentava lo scritto del Crispolti:
L’egregio scrittore del Cittadino di Genova « Fuscolino » tratta il tema abbastanza delicato del Papa e la futura Conferenza per la pace.
Volendo confutare il Resto del Carlino corre troppo avanti e inciampa in una tesi molto alta ma di competenza della S. Sede: cioè se al futuro congresso per la pace sarà risollevata la Questione Romana.
Noi non oseremo sostenere l’opposto di quello che sostiene « Fuscolino », ma neanche osiamo accettare e profetare che « Fuscolino » scrive bene e con tutte le probabilità di indovinare il futuro.
E chi dice a « Fuscolino » che la Questione Romana complicherà il problema? E non potrebbe essere messa sul tappeto, in un modo che noi immaginiamo nemmeno ora, non dal rappresentante pontificio ma da altri rappresentanti?
Dunque non trattiamo in fretta certi temi e non annaspiamo all’aria poiché potremmo spiacere non solo ai liberali ma anche ai cattolici.
In questo breve commento due cose sono da rilevarsi, cioè due speranze che hanno in cuore i cattolici papali integrali: la prima, che l’assunto del Crispolti non risponda precisamente e non quadri del tutto con le idee di Benedetto XV in proposito. Ma il dubbio, purtroppo, c’è, e V Unità Cattolica che altre volte avrebbe usato diverso linguaggio ora si limita a dire: « non oseremmo sostenere il contrario di Crispolti, ma... ». La seconda speranza nella quale si rifugiano, dacché è sorto il timore in essi che il papa sia fautore della tesi deprecata e che non tuteli abbastanza le ragioni della Santa Sede, è che, sia pure contro la volontà del pontefice, la Questione Romana sia messa sul tappeto « non dal rappresentante pontificio, ma da altri rappresentanti ». Evidentemente i clericali di estrema destra confidano ' tenacemente^ in Francesco Giuseppe. « l’apostolico » !
In risposta più, credo, ai clericali interni che a quelli esteri, nel discorso solenne del ministro Orlando tenuto il 21 novembre a Palermo — discorso prima esposto ed approvato nel Consiglio dei ministri, — la legge delle guarentigie veniva glorificata come quella che aveva pienamente risposto ai suoi fini anche nei torbidi momenti attuali. Disse il Guardasigilli:
Difficoltà di altro ordine, ma se è possibile, ancor pili delicate creava la situazione del Sommo Pontefice, la cui speciale sovranità era stata riconosciuta da una legge fondamentale delio Stato, e per quasi mezzo secolo con tutta lealtà applicata. In essa l’evento della guerra non era regolato espressamente; nè l’omissione era dipesa da imprevidenza, bensì come attestano gli atti parlamentari del tempo, dalla esitazione e dalla perplessità, che generava la visione delle gravi complicazioni, che quell’evento avrebbe determinate in materia già per sè stessa così ardua. Ebbene, noi queste difficoltà, che avevan resi perplessi uomini pur così grandi, abbiamo affrontate e superate col semplice presidio di una scrupolosa osservanza della legge, non soltanto mantenendo inalterate tutte le guarentigie che essa attribuiva, ma qualche lacuna che la esperienza rivelava, colmando con uno spirito di larga interpretazione del principio fondamentale della legge stessa: di riconoscere, cioè, e di garantire quella speciale forma di sovranità spirituale.
Per tal modo, mentre in altre, non più di questa, gigantesche lotte di interessi e di popoli, la qualità sacra di Capo della Chiesa non aveva impedito che il Sovrano temporale soffrisse persecuzioni e violènze, prigionia od esilio, da Gregorio VII a Bonifacio Vili a Pio VII, nella presente spaventosa procella che non ha risparmiato i principi più in-
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discussi, nè gli imperi più possenti, e che ha dimostrato quel che valgono gli impegni internazionali più solenni, il Sommo Pontefice governa la Chiesa con una pienezza di diritti, con una libertà, una sicurezza, un prestigio, quali si convengono alla veramente sovrana autorità, che nel campo spirituale gli compete.
All’indomani stesso di tale discorso l’organo ufficiale del Vaticano si affrettava ad enunciare le proprie riserve, riserve fatte proprie, subito e con gioia, dagli altri giornali clericali italiani. I quali si misero in capo che se la legge delle guarentigie aveva resistito agli urti delle circostanze eccezionali lo si doveva solo alla longanimità pontificia. Riporto, come esempio, ciò che il solito giornale fiorentino diceva (numero del 25 novembre):
Anche quando il ministro fa l’elogio della legge delle Guarentigie che, secondo lui, si sarebbe mostrata alla prova dei fatti quanto mai sapiente, non fa che ripetere quanto si va blaterando quotidianamente dai parrucconi della Perseveranza ai Quadretti del Secolo; anche in questo il discorso Orlando non ha proprio atteggiamenti nuovi da annunziare; eppure da quel giurista che il ministro intende di essere avrebbe almeno dovuto constatare che se non sono emersi dei guai clamorosi più che a valore intrinseco delle Guarentigie si deve allo spirito di tolleranza della Santa Sede senza del quale chissà qual piega poteva prendere la cosa.
E. poi chi assicura ad Orlando che il contegno di Salandra-Orlando d’oggi sarà, rispettato e tenuto pure fra una settimana, fra un mese, fra un anno da un’altro gabinetto di tinta più anticlericale?
Ecco la precarietà delle Guarentigie e la nessuna definizione o risoluzione della famosa morta e sepolta, ma sempre viva appena la si tocca. Questione Romana.
Ed avendo avuto la Perseveranza di Milano la malinconica idea di ricorrere al luogo comune della piena benevolenza del papa verso l’Italia, avendo Benedetto XV accettato pienamente la soluzione data al problema della situazione diplomatica della S. Sede allo scoppio della guerra, ed avendo in conseguenza resistito a tutte le pressioni fattegli onde abbandonasse il Vaticano per rifugiarsi in Francia, in Svizzera od altrove, si tirò addosso la seguente paternale da parte (feW Unità Cattolica (rium. citato): •
Adagio Donna Paola, e non precipitare colle, tue facili ciarle su tema così delicato c grave.
Il Papa perla Sua bontà e longanimità e per non essere il primo a romperla totalmente, non ha fatto rumore, ma non ha fatto buòn viso — fuori un documento! — a certe soluzioni. . _
La Perseveranza deve convenire ne! constatare questi fatti : i° che gli ambasciatori germanici e austrìaci hanno lasciato il Vaticano; 20 che col solo cifrario e colle lettere private il Papa non può discutere per il suo ministero come di presenza e certe cose delicate, solo a voce si intendono, si capiscono, é poi si evita la lungaggine talora fatale della corrispondenza scritta. Conviene?
Dal canto suo. Benedetto XV dovette esser molto seccato pel discorso di Palermo in cui si asseriva che il papa mai aveva goduto più assoluta libertà come al giorno d’oggi, mentre egli teneva assai a dirsi, sebbene con perifrasi, tenuto in crudo servaggio.
Dai primi di novembre era stato dal pontefice indetto il concistoro, con la creazione di nuovi cardinali. Sembrava che Benedetto XV avesse voluto in esso dir cose
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altamente importanti e peregrine, straordinarie addirittura, poiché ad assistere alla cerimonia erano stati espressamente invitati i cardinali extra curiam più rappresentativi nell’attuale momento. Così' erano stati sollecitati l’arcivescovo di Colonia, quello di Parigi e quello di Malines ed era stato disturbato fino nel lontano Canadà l’arcivescpvo di Quebec. Pareva insomma che il papa si fosse proposto di dire all’internazionale consesso il suo definitivo giudizio sulle responsabilità della guerra e pronunziar la sua condanna, ovvero di proporre ufficialmente la sua candidatura all’ambito ufficio di arbitro, per risollevar le sorti della Santa Sede.
Ma una prima disillusione attendeva coloro che fremevano di ansia nell’attesa, e fu il rifiuto di intervenire al concistoro opposto per ragioni diverse dal card. Amette e dal card. Mercier. Tale contrattempo contrariò assai lo stesso pontefice, che teneva assai alla presenza dei due prelati. E, tanto per rimediare in parte alla spiacevole sorpresa, fu all’ultim’ora invitato a Roma il vecchio Cardinal De Cabrières, affinchè servisse in certo qual modo a rappresentar la Francia dinanzi a Benedetto XV.
In verità però i cardinali-stessi dovettero credere d’essere stati presi pel bavero dal pontefice allorché ne ascoltarono l’allocuzione, e si [chiesero certo se valeva proprio la pena di traversar mari e travalicar frontiere per venire ad ascoltare una delle solide trenodie sulla guerra che affligge l’umanità ed una delle stereotipate proteste contro i « carcerieri » del santo padre.
Diamo qui la parte che interessa dell’allocuzione di Benedetto XV:
Per fermo, nonostante che immense rovine si sian già accumulate pel corso di ben sedici mesi; nonostante che cresca nei cuori il desiderio della pace e alla pace anelino nel {»ianto sì numerose famiglie: nonostante che Noi abbiamo adoperato ogni mezzo che va-esse in qualche modo ad affrettare la pace e a comporre le discordie, pur nondimeno questa guerra fatale imperversa ancora per mare e per terra, mentre, d’altra parte sovrasta alla misera Armenia l’estrema rovina. Quella stessa lettera che nell’anniversario dell’inizio della guerra indirizzammo ai popoli belligeranti ed ai loro capi, quantunque avesse sì riverente accoglienza, non produsse tuttavia i benefici effetti che se ne attendevano.
Vicario in terra di Colui ch’è il Re pacifico, il Principe della pace, non possiamo non commuoverci sempre più per la sventura di tanti Nostri figli e non levare di continuo le Nostre braccia supplichevoli al Dio delle misericordie, scongiurandolo con tutto il cuore che si degni di porre ormai un termine colla sua potenza a questo sanguinoso conflitto. E mentre procuriamo, per quanto è da noi, di alleviare le dolorose conseguenze con quegli opportuni provvedimenti che vi sono ben noti, ci sentiamo mossi dall’Apostolico ufficio ad inculcare nuovamente l’unico mezzo che possa presto condurre all’estinzione dell’immane conflagrazione. Per preparare la pace, quale e ardentemente desiderata da tutta intera l’umanità, cioè una pace giusta, duratura e non profittevole ad una soltanto delle parti belligeranti, la via, che può veramente menare ad un felice resultato, è quella che fu già sperimentata e trovata buona in simili circostanze e che noi ricordammo nella medesima nostra lettera: che cioè, in uno scambio d’idee, diretto o indiretto, siano con animo volenteroso e con serena coscienza, esposte finalmente con chiarezza e debitamente vagliate le aspirazioni di ciascuno, eliminando le ingiuste ed impossibili e tenendo conto, con equi compensi ed accordi se occorra, delle giuste e possibili. Naturalmente, come in tutte le controversie umane che vogliano dirimersi per opera dei contendenti medesimi, è assolutamente necessario che da una parte e dall’altra dei belligeranti si ceda su qualche punto e si rinunzi a qualcuno degli sperati vantaggi; e ciascuno dovrebbe far di buon grado tali concessioni, anche se costassero qualche sacrificio, per non assumere innanzi a Dio e agli uomini, l’enorme responsabilità della continuazione di una carneficina, di cui non vi ha esempio e che, prolungata ancora, potrebbe ben essere per l’Europa il principio della decadenza da quel grado di prospera civiltà, al quale la religione cristiana l’aveva innalzata.
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Questi sentimenti dell’animo nostro riguardo alla guerra, considerata in ordine ai popoli che vi si trovano disgraziatamente impigliati. Se poi consideriamo gl’inconvenienti che dal conflitto europeo son derivati alla causa cattolica ed alla Apostolica Sede, ognun vede quanto gravi essi siano e quanto lesivi della dignità del Romano Pontefice. Già altre volte, seguendo le orme dei nostri predecessori, lamentammo che la condizione del Romano Pontefice fosse tale da non consentirgli l’uso di quella piena libertà che gli è assolutamente necessaria pel governo della Chiesa. Ma chi non vede che ciò si è reso tanto più evidente nelle attuali circostanze? Certo, non fece difetto a coloro che governano l’Italia la buona intenzione di eliminare gl’inconvenienti; ma questo stesso dimostra chiaramente che la situazione del Romano Pontefice dipende dai poteri civili e che, col mutare degli uomini e delle circostanze, può anch’essa mutarsi ed anche aggravarsi. Nessun uomo sensato potrà affermare che una condizione sì incerta e così sottoposta all’altrui arbitrio sia proprio quella che convenga alla Sede Apostolica. Del resto, neppur si potè evitare, per la forza stessa delle cose che si verificassero parecchi inconvenienti di un’evidente gravita. Per tacer d’altri Ci limitiamo ad osservare che taluni degli ambasciatori o ministri, accreditati presso di Noi dai loro Sovrani, furono costretti a partire per tutelare la loro dignità personale e le prerogative del loro ufficio: il che importa per la Santa Sede la menomazione di un diritto proprio e nativo e la diminuzione d’una necessaria garanzia, del pari che la privazione del mezzo ordinario e più di ogni altro acconcio, di cui suole servirsi per trattar gli affari coi governi esteri. Ed a questo proposito dobbiamo rilevare con dolore come nell'altra parte belligerante sia persino potuto nascere il sospetto che Noi, per necessità di cose nel trattare gli affari che riguardano i popoli in guerra. Ci lasciamo ormai regolare e guidare dai soli suggerimenti di coloro che Ci possono far sentire la loro voce. Che dire poi della cresciuta difficoltà delle comunicazioni tra Noi ed il mondo cattolico, per la quale Ci si rese così arduo il poterci formare quel completo ed esatto giudizio sugli avvenimenti, che pur Ci sarebbe stato così utile?
Ci sembra, o Venerabili Fratelli, che quanto abbiam detto fin qui basti a mostrarvi quanto cresca di giorno in giorno il Nostro dolore, sia perchè cresce spaventosamente questa carneficina di uomini, appena degna di secoli più barbari, sia perchè peggiora nel tempo stesso la condizione della Sede Apostolica. Abbiamo la certezza che voi, come partecipate alle cure e sollecitudini che C’impone l’Apostolico ufficio, così condividiate questa Nostra duplice afflizione: crediamo anzi che tutto il popolo cristiano faccia eco al Nostro dolore. Ma perchè dovremmo sgomentarci, quando il Principe dei Pastori Cristo Gesù promise che non avrebbe fatto mancar mai la sua assistenza alla Chiesa e molto meno nei momenti più ardui e procellosi ? All’amatissimo Redentore del genere umano salgano dunque le nostre fiduciose preghiere, accompagnate da opere di carità e di penitenza, perchè Egli ricco in misericordia, voglia affrettare il termine delle sofferenze, tra le quali oggi l’umanità si dibatte.
Ciò disse il pontefice. Pari alla delusione dei cardinali, fu il senso di tristezza e di sdegno con cui nel cuore di lutti gli italiani risuonarono, in quest’ora di trepida angoscia e di necessaria unione le frasi di Benedetto XV sulla sua presunta cattività, frasi che ànno ben chiaro un suono di minaccia contro l’Italia. Anche nel clero pare che la parola pontificia avesse prodotto l’effetto opposto a quello forse sperato, di creare una discussione tra gli italiani. Tanto che si disse che il Cardinal Maffi arcivescovo di Pisa si fosse recato subito a Roma per rendersi interprete presso Benedetto XV del malessere causato tra i cattolici italiani dalle sue parole e della ostilità con cui queste erano state accolte.
Il giorno stesso del discorso papale il governo italiano ne faceva smentire ufficiosamente la più grave delle affermazioni. 1.’Agenzia Stefani, diramava infatti la sera del 6 decembre questo comunicato;
Le parole del Pontefice relative agii ambasciatori o ministri, accreditati presso la Santa Sede, i quali sarebbero stati costretti a partire per tutelare la.loro dignità personale
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debbono derivare da inesatte informazioni date a Sua Santità. Sta invece in fatti che i rappresentanti degli imperi centrali, malgrado le più esplicite e precise assicurazioni del governo per la tutela della loro sicurezza personale e dei diritti e privilegi loro spettanti giusta la legge, vollero di loro spontanea volontà allontanarsi da Roma.
L’Osservatore Romano commentando il comunicato riferito ammetteva a denti stretti il buon diritto e la correttezza del governo italiano nell’agire come si era comportato in rapporto agli ambasciatori degli imperi centrali. Diceva infatti:
Questo comunicato ha bisogno di una qualche spiegazione. Riconosciamo che il governo italiano dimostrò buona volontà di eliminare le difficoltà derivanti dallo stato di guerra per ciò che concerne i rappresentanti degli Imperi centrali presso la Santa Sede e di conservare loro quelle prerogative, che, secondo il diritto internaziónale, competono agli agenti diplomatici. Tuttavia prescindendo da altre considerazioni di ordine secondario crediamo di sapere che il governo italiano non avrebbe ad essi mantenuto il diritto di reciproca Corrispondenza, anche cifrata, coi rispettivi governi, libera ed indipendente, volendola sottoposta ad un qualche controllo, sia pure quello della Santa Sede. Tale ci sembra la più genuina esposizione dei fatti: e possiamo ammettere, con tutta franchezza, come lo stato di guerra offrisse (pur senza toccare la rispettabilità delle persone), seri motivi Ser non riconoscere ai diplomatici dell'Austria-Ungheria e della Germania il suaccennato ¡ritto. Ma ninno vorrà negare .he il diritto medesimo è essenziale a qualsiasi missione diplomatica la quale non si può concepire senza di esso e d’altra parte stimiamo che la Santa Sede non avrebbe potuto accettare la grave responsabilità di simile controllo. Ci sembra dunque essere ben vero che i predetti diplomatici non furono espulsi dal governo italiano (il che non ha certo detto Sua Santità) ma si videro costretti ad allontanarsi da Roma per la forza stessa delle cose, sui muneris ac dignitalis tuendae causa, come precisamente e con ogni esattezza si è espresso il Santo Padre nella sua allocuzione.
Che il papa avesse inteso nella sua allocuzione di rispondere direttamente al discorso del ministro Orlando a Palermo lo assicurava Filippo Crispolti in una intervista pubblicata sul Giornale d’Italia del 9 dicembre. L’aulico scrittore vaticano si sforzava pure di applicare alle parole di Benedetto XV una sua speciale ermeneutica togliendo loro quanto di aspro e di antiitaliano contenevano nella loro enunciazione, ricorrendo per questo allo « spirito » che, secondo lui, le animava. Ma l’opera pietosa era purtroppo vana. Perchè le parole del papa non comportano altro significato di quel che hanno in realtà, e chi vuol trarne le conseguenze naturali trova che esse non sono suscettibili di attenuanti, non solo, ma si rivelano assai più gravi di quel che in apparenza si manifestano. Poiché esse equivalgono al riproporre la pretesa all'imperio terreno. Le cose, infatti, che Benedetto XV ha tenuto a lamentare non potrebbero non ripetersi, qualunque potesse essere la soluzione escogitata pel presunto problema della Questione Romana. Quale essa è Ritualmente, il papa la deplora, quale sarebbe in caso di internazionalizzazione della legge delle guarentigie, come qualche bello spirito ha proposto, non solo non sarebbe tollerabile per lo Stato che ospiterebbe il pontefice il sentirsi sotto tutela, ma, ih caso di guerra della detta nazione, non si avrebbero che accresciute le difficoltà per i così detti ambasciatori. Non resterebbe dunque, secondo Benedetto XV che la restituzione al papa di un impero terreno. Di un impero, e non di Roma, o di una città o piccolo territorio qualsiasi, ppichè nessuno Stato consentirebbe ad avere — sempre in caso di guerra — un osservatorio diretto a favore dei nemici nel proprio seno.
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Ma supponiamo, in un istante di generosità senza limiti, che Benedetto XV potesse riavere il patrimonio di S. Pietro, gli antichi Stati Pontifici, e magari qualche cos'altro ancora. Le difficoltà sarebbero forse superate o non piuttosto raddoppiate e moltiplicate? Non ricorda forse il pontefice in quante e quali guerre siano stati coinvolti e quante e quali ne abbiano provocate i predecessori di papa Della Chiesa quando governavano possessi terreni e lanciavano i popoli l’un contro l’altro? Ebbene, crede forse Benedetto XV che i predetti papi movendo guerra o subendola — ai fini del discorso l’ipotesi si equivalgono, — abbiano conservato presso di sè con tutte le loro prerogative della cifra, dei corrieri speciali, ecc., gli ambasciatori delle terre divenute nemiche? E allora a che piatire tanto adesso, che alméno il papa non ha direttamente la responsabilità ¡dell’eccidio di popoli come a volte è avvenuto nel passato, senza che i papi di allora pensassero affatto al modo di esplicare il loro «sacro ministero» durante le competizioni terrene?
Detto ciò incidentalmente, ritorniamo ad annotare i fatti. All’indomani dell’allocuzione pontificia, il 7 dicembre, in un altro concesso, non internazionale questo ma italiano, alla Camera dei deputati, il ministro guardasigilli, in seguito ad opportuna interrogazione, replicava al pontefice.
— Io — disse l’on. Orlando—non ho da dire alla Camera nulla di nuovo, che non valga a confermare quella linea di condotta, che, con incrollabile serenità, l’Italia ha seguito dal 1870 ad oggi.
L’on. Lombardi ha citato un frammento del mio discorso di Palermo, non mostrandosi interamente convinto, o almeno disposto ad interamen te lodare quella frase che allude al principio di larga interpretazione, seguito nell'applicare la legge delle guarentigie.
Io assicuro subito l’on. Lombardi, dichiarandogli che, quando allusi a lacune e quindi alla necessità di una interpretazione, altro non intesi se non di riconoscere per tal modo e vieppiù confermare quel carattere, che il governo italiano — non questo solo nè questo diversamente dagli altri — ma il governo italiano dal 1870 ad oggi, ha sempre attribuito e intende sempre attribuire alla legge delle guarentigie: cioè a dire, il carattere di un documento di diritto obiettivo ed interno. E come tutti i documenti di diritto obiettivo come tutte le leggi — tutte, senza eccezione—possono presentare e presentano nella loro applicazione qualche lacuna, cioè qualche caso non specificatamente previsto, era perfettamente naturale che in relazione ad una contingenza veramente eccezionale, veramente straordinaria, come quella della presente guerra, qualche simigliante lacuna avesse a presentarsi nell’applicazione pratica di quella legge pure in sè stessa così ammirevole. Ora il governo queste inevitabili lacune ha colmate coi sistemi di interpretazione di tutte le leggi di diritto obiettivo: cioè col riferimento a ciò che costituisce indubbiamente, on. Lombardi, lo spirito cui la legge contestualmente si informava e cioè, di riconoscere e tutelare quella determinata forma di sovranità.
E non ho proprio nulla da aggiungere e nulla da togliere. Così, come questo documento non ha alcun carattere che non sia di diritto meramente nostro, nazionale ed interno così esso nulla ha di carattere contrattuale, di guisa che occorra per confortare o integrare la nostra azione il consenso o il plauso di alcun’altra parte. Si tratta di diritto obbiettivo come ho detto; noi abbiamo l’obbligo di osservarlo e di rispettarlo come tale; e come tale lo abbiamo osservato e rispettato, non aspirando al alcuna gratitudine e non temendo alcun rimprovero.
1 j.pHn.to di fatto (e 9ui n fatto solo importa., perchè, lo ripeto ancora, versiamo in tema di diritto obbiettivo), in punto di fatto dicevo, l’unica riserva riguarda il sapere se gli ambasciatori delle Potenze, con le quali l’Italia entrò in guerra o venne a rottura di rapporti diplomatici, si siano o pur no allontanati dall’Italia di loro libera volontà.
Io ripeto alla Camera, nel modo più formale e preciso, ch’essi si sono allontanati di loro perfetta e libera volontà. E non è troppo ardito supporre che essi, personalmente.
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preferissero andarsene, ma facendo credere che se ne andassero per forza: questo, ad ogni modo è affare che riguarda loro, non noi. Per conto nostro, torno a dire, che se ne sono andati, perchè se ne son voluti andare.
L’Italia ha rispettato, e rispetterà questa legge e la manterrà, considerandola come una ragion di gloria per l’Italia contemporanea, ragion di gloria in tanto maggiore in quanto (e qui mi piace di riconfermare l’allusione che ho fatta dianzi) mentre nelle tradizioni parlamentari inglesi si suol dire che la politica estera si reputa al di fuori dei partiti, in Italia dal 1870 ad oggi quella politica ecclesiastica, incardinata sulla osservanza pura e semplice della legge delle guarentigie come una fonte di diritto italiano, è stata seguita senza eccezione da tutti i governi e da tutti i guardasigilli, che si sono succeduti a questo posto, da Pasquale Stanislao Mancini a Giuseppe, Zanardel’i. È, ripeto, una grande gloria dell'Italia; e noi al di fuori di ogni sentimento di utilità, intendiamo perseverare su questa via
A parte le altre vittorie che la guerra nostra dovrà serbare all’Italia, è già questa, una grande affermazione: che il Papato, il quale, nella storia delle alterne e grandi vicende da esso traversate, non ha trovato giammai garanzie sufficienti nè nella ampiézza dei confini territoriali, nè nella garanzia o nella protezione di questo o di quell’altro Stato possente, ha potuto, in mezzo a questa, che è forse la più terribile procella che l’umanità abbia provata, mantenere intatto il suo prestigio e godere di tanta libertà e indipendenza. Così (e cito questo fatto a titolo di onore per il nostro paese) noi abbiamo assistito in Roma, in una delle maggiori Basiliche della Cristianità, ad un funerale ordinato dal Santo Padre in suffragio di tutti i caduti della guerra, senza eccezione, comprendendo quindi fra loro anche i nostri nemici. E quale magnifico spettacolo di serenità e di imparzialità non abbiamo avuto in Italia, allorché il Papa ha potuto affermare limpidamente, con piena autorità nell’ultimo Concistoro il pensiero suo, dinanzi a tutti i cardinali qui convenuti, e che abbiamo egualmente rispettato, senza ricercare se appartenenti a nazioni nemiche. Ebbene vorremmo che tutti gli Stati combattenti potessero dire lo stesso per ciò che riguarda il rispetto alla libertà dei principi della Chiesa, chiamati in Roma ad ascoltare la parola del Pontefice!
Il discorso del ministro meriterebbe di esser commentato, ma, facendolo, ci dilungheremmo troppo e non faremmo che ripetere forse ciò che altre volte abbiamo detto. Noteremo soltanto che a nostro giudizio erano inutili tante parole e che è pregiudizievole per l’autorità dello Stato scendere a discussioni su leggi proprie. Di modo che Fon, Orlando avrebbe fatto forse meglio se si fosse limitato a dire che la legge delle guarentigie è quella che è, e che se a qualcuno essa non piace non ha che cercar di meglio in altri stati.
Ma, a parte ciò, il discorso Orlando trovò consenziente tutta la Camera dèi deputati e si ebbe lo spettacolo singolarmente interessante di vedere uomini di parte cattolica, come gli on. Meda, Sederini (già latore della « rosa d’oro » pontificia) Micheli e Ciriani affrettarsi verso il banco dei ministri per congratularsi con Fon. Or- * landò per la risposta data a Benedetto XV, o plaudire dai loro banchi.
In seguito a tale prova, finora inaudita, di autonomismo politico in deputati cattolici, il Messaggero nel numero dell’8 dicembre pubblicava una breve conversazione avuta con Fon. Meda. Diceva il giornale:
. Abbiamo voluto chiedere all’on. Meda la ragione di questo atteggiamento suo e dei suoi colleghi: — L’on. Orlando — egli ci ha risposto—se l’è cavata assai bene; egli è stato temperato e preciso, in una materia assai ardua.
— Dunque voi dissentite dal Papa?
— Mah... — ci ha risposto il deputato di Rho.
— Eppure, come cattolici, dovete accettare la parola del papa come definitiva...
— Non credo e sarebbe troppo lungo discutere di ciò; noi siamo cattolici, ma siamo
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responsabili di ciò che facciamo. Il Vaticano ha esigenze sue, delle quali noi non crediamo di dovere giudicare.
Del resto — ha concluso Fon. Meda schermendosi — non è un dissidio di oggi questo, e non investe la coscienza cattolica.
E l’on. Meda si è allontanato scrollando il capo.
• Sintomi!
Delle velleità di scuotere vecchi gioghi non era questa la prima prova. Il giorno prima della riapertura della Camera i deputati cattolici, o cattolici deputati, che dir si voglia, furono convocati da persone facenti parti della giunta direttiva dell’azione cattolica in Italia, allo scopo di costituire alfine il famoso centro cattolico a Montecitorio, e di fissare una condotta di fronte al ministero attuale. Un giornale romano clerico-liberaloide. La Concordia (5 décembre), ne dava queste informazioni:
L’invito era a firma dell’avv. Carlo Santucci, marchese Filippo Crispolti e don Luigi Sturzo e la riunione è stata tenuta il 30 u. s. in una sala dell’Hôtel Marini. Intervennero meno di 20 deputati di tutte le tendenze; qualche deputato non ha accolto l’invito, come l’on. Ciriani. La discussione è stata lunga ed animata ed è stato impossibile venire ad alcuna conclusione pratica, poiché i deputati presenti hanno dimostrato le più svariate tendenze e si sono riservati la più ampia libertà di azione.
Hanno preso la parola con molta efficacia gli onorevoli Meda, Nava, Tovini, Miglioli. Quest’ultimo ha pronunziato una vera requisitoria contro l’atteggiamento remissivo dei cattolici di fronte alle sopraffazioni di partiti e di governo dichiarando senz’altro ch’egli voterà contro il governo e che in tale senso parlerà alla Camera.
Sebbene la riunione avesse un carattere privato, pur nondimeno non bisogna disconoscerne la grande importanza come sintomo.
Sono di ieri, le polemiche sollevate se vi siano alla Camera dei cattolici deputati o dei deputati cattolici, e le autorità ecclesiastiche hanno esplicitamente dichiarato che non vi sono che i primi e che gli altri non esistono e non possono esistere. Ora la direzione suprema del partito cattolico italiano, convoca coloro che alla Camera sono riconosciuti come facenti parte del gruppo cattolico/per uno scambio di vedute, il che significa che essa ne ammette la costituzione in gruppo. E poiché la Giunta Direttiva d’Azione Cattolica è emanazione pontificia, ergo il Vaticano ammette e riconosce una rappresentanza parlamentare dei cattolici, cosa che due anni fa sarebbe stata una vera eresia.
A meno che i signori Santucci, Crispolti e Sturzo non abbiano voluto indire una riunione senza significato e non in rappresentanza della Giunta direttiva', il che non ci sembra, ammesso che alla riunione assistevano il conte Dalla Torre, presidente della G. D., il conte Grosoli. il comm. Pericoli.
Attendiamo prima di dare un giudizio definitivo dell'avvenimento, che assurge ad importanza eccezionale, le spiegazioni ufficiali od ufficiose che del fatto saranno per dare gli organi autorizzati.
Le spiegazioni, che il giornale si ripronietteva, non sono venute. Sicché si potrebbe dire che attualmente in Italia gli organi direttivi dell'azione cattolica sono in contrasto con le disposizioni pontificie, che, non essendo state affatto revocate, debbono intendersi tuttora in vigore. Ovvero occorrerebbe dedurre che Benedetto XV non sia estraneo alla ispirazione della condotta dei nominati dirigenti. In ognuno dei due casi avremmo sintomi rivoluzionari, che irritano i rappresentanti delle tendenze più retrive del clericalismo nostrano. L’Unità Cattolica infatti dava sotto il titolo « La confusione delle lingue», le informazioni che abbiamo riferite, facendole seguire da un. aspro commento sull’atteggiamento dei promotori .della riunione e
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investendo in esso la tendenza parlainentaristica della gran parte dei clericali italiani. Ed avendo il marchese Crispolti risposto al giornale fiorentino sul Cittadino di Genova, cercando di attenuare i fatti e la loro importanza, si tirò addossò una replica daU’Umtó Cattolica (15 decembre), che gli diceva:
A «Fuscolino» spiace la frase: Confusione delle lingue, ma il risultato fu tale. E noi dicemmo bene e la conferma ci venne quattro giorni dopo il nostro articolo a Roma da uno che assistette al Convegno.
Il Convegno fu uno scandalo e non solo per noi ma per molti che stanno anche in alto. Al Convegno parteciparono parecchi dei dirigenti l’azione cattolica sebbene « Fuscolino »^cerchi di limitare il fatto e nasconda i nomi più in vista.
dol.oroso tutto questo: ma la confusione delle lingue viene certa quando non si sta alle direttive pontificie le quali non ammettono confusioni fra deputati e azione cattolica ufficiale.
« Fuscolino » ci dedica un articolo lungo più di una colonna: noi ci limitiamo a queste poche righe come risposta e come difesa del nostro articolo che sappiamo che piacque assai.
La confusione non potrà negarla « Fuscolino » specie quando vide anche la mossa di alcuni deputati, che vorrebbero passare per cattolici, dopo il discorso del ministro Orlando contro l’allocuzione papale..
Ah! la profezia di D’Ondes Reggio... tanto vera quanto dimenticata da tanti cattolici!
E poi creda l’egregio « Fuscolino », uno dei firmatari dell’invito al convegno, non c'è peggior cosa quanto difendere una causa sballata: e questa è proprio quella.
Annotando i fatti ci accorgiamo di essere, senza volerlo, ritornati a documentare ancora una volta l’insanabile dissidio tra i clericali d’Italia. Ma i fatti ricordati sono troppo sintomatici perchè non meritassero di venire raccolti, perchè in essi — oltre il significato specialissimo che hanno oggi — si celano semi che fruttificheranno senza dubbio domani. Vedremo!
Ai militari feriti è convalescenti, preti e monache e pie dame vanno distribuendo un libriccino nel quale si legge oltre ad un cumulo di altre sciocchezze quanto segue:
La guerra conduce a Dio, almeno tale è il fine della mente del Signore, ed in realtà moltissimi ritornano a lui. Dalle scuole venne bandito l’insegnamento religioso, il matrimonio non è rispettato nella sua divina istituzione, la Chiesa cattolica ed il suo Capo osteggiato, il giornalismo anticristiano ha invaso la città e le stesse campagne, l’immoralità dilaga dappertutto, ecc., ecc.
Era tempo che venisse il riparo; al ravvedimento non giovarono le prosperità, anzi queste servirono agli uomini per peccare anche più contro Dio; ci voleva il castigo; manderò, disse Dio. la tribolazione, ed allora ritorneranno a me.
In conclusione Dio, come altre volte ha mandato il terremoto, stavolta ci ha regalato quel macello che si chiama la guerra!
Commentare? Non ne vale la pena. Questo è il loro Dio: non c’è che farei.
Novembre-decembre, 1915.
Ernesto Rutili.
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I LIBRI
LA RELIGIOSITÀ COME PRODOTTO
DELLA FUNZIONE CONTEMPLATIVA*
FRIES
Accenniamo dapprima all’estetismo idealistico, sul fondamento del ideologismo etico, del Fries.
Questo filosofo comincia superando felicemente la posizione kantiana in ciò che questa ha di più manchevole. Per lui, le categorie non sono mere leggi del mondo delle nostre rappresentazioni, ma anche della realtà obbiettiva. Esse rendono fenomenica la nostra conoscenza non per se stesse ma per la loro limitazione nello spazio e nel tempo; sicché per cogliere la cosa in sè basta rimuovere i limiti spaziali e temporali, e non le determinazioni del reale derivanti dalle categorie. Invece di dedurre logicamente da queste premesse che, dopo l’accennata rimozione, si ha un residuo non già assolutamente inscrutabile ma fornito di quegli attributi che l’intelletto umano esige in rispondenza con le categorie che lo costituiscono, il Fries sostiene che la rimozione dei limiti dà una conoscenza puramente negativa. Senonchè, la conoscenza scien♦ A proposito de) libro di E. P. Lamanna, La religione nella vita dello spirito, sul quale il nostro egregio collaboratore ha già pubblicalo tre articoli; vedi Bilychnis di luglio 1914. novembre 1914 e febbraio 19x5.
tifica del sensibile e quella puramente negativa dell’eterno, unite in una medesima coscienza, generano una terza conoscenza, cioè la convinzione che il finito è solo un fenomeno dell’eterno, e quindi il « presentimento » del mondo so-vrasensibile nella bellezza della natura. Ma la suprema bellezza si manifesta nell’apparizione spirituale della virtù intesa come un libero compiacimento per la legge. E codesta stessa finalità può contemplarsi nella storia dell’umanità: giudizio di finalità non logico ma estetico, fondato sopra un sentimento il quale è soddisfatto dall’armonica coordinazione delle forme intuibili della natura, eco., ecc. La religiosità è la vita in questo « presentimento », e tutti i giudizi teleologici inclusi in essa si riducono a giudizi estetici puri e semplici.
Osserviamo che in tanto si può parlare di un rapporto tra la funzione estetica dello spirito e la religiosità in quanto, stabiliti i principi! universali e costanti che regolano «quella funzione e ne costituiscono là normalità, si ricerca di essi il fondamento Obbiettivo. Occorre, cioè, fare la' metafisica- del bello perchè le rivelazioni dell’esperienza estetica possano servire di avviamento all’esperienza religiosa. La teleologia estetica deve prestarsi ad essere ridotta a teleologia logica ponente come fine del molteplice sviluppo della natura e.della storia il bene etico. Occorre che il sentimento estetico si esprima in concetti e giudizi relativi ad una realtà so-vrasensibile. La vita religiosa non può
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ridursi alla contemplazione di un libero giuoco di forme senza domandarsi se ciò ch’égli contempla non sia che un’illusione sua. È questo appunto che rende impossibile la riduzione dell’esperienza religiosa all’esperienza estetica...
SCHLEIERMACHER
Segue la dottrina di Schleiermacher che Siamo chiamare estetismo idealistico ato sull’unità dell’essere e del conoscere nel sentimento: La nostra finitezza dà alla nostra vita un sentiménto di assoluta dipendenza. Da chi? Non dal mondo... Del mondo ci sentiamo bensì parte, il che ci dà la coscienza d’esser posti in una universale concatenazione; sicché, collegando nel pensiero ciò che apparisce distinto e separato, noi poniamo l’unità del tutto. Questa identificazione si attua, però, solo nel sentimento, poiché tanto nel conoscere quanto nel volere è viva in noi la coscienza della contrapposizione del soggetto all'oggetto. Ora se da un lato ci sentiamo per la nostra finitezza, in una dipendenza assoluta, e dall’altro lato abbiamo accolto tutto il mondo nell’unità della nostra auto-coscienza, accade che il mondo ci apparisce esso stesso di-Stèndente; e così giunge al suo grado perette il sentimento della dipendenza assoluta. Questo sentimento è la stessa cosa che la coscienza del rapporto con Dio Nella misura in cui l’autocoscienza di un individuo, per il sentimento della dipendenza assoluta, diviene coscienza di Dio, noi attribuiamo a queirindividuo la religiosità. Tale sentimento d’assoluta dipendenza non implica, però, da parte nostra una conoscenza antecedente di Dio. Il sentimento è indipendente da ogni conoscere, e i concetti religiosi non sono che espressioni di determinati sentimenti create dalla riflessione e delle quali la religione Eer sé non ha bisogno. I così detti attri-uti di Dio — contenuto nel concetto religioso di Dio — non hanno alcun valore obbiettivo...
Osserviamo: Pretendere che il credente possa fare a meno di una rappresentazione di Dio antecedente al rapporto religioso, ovvero che consideri la sua rappresentazione di Dio come un semplice postulato delle sue esigenze soggettive, e quindi come almeno una sua possibile illusione, significa affermare l’assurdo di un rapporto .con un termine solo; significa ri
durre la religione ad una funzione unilaterale, mentre presupposto fondamentale della funzione religiosa è la bilateralità. Inoltre, è erroneo affermare che il senso di nostra assoluta dipendenza basti a darci la coscienza di Dio. Poiché io posso benissimo riguardarmi come il prodotto dell’evoluzione, cosmica, il quale com’ebbe origine così avrà fine, laddove la forza universale permane inesauribile. Questa veduta è irreligiosa, e pure è un interpretazione possibile del sentimento di assoluta dipendenza: dunque, per dare un fondamento alla religiosità, 10 debbo essere riuscito a formarmi pei* altra via il concetto di Dio. Alla luce di questo, l’universo dovrà apparirmi relativo e contingente; ed allora soltanto potrà apparirmi relativa e contingente anche la mia dipendenza dal mondo, sicché il pormi all’assoluta dipendenza da Dio arricchirà la mia religiosità di un elemento che Schleiermacher ha affatto trascurato: la libertà assoluta, almeno ideale, del mio essere — in quanto essere spirituale — dal mondo della natura...
SCHOPENAUER
Ed eccoci al pessimismo quietistico di Schopenauer.
La scaturigine della religione è il dolore. Il mondo non è ciò che deve essere. Quindi, il fondamento del mondo è altra cosa dal fondamento di ciò che deve essere. Ora qual è il principio dell’essere del mondo in cui è la matrice del dolore? E, risolto tale quesito, come si può scoprire il principio di ciò che deve c Sere? Alla prima domanda, Schopenauer risponde che l’esistenza dell’uomo è una serie di atti della volontà o spontaneità naturale: perciò questa è il fondo dell'interiorità nostra; e lo è pure di tutto ciò che esiste, perchè la diversità è soltanto nei fenomeni, laddove la volontà o spontaneità che vi si manifesta è sempre la medesima. Unica essenza di siffatte spontaneità è un’aspirazione perpetua. Ogni aspirazione, finché non soddisfatta, implica dolore, ed ogni soddisfazione è punto di partenza di uria nuova aspirazione. Di qui la soluzione del secondo quesito. Per scoprire il principio di ciò che dev’essere, bisogna liberarsi dalla volontà di vivere: quest’atteggiamento negativo di fronte al principio dell’essere è l’atteggiamento religioso. L’affermazione della vo-
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BILYCHNIS
lontà in un individuo in contrasto con l’affermazione della volontà (o spontaneità naturale) in un altro è la volontà o spontaneità naturale — numericamente una — in contrasto con se stessa: contrasto che nell’individuo si manifesta col rimorso. Questo addita la via per superare l’egoismo: riconoscere l’illusione che si cela sotto il principio d’individualità. Prima tappa in questa via è la condotta morale giusta. Il secondo passo è la carità, la simpatia che spinge l’individuo a togliere sopra di sè i dolori toccati agli altri. Il terzo è la santità: quando un uomo riesce ad appropriarsi il dolore universale non può persistere nell’attaccamento alla vita: la virtù assorge all’ascetismo, e l’individuo desidera la propria dissoluzione. Questa filosofia termina, dunque, col Niente. Si badi però: è un niente relativo in quanto che non è nulla di ciò che noi conosciamo: ma ciò non significa che sia nulla assolutamente parlando, significa solo che noi dobbiamo limitarci ad averne una conoscenza negativa...
Senonchè, la coscienza religiosa si rifiuta di seguire Schopenauer in tre punti fondamentali: a) Per essa, il fondo dell’essere nostro non è la volontà intesa come impulso cieco, verso l’essere, come mera spontaneità naturale, ma è la tendenza ad essere in un certo modo; c’è nella mia coscienza la rivelazione di principii universali che s’impongono a me con una necessità diversa da quella con cui agiscono gl’impulsi ciechi che mi vengono di natura. Di queste norme — logiche, etiche, estetiche — che costituiscono la razionalità, posso servirmi per cogliere nel rimanente dell’universo un senso che per altra via mi resta precluso. La natura del principio universale sarà data non dalle forze più elementari che si manifestano anche negli esseri inferiori, ma da quelle determinazioni di essere e di attività che si presentono specifiche nell’uomo. L’uomo quindi non deve abbassar sè al livello degli esseri infimi della natura, anzi deve considerare questi alla luce della propria essenza: ed allora il fondamento comune a sè ed all’universo non lo ritroverà nella semplice volontà di essere o spontaneità naturale, ma in una coscienza razionale analoga alla sua...; b) L'essere non è per se stesso dolore. L’insoddisfazione continua proviene dalla infinitezza dell'oggetto delle nostre attività più alte. Alla infinitezza di quest’oggetto risponde
l’infinitezza potenziale dell’energia che tende ad esso; e perciò l'insoddisfazione non è motivo per sopprimere quest’energia, ma per intensificarla. E qui sovviene la religione il cui compito è la formazione di una speranza fondata sopra una fede, c) Il riconoscere in me l’esistenza di valori universali non equivale ad affermare — come fa il nostro filosofo — l’indivisibile unità numerica di tutti gli esseri, sicché io non differisca sostanzialmente da una pietra e l’individuazione sia illusione. Se ciò fosse, l’egoismo anziché condannato dovrebb’essere elevato a religione; poiché sé in me è non solo una parte ma tutta la volontà che è il fondo dell’essere, è giusto che io concentri tutto il mio interesse in quest’unico punto in cui la cosa in sè m'appare in tutta la sua interezza immediatamente presente, e trascuri tutti gli altri esseri che ho il diritto di considerare come nulla più che parvenze vane del mio io...
HARTMANN
Veniamo al pessimismo espansivistico di Hartmann.
Contro il monismo astratto, negante la realtà degl’individui, egli formula un monismo concreto che tale realtà afferma. Gl’individui sono realmente distinti, ma — si noti — come gruppi di funzioni costanti dell’unico Soggetto, che è Dio. Il quale, però, non è persona e non ha coscienza: è l’assoluto impersonale ed incosciente. Dio, in alcune sue funzioni incoscienti, giunge — sì — al pari dell’uomo alla coscienza; ma per questo non ha bisogno di una coscienza a sé; ei giunge ad acquistarla nell’uomo. La religiosità è eliminare la contrapposizione dell’uomo a Dio come di un io ad un tu, mettendo capo all’assoluta identificazione dei due termini. In qual modo la religiosità realizza la redenzione? Ecco: La volontà divina per natura tende ad uscire dall’eterno riposo ed a passare dalla potenza all’atto. Questo volere vuoto è l’infelicità trascendente dell’assoluto, è un male. Allora l’idea, per togliere la volontà da questa infelicità, le dà un contenuto, il mondo, rendendola operosa ed attuale. Questa posizione del mondo è un male, ma un male minore del volere vuoto, e quindi un bene in quanto è mezzo necessario pel ritorno all’originario stato di riposo. Dio trascendente, a causa della sua soffe-
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renza, s’è fatto immanente; ed è lui che ha bisogno di redenzione non solo come immanente, in quanto è il fondamento degl’individui dell’universo, ma anche come trascendente. Da ciò si vede che il male non è male in quanto è (poiché nulla è che Dio non voglia, e perciò deve rientrare nei piani dell’assoluto come voluto da lui) ma è male in quanto è ritenuto dall’uomo uno scopo definitivo della volontà divina, mentre invece questa non lo vuole se non come qualcosa che dev’essere superato. 11 processo di redenzione che tende a superarlo consiste nel trasformare l’identità ontologica tra l’uomo e Dio in identità teleologica, acquistando coscienza del fine positivamente divino del senso morale...
Senonchè, mentre da un lato Hartmann ha tanto giustamente sostenuta contro il monismo astratto la bilateralità del rapporto religioso, la necessità della reale distinzione tra l’uomo e Dio, dall’altro lato il suo monismo concreto colloca la realtà del processo tutta dalla parte di Dio, e il carattere bilaterale ne esula. E poi, com’è possibile concepire un Incosciente che, oltre ad esser volontà, è anche idea; che, in quanto svolge la sua azione con un processo teleologico, anticipa idealmente la coscienza senza conoscerla come tale? E come può l’uomo, dotato di coscienza, riconoscersi dipendente da un Assoluto che manca di facoltà essenzialissime che l’uomo possiede? Ciò doveva condurre logicamente a quel romanzo metafisico irreligioso col quale si conclude la dottrina di Hartmann, e cioè che l’esplicazione di tutta l’attività dell’uomo mira alla felicità dell’Assoluto, poiché non l’uomo da Dio, ma Dio dall'uomo aspetta la propria liberazione...
GUYAU
Viene da ultimo l’ottimismo espansi-vistico di Guyau.
Per lui la religione è un « égarement de l’esprit », e non ha altro valore che quello di preparare l’avvento della filosofia. Nondimeno, collochiamo la sua dottrina tra quelle che considerano la religione come un prodotto della funzione contemplativa anziché di quella conoscitiva, perchè pei Guyau la metafisica stessa ha una radice e un fondo estetico. Come la morale e l’arte, così la metafisica — e perciò anche la religione — è una via per la quale
la vita tende ad espàndersi e l’individualità tende a divenire socialità. Nell’attività pratica dell’uomo non v'è alcun principio fisso tranne quello costituito dalla finalità della nostra energia vitale, la quale da principio è cieca; poi, prendendo coscienza di sé dà origine alla nozione di dovere; ma questo non implica alcuna obbligazione vera e propria. Questa morale potrebbe riassumersi nella formula: « Sviluppa la tua vita; sii un individuo il più ricco possibile in energia intensiva ed estensiva, e sii perciò l’essere più sociale ». Quanto ai casi di sacrificio della vita compiuto con piena coscienza, bisogna — dice il Guyau — che essi sieno dedotti da principii filosofici e religiosi che l’individuo appunto si pone, traendoli deduttiva» mente da ciò che sa, ed ai quali si sente obbligato in quanto la sua ipotesi gli sembra la più probabile, la più vera’ per lui stesso. È soppresso così ógni imperativo categorico, è instaurata Vanomia morale derivante dal carattere personale e problematico dell’ipotesi metafisica su cui si fonda la legge. Tale essendo la natura della metafisica, tale il senso di quel-Vanomia, di quell’individualismo assoluto che il Guyau preconizza nella sfera del pensiero ed in quella della morale, ne segue che tale è pure la natura della religione. Il sentimento religioso si produce quando la coscienza della sociabilità della vita si estende all’universalità degli esseri, e non solo degli esseri leali e viventi, ma anche di quelli possibili e ideali: realizzazione mistica della Società universale sub specie aeterni. Tale essendo l’origine della religione ne segue la necessità della sua dissoluzione. Il rispetto — che è uno degli elementi dell’ideale religioso—-si risolve nell’altro elemento che è l'amore, e questo andrà acquistando un oggetto sempre più reale, si espanderà sulla terra stessa.
Quanto all’anomia metafisica del Guyau. osserviamo che è assurdo pretendere che possa diventare per me principio d’azione una proposizione metafisica finché io ho coscienza del carattere assolutamente ipotetico di questa. La credenza, occorre; e questa non è possibile se la realtà non mi offre delle certezze aventi tutti i caratteri dell’obbiettività, le quali possano servire a me. ed a qualunque altro soggetto morale' come addentellato sicuro per le mie opinioni soggettive. ¡poltre, se l'unico criterio di moralità è la spontaneità del-
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l’energia individuale, non si vede più perchè mai le tendenze egoistiche debbano essere sacrificate a quelle altruistiche ed universalizzatrici. Per Guyau, il fondo di ogni esistenza individuale è il concetto di vita. Ma, non è forse vita anche quella dell’animale e della pianta? Ed allora, perchè questa si esaurisce nell’espansione di sè, mentre la vita spirituale dandosi si accresce? Se Guyau avesse affrontato un tal problema, scavando più a fondo nel concetto di vita, avrebbe trovato che l’azione umana è morale solo a condizione che, mercè di essa, si operi — attraverso sforzi e lotte incessanti — un continuo adattamento di ciò che in noi v’ha d’individuale a quei principii universali che ci orientano verso una sfera trascendente la natura sensibile, a quei principii la cui forza di obbligatorietà, rivelandosi come assoluta ed incondizionata, è la molla che spinge l’individuo a superare continuamente se stesso, ad espandersi sempre più intensamente. Allora il fondo dell’universo ci appare come Vita Perfetta, come Assoluta Volontà di Bene; il che introduce nella spiegazione dell’universo quel Dio che il Guyau aveva considerato come un mito...
Concludiamo:
Il tentativo di cercare la genesi della religiosità in una sola delle tre funzioni fondamentali dello spirito — che sono la conoscitiva, la pratica e la contemplativa — diede origine al triplice gruppo di dottrine che abbiamo esposte. La critica che ne abbiamo fatta ha dimostrata la fallacia di tutti i tentativi esclusivistici. Nessuna dottrina che faccia derivare la religiosità da una sola delle attività fondamentali dello spirito, nessuna — diciamo — riesce a spiegare l’atteggiamento religioso!
SanremoUgo Janni.
dT
KANT, ROSMINI e B. VARISCO
Avendo pubblicato nel fascicolo di luglio 1914 una recensione del prof. B. Varisco sul volume di G, Galli, Kant e Rosmini, ricevemmo da un nostro lettore, con preghiera di pubblicazione, alcune note critiche alle idee espresse dall'egregio recensore.
Le pubblichiamo qui appresso - facendole seguire da una breve replica del prof. Varisco stesso, chiedendo venia ai nostri due collaboratori del grande ritardo, dovuto a mancanza di spazio.
« Un’idea generale non è un corpo, nè un fatto fisico, non cade sotto i sensi. E nondimeno è qualche cosa; perchè l’averla e il non averla non sono tutt’uno. Un uomo ha una certa idea, o la pensa in quanto pensa in un certo modo. E pensare significa vivere certi fatti psichici. Sembra perciò, che un’idea sia riducibile a un fatto psichico: p. es. ad una rappresentazione. Ma quest’opinione, diffusissima ed in apparenza evidente, va incontro a delle gravi difficoltà. L’idea è indeterminata, mentre ogni fatto psichico è determinato. L’idea può esser comune a quanti soggetti si vogliano: mentre ogni fatto psichico è proprio di un soggetto. L’idea è invariabile (io posso non avere l’idea di triangolo; ma, dato che l’abbia, l'idea è sempre la stessa): mentre ogni fatto psichico è variabile. Dalla invariabilità segue, che le idee e le relazioni tra le idee, siano fuori del tempo e necessarie... ».
Còsi B. Varisco s’introduce in un arti-coletto piuttosto breve, ma denso di pensiero, come gli è costume, a parlare di Kant e Rosmini, a proposito di una pubblicazione di G. Galli (1), e anche delle proprie idee intorno all’eterno argomento della conoscenza, idee che hanno a base le acquisizioni della critica kantiana, e della quale, in ultima analisi, vogliono essere una geniale interpretazione.
Non è per entrare terzo, non richiesto, in una questione, che, per altro, non sembra accettata dallo stesso Galli, nè per la pretesa di dar fondo all’argomento, opera poderosa, e superiore, in certo senso, allo stesso umano intelletto che non può trascendere se stesso, ma soltanto per qualche semplice osservazione, dalla quale Cuò sempre derivare alcun spiraglio di ice, che chieggo ospitalità in queste pagine.
L’idea è un fatto psichico? Il V. lo esclude, perchè, a suo avviso, l’idea è indeterminata, mentre è poi nello stesso tempo invariabile: « io pòsse non aver l’idea di triangolo; ma, dato che l’abbia.
(1) Bilychnis, luglio 1914-
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l'idea è sempre la stessa ». E non è determinata l’idea di triangolo, come ogni altra idea completa, ossia non indeterminata ?
Se non che, veramente, la opposizione è dal V. stabilita tra idea e fatto psichico, che sarebbe determinato, proprio di un soggetto, variabile, là dove l’idea avrebbe sempre tutti i caratteri inversi. Si potrebbe qui notare che altro è fatto psichico, e altro il contenuto del fatto psichico, e che, pure accettando tutte le proprietà del fatto psichico, quali sono dal V. determinate, resterebbe sempre il contenuto del fatto stesso, che potrebbe avere proprietà opposte e diverse, se il V. medesimo non potesse essere pronto a rispondere che tra fatto psichico e suo contenuto distinzione alcuna non è possibile, nel che, come agevolmente si potrà vedere, consiste poi alla fin fine tutto il nodo della questione.
Intanto, sempre secondo il V., dalla invariabilità delle idee ne segue « che le idee, e le relazioni tra le idee sono fuori del tempo e necessarie ■: e qui il passo è propriamente' gigantesco, per chi non accetti, senza benefizio d'inventario, i resultati della critica del Kant.
Nel tempo adunque non v’ha nulla d’invariabile? Si risponde: no, perchè tutto è fenomenico. E la stabilità delle proprietà — quelle che sono stabili — e la ritmicità della successione non sono elementi di necessità e di invariabilità, Ì>ur non uscendo dal campo del puro enomeno? Ci aggiriamo sempre nell’equivoco: la necessita e la invariabilità appartengono al solo soggetto. Ma tutta la pratica della vita e della stessa scienza urta contro tali asserzioni: non si esce dal soggètto, nè si può uscire!
« L’indipendenza del soggetto singolo è anzi, per le idee, assoluta...: io posso pensare o non pensare un’idea, come posso percepire o non percepire uri corpo; ma Sosso invece modificare (benché di poco)
mondo fisico, non posso invece modificare il mondo ideale (a proposito d’indeterminatezza delle idee!). Questo è dunque reale non meno del mondo fisico, e più: è la realtà per eccellenza ».
Nondimeno « non è il caso di ammettere con Platone, oltre la realtà variabile fsico-fìsica una realtà ideale invariabile, ensare coerentemente significa pensare in un certo modo, compiere certe funzioni. Di qui, non dalle idee platoniche.
deriva la necessità riconoscibile in ogni formazione, sia del pensiero astratto, sia della realtà fenomenica (ossia della realtà pensata, e dell’attuale concreto pensiero) ».
Ridotto così il pensiero (e col pensiero la realtà) a funzione dell’intelletto, il V. si domanda se l’idea dell’essere abbia, per la concezione del Rosmini, segnato un passo innanzi nella storia della filosofia; e risponde che sì, a condizione, per altro, che la teoria rosminiana rappresenti una semplificazione delle categorie-funzioni del Kant, e, cioè, non sia più rosminiana. E a risolvere l’obbiezione delle idee dimenticate, o ancora non possedute, egli ricorre alla solidarietà dei soggetti pensanti, per la quale si viene a stabilire un tal quale collettivismo anche nella conoscenza, che potrebbe confinare, almeno per il lato delle successioni, col vecchio tradizionalismo, ornai di buona memoria.
Ma, e il primo soggetto pensante donde le acquistò le idee?
« Kant aveva già risposto, deducendo le categoria dall’unità del soggetto. Il soggetto è necessariamente «uno» in se stesso; vale a dire non è una collezione, un semplice aggregato. Ebbene: io penso funzionalmente l’essere in quanto sono soggetto, in quanto sono intrinsecamente uno: io esisto come soggetto, in quanto sviluppo un pensiero concreto, rigorosamente uno, quantunque si attui o si risolva in una moltitudine di pensieri distinti e diversi: l’idea dell’essere non è che la formulazione astratta e verbale, mi si lasci dire la cristallizzazione, di quella legge intrinseca essenziale al mio pensiero, che insomma si riduce alla sua unità ».
Io penso equivale io sono pensante e sono in quanto penso, e quanto penso è: siamo adunque al cogito ergo sum. di Cartesio: sono perchè penso, e non penso perchè sono, l’ultima sintesi della conoscenza, ultimo risultato della critica kantiana.
Ed è il capovolgimento della filosofia cosi detta volgare, in opposizione alla filosofia critica o trascendentale. La critica va bene, ma non deve invertire i valori della realtà: nè il mondo ideale di Platone, nè l’intelletto possibile o passivo di Aristotele, ambedue dualisti come tutta la filosofia socratica, come, e purtroppo, e rincarando la dose, la filosofia kantiana.
Diviso l’uomo, divisa la conoscenza in sensitiva ed intellettuale, in fenomenica e
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categorica, è spezzata la via alla congiunzione dell’intelletto colla realtà, e la conoscenza non è più possibile. Sì, il conoscere deve essere una funzione, l’intelletto deve essere attivo — questo il vero risultato della critica del Kant — ma poi non si cada nell’estremo opposto di renderlo creativo addirittura. Se le cose, in qualsiasi modo, giungono aU’intelletto, l’intelletto deve giungere alle cose; e allora l’idea dell’essere non sarà più una generazione spontanea, come ciascun'altra idea; dalla realtà sarà derivata, e. innanzi tutto, dalla realtà esteriore che, per prima, richiama la nostra attenzione, ed, anche di poi, e maggiormente, dalla realtà interiore, ma sempre dalla realtà: l’intelletto funzioni, se non funzionasse sarebbe una macchina non riuscita, ma nell’ambito delle sue attribuzioni che sono di conoscenza e non di efficienza, altrimenti saremo sempre al punto dell’eterna questione: gli uccelli volano perchè hanno le ali, o hanno le ali perchè volano? — Nel mondo della realtà gli uccelli volano perchè hanno le ali — e, finché non sono perfette, non si muovono dal nido — in quello dell’intelligenza efficiente hanno le ali perchè volino — ma non siamo più in funzione di conoscenza, in quella, invece, di finalità e di creazione.
Gall.
....... Il Gall. oppone che i caratteri dell’idea, quantunque opposti a quelli del « fatto psichico » potrebbero appartenere al « contenuto » di questo. Ma io intendevo parlare anche del contenuto, che del fatto psichico è un costitutivo essenziale. Quando si vede un triangolo, il triangolo veduto, cioè il contenuto della sensazione ottica, è sempre determinato; ossia: è un triangolo, che ha una certa grandezza, certi lati, certi angoli, ecc.; un triangolo che non sia nè rettangolo, nè ottusangolo, nè acutangolo, ecc., nessuno l’ha visto mai. Quando invece si afferma, che nel « triangolo ■ a due lati uguali, o disuguali, si oppongono due angoli rispettivamente uguali o disuguali ne) senso medesimo, il triangolo di cui si parla è qualsivoglia, non importa se grande, piccolo, rettangolo, acutangolo, ecc.
Quindi l’idea è tutt’altra da un contenuto sensibile qualsiasi; e nello stesso modo si dimostra che è tutt’altra da un contenuto
rappresentabile. Insomma: che l’aver una idea non si risolve in un qualsiasi fatto consapevole. Quantunque indeterminata, l’idea è nondimeno eterna; c la necessità che vi si fonda è fuori del tempo. L’A. crede che tra questi ultimi caratteri dell’idea, e la sua indeterminazione, vi sia contraddizione. Ma io, attribuendo alle idee l’eternità, ecc., parlo secondo Platone; il quale nell’idea riconosce un’entità sai generis, e questa non può non essere, nella dottrina platonica, eterna e indeterminata. La difficoltà di conciliare i diversi caratteri dell’idea è precisamente la ragione dei tentativi per superare la dottrina platonica. Viceversa: l’A. non capisce 1’« estemporaneità » in . discorso; e mi vuol insegnare, che il tempo ha pure una sua necessità; questo vuole insegnare a me, che della necessità inclusa nel tempo trattai ampiamente (se non in quel mio breve articolo, altrove). Le conseguenze necessarie d’una dimostrazione geometrica, o d’una qualsivoglia deduzione, coesistono con le premesse, non ne derivano causalmente; il tempo di cui ha bisogno il ragionatore per ottenere le conseguenze, non ha che fare con la relazione logica o estemporanea tra la conseguenza e le premesse. Mentre viceversa i fatti come tali, a parte le idee che vi siano realizzate, o (diciamo altrimenti con un linguaggio che non presupponga il platonismo) a parte le loro leggi razionali pure, insomma: i fatti nella loro concretezza, si connettono causalmente nel tempo; e così p. es. il pentimento non è simultaneo alla colpa da cui deriva, ma la segue. Che il nostro pensiero implichi la necessità estemporanea, è fuor di dubbio, di questa necessità ci dobbiamo rendere una ragione soddisfacente. La dottrina platonica delle idee non è che un tentativo di rendersi una tal ragione; bisogna: o accettare la dottrina platonica, o sostituirla con una altra, che non escluda la detta necessità. La dottrina di Kant è, che le idee (s’intende: le idee madri, le categorie) siano funzioni del soggetto conoscente; in altre parole: che l’aver io un’idea significhi, non già Tesser io venuto in comunicazione con un’entità soprasensibile sui generis, ma Tesser io capace di elaborare la materia di fatto, mettendone in evidenza certe leggi necessarie o estemporanee. Rosmini accetta, in sostanza, tale dottrina in ordine a tutte le idee, trattane una sola; dice: l’attitudine dell’uomo a discorrere
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come sopra deriva da ciò, che l’uomo ha l’idea dell’essere, nè ci sarebbe senza quest’idea. Così tutte le altre idee son ridotte a funzioni; ma le funzioni si fondano sull’idea dell’essere, che resta caratterizzata secondo il platonismo. Ebbene: io credo che una discussione intorno al valore comparativo tra le due dottrine di K. e R. debba cadere su questo punto. Sul quale naturalmente ora non posso trattenermi; a me pare che l’idea dell’essere sia daccapo risolvibile in una fun
zione (cioè che un uomo abbia quest’idea semplicemente in quanto pensa in un certo modo altre cose); ma che viceversa l’attitudine dell’uomo a pensare in quel modo sia riferibile alle sue relazioni essenziali costitutive con altri uomini e con tutto il reale. Sicché R. avrebbe in un certo senso ragione, in quanto vuole che l’attitudine soggettiva, di cui s’è detto, abbia il suo fondaménto in qualcosa che non è riducibile al soggetto (come singolo).
B. Varisco.
LE RIVISTE
IL CRISTO DIO
Notiamo nella Revue d'hist. et de Hit.rei. SMai-Juin 1914), un saggio: Le Chrisl Dica li L. COULANGE.
Che cosa era il Cristo nella coscienza e nel pensiero della prima generazione cristiana ? L’uomo a cui Dio ha reso testimonianza, che ha risuscitato, che ha inunto di S. Spirito e di forza {Ad. Ap., II, 22, 23, 32; X, 38).
Era questa la fede del primo nucleo giudeo-cristiano, allorché Paolo, nutrito di scolastica giudaica, ci parla, nelle sue Epistole, di un personaggio celeste travestito sotto un mantello di carne. La metafisica di Paolo però non trova primamente se-Kiaci, onde l’autore della Aiòa/r, Clemente ornano, l’au*ore del Martirio di Policarpo insistono nella originaria concezione giu-daico-cristiana, secondo la quale il Cristo non è altro che un semplice servitore di Dio (i sai; Mtsù).
Nè soltanto contro le teorie rabbiniche dell’Apostolo reagisce lo spirito delle prime comunità cristiane, ma sì bene contro le novità della scuola di Alessandria, le quali tuttavia non rimangono interamente inefficaci anche in quegli scritti, a Cui la metafisica sembrerebbe assolutamente estranea.
E’ così pertanto che, presso Ignazio, il Cristo diventa figliuolo di Dio, in quanto nasce da Maria per opera di Dio stesso, e presso Erma incontriamo la stessa filiazione, dovuta però al fatto che lo Spirito
Santo, ch’è l’unico ed eterno figlio di Dio, in un momento del tempo s’incarna in un uomo, il quale, per essersi mostrato degno della fiducia Dio, viene associato e fatto coerede del figliuolo di Lui.
La dottrina d’Erma, nel 140, veniva volgarmente professata in Roma. Mezzo- secolo più tardi però, anche nella stessa chiesa romàna, assistiamo ad una trasformazione non lieve: ed il Cristo diventa il Padre fattosi carne.
Questa concezione metafisica della Chiesa di Roma, ch'era la risultante necessaria .dell’antagonismo tra la mentalità pagana politeista e proclive alla divinizzazione dei semplici mortali e la mentalità giudaica, rigida custode del monoteismo tradizionale, incontrò non lievi opposizioni. La primitiva concezione del Cristo-uomo, nato miracolosamente da una vergine, sopraffatta per breve tempo, si riaffaccia più audace, e di qui le lotte tra monarchi anisti e ado-zionish, lotte che il Coulange segue passo passo sino al principio del secolo quarto. Allora la Chiesa di oriente e quella di occidente si sono di già foggiate, ciascuna per conto suo, il proprio Cristo. Quello della prima è un ministro di Dìo, consustanziale a Lui, esecutore fedele della sua volontà; quello della seconda è il Padre stesso, il quale ha permesso che una porzione della sua sostanza, discendendo nel seno della Vergine, abbia assunto un corpo umano. L’uno e l’altro sono pertanto figli, ma, come ben si vede, per un processo assai dif-
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ferente: il Cristo orientale è stato generato nell’ istante che precede ’ la creazione del mondo, l’occidentale è divenuto figlio nel tempo per l’incarnazione.
.Era ben naturale che differenze dottrinali così notevoli, riguardanti l’essenza stessa del Cristianesimo, non potessero coesistere a lungo: bastava che si incontrassero, perchè un urto, e grave, si producesse. Questo avvenne verso la fine del secolo quarto : Luciano di Samosata prima e più decisamente poi il suo discepolo A rio aprirono il conflitto.
L'autore promette di farci assistere a questa lotta accanita nella seconda parte del suo lavoro, che ci riserbiamo di esaminare.
Per questa prima parte, intanto, notiamo che il Coulange tutto che si dimostri dotato di un fine senso della storia del dogma, onde bene spesso colpisce nel segno anche in parecchi punti più controversi della primitiva cristologia, in tanti altri però egli afferma assai recisamente, laddove molti problemi di critica testuale non peranco risolti e l’imperfetta conoscenza dei lessico dei Padri apostolici avrebbero richiesto molte riserve e circospezione.
Perchè un lavoro di sintesi sulla cristologia dei primi secoli sia possibile, noi crediamo che bisognerà ancora attendere le conclusioni definitive delle indagini critiche sul conto dei singoli Padri, per precisarne sicuramente il pensiero.
Ora come ora, un lavoro sintetico ci sembra prematuro, e tale, a nostro giudizio, appare il saggio del Coulange, che, in proporzioni più ristrette, si prefigge gli stessi scopi che il Bousset col suo libro : Kyrios Chrislos (Gòttingen, Ruprecht, 1013), libro, che avremmo voluto dall’egregio critico francese veder citato e che se pur è commendevolissimo sotto certi riguardi, riesce, per altro, per le ragioni anzidette, al pari che Le Chnste Dieu, lacunoso in parecchi punti.
C. VlTANZA.
LA STORIA DI GIONA
La storia del profeta Giona è argomento d’uno studio che Renato Cirilli pubblica ne\V Athenaeum. Ai lettori non sono ignote, certamente, le conclusioni alle quali sul libro di Giona sono arrivati studiosi come
Reindl, Bloch, Cheyne, Wrigt, Wellhausen, Griinm, Martin, Simpson, Usener; tuttavia il Cirilli fa alcuni accostamenti che meritano d’essere conosciuti, almeno perchè sia esaminato quanto abbiano di consistenza e di verità. È noto come dopo la spiegazione dei razionalisti di cent’anni fa, pei quali l’avventura di Giona si spiegava facilménte, Siensando che il profeta gettato a mare asse raccolto da una nave che portava a prua l’immagine d’un pesce; dopo quella degli evemeristi che sostennero al contrario la nave figurare lo Stato ebraico, il suo capitano il gran sacerdote Zadoc e Giona il re idolatra Manasse, e di altri mitologhi che riconobbero una descrizione naturalistica del sole che si copre durante l’inverno e durante la notte, William Simpson, ricorse, per primo, al metodo comparativo. Egli tentò di spiegare l’avventura di Giona come il ricordo d’una iniziazione religiosa, implicante le idee di morte e di resurrezione, simile a quella che si compiva presso i brahmani, quando il neofita riceveva, l’investitura del sacro cordone, giacché — secondo il Simpson — ogni profeta era un iniziato. Contro questa spiegazione il Cirilli osserva come essa urta in parecchie difficoltà.
Non si comprende, per es., come, se il nome di Giona è una caratteristica degli iniziati, gli altri profeti non lo portino. E poi Giona è piuttosto un nome che un soprannome, e questa cerimonia di iniziazione profetica è interamente immaginaria, nulla autorizzandoci ad ammetterla come probabile.
Per comprendere la storia di Giona, bisogna, secondo il Cirilli, tener presente lo scopo che s'era prefisso l’autore, quello, cioè, di mostrare come la cattività in paese straniero sia finita e come Dio, mosso a pietà del suo popolo, l’abbia rimesso in libertà e fatto rientrare in Palestina. Era un’imagine abituale allo spirito dei Giudei di rassomigliare Nabucodonosor ad un dragone e il soggiorno in Babilonia una dimora nel ventre* di esso, e l’autore cita Geremia (51, 34) e Isaia (XXVII-i). La leggenda di Giona si ispira dùnque ad un’idea cara ai Giudei, ma è certo che la scelta del redattore o degli inventori primitivi di quella storia s’è portata su un mito gli elementi del quale non possono essere ricondotti ad una fonte o anche ad una influenza babilonese. La scelta della città filistea di Joppe come punto di partenza per Tarso, il numero tre pei giorni e per le notti, l’avven-
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tura de] pesce, ecc., portano invece, le nostre ricerche verso tutt’altra direzione e precisamente verso quella terra dei filistei, che si stende in riva al mare dove Giona fu gettato e dove s’alzava, a fianco delle citta di Asdod, Ascalona, Gaza, il porto di Toppe scelto da Giona per rimbarco verso Tarso.
Intanto conviene notare che tutte queste città del litorale adorano una divinità marina conosciuta sotto il nome di un dio-pesce Dagone e d’una dea-pesce Atargatsi, nome storpiato dai Greci in quello di Der-ceto. Che nella città di Gaza si onorasse Dagone ce lo attesta il Vecchio testamento (Giudici, XVI-23): del pari che esso avesse culto nella città filistea di Asdod ce lo dice Samuele, IV, 55. Su le monete d’Ascalona (Cfr. Babelon, Les Perses achemenides) è segnato un mostro metà uomo e metà pesce, la rappresentazione del quale risponde alla descrizione che Berosio fa di Odacone, l’uomo pesce. Diodoro (II, 4, 2) ci dice che la dea-pesce Derceto o Atargati era adorata ad Ascalona sotto la forma di un busto di donna terminato in coda di Sesce. Nè si limitava soltando ai paesi dei listei il culto di Dagone e di Derceto. Il Baal d’Arvad in Fenicia è rappresentato su le monete di questa città come il dio-pescc Dagone e si conosce l’esistenza d’un tempio fenicio nel quale Derceto era rappresentata sotto forma d’un essere femminile terminante in coda di pesce. In tali riti fenici e siriaci erano frequenti i sacrifici umani. La leggenda d’Andromeda e di Essione ne sono un’eco e una variante. Il modo col quale essa passò attraverso la fantasia dei noeti è interessante pel nostro soggetto. E’ nell’ZZtWe (XX, 146) che si trova la prima versione della leggenda, secondo la quale Ercole avrebbe liberata la bella Essione, figlia del re Laomedonte, uccidendo il mostro che doveva divorarla. I poemi esiodei come i differenti poemi che hanno per soggetto Ercole non mutano questa tradizione primitiva, ma Ellanico comincia già a darci la ragione del supplizio d’Essione. Il poeta Lycofrone, raccontando l’episodio d’Essione, dice che Ercole penetrò nel ventre del mostro per colpirlo più mortalmente e vi stette tre giorni e tale versione conosce anche lo scoliaste di Omero e raffigurano parecchi monumenti. Nè solo sulle coste dell’Asia Minore si trovano traccie di tale leggenda. In un rilievo d’Olimpia, nel secolo vii e vi su una pietra delle isole, in un fram
mento d’un frontone dell’Acropoli d’Atene e su una quantità di vasi attici a figure nere noi ne troviamo accenni.
Ma si deve dire che tanto la- leggenda che pone sacrifici umani alla divinità marina, quando quella raccolta da Erodoto e da Ellanico, secondo la quale Ercole ha combattuto il mostro marino, è penetrato nel suo ventre e v’è dimorato tre giorni sia d’origine greca? Non pare. Probabilmente da prima l’eroe fu il fenicio Melkart-Bal; questi fu molto presto sostituito dall’eroe greco col quale aveva molti punti di contatto, come lo provano, per es., le monete di Tiro dove Ercole à preso il posto del dio fenicio. Noi ci troveremmo dunque in presenza d’un mito che si sarebbe sparso col culto d’un dio marino su tutta la costa dell’Asia Mediterranea, su la Grecia e forse anche su l'Italia. Su questa trama primitiva i popoli hanno lavorato per tracciare l’episodio di Ercole, di Perseo, di Derceto o di Giona. I greci localizzarono l’avventura sul terreno di Troia dove il loro eroe non aveva avuto l’occasione di figurare durante la guerra e i semiti si incontrarono nelle due versioni di Perseo c di Giona per scegliere la città di Joppe. Ma mentre nella storia di Perseo e di Derceto l’elemento primitivo richiamante l’idea sacrificatoria è trasparente, l’autore del libro di Giona s’è volontariamente sforzato di nasconderla sotto l’avventura del profeta che fugge davanti all’Eterno.
R. F.
LE FONTI DELLA LEGGENDA DI SANT’APOLUNARE DI RAVENNA
L’argomento che il canonico Francesco Lanzoni di Faenza ha trattato in una sua comunicazione alla « R. Deputazione di storia Patria per le provincie di Romagna », ed ora appare nel Fase. I-III degli Alti e Memorie di detta Deputazione, fu già svolto dal Zattoni (La data della Passio sancii Apollinaris di Ravenna, Torino Clau-sen, ecc.; Il valore storico della « Passio ■ di sani'Apollinare, in « Rivista storico-critica delle scienze teologiche, an. I [1905] 661-777; an. Il [1906] 179-200, 677-691). Secondo il Zattoni la Passione è anteriore all’vm secolo, ma non più antica del vii. Con ogni probabilità fu composta in Ra-
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yenna al tempo di Mauro (642-671), l’arcivescovo che sostenne una fierissima lotta con Roma per ottenere dalla corte di Costantinopoli un decreto di indipendenza Serarchica da Roma, uno di quei decreti 'autocefalia che collocasse la sede episcopale di Ravenna al livello giuridico di Snella di Costantinopoli, di Antiochia, di erusalemme, di Alessandria, ecc. Nella lotta fu vincitore Mauro poiché il 1® marzo 666 fu firmato dall'imperatore Costante in Siracusa il decreto <l'autocefalia, ma si inasprì la con tesa.con Roma, onde ne venne una scomunica pontificia che ne provocò un’altra al pontefice per parte delrArcive-scovo ravennate, il quale morì senza essersi riconciliato. Il diritto d’autocefalia doveva essere provato, cioè bisognava dimostrare dalla chiesa che lo vantava, la qualità di chiesa apostolica (fin dai tempi di Tertulliano si dissero apostoliche le chiese fondate da un apostolo in persona e quelle costituite da un discepolo immediato di un apostolo). Bisognava provare che la chiesa di Ravenna era apostolica e fu scritto — per questo — come argomento contro di Roma, la Passio Sancii A polli-naris. Tali furono le conclusioni alle quali arrivò nel suo esame il Zattoni, alle quali il Testi-Rasponi (Note marginali al « I iber pontificalis » di Agnello Ravennate li. 73-76) aggiunse un’ipotesi ingegnosa. Che la Passio fosse preparata sotto l’ispirazione di Mauro contemporaneamente al celebre falso di Valentiniano. I due documenti do-devano sostenere l’uno l'apostolicità di Ravenna, fondamento principale delle pretese di Mauro, e l’altro l’abuso che andavano facendo gli arcivescovi del pallio concesso a loro dai pontefici romani. Il prete Reparato, che fu messo da Mauro Stesso l’imperatore, avrebbe portato seco in
icilia la Passione e il pseudo-decreto Va-lentinianeo abilmente composti nella cancelleria episcopale a giustificazione delle pretese della chiesa ravennate.
Riprendendo il lavoro dalle conclusioni del Zattoni, il Lanzoni le rafforza, e completa qualche punto che era sembrato rimasto poco in luce, riuscendo ad uno di quegli studi scientifici dei quali poco in Italia s’è prodotto e si produce, ma pei quali egli s’era mostrato dottamente pronto nello studio della vita e della leggenda di San Petronio e di San Severo, dando efficace impulso ad una revisione critica del materiale agiografìco italiano, che ogni onesto e serio studioso deve augurarsi non
si arresti a queste — se pur significative — sporadiche manifestazioni.
Secondo il Lanzoni le fonti presumibilmente conosciute e adoperate dall’autore della Passio sancii Apollinaris si possono ridurre a tre capi: A) Tradizioni documentarie e monumentali risguardanti l’episcopato, il martirio, il sepolcro c il culto di sant’Apollinare; B) Tradizioni orali sull’età dell’episcopato di S. Apollinare; C) Tradizioni documentarie, monumentali ed orali sopra punti secondari del racconto.
-Dalla fonte A — (ritratti dei vescovi ravennati da Apollinare in poi, coi nomi rispettivi accanto esistenti nella basilica Ursiana; dittici sacri che tutto fa ritenere esistessero presso la Chiesa ravennate; un catalogo episcopale dell’archivio dell’Ur-siana; l’antico calendario ecclesiastico ravennate colle deposiliones martyrum, de-posiliones episcoporum et ingressus reliquia-rum la cui esistenza è assicurata indirettamente dal cosidetto Martyrologium Hiero-nymianus, un elogio o panegirico che si legge nella raccolta di Pier Crisologo, vescovo di Ravenna (425-450); le iscrizioni e le figure che si trovano nella Chiesa dedicata da Ursicino ed edificata da Giuliano Argentario tra il 536 e il 546 a Sant’Apollinare) — l’autore apprese: 1® che Apollinare era un santo, quindi lo chiamò • beatus » e « sanctus •; 2® che fu il primo vescovo di Ravenna; 3® che era spirato in assai avanzata età; 4® apprese i nomi dei quattro immediati successori di lui: Aderito, Eleu-cadio. Marciano e Calogero; 5® apprese che fu marlyr, raccontando in una larga e libera interpretazione delle frasi del Crisologo in proposito i molteplici e svariati tormenti che dovette subire; 6° il giorno del suo martirio; 7® il luogo della sua sepoltura.
Circa l’utilizzazione della fonte B conviene osservare come il Crisologo affermasse che Apollinare era vissuto nel tempo delle persecuzioni e dei persecutori, ma non precisasse, forse perchè non ne sapeva di più, e come tutti gli altri documenti ravennati e gli scrittori d’Oriente e di Occidente, siano muti in proposito. Donde dunque apprese l’autore della Passione Faposto-licità della chiesa di Ravenna? Lo Zattoni s’era chiesto: « Sarebbe egli troppo ardito supporre che la vicinanza della cattedrale di San Pietro in Classe colla basilica di Sant’Apollinare abbia dato occasione di far nascere nella mente dei nostri vecchi rapporti personali tra i due santi ? ». Il
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Lanzoni preferisce mettersi per altra strada, abbandonata anche l’ipotesi che tutto quanto si riferisce all'età apostolica di Apollinare del suo episcopato, non sia che un semplice prodotto della fantasia dell’autore o degli ispiratori della Passione, suggerito dall’interesse della causa (i).
Il Lanzoni crede più ammissibile l’ipotesi di una lenta formazione, crede cioè che l’anonimo desumesse la notizia da una tradizione orale nata in Ravenna tra il 604 e il 666, o poco prima, e in questo tempo accreditata, e accettata generalmente e volontieri appunto per l’interesse del suo contenuto, e latta valere in iscritto dall’autore e dagli ispiratori della Passione per fondare in essa le pretese dell’autocefalia.
Per quanto riguarda le fonti C, dalle notizie topografiche ravennati l’autore trasse le notizie dei templi e degli altari pagani esistenti al tempo del Martire; dalle tradizioni popolari ravennate, l’indicazione di alcuni luoghi di Ravenna e di Classe come santificati dalla presenza di Sant’Apollinare; dalla Bibbia molti episodi della vita del santo (le guarigioni del cieco, della moglie clinica del tribuno, dell’indemoniata, del muto, ecc., dalla liturgia cristiana i discorsi posti in bocca a Sant’Apollinare; dagli Acia apostolorum apocrifi e dalle Passiones martyrum, specialmente da quelle dell’Alta Italia, tutte quelle circostanze secondarie e quegli abbellimenti esteriori che paiono superfluità, ma che invece servono a caratterizzare la mentalità di un’epoca e di un autore.
Come la Passio chiudeva nel secolo vii il primo ciclo della leggenda di Sant’Apollinare, così può dirsi che esso ne aprì un
(1) Veramente le ragioni per le quali egli Scarta questa idea non mi persuadono assai. Se egli ritiene che nel medioevo la cancelleria ravennate commise ben altre frodi e che Mauro — l’ispiritore della passione — non mancava di ambizione e di audacia, non so capire come —- per questo solo — non gli appaia probabile l’invenzione di sana pianta della leggenda delle origine petrine della chiesa ravennate. Ci voleva forse più audacia al falso di Valentiniano che a questo? non mi pare. E vi dovette essere per la Chiesa ravennate questione più importai«te di questa che le portava una serqua di privilegi ed una autonomia da tanto desiderata? L’origine polemica della passione non esclude, ma conferma, a mio avviso, l’ipotesi che l’autore e gli ispiratori abbiano sfruttato il silenzio dei documenti.
altro che durò fino al secolo xu, che va dall’iscrizione incisa in lamine d’argento
>er ordine dell’arcivescovo Mauro con un »unto della vita e del martirio di Sant’Apol-inare (secolo vii) fino aWItalia sacra del-'Ughelli e alla Ravenna ricercata del Fabri (secolo xvn). Nei documenti compresi in auesto periodo - non è difficile riscontrare materiale leggendario proveniente, come da nucleo principale, dalla Passione: le interpretazioni estensive arbitrarie di qualche passo di questa, le determinazioni arbitrarie di luoghi, di tempi e di personaggi ricordati nella Passione e designazione dell’autore della medesima, l’aggiunte di elementi nuovi desunti dalle leggende di altri santi e trasportati dalla storia de’ suoi successori o dei tempi posteriori, ecco tutto il materiale che accumulandosi intorno a dei brevi accenni della Passione arrivò fino alla completa negazione del racconto principale di ess.a, come nel ricordo del martirio dei santi Vitale ed Ursicino, avvenuto — secondo alcuni — prima di quello di San Pietro a Roma e di Sant’Apollinare in Ravenna.
Percorsa così la storia della leggenda di Sant’Apollinare, il Lanzoni si volge a considerare le leggende derivate da essa. Questo scambio di elementi e questa mutua depredazione è naturale e solita in tali composizioni. Quelle che dipendono dalla nostra non sono soltanto nel ravennate — che anzi qui l’abilità dei compositori seppe evitare il pericolo di abusare di elementi nella maggior parte noti — nè nella Romagna, ma si estendono ben più in là. Al confine della provincia abbiamo gli Acta sancii Gaudentii episcopi ariminensis (secolo xi-xii), a Satana in Dalmazia la Vita sancii Domini (sec. xi), ad Aquileia la Passio Hermagorae episcopi et fortunati ar~ eh ¡diaconi eius (sec. ix-x), a Padova la Vita sancii Prosdocimi (recente), a Milano probabilmente la leggenda di San Barnaba, a Pavia la Vita sancii Syri episcopi pa-piensis (sec. vm), a Lucca la Passio sancii Paulini episcopi hiccnsis, nelle Marche la leggenda dei santi Decenzio e Germano di Pesaro e la Passio sancii Rufi, che è in un codice del xv secolo nella biblioteca di Bruxelles e in un altro del secolo xiv di Liegi è evidentemente calcata sui n. 14 e 15 di quella di Sant’Ape Binare, come moltissime delle leggende nelle quali si sostiene per alcune sedi gallicane la apostolicità, dipendono — almeno parzialmente — dalla scrittura ravennate. Se non che non sa-
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rebbe completa la disamina — e il Lanzoni ha tenuto invece a darci un lavoro esauriente, dove se altri voglia può trovare il modo onde condurre un simile ordine di ricerche, desiderabile cosa perchè questa critica minuta è di una efficacia straordinaria— se non si accennasse come la presenza di Sant'Apollinare nei martirologii, al 23 luglio, ha esercitato una certa influenza sopra alcuni santi. Santa Tecla fu sanata miracolosamente dal santo e in certi calendari essa ha trovato posto proprio nel giorno di lui. Presso altri al 23 luglio troviamo due santi omonimi, vale a dire sant’Apollinare di Frigia e sant'Apoi* linare di Beziers. In un sinassario poi della chiesa di Costantinopoli del secolo x o xi al 23 luglio si legge: « Certame del santo martire Apollonio vescovo di Roma e dei santi martiri Apollinare e Vitale, vescovi di Ravenna » Ma nè un Vitale fu mai vescovo di Ravenna, nè il martire Apollonio di Roma. Evidentemente il primo è il martire Vitale cui fu consacrato uno dei templi più belli di Ravenna. Per economia liturgica saranno stati posti nel medesimo giorno, quindi per attrazione sarà stato dato all’uno il titolo dell’altro. Per sant’A-pollonio la omonimia o quasi lo avrà posto accanto a Sant’Apollinare e la vicinanza l’elevò al titolo episcopale.
F. R.
VARIA
La Rivista Internazionale di Sceme Sociali del maggio 1915 ha uno studio di A. Bel-lomo col titolo « La guerra secondo il Vangelo» in cui FA. critica il prof. Del Vecchio il quale pensa che le teorie odierne della scuola cattolica sulla guerra siano estranee non'solo al Vangelo ma anche al pensiero cristiano dei primi secoli. Ma dalla sostanza dell’articolo in realtà non si può non rilevare che il Del Vecchio ha perfettamente ragione e che il Bellomo scambia per cristianesimo e per Vangelo la cosiddetta civiltà cristiana (leggi medievalismo).
In Quaderni di Psichiatria (una valorosa Rivista che esce da poco in Genova sotto la direzione del prof. Enrico Morselli (casella postale 879) del giugno 1915 G. Por-tigliotti ha un ottimo stùdio su Lo sposalizio e la gravidanza mistica di Jacopone da Todi.
Chi sa quale degenerazione purulenta il cristianesimo medievale sia stato del pensiero di Gesù non troverà davvero strano che esso abbia potuto offrire materia di studio ad un alienista. Come chi si rende esatto conto di quanto sopravviva di quella roba in molti, troppi libri ed opuscoli ascetici che si pubblicano oggi ad edificazione (è la parola tecnica che essi stessi usano) dei pii lettori cattolici con amplissimo imprimatur ecclesiastico e talvolta anche con commendatizie di Vescovi, dovrà trovare giusto ed opportuno, a scriminare il cristianesimo autentico, l’accenno ad una voce competente che qualifica quella roba come si merita...
Il recentissimo Volume XIV (serie IV) degli Atti e memorie dell'Accademia di Scienze di Verona, col modesto titolo di appunti e note, contiene uno studio pregevolissimo per precisione, completezza e documentazione del rev. ab. cav. Antonio Spagnolo attorno alla Settimana Santa. Rilevabile nella parte consacrata al Giovedì santo, l’accenno alla benedizione impartita dal Vescovo 0 da un sacerdote sopra {’olio per gli infermi presentato dai fedeli ed a loro poi riconsegnato a giovamento e sollievo dei congiunti afflitti da gravi malattie. Una tale franchezza da parte di un sacerdote cattolico non infeudato a preconcetti quando si tratta di fonti storiche merita omaggio sincero. Gli auguriamo anche che, caso fortunato negli annali di Roma, questa volta la verità non partorisca odio verso l’illustre storico e liturgista.
S. B.
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Cambio colle Riviste
GERMANIA
I TEDESCHI E IL REGNO DI DIO
In un capitolo dell’appendice alla seconda edizione del suo opùscolo Guerre et Religion 121 ss.) che porta il titolo: a I tedeschi e il Regno di Dio », Alfredo Loisy esamina alcune pubblicazioni religiose apparse recentemente in Germania. E anzitutto un manifesto indirizzato a tutti i cristiani evangelici dei paesi neutri e dei paesi nemici, in favore delle missioni protestanti tedeschi dell’Affrica centrale. Il manifesto porta le firme del comitato di patronato di dette missioni, e tra le altre, quella del pastore Dryander, cappellano imperiale, dei filosofi Eucken e Wundt, e dello storico Harnack.
Quésto manifesto era ispirato dalla preoccupazione di vedere discreditato il Vangelo presso le popolazioni di razza gialla e nera per il fatto che l’Inghilterra aveva nella guerra contro la Germania, fatto appello al concorso dei pagani giapponesi e i negri dell'Affrica.
« Noi possiamo e dobbiamo, dice il manifesto, declinare per il nostro popolo e per il suo governo la responsabilità di questa guerra criminale c di tutte le sue conseguenze funeste all’avvento del regno di Dio. Con la più profonda convinzione, noi dobbiamo far ricadere questa responsabilità su coloro che da lungo tempo hanno ordito la lama odiosa di una guerra contro la Germania ».
« Noi ci rivolgiamo, aggiunge il manifesto, alla coscienza dei nostri fratelli cristiani all’estero, e facciamo loro questa domanda: « Cosa attende Dio da voi ? Cosa può e deve farsi perchè in quest’ora solenne i cristiani non perdano la forza e il diritto di essere i messaggeri di Dio di fronte all’umanità non cristiana? ».
A questa domanda, i « fratelli cristiani » di Francia non hanno creduto di dover dare una risposta, che poteva aver sapore di tradimento. Del resto a una preceSapientia, Roma, Direttore: Salv. Lauro, anno II, nn. 5-6 settembre-ottobre 1915.- Per una coordinazione ideale delle opere di assistenza ai combattenti. -Teresa Labriola: « L’assistenza in guerra come valore morale ». - Alberto Tonchi: « Del funzionamento dell’università durante la guerra ». -Giulio Provenza!: « Difendiamoci esaltando le nostre virtù ». - Quinto Tosatti: « Pangermanismo e cultura. I. Heine la Francia e la Germania ». -Meuccio Ruini: « La questione meridionale e l’ora presente ». -L’assistenza spirituale. - L’assistenza economico-socialc. -L’assistenza sanitaria. - Fatti e commenti. - La vita politica e sociale nel libro e nel pcriodico-Cronache.
Conferenze e prolusioni, Roma, 16 novembre 1915. - S. E. Antonio Salandra: « L’Italia uscirà vittoriosa ». - S. E. Giovanni Rosadi: « La scuola per la patria ». - Prof. Giovanni Sodini: « Rito di gloria, non di pianto! ». - Prof. Giuseppe Rcnsi: « La guerra e la società umana ».
— i° Dicembre 1905 - S. E. Vitt. Eman. Orlando: « I caratteri della nostra gnerra ». -E. Morselli: « Metodo scientifico e barbarie metodica ». -A. Galante: « La lotta per l’italianità di Trento e Trieste ». -L. Amadasi: « L’ora eroica della patria ». - Dalle Riviste e dai giornali. - L’attualità. -Le Accademie. - Note e notizie.
La Riforma italiana, Firenze, 15 novembre 1915. - La R. I.: « Le lezioni della guerra » - La nostra inchiesta su la coscienza e la religione italiana. -C. Bianchi: « La democrazia futura ». - C. Bianchi: « L’assistenza per mezzo del lavoro in Francia ». - Dott. Gustavo
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Frizzoni: « Bisogno di critica biblica ». - L. Giulio Benso: « Dopo la lotta ». - Il decalogo dei liberi credenti.
Voci amiche, Milano, anno V, n. 8-9-10. Agosto-settembre-31 ottobre. — M. A.: « Ai nostri soldati ». - A. Giacomelli: ■ A voi, soldati nostri ». - P. Semeria: « L'Ideale Cristiano e la guerra ». - Saluti. - Virile gentilezza italica. - L. Mangione: « O giovinezza d’Italia... ». - Piccole voci auguranti. - Il saluto della mamma -Come si serve la patria. -Opera di misericordia. - Pedagogia d’amore. - Dubbi. - Dall’episodio ■ Umani ». - Guerra e Pace. - La nostra guerra -Meditazione semplice - Preghiere - Da un ospedale da campo della III armata — Lettere di guerra - Parole di Eugenio Vaina - Consigli utili - Letture per voi, soldati - Conversazione.
Rivista di filosofia neo-scolastica, Milano, 30 ottobre 1915 -M. Sturzo: «L’estetica di Benedetto Croce ». - M. Bru-sadelli: « Un pioniere dei nazionalismo (J. G. Fichte) ». -A. Gemelli: « L’esperimento in estetica: I. Metodi e risultati ».
Vita e pensiero, Milano, 20 novembre 1915. - Ivan Trinko < La Serbia e ìa sua storia ». -E. Vercesi: « La Svizzera e la guerra ». - F. Meda: « Don Luigi Guanella ». - T. Nediani : « A. Franchi e l’inspirazione cristiana nell’arte ». - M. Sturzo: »’’Le sens de la mort" di Paul Bourget ». - M. Brusa-delli: « L’analogia in istoria e il segreto del genio politico ».
Luce e ombra, Roma, anno XV, fase. 11, 30 novembre 1915. - Dott G. Ferma: « Saggio critico su la figliazione semitica e zando-caldea delle dottrine dei Cabalisti, dei Gnodente lettera con la quale il pastore francese Babut invitava tutti i belligeranti a riconoscersi fratelli in Cristo rinunziando a ogni sentimento di odio contro il nemico, il pastore tedesco Dryander rispondeva che i cristiani tedeschi non avrebbero potuto fare una simile dichiarazione prima che « i cristiani inglesi, francesi e russi » non avessero « pubblicamente stigmatizzato » i loro governi per il delitto sacrilego che solo aveva reso possibile la guerra attuale. In fondo si domandava, s’imponeva quasi, ai protestanti francesi di rinnegare la loro patria. La loro audacia va ancora più lungi. Il Vangelo tedesco permette molte cose che l’antico e autentico Vangelo condannerebbe. I dottori tedeschi negano le gesta infami del loro « nobile e austero esercito ». Il tedesco non può peccare; ciò che per altri è delitto per lui è colpa veniale di cui l’indulgente loro Iddio non tien conto, poiché tutto ciò che fa il tedesco è fatto per il trionfo della « cultura », cioè de la diffusione del « regno di Dio », che è, beninteso, il progresso stesso e il trionfo della cultura tedesca e dei tedeschi in tutto l’universo.
« Qui è veramente, osserva il Loisy, il colmo della loro stravagante audacia: questi avvocati del Vangelo, questi puri credenti, questi santi degli ultimi tempi, che si velano la faccia al pensiero che l’Inghilterra sta scandalizzando i negri dell'Affrica centrale, non vedono nel Vangelo che un’etichetta onorevole per la cultura tedesca; e ciò che essi intendono diffondere non è tanto il Vangelo quanto la loro propria cultura, così che l’appello rivolto da essi ai cristiani stranieri non ha neppure come pretesto l’interesse della fede, evangelica dal momento che questa fede non esiste per essi indipendentemente dalla loro adorabile cultura ».
11 cardinale von Hartmann, arcivescovo di Colonia, in una sua recente lettera pastorale, scriveva:
« È con Dio che i nostri soldati sono'partiti per questa guerra, che ci è stata imposta, e che “noi combattiamo per l’esistenza e la libertà della nostra patria diletta, non meno che per i sacri tesori del cristianesimo e per il suo gran dono: la cultura ». Da ciò si vede che, come il protestantesimo anche il cattolicesimo tedesco tende a identificarsi con la cultura tedesca, benché, esso, a differenza del primo, non abbia fatto nulla, a quanto pare, per influenzare il clero straniero (?).
Il l oisy, in seguito, analizza e critica un libro pubblicato al principio del 1914 da un missionario protestante tedesco, J. Witte, in favore delle missioni dell’E-stremo Oriente e intitolato Oslasien und Europa. Il pastoreWitte afferma anzitutto che l'idea fondamentale del Vangelo consiste nel prezzo infinito dell’anima individuale e nella fede in Dio padre che perdona i peccati. Egli scrive: «La caratteristica essenziale della nuova cultura è che l’individuo ridiviene realmente il centro del mondo ».
I Missionari, dice l’autore, hanno sino ad oggi perduto il loro tempo in Cina e nel Giappone per aver voluto predicarvi la fede delle loro Chiese particolari invece dell’essenza del cristianesimo, della bontà paterna del Dio
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urico e per aver cercato di convertire gli spiriti piuttosto che influenzarli utilmente per mezzo delle istituzioni scolastiche e di beneficenza sociale. Secondo il Witte, il missionario dovrebbe essere sopratutto un agente della civiltà occidentale quale essa realizzata dalla propria nazione. Così il missionario tedesco sarà un attivo propagandista dell’influenza tedesca. Egli lavorerà a introdurre i Cinesi e i Giapponesi nella grande comunità dei popoli civilizzati e a volgerli eventualmente dalla parte dei tedeschi, se questi avessero bisogno di far la guerra per imporre la loro pace.
Il pastore tedesco Witte si scaglia particolarmente contro i pacifisti, esortandoli a fare propaganda, caso mai, presso i popoli che sono gelosi della Germania. Secondo lo scrittore l’interesse nazionale è superiore al bene dell’umanità; Dio avrebbe destinato il mondo ai Eiù abili, e se la forza è un bene morale che rende possine il maraviglioso sviluppo di un popolo in ogni ramo della sua attività, e se questo sviluppo venisse ad essere ostacolato da altri popoli, « il governo avrà allora il diritto, il dovere anzi, di ricorrere alle armi quando le insistenze verbali non bastano. Ma c’è di più. La Germania trovandosi nella condizione per cui gli altri popoli non aspettano che il momento favorevole ad essi e sfavorevole alla Germania, per distruggerla, il dovere del governo tedesco è di afferrare la prima buona occasione che si presenterà alla Germania per vincere i suoi nemici. Se il governo tedesco non facesse ciò, esso mancherebbe al suo dovere di fronte al popolo tedesco ».
Ecco come, osserva il Loisy, « l’essenza del cristianesimo » si trasforma in una concezione sistematica di dominazione universale e l’individualismo religioso più assoluto si risolve nel nazionalismo più orgoglioso e più fanatico. Il cristianesimo è messo al servizio del germanesimo e il regno di Dio consisterebbe nel progresso della cultura tedesca, nell’espansione dell’influenza tedesca, nella dominazione universale della Germania e del suo imperatore. Il vangelo, emancipato dalla tradizione, diviene, nella cultura tedesca, un pericolo per l’umanità.
A. D. S.
IL
stici e dei Manichei ». - V. Cavalli: <c L'incosciente coscientissimo? » - Dott. G. Fiocca-Novi : « L’energia pensiero ». - L. Granone: «Spiritismo e massoneria ». - Nigrolicò: « La sopravvivenza», ecc.
Bolleltino"*‘della Società teosofica italiana, Genova, anno IX, fase. XI-XII. Novembre-dicembre 1915. - W. H. K.: « James Richardson Spensley » - C. W. Leadbeater: « La legge di causa ed effetto ». - R. Laz-zarini: « La vita interiore ». -J. Every-Clayton: «Teosofia e ” Christian Science ” ». - Pensieri - E. Pavia : «'Analogie autunnali ». - Notizie.
PROFESSORE HARNACK E LA GUERRA
NELLA CRITICA DI ALFREDO LOISY
A un gruppo di scienziati inglesi che si erano permessi di scrivergli che l’Inghilterra era stata costretta a prendere le armi per la difesa del diritto, il professore Adolfo Harnack rispondeva che la Germania non aveva violato nessun diritto e che anzi il cancelliere dell’impero aveva fatto male ad ammettere che
Fot et Vie. Cahiers A.. i° novembre 1915.- Paul Dou-mergue: « Ce que pensent les toutes jeunes ». - Pierre Cha-vannes: « Michelet et l’Allemagne en 1870 ». - Emile Dou-mergue: « Encore le Manuel du grand Etat-Major allemand ».
— 16 novembre-!0 dicembre 1915. - Editorial. - J. L. Pierson: « La neutralité de la Hollande ». - H. B.: «Soleil d’Orient, Lumière de Grèce ». -B. Val lotton: « Le second départ ». - E. Doumorgue: « Propos de guerre ».
Cahiers B., 1 novembre 1915. - M. Armand Gautier: « Pour la fécondité des familles françaises ».
— 16 Novembre-!0 dicembre 1915. - Abel Lefranc: « Le Sîtriotisme en France au temps
2 la Renaissance ».
The Princeton Theological Review, vol. XIII, n. 4, ottobre 1915. - Benjamin B. War-field: « Jesus Mission, according to his own testimony ». -Geerhardus Vos: « Hebrews, the Epistle of the diathekc ». -Samuel G. Wilson: « The Ba-yan of the Bab ». - Reviews of recent liberatore.
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The American Journal of Theology, vol. XIX, n. 4, ottobre 1915. - Kirsopp Lake: ■ The theology of the Acts of the Apostles ». - A. Edward Harvey: ■ Economic Self-interest in the German anticlericalism of the fifteenth and sixteenth centuries ». - John Richard Brown: « The character of Jesus: a genetic interpretation ». - Ukichi Kawa-Ìfuchi: « The doctrine of evo-ution and the conception of God ». - A. Marmorstein: « The doctrine of the resurrection of the dead in rabbinical theology ». - Recent theological literature-Brief mention-Books received.
The Biblical World, vol. XLVI, n. 4, ottobre 1915. -Shatter Mathews: « Theology and the social mind; I. The semitic social mind; II. The {reco-roman social mind: III.
he imperialistic social mind; IV. The Feudal social mind; V. The nationalist social mind; VI. The bourgeois social mind; VII. The modern social mind ». - Clyde Weber Votaw: « The ethical teaching of Jesus. I. »-Herbert L. Willett: « The religious and social ideals of Israel ». - Book notices.
The Bible magazine, vol. Ill, n. 12, dicembre 1915.- Editorial: ■ Sight and faith ». -J.W. Bashford: «Churchunity». - H. H. Me Quilkin: « Unapplied Christianity ». - T. Whaling: « Jesus’ choice of his apostles ». -T. Nicholson: « The parable of the unjust steward and its sequel : Luke 16-1-31 ». - A. Pi-razzini: «Who are the Jesuits? ». L. Hodous: «The influenceof the Christian view of Chinese state religion ». - J. S. Gale: « A Korean’s view of Christianity», ecc.
Coenobium, ottobre-novembre 1915 (in preparazione). -Ch. Piepenbring: « Mon testalc forme del diritto non erano state rispettate. In caso di necessità, aggiungeva il famoso storico del Cristianesimo, nè il diritto ordinario, nè le formalità possono obbligare; David era nel suo diritto prendendo i pani del sacrificio sulla tavola del Signore (cfr. il primo libro di Samuele (I Re), cap. XXI), e la Legge non esisteva più per un uomo che moriva di fame; esiste un diritto della necessità che spezzerebbe il ferro e che spezza i trattati; era una necessità di salvezza per la Germania quella di abbattersi al più presto possibile sulla Francia attraverso il Belgio; essa aveva quindi il diritto di passare sul corpo del Belgio, come David aveva il diritto di mangiare il pane consacrato.
L’illustre esegeta, Alfredo Loisy esamina, in appendice alla seconda edizione del suo opuscolo: Guerre et Religion (Paris, Nourry, 1915, pagg. 113 ss.), in un breve capitolo intitolato: « Davide e la neutralità belga » i singolari ragionamenti dell’ Harnack.
Dopo alcune rettifiche e constatazioni d’indole esegetica, il Loisy comincia coll’osservare che se è vero che la Germania si trovava nella situazione di chi, per non morire, è costretto a rubare il primo pezzo di pane che gli capita, dal momento che questo pezzo di pane le è rimasto in gola, essa dovrebbe già essere perduta. L'esperienza ha già dimostrato che la violazione della neutralità belga, seppure potè costituire un vantaggio per la Germania, non poteva essere invocata in nome della necessità poiché nè il fallimento del suo piano ha ridotto la Germania in una situazione disperata nè la violazione del Belgio potrà salvarla dalla sorte che l’attende.
Ma la vera questione non è qui, prosegue il Loisy. « La vera questione è che i Belgi non costituivano quel pezzo di pane che un vagabondo qualunque aveva il diritto di appropriarsi per calmare le contrazioni del suo stomaco. I Belgi erano un popolo, essi formavano uno Stato libero. Quando anche la neutralità del Belgio non fosse stata garantita da un trattato che la Germania aveva firmato, i Tedeschi non avevano il diritto di trascinare loro malgrado i Belgi a una guerra che non li riguardava. Essi non avevano il diritto di assumerli in qualche modo per collaboratori in un’impresa contro un popolo che non era il nemico del Belgio. Ufficialmente neutri, i Belgi non avevano il diritto di favorire i Tedeschi contro di noi, come essi non avevano il diritto di favorire noi contro i Tedeschi. Il paragone del signor von Harnack non vale se non nel caso che non esista altro diritto che la volontà del più forte, o piuttosto la volontà del Tedesco, che si crede il pili forte e che si persuade che gli altri uomini sono obbligati a fare per lui tutto ciò che esso giudica essergli vantaggioso ».
Secondo la concezione harnackiana, l’alta cultura si riassumerebbe in una formola di brutale dominazione e i figli di quel Lutero, a cui si attribuisce la liberazione delle coscienze dalla schiavitù romana, si crederebbero in diritto di opprimere la coscienza dei popoli.
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Questi falsi protestanti e falsi cristiani, si domanda il Loisy, non sarebbero anche dei pseudo-civilizzati?
« Una cultura che non rispetta il diritto altrui non è cultura; non possedendo in se stessa la nozione della giustizia non può essere che una tirannia più o meno sapiente ».
A. D. S.
LA “MORATORIA” PER IL CRISTIANESIMO
Con questo titolo allarmante, la rivista tedesca Cristliche Well pubblica una violenta denunzia del Cristianesimo delle Chiese, spedita da un soldato tedesco dalle trincee. Fondandosi sulla sua esperienza di più mesi, egli si fa incontro con sarcasmo ai predicatori della sua patria che non fanno che esaltare le influenze purificatrici ed elevataci della guerra, assicurandoli che l’ambiente in mezzo al quale egli vive personifica il male più radicale: che egli è attorniato da « abissi di malvagità ». I predicatori si sforzano di mettere d’accordo la guerra con l’etica cristiana e col discorso del Monte: ed egli li assicura, che in guerra, persino i primissimi rudimenti del Cristianesimo restano ignorati. Che le Chiese benedicano la guerra e ne esaltino le virtù purificatrici, non ha senso. « Per centinaia di migliaia di uomini al fronte, uomini che un tempo professavano il Cristianesimo, la " Moratoria „ è di già cominciata »: ed egli fa istanza, in tono tra il cinico e il serio, perchè la Moratoria sia estesa a tutta la Cristianità, e perchè la Chiesa abdichi alle sue funzioni, in tempo di guerra. « È assolutamente certo — così egli termina. — che quando questi uomini torneranno dal fronte di battaglia madido di sangue, il loro Cristianesimo sarà affatto diverso, ed essi esigeranno che le Chiese adottino un tipo differente di Cristianesimo. » La Christian Commonwealth ricordava queste parole, commentando i voti emessi dalla « Convocazione » di Canterbury (Congresso annuo della Chiesa Anglicana). « È significativo —-essa commentava — che dopo dodici mesi di guerra la " Convocazione „ si affatichi ancora a determinare quale debba essere l’atteggiamento della Chiesa riguardo al presente conflitto. Sembrerebbe che una questione cosi elementare dovrebbe già essere decisa: eppure, la perplessità del clero riflette fedelmente i dubbi e le S.estioni che ancora ossessionano la mente di ognuno e pensi. Le risoluzioni prese dalla “Convocazione,, possono salvarsi dalla critica, solo in quanto esse sono presentate come un compromesso. Nessuno può invidiare la situazione di guide religiose chiamate a pronunziarsi in questo momento sull’atteggiamento della Chiesa riguardo alla guerra, ma certo la posizione che esse occupano impone loro gravi responsabilità, e sono molte le pecore che cercano pascolo e non ne trovano.
meni spirituel: esquisse d’une réforme religieuse » - R. Otto-lenghi: «La Turchia» - P. Seip-5el: • Romain Rolland » - G.
.cnsi: « Il carattere sopraero-gatorio della morale » - A. Levasti: « Godescalus poeta » -M. Charvoz: « La pensée libre dans l’évolution des peuples » -A. Gazzolo: « Di alcuni saggi sull’immortalità » - Ethel Sidg wide: • Credo (pour le petit nombre) » - P. A. Ghignoni: « Ancora per il Cristianesimo e la Guerra » - M. De Sanctis: « C’è un risveglio religioso in Francia? » - Nel vasto mondo: « Lettoni e Littuani » - N. Robin - Documenti e ricordi personali: « Testamenti spirituali » - di Bernardino Varisco e di Italo Pizzi - Pagine da meditare: « La vie spirituelle » -L. Tolstoi: « I fanciulli vittime della guerra » - A. Faria de Vasconcellos- Guerra alla guerra: « Per una Lega dei Paesi neutrali: Consensi ed appunti; Più alto del fragor delle armi; A traverso i giornali; L’opera del Ccenobium per le vittime della guerra » - Rassegna bi-gl iografica: ■ M. Hebert, A. Crespi », ecc.- Rivista delle Riviste: * Damasco come centro mussulmano: Sanguine prophe-cies; Raimondo Lullo missionario; La filosofia del Mormonismo; Le lauree « ad honorem »; Terribile crisi di coscienza; Pacifismo americano; L’atto del pensare; Militarismo e pacifismo; Faute de mieux... » ecc. - Tribuna del Camobium - Note a fascio.
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Pubblicazioni pervenute alla Redazione
Estratti, Opuscoli, Libri.
Pietro Ceretti: Scritti scelti inediti di varia filosofia e letteratura. Con prefazione ed a cura di Vittore Alemanni. Volume I. Roma, E. Voghera Ed., 1915. Pagine xxxvn-476, L. 5.
8 A A
Sac. Francesco Olgiati: Il problema del dolore dinanzi ai campi della guerra (Estratto da « La Scuola Cattolica » di Milano). Monza. 1915. Pagine 40.
& A A
D. Luigi Tosti: Il Salterio del soldato. Milano, Edizione di « Vita e Pensiero », 1915. Volumetto di pag. 88, L. 0,40.
A A A
Dora Melegari: Il destarsi delle anime. Milano, FllijTreves. 1915- Pag- 292. L. 3,50.
Sac. Antonio Marchetti: Metodo pratico per avere la frequenza e il profitto nei nostri catechismi parrocchiali. Faenza, '9’5Francesco Fornari: Il rito della cena alla « Mater larum ■» nel culto arvalico (Estratto). Roma, Loescher, 1915.
A A A
Antonio Rizzuti: Educatori e Poeti. Ricordi letterari. Roma, 1914. Pagine 170, L. 3.
A A A
L. Salvatorelli ed E. Huhn: La Bibbia. Introduzione al-l’Antico e al Nuovo Testamento. Remo Sandron ed..
Come cittadini, il loro dovere sembra ad essi’chiaro, ma riconciliarlo con una gran parte degli insegnamenti della Chiesa é assai meno facile.I.a realtà è, che l’eterno antagonismo fra l’ideale e la pratica — antagonismo che solo i più superficiali e meno profondi possono ignorare — assume un realismo vivido e quasi insopportabile, quando membri della Chiesa sono chiamati a dare la loro testimonianza di fronte al loro dovere quali membri dello Stato, in tempo di guerra. Anche i più profondi nostri pensatori si rendono perfetto conto dell’apparente conflitto fra le due fedeltà, e con tutta la convinzione della giustizia e della inevitabilità della presente guerra >er quanto ci riguarda, ammettono che vi è posto per a coscienza di aver dovuto fare qualche sacrificio del-’ideale alle impellenti esigenze del reale... È bene, in un certo senso, che la Chiesa sia ancora incerta, perchè invitare i fedeli a sentire l’ultima parola sul problema, sarebbe vano quando non si avesse un’ultima parola da dire. E chi mai che abbia letto e ponderato le risoluzioni prese dai congressi delle diverse società religiose, può credere che questa parola decisiva sia stata detta? 11 conflitto presente non è meno critico per la Chiesa Cristiana che per la civiltà tutta: e può aarsi che quella non abbia risposte da offrire a molti dei problemi incalzanti imposti dalla guerra... Ma, almeno, se essa deve fare da guida, deve cominciare dal vedere essa chiaramente la strada, senza possibilità di sbaglio o di dubbio. Se essa è il depositario di una verità eterna, deve poter dedurre da essa la verità riguardo alla situazione presente, senza curarsi di preconcetti contro i quali essa può venire in conflitto. Quanto poi alla conciliazione fra l’ideale e la pratica, v’é tempo abbastanza per effettuarla. Fu un teologo tedesco a porre la questione classica: "Che cosa è il Cristianesimo?,, Oggi, uno sconosciuto soldato tedesco ammonisce la Chiesa che bisogna dare alla questione una risposta nuova. Ed egli ha ragione ».
Le risoluzioni della « Convocazione -■ di Canterbury a cui alludeva l’articolista della Christian Commonwealth sono specialmente la terza e la quarta, che dopo emendamenti assai discussi, furono votate in Suesta forma: « Poiché è principio fondamentale del ristianesimo di vincere il male col bene, è dovere delle nazioni e dei governi di cercare di risolvere tutti i conflitti per mezzo di arbitrati: ma è altresì loro dovere di usare le loro risorse per difendersi contro ingiuste aggressioni, e di usare della loro influenza e del loro potere per mantenere la pace del mondo e il rispetto del diritto pubblico». L’altra, che prevalse su quella del relatore in cui la professione del soldato era soltanto definita « una vocazione onorevole », fu questa: « Poiché i marinai ed i soldati offrono il sacrifizio della loro vita acciò noi possiamo condurre vite tranquille e pacifiche in perfetta bontà ed onestà, essi meritano in grado eminente la gratitudine e la benedizione della Chiesa ».
Un altro tedesco, l’autore ornai famoso benché anonimo del libro: J'accuse: von einern Deutschen, dopo aver dimostrato che il militarismo prussiano è il gran re-
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sponsabile della guerra attuale e fatto voti che si costituisca dopo la guerra una Lega della Pace fra tutti i popoli liberi, cosi conclude, egli socialista e cristiano: « Già altra volta la liberazione è venuta dalla massa del popolo. Gesù di Nazareth, il predicatore dell’amore e della compassione in un epoca di conquiste sanguinose e di oppressioni, il protettore di tutti gli affranti ed oppressi, il grande pacifico rivoluzionario, anche oggi prenderebbe il suo posto tra le fila dei militi della pace e si allontanerebbe con disgusto da coloro che, dal suo nome, si chiamano cristiani, mentre così vergognosamente pongono tutti i suoi comandi in non cale ».
G. P.
INGHILTERRA
Palermo, 1915 (XIX Voi. della serie « L’Indagine moderna«). Pag. XX-542. L. io.
A A A
Paolo Orano: Nel solco della guerra. Milano, Treves. 1915. Pag. 277. E- 4a a A
X X X: Le vie di Roma. Roma, Tip. del Senato, 1915. Pagine 218. Con una pianta di Roma.
A A A
Ammonimenti per la guerra (Biblioteca della Rivista « Sapienza »). Opusc. di pag. ii, cent, io, Roma, 1915A a a
I PULPITI CRISTIANI E LA GUERRA
« Quale il clero, tale il popolo ■: è un adagio che in nessuna nazione d’Europa trova una conferma più piena, come nella nazione in cui la vita religiosa, appunto per non perdere il contatto con la vita morale e sociale nelle sue varie determinazioni concrete, ha dato origine a tante e sì svariate forme di società religiose, o di Chiese, corrispondenti a diverse mentalità, bisogni, preferenze di individui e gruppi diversi. Infatti, in ognuna di queste stesse molteplici Chiese « libere » o « non conformiste », esiste tale una differenziazione c polarizzazione di spiriti, e tale libertà è generalmente lasciata ad ogni singola comunità, o « congregazione » di scegliersi il proprio pastore a propria immagine e somiglianza, che ordinariamente l’opera e la predicazione del ministro rispecchia la coscienza media della sua comunità, alla quale egli fornisce una elaborazione, una consapevolezza, una voce. Se in questo sistema ed ordinamento ecclesiastico, raramente può avvenire che un ministro rifonda di nuovo e riplasmi la coscienza della comunità a cui presiede in forza di un principio democratico, egli ben può, però, evolvere con essa, approfondirsi ed elevarsi con essa, produrre e far produrre frutti degni di vita religiosa. Comunque, le voci dei pastori delle chiese inglesi possono considerarsi come fedeli esponenti delle correnti di vita e di pensiero religioso prevalenti nel seno delle diverse comunità delle differenti chiese: e poiché in Inghilterra la grande maggioranza delle persone, anche colte, appartiene a qualche forma sociale di religione — sia questa la « Chiesa Inglese » con le sue tre grandi ali, o una forma qualunque del Cristianesimo, fino a tali forme nelle quali come nella Unitariana, e molto più, nella Chiese Teistiche, Etiche, Socialistiche, Salutiste, ecc., esula quaMeuccio Ruini: Orazione in una chiesa del Friuli liberalo. XX. Vili. MCMXV (Bibliot. della Rivista «Sapientia »). Opusc. di pag. 19, Roma 1915.
a a a
Riceviamo dalla libreria Fon-temoing & C. (E. de Boccard, succ.) di Parigi (4 rue de Goff);
La Vie et la Mori de Miss Edith Cavell d’après des documents inédits, récits de témoins, communiqués officiels et comptés rendus de la presse. Préface de M. Paul Painlevé, membre de l’institut, ministre de l’instruction publique. Avec deux portraits hors-texte de Miss Cavell-1915. Frcs 3,50. Pagg. xix-230. '
[Indice: 1. L’enfance d’Edith Cavell. Ses maison. Ses parents* - 2. Séjours à Bruxelles et en Allemagne. - 3. Le London Hospital - Padsdole School -L’infirmerie de Highgate. - 4. Le caractère de Miss Cavell. -5. L'infirmerie de Shoreditsch - Voyage en Italie. - 6. Bruxelles - L’Institut médical Ber-kendael. - 7. Bruxelles aux maius des Allemands. - 8. L’ar-
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restation de Miss Cavell. - 9. Le silence autour de l’arrestation - Miss Cavell au secret. - 10. Efforts de M. de Levai - L’avocat Kioschau. -11. Le jugement. - 12. Les efforts faits pour sauver Miss Cavell. - 13. La veillée funèbre - L’éxécution. - 14. Meeting au Trafalgar Square - Le service funèbre à Saint-Paul. -15. L’opinion du monde. - 16. Une campagne de guerre - La défense allemande!.
lunque carattere specificamente cristiano — ne viene che nel concerto, armonico o disarmonico, delle voci che risuonano da diecine di migliaia di pulpiti, costantemente, più volte la settimana, l’anima intiera della nazione parla, si agita, acquista coscienza di sè e dei propri destini, e traccia il programma della sua condotta. « Mens agitat molem, et magno se corpore miscet ». A questo titolo, continueremo a spigolare fra le voci che si levano dai pulpiti cristiani inglesi, preferendo quelle esprimenti punti di vista che si allontanano dalle vedute ritenute tradizionali, sul soggetto: « Cristianesimo e guerra ».
Estratti dalla Rivista “ ßilyohnis ”
(In vendita presso la nostra libreria)
Giovanni Costa: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con 2 disegni e 2 tavole). . . . 0,50
Giovanni Costa: Critica e tradizione (Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino) . 0,50
Giovanni Costa: Impero romano e cristianesimo
(con 3 tavole). . . . . 1,00 Salvatore Minocchi : I miti babilonesi e le origini della Gnosi....... 0,60 Luigi Salvatorelli : La storio del Cristianesimo ed i suoi rapporti con la storia civile ...... 0,30
Calogero Vitanza: Studi commodianei (I. Gli anticristi e l'anticristo nel Carmen apologelicuni di Commodiano; II. Commodiano doceta?) . . . 0,30
Furio Lenzi: Di alcune medaglie religiose del iv
secolo (con 1 tavola è 4
disegni) ........ 0,30
Furio Lenzi : L’autocefalia della Chiesa di Salona (con 11 illustrazioni) . . 0,50
F. Fornari: Inumazione e cremazione (con 6 illu• strazioni)........ 0,30
Il rev. Rhondda Williams, noto oratore « Congregazio-nalista » e frequente sostituto del Campbell nel pulpito di « City Tempie », così commentava l’apparente paradosso evangelico del: « Non resistete al cattivo », e « Resistete al diavolo»: « L’ideadi castigo, voluto per se stesso e direttamente, è anti-cristiana da capo a fondo: nell’etica di Gesù non c'è posto per la vendetta. Se un individuo. si comporta da nemico della società; la società non ha diritto, nell’etica cristiana, di comportarsi qual sua nemica, ma solo quale madre verso il figlio sviato, quale medico verso il malato. Se un assassino vi aggredisce col pugnale, voi non avete certo il diritto di lasciargli commettere il delitto, nè di divenirne voi vittima. Ma se dopo averlo rattenuto dal consumare il sue delitto voi pensate a vendicarvi, divenite voi stesso un assassino: basterà che >er sicurezza vostra e altrui lo Kmiate in condizione non ripetere i suoi attentati.
a supponiamo che eg i si contenti di schiaffeggiarvi: il restituirgli la guanciata, significherebbe che voi avete preso il contagio del suo spirito, e che siete divenuto simile a lui. Non basterà frenarsi, in tal caso, e mantenere la propria dignità; mordersi le labbra anziché condiscendere a restituire l’insulto: è necessario liberarsi dallo spirito che anche solo desiderebbe la vendetta. Questa è certamente l’etica di Gesù. Ed è anche un’etica infinitamente migliore in tutti i sensi: perché essa conquista l’offensore, che probabilmente sentirà vergogna di se stesso: perchè fa sentire all’offeso, che l’aspetto superiore della sua natura ha preso il sopravvento, e che egli è stato veramente il vincitore. Le Chiese dovrebbero al presente dare maggiore importanza all’insegnamento di Gesù, che, qualunque cosa gli altri possano farci, non si ha diritto di essere loro nemici. Possiamo esser costretti ad opporre loro resistenza, anche fisica, e cercare di por freno alla loro condotta: possiamo anche condannarli nel tribunale della nostra coscienza: ma non avremo mai il menomo diritto di alimentare in cuor nostro sentimenti di inimicizia e mal volere. È doloroso dover sentire persone che si professano cristiane e che sono state per tutta la vita sostenitrici di Chiese, esprimere ora sentimenti anti-germanici, tali da mostrare che esse non sono di un atomo migliori di quelli che esse condannano. Se < resistiamo al cattivo», nel senso di opporgli un animo da nemici, veniamo ad aumentare la somma del male, anziché
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I.A GUERRA
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diminuirla: mentrechè, superando la tentazione dell’odio noi distruggiamo le radici stesse dell’odio sulla terra. Non v’è ragione di patriottismo che possa prevalere su questi principi. E noi dovremo apertamente dichiarare nelle nostre chièse, che ogni persona, in proporzione che si lascia pervadere da sentimenti di animosità e di odio contro un’altra persona, è un guerrafondaio e un anticristiano- La guerra fra nazioni non cesserà fino a che gl’individui non compiranno l’opera gigantesca dell’inibizione delle proprie passioni... ».
C. Rostan : Le idee religiose di Pindaro ..... 0,30
C. Rostan: Lo stato delle anime dopo la morte, secondo il libro XI del-1’ «Odissea».............0,30
C. Rostan : L’oltretomba nel libro VI dell’« Eneide» ............. . . . . 0,50
Da un discorso tenuto in luglio dal Canonico Mas-terman nell’antichissima chiesa di Saint Mary-le-Bon in Londra, sul tema: ■ Fucina di anime », tolgo le seguenti idee: « ...Noi dobbiamo scuotere lungi da noi l’ideache da questo immane conflitto sorgerà, per un processo naturale di sviluppo, non si sa come, un ordine migliore di cose. Molto probabilmente, se lasciamo le cose allo sviluppo naturale, esse ricadranno negli stampi vecchi del passato, divenuti logori e meschini. Se la storia insegna qualche cosa, essa dice che la guerra per se stessa, non nobilita mai la vita nazionale o il carattere dei cittadini. E un deperimento dello spirito nazionale, sarebbe un male assai più grave che il danno di una disfatta inflittaci dai Tedeschi. Noi dobbiamo prefiggerci nettamente il piano su cui lavorare per un mondo migliore. se vogliamo veramente divenire le guide di altri popoli.
« Quàl’è l’atteggiamento caratteristico che possiamo, all’ingresso, chiamare Germanesimo? Esso è una rinascenza di quello che si potrebbe eh tornare « ideale pagano della vita »: cioè, che l’individuo esiste per il vantaggio della comunità, e che il fine ultimo ne è la creazione di un vasto meccanismo, altamente organizzato, efficace, forte, intieramente basato sul concetto della subordinazione dell’individuo agl’interessi'del tutto. Quanto più la subordinazione è completa, tanto più il meccanismo è efficace.
«Ora, se questa concezione della vita umana è falsa e anti-cristiana, noi dobbiamo trovare qualcosa da sostituirle: giacché vi è gran pericolo, che nel combattere questa concezione riusciamo ad adottarla noi stessi, come avvenne della lotta fra Grecia e Roma, in cui - Gracia capta facrum victorem coepit », e l’impero, rimanendo romano nell’organizzazione, divenne greco nell’anima. Qui sta il vero pericolo. Può darsi che noi, quasi inconsciamente, riusciamo ad organizzare la nostra vita avvenire sulla stessa traccia dei Tedeschi: allora, tutta questa guerra sarebbe stata combattuta invano e inutilmente: e invano avrebbero dato le loro vite coloro che sono morti per la patria nostra. Ciò significherebbe, rendersi rei del più grave delitto che una nazione possa commettere.
Supponiamo, allora, che noi troviamo un sostituto a !|uella concezione, in una di quelle concezioni grandi e ondamentali che stanno alla base di ogni parola che
Alfredo Tagliatotela : Fu il Pascoli poeta cristiano ? (con ritratto e 4 disegni) ......... 0,30
F. Biondolillo: La religiosità di Teofilo Folengo (con un disegno). . . . 0,30
F. Biondolillo: Per la religiosità di F. Petrarca (con 1 tavola) . . . . . 0,30
Giosuè Salatiello: Il misticismo di Caterina da
Siena »con 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da
Siena (con 1 illustraz. L 0,30
Calogero Vitanza: L'eresia di Dante ....... 0,30
Antonino De Stefano: Le origini dei Frati Gaudenti ......... 0,40
A. W. Mùller: Agostino Favoroni e la teologia di Lutero................0,30
Arturo Pascal: Antonio Caracciolo, vescovo di Troyes .......... 0,80
Silvio Pons: Saggi Pasca-liani (I. Il pensiero politico e sociale del Pascal; II. Voltaire giudice dei « Pensieri » del Pascal ; III. Tre fedi : Montaigne, Pascal, Alfred di Vigny) con 2 tavole...... 0,50
T. Neal: Maine de Biran. 0,30
F. Rubbiani : Mazzini e
Gioberti ........ 0,50
Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto .) ...... 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano: La rinascita dell’anima ....... 0,30
Angelo Crespi : Il problema
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dell’educazione religiosa Jntroduzione)...........0,30
Angelo Gambaro: Crisi contemporanea. . . . . 0,15
Giov. Sacchini: Il Vitalismo ....................0,30
R. Murri : La religione nel-l’insegnamento pubblico in Italia...............0,40
Ed. Tagliatatela: Morale e Religione................1 —
Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive...............0,50
A. Tagliatatela: Il sogno di Venerdì Santo e il sogno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20
G. Luzzi : L’opera Spence-riana....................0,15
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
R. Wigley: I metodi delta speranza (Psicologia religiosa)...............0,30
R. Wigley : L’autorità del Cristo (Psicologia religiosa) ..................0,50
James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto:Indipendenza dello Stato e libertà delta Chiesa ......... 0,30
E. Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1912-1913-1914) 5 fascicoli .................1,50
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi..................0,15
Paolo Orano: Gesù e la guerra...................0,30
Edoardo Giretti : Perchè sono per la guerra. . . 0,20
Romolo Murri : L’individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra).............0,40
Gesù Cristo pronunziò: cioè nel valore assoluto e finale della vita di ogni individuo: nella superiorità del prezzo di un’anima a quello del mondo intiero: nel concetto, che la vita terrena è una fucina di anime, e che la stregua ultima del valore della vita umana non ègià la quantità di merci che essa può produrre, ma la qualità di anime che può dare. Se una volta accettiamo questo principio, esso ci si mostrerà di una portata sconfinata, e ci fornirà una base solida su cui ricostruire le nostre concezioni delta vita. Lo scopo ultimo delta vita delle famiglie, delle nazioni, delle comunità, del mondo intiero, non è altro che quello di fucinare anime: e solo in quanto tale fine è raggiunto, si può dire che la sua esistenza sia giustificata. Voi vedete quanto quel principio ci allontani dalla vecchia concezione pagana. Voi avete il diritto di morire per la patria. Perchè questo? Perchè, dice l’antico mondo pagano, la vostra patria rimane, mentre voi, esseri di un momento, passate oltre. La nazione resta, e nella vita della nazione resterà e si eternerà la vita nostra. Che importa che l’individuo perisca? Ma or veniamo al Cristianesimo: esso dirà che è l’opposto appunto che è vero. Nella famiglia, nella nazione, nell’impero nella società umana, voi avete le forme passeggere di cui l’idea spirituale si riveste: poi le nazioni si riassorbono; gl’imperi si sbriciolano, le nazioni insorgono contro le nazioni e i regni contro i regni, — e che cosa resta di tutto? Anime umane, bene o male confezionate: ecco il prodotto ultimo e permanente. Venendo al mondo, siamo foggiati sulla vita famigliare, civile, nazionale, umana, come in altrettante forme: poi la forma ci abbandona, e noi abbandoniamo questo mondo, non più Inglesi, nè membri di una certa famiglia. Prendete una applicazione di questo principio. Noi non riusciremo mai a sollevare la vita delta nazione dalla degradazione prodotta dall’industrialismo, fino a che non comprenderemo e non sentiremo che lo scopo ultimo dell’intiero nostro sistema industriale deve essere, non già la manifattura di merci, ma la manifattura di anime, il valore di questa nostra Inghilterra dipenderà in avvenire soltanto dalla nostra abilità in produrre i più bei campioni di anime umane mai prodotte in questo mondo di Dio. Questo scopo soltanto può giustificare il prezzo che stiamo sborsando per la continuazione delta nostra vita nazionale: questo, e null’altro. Il solo modo di costruire un’Inghilterra pura e monda e nobile, èdi rendere puri e mondi gl’inglesi: e non già aumentando le nostre ricchezze nazionali. Vi dirò, che noi dopo la guerra saremo assai più poveri in quello che il mondo considera come ricchezza: ma vi dirò anche, che sta a noi di divenire assai più ricchi in quello che Dio considera come ricchezza: e che la stessa povertà dei generi di vita materiale potrà conferire alla nobiltà di ciò che è essenziale a una vita superiore. E sarebbe grandezza vera, quella di un’Inghilterra che si erigesse, dopo questa guerra, dinanzi alle nazioni, spoglia di una gran parte delle ricchezze che la fecero grande un giorno, ma pure assai più grande perchè avrebbe sagrificato tutto il mondo per guadagnare l’anima propria, cioè le anime di quegli individui che
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formano la nazione inglese. Che cosa giova a una nazione guadagnare il mondo intiero, ma produrre anime rachitiche. e indegne di esser trasmesse all’eternità di Dio ? ».
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• La sfida dei Cristianesimo a un mondo in guerra • fu il titolo di una conferenza tenuta alla Federazione delle « chiese libere » di Bradford e suo circondariodal rev. Griffith lones rettore del Collegio Unito di Yorkshire
■ Io parlo • — egli disse nella conferenza — « a persone che per quanto perplesse, sono tuttora credenti in Gesù e nel suo Vangelo, e non dubitano che le fonda-menta del Cristianesimo possano mai restare scosse ». Dopo essersi domandato cne cosa è accaduto ai mondo perchè dopo duemila anni di civiltà cristiana si sia tuffato in piena barbarie, ed aver risposto che « la vita degli affari, della politica, dei rapporti sociali, è lungi dall’essere influenzata dallo spirito e guidata dalla morale del Cristianesimo, egli si volge a domandarsi, che cosa può fare la Chiesa. < Noi abbiamo una superiorità sulla Chiesa primitiva: che, mentre essa dovette conquistare una civiltà a cui era interamente estranea, ora essa vive in mezzo ad una civiltà che le deve l'esistenza, e non ha che da riconfermare la sua autorità nella sua propria casa. La civiltà è come il figliuol prodigo, che in mezzo ai suoi trascorsi, conserva in fondo al cuore il ricordo di giorni migliori. Che essa sorga e torni al suo Padre, la cui porta è sempre aperta per il • ben arrivato *>. Ricondurre il figliuol prodigo al Padre suo è la funzione delle Chiese, specie nei giorni che verranno, quando il vento di follia sarà passato e l’Europa si sederà tra le rovine della sua sì vantata civiltà, per numerare le suo perdite e i suoi guadagni. Assai doloroso sarà il ridestarsi dei popoli della terra quando si troveranno di fronte il conto di questa guerra insensata da pagare. Desolazione, povertà, indigenza senza limiti, saranno la nostra porzione per tutta la generazione avvenire. Il sangue più eletto sarà stato spillato dalle vene dell’umanità; il fiore della nostra gioventù giacerà sotto le zolle, e il mondo dovrà essere condotto innanzi da una razza di esseri mediocri. Per rifarsi delle perdite materiali e morali causate da questa tragica crisi della storia del mondo, non si richiederà menò di un secolo. Ma, se non erro, questa guerra lascierà, questo povero mondo, in. uno stato d’animo più tenero c più ricettivo di quello in cui lo trovò. La vecchia presunzione sarà sparita. La fiducia negli armamenti sarà certamente passata insieme alla tragedia da essa prodotta. Il mondo invisibile si troverà così pieno di ciò che di più caro e di meglio avevamo, che riacquisterà, per noi che qui restiamo, il suo supremo interesse. Altri vantaggi positivi questa guerra addurrà, solo che noi siamo disposti a ottenerli. Spingendo lo sguardo attraverso le tenebre, io scorgo alcuni raggi luminosi di speranza. Permettetemi prima, che io chiuda, d’intesserli ir. una radiosa visione.
LIBRERIA EDITRICE “BILYGHflIS
Via Crescenzio 2, ROMA
(Novità). E uscita — per le cure della Libreria Editrice Milanese e trovasi in deposito presso la nostra libreria — la tanto attesa traduzione italiana dall’zl utobiografia e Biografia di Giorgio Tyr-REL. È un grosso volume di 6So pagine, con illustrazioni. Prezzo L. 15.
Sommario. — A utobiografia (1861-1884). 1. Dublino; Nascita; Primi ricordi — 2. Po-tarlington e Bray - 3. L’età della ragione - 4. Vita scolastica e collegio di Rathmines -5. Infingardaggine e incredulità - 6. Recite drammatiche; Collegio di Middleton -7. La « Analogia-» di Butler e Gran-gegorman - 8. La « Chiesa alta » e influenze cattoliche ; Morte del fratello - 9. Lo sforzo di credere; Amicizia con Roberto Doliing - io. Londra; Conversione e vocazione - 11. Vita in Cipro - 12. Malta; Prime impressioni della Compagnia di Gesù-13. Casa di Manresa; Noviziato dei Gesuiti - 14. Stonyhurst; L’enciclica « Aeterni Patris » e l’accoglienza fattale dalla Compagnia -15. Gli amici di Stonyhurst - 16. Tomismo e Suare-zianismo.
Biografia (1884-1909): 1. Carattere e temperamento - 2. Il periodo centrale della sua vita nella società c gli scritti dal 1885 al 1900 (Sacerdozio - Tomismo - Primi scritti) ; « Nova et Vetera »; » Hard Sayins •; « External Religion »; Incertezze;« Gli esercizi spirituali »-3. Una lunga amicizia-.,. Liberalismo conciliante-5. «A perverte*! Devotion » - 6. Richmond (Il presbiterio e le sue adiacenze; Attività repressa) - 7. La lettera pastorale collettiva - 8. Lavori compiuti nei
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suoi ultimi anni di Gesuiat -9. Il distacco da Newman - io. Rottura con la Compagnia di Gesù-11. La storia intima della separazione -12. I suoi rapporti coi Gesuiti - 13. Azione militante - 14. La sospensione ■ a Divinis » — 15. Pio X e la « Pascendi • — 16. La scomunica - 17. Modernismo - »8 « La chiesa del suo battesimo » - 19. Il problema cristologico -20. La Chiesa dèli’Avvenire -21. La fine del viaggio-22. « In pace crat locus ejus » -23. Conclusione.
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(Novità! L. Salvatorelli ed E. Hiihn: La Bibbia. Introduzione all’Antico e al Nuono Testamento. Voi. di pag. 542 L. io.
Indice: La Bibbia in generale e la Scienza biblica.
Libro I. - L’Antico Testamento.
Parte I. - Il Pentateuco.
1. Il contenuto del Pentateuco. - 2. Il P. non è di Mosè, nè opera di un solo Autore. -3. La formazione della moderna teoria documentaria. -4. Le caratteristiche della moderna teoria documentaria.
5. I documenti Jahvistico ed Elohistico, il Libro dell’Alleanza e il Decalogo. - 6. Il documento deuteronomista. - 7. Il documento sacerdotale. - 8. Brani minori del Pentateuco. - 9. La redazione del P. - io. I risultati della critica e la posizione attuale del problema del P.
Parte II. - I profeti.
I profeti anteriori: 1. Il libro di Giosuè. - 2. Il libro dei giudici. - 3. I libri di Samuele - 4. I libri dei Re.
I profeti posteriori: 1. I profeti ed i libri profetici in generale. - 2. Il libro di Isaia. -Ì. Il libro di Geremia. - 4.
I libro di Ezechiele. - 5. Il libro dei dodici profeti.
« Questa guerra ha già fatto tre appelli alla nostra generazione:
•< I. Un appello a una maggiore semplicità di vita. Per 5iù di una generazione, il mondo A corso follemente ietro il comfort della vita: noi siamo vissuti in una vita ovattata, rifuggendo dal freddo e dal caldo, stimolando il nostro appetito con travaganti cibi esotici, sempre preoccupati del cibo e delle bevande e del vestito del domani. Ma ecco, che la nostra gioventù snervata è stata mandata a fare il tirocinio per gli aspri cimenti della guerra, fuori delle comode case, sulle colline, fra le paludi, nelle praterie, ad affratellarsi col gelo e conia tempesta, con le intemperie e le fatiche; a nutrirsi di cibi grossolani; a sostenere marce faticose ed esercizi duri; a cimentarsi in capanne aperte ai venti e in trincee Sciate, fino al limite estremo delle forze: e pure, invece i soccombere sotto lo sforzo, essi si sono fisicamente rinnovati; han guadagnato di floridezza e di resistenza muscolare; il loro sangue si è rinnovato e i loro nervi si sono rinvigoriti; la salute ha vibrato nel loro cervello, nel midollo, nei tendini, nei nervi: la salute, e con essa una gioia riboccante di vita... Ecco ciò che scrive dalle trincee un assiduo di Clubs mondani: « Che cosa, provare la gioia del puro esistere; il senso della frescura che vi saluta la mattina con l’aurora dopo aver fatto la guardia l’intera notte; il rinnovato vigore del corpo, libero dalle influenze snervanti delle sedie a sdraio dei clubs; sco-Srire che i faticosi esercizi fisici producono un piacere innanzi al quale i diletti più delicati impallidiscono! Molti di noi hanno sofferto in passato di « iper-cerebra lismo e di sopra-riscaldamento di ambiente » e sono stati rovinati dall’« epulonismo dei restaurant ». Con la guerra tutto questo è cessato. Noi viviamo ora una vita austera, e quando giunge la notte sentiamo l’appello prepotente al riposo di un sonno senza sogni, degno premio di una giornata di fatica corroborante ».
« Non è questa una lezione degna di essere appresa ?
« Il fisico umano si sviluppò in origine, non già con ii lusso, le comodità, i piaceri, ma con una vita semplice, con la domestichezza con l’aria libera, cor incessanti fatiche e disagi; e se non è necessario per riacquistare il vigore primitivo minato dalle agiatezze della civiltà, di Sraticare esercizi militari, non vale la pena di appren-ere la lezione con intenti pacifici? Se questa guerra altro non avesse da insegnare al mondo moderno che questo, che una buona salute non è il privilegio esclusivo di una scarsa minoranza della razza umana, e che la via della salute si trova col semplice espediente di vivere conforme a natura, questa guerra non sarebbe stata combattuta invano.
■ II. Il cimento della guerra, oltre al rivelarci il secreto della salute fisica, ha rivelato «n modo anche più maraviglio» le risorse morali della comune degli uomini. S'ualc rivelazione delle capacità di eroismo dei gregarii ella razza non ci ha abbagliato durante questi mesi fatali!... Da ogni classe della società è sorto uno sciame di giovani — dei comuni giovani delle nostre scuole, dei nostri collegi, dei nostri uffici, dei nostri stabilimenti.
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e., delle nostre piazze — che alla voce della patria che li chiamava si sono lanciati allegramente, lietamente, nella mischia mididiale, con un canto sulle labbra ma con un salmo nel cuore, pronti a tutto fare e a tutto osare per la loro Patria. Al leggere dell’impassibilità loro di fronte ai pericoli, del rinnovato ardore con cui, feriti, sono ritornati due e tre volte al fronte ben noto, senza declinare un istante il terribile cimento, il miocuore ha sussultato come mai per (’innanzi al pensiero della nobiltà inerente alla natura umana quando questa è infiammata da un motivo adeguato.
»E questo spettacolo mi suggeriva la domanda: Se la prova della guerra può suscitare tale divozione e tanto coraggio e spirito di sagrifìcio, non vi è altro modo di far sprigionare queste sublimi forze morali in tempo di Sace? In ognuno di noi vi sono due sorgenti principali i eroismo: quella della patria e quella della religione, simbolo l’una degli affetti di famiglia e di nazione, e l’altra degli affetti spirituali e degli ideali celesti. La guerra dà la stura alla corrente dei patriottismo più che ogni altra cosa, lo spirito di Dio dà la stura alla corrente di eroismo spirituale nei periodi di risveglio religioso. Non è tempo che anche la nostra religione torni ad essere eroica? Non vi sono nemici nella nostra patria stessa,—che dico? dentro di ognuno noi—•verso i quali noi possiamo spendere il nostro entusiasmo morale, il nostro zelo religioso, il nostro idealismo spirituale? • Noi non combattiamo contro la carne ed il sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i nemici maligni dell'alto, contro i dominatori terreni di queste tenebre ». Preghiamo Iddio che quando la guerra sarà al termine, anzi anche prima se così a lui piaccia, l’atmosfera tepida e calma della nostra presente vita religiosa possa ceder il posto ad una giostra di attività spirituali e di eroiche imprese. Quando i nostri valorosi giovani torneranno in patria reduci dalla guerra, diverranno le nostre Chiese degna famiglia di tali eroi, ovvero il sepolcro in cui le loro risvegliate attività spirituali resteranno soffocate? Essi abbisogneranno allora di tutto quello che noi potremo fare per loro, per confortarli, rafforzarli, sanarli, ristorarli, e noi dovremo dar loro non solo grandi consolazioni; ina anche grandi imprese da compiere. Che non debbano mai dire, che, tornati dal fronte affamati del pane della vita, non ricevettero dalle nostre chiese altro che una pietra di formalismo, e furono accolti in in dormitorio che cullò le loro anime si deste, in un sonno di morte.
« III. Non impareremo anche qualche cosa dalla lezione della magnifica efficacia che l’organizzazione ha per utilizzare le forze della disciplina e dell’ubbidienza? Non Ciamo anche noi foggiare una migliore disciplina delle ’ sociali della pace, a scopi di riforma nazionale e di perfezionamento?.’.. Se sono l’ubbidienza e la fedeltà le due supreme virtù militari che raccolgono vittorie e sopportano anche disfatte senza venir meno, non è tempo che anche noi comprendiamo, che questa è soltanto una parabola di quella ubbidienza che noi dobbiamo al nostro caro Signore, e della fedeltà che dobbiamo alla
Parte III. - Gli agiografi.
I. I salmi. - II. I proverbi. -III. Il libro di Giobbe. - IV. Il cantico dei cantici. - V. Il libro di Ruth. - VI. Le lamentazioni di Geremia o Treni. -VII L’Ecclesiaste. - Vili. Il libro di Ester. - IX. Il libro di Daniele. - X. Il libro di Esra-Nehemia e la Cronaca.
Pertc IV. - I libri deutero-canonici o apocrifi.
I. Il libro di Tobia e di Giuditta. - IL .La sapienza di Salomone e l’Ecclesiastico. < -III. Il libro di Baruch e l’Epi-stola di Geremia. -3IV. il libri deiìMaccabei. - V. Aggiùnte al libro del canone ebraico.
Appendice: Gli pseudo epigrafi.
Riparte V. - Il testo, le versioni e il canone dell’Antico T.
I. Il testo dell’A. T. ebraico. - II. Le versioni dell’A. T. -III. Il canone dell’A. T.
Libro II. - Il Nuovo Testamento.
Parte I. - Gli Evangeli e gli Atti degli Apostoli.
I. I Vangeli sinottici. - II. Il IV Vangelo. - III. Gli Atti degli apostoli.
Parte II. - Le epistole pao-line.
I. La vita e l’opera di san Paolo. - II. Le quattro grandi epistole. - III. Le espistole agli Etesii, ai Filippesi, ai Co-lossesi ed ai Tessalonicesi. -IV. Le pastorali e l’epistola a Fi lemone. - V. La lettera agli Ebrei .
Parte III. - Le epistole cattoliche e l’Apocalissi.
I. Le espistole cattoliche. -II. L’apocalissi.
Appendice: Gli apocrifi del Nuono T.
Parte IV. - Il testo, le versioni e il canone del N. T.
I. Il Testo del N. T. - II.: Le traduzioni del N T. - III II canone del N. T.
Indicazioni bibliografiche.
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[Novità]. Romolo Murri, La croce e la spada. Firenze, 1915.
Voi. in-8° di pag. 216. Prezzo L. 0.95.
Sommario: Tutta la storia è religione (Il turbine spirituale - Nuova inquietudine religiosa - La religione fastigio di ogni vita). - Tutta la storia è guerra SLa guerra senza confini -Ve-iute parziali e unilaterali - La pienezza della guerra). - La logica della violenza (Le interne antitesi della storia - I teorici della volontà tedesca - I teorici della razza tedesca - I teorici della guerra tedesca). -La logica della rinunzia (Il nazionalismo giudaico - Il regno dei cieli e il rovesciamento della storia - Filosofia indiana della guerra - Il vangelo della rinunzia e la storia). - Il cristianesimo e la guerra nei secoli (I due regni. Teologi e asceti -La teologia di Lutero - L’alterna vicenda - La decadenza e il neutralismo papale - La nuova coscienza religiosa). -Nazioni e religioni d’Europa (La nazione, come fatto religioso - La Spagna - L’Impero austriaco - La Francia - La Germania - L’Inghilterra -La Russia). - I responsabili della guerra (L’importanza della ricerca-La responsabilità della Germania; La premeditazione; la preparazione; l’aggressione; la violenza brutale - L'Europa contro la Germania - La reazione delle coscienze). - II neutralismo italiano e i cattolici (Ragioni e limiti della nostra neutralità - Chiesa e nazione in Italia - Democrazia e neutralismo - Il Vaticano e i cattolici italiani). - Il Vaticano e la guerra. (Le due vie - Iniziative diplomatiche - Lamenti e Eroteste contro la neutralità -a parola del papa - La preghiera per la pace - La crisi della Chiesa L’Italia e la Chiesa). - Aspetti religiosi della guerra. (La religióne delle trinsua causa? Nella nostra vita sociale, industriale e politica, vi sono innumerevoli difficoltà e problemi che possono essere risoluti soltanto per mezzo di un ampio sviluppo dello spirito di ubbidienza, di una fedele cooperazione coi nostri simili, con l’eliminazione dell’egoismo sociale e dell’ambizione personale: e le tragiche esperienze di questa guerra dovrebbero essere per noi, come un dito divino appuntato in quella direzione. La nazione che impara a ubbidire all’imperativo morale e sociale con la stessa interna fedeltà con cui il soldato ubbidisce al comandante che modera i suoi movimenti, e alla causa che esige la sua fedeltà fino alla morte, sarà certamente una nazione di pionieri di tempi migliori, Srecorritrice di un nuovo cielo dimora di fulgidi ideali, e i una nuova terra in cui questi ideali porrano un dì profonde radici, e produrranno i pacifici frutti della giustizia.
« La nazione, miei fratelli, attende che noi. Chiese, facciamo la parte nostra in questo periodo di bisogno della nostra patria. E il nostro contributo dovrà essere di riaccenderci nella fedeltà al nostro Signore e Maestro, e poi di accendere questo sacro fuoco nelle vite altrui. A meno che le nostre anime siano incandescenti, noi non accenderemo mai questo fuoco: e a meno che noi siamo fedeli alla nostra missione, non potremo ispirare fedeltà....
Nel discorso sul « Movente delia morale cristiana • tenuto dal rev. Orchard nella Chiesa di King’s Weigh, alcune parole sono degne di' rilievo. Commentando le parole del discorso del Monte: « Se voi amate quelli che vi amano, che premio ne avrete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E, se voi salutate solo i vostri fratelli, che cosa fate di più degli altri?... Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre nostro che è nei Cieli « dice fra altro: « La guerra presente ha gettato una luce più fosca ancora sull’intiera controversia dell’interpretazione di queste parole. A noi. in Inghilterra, sembra che la morale di Nietzsche — che condanna quella di Cristo come servile, fiacca, e del tutto indegna di un uomo sano e robusto — sia divenuta la morale accettata della Germania, e che la dottrina che lo Stato non può essere governato dai principi proclamati da Gesù per gl’individui, sia accettata apertamente dagli statisti e dia teologi tedeschi. E noi che tocchiamo con mano quale spaventosa minaccia questo sia alla pace e alla prosperità del Mondo, ci siamo quasi convertiti, con il resto del Mondo, al discórso del Mónte. Ma l’ironia della situazione consiste in ciò, che allo scopo di confutare efficacemente quella dottrina noi dobbiamo cominciare dal supporre provvisoriamente, che essa sia vera. Per combattere in difesa dei principi! cristiani, noi dobbiamo anzitutto cominciare col metterli da parte. Per provare che la sola forza è nella ragione, dobbiamo cominciare ad usare la forza materiale. Ad un osservatore spassionato e cinico, questa può sembrare una situazione di-
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vertente, un conflitto tra un pazzo prepotente e un ipocrita cieco.
< È evidente che prima di comprendere l’etica di Cristo molto ci resta ancora da approfondire...
Gesù non si avvicinò al problema con lo spirito di un sentimentalista. Egli vide che tutto il mondo giaceva sotto il dominio del male: ma vide anche, che gli sforzi stessi che gli uomini facevano per liberarsi dal male non facevano che imprimerlo più profondamente in loro, e aumentavano la somma totale del male. Il sistema di leggi e di governi, la morale convenzionale dei rapporti personali, chiudevano gli uomini in un circolo vizioso, e mantenevano il male incatenato al male in un processo senza uscita.
« Egli attaccò questo sistema, non già mostrando quanto illusorio esso fosse, ma proponendo una rivoluzione nell’estimativa umana. Egli insegnò agli uomini che il male che è veramente dannoso è non già il male che gli uomini ricevono, ma quello che essi fanno: il primo può distruggere solo il corpo, mentre il secondo distrugge l’anima. Contuttocid, egli non inculcò che il male andasse impunito, ma solo, anziché proporre la coercizione materiale di esso, propose la conversione del peccatore. E questo nel modo più rimarchevole. Cioè, egli non additò quale volere di Dio che gli uomini di un livello morale superiore castigassero quelli di un livello inferiore, bensì che i più in alto prendessero su di sè le conseguenze della morale imperfetta degli altri, c cosi ponessero un termine alla colpa e riunissero tutti gli uomini a Dio. La sua etica non fu, quindi, intesa come un'etica permanente: perchè una volta che essa abbia compiuto la sua opera, non vi sarà più bisogno alcuno di essa. Mentre il nostro giudizio corrente è che noi dobbiamo contentarci di una morale inferiore finché la morale superiore non divenga di comune accettazione, l’atteggiamento di Gesù è, piuttosto, che qualche anima audace e amante di nobili avventure inauguri la pratica della morale superiore, fino a che essa non sia divenuta vana.
« Ma nè il mondo nè le ciñese si sono ancora convinte che Gesù avesse ragione. Eppure, sono i missionari inermi della croce, anche se sprovvisti di coltura, di finezza e di prudenza, che in pochi anni ottengono su tribù selvagge, trasformazioni che altrove hanno richiesto secoli di civiltà. Se nella civiltà umana vi è stato un graduale progresso della morale, ciò è dovuto ad un'approssimazione graduale ai metodi di Cristo. I nostri sistemi di educazione ed i nostri stessi sistemi penali, hanno bandito il concetto di punizione vendicativa, e preferiscono i metodi d’incoraggiamento e di persuazione. Lo spaventevole « impasse » in cui gli altri metodi hanno sospinto il mondo, condurranno, senza dubbio, gli uomini a rivolgersi di nuovo ai metodi di Gesù.
« Giorno verrà, in cui non sarà più concepibile che una nazione s’immagini di poter riparare ad un torto commettendone un altro, o insegnare ad un popolo una via migliore di condotta, con una sanguinosa vendetta......
cee. - Dio, le chiese e la guerra -La protesta religiosa - I cattolici tedeschi e la guerra - Religioni in guerra - Le persecuzioni contro gli ebrei - Ortodossia russa e cattolicismo austriaco - L’eredità turca e la religione nei Balcani). L’europa e la religione di domani. (Crisi di rinnovazioni - Universalismi che tramontano - Democrazia vittoriosa - Libertà e meccanismo - L’unità dello spirito).
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[Novità]. Pendant la guerre. Discours prononcés à l’Ora-toire et au Nouveau Temple de Lyon.
Volumetto 5®, contenente queste prediche: La Prière qui rend vainqueur, di E. Gonnelle; Comment durer, di W. Monod; Devan l’avenir, di H. Monnier; Les « bons français », di J. Viénot; Garde-moi! di A. W. d’Aygalliers: L’invisible, di L. Maury.
Volumetto 6°: La Parole de Vérité, di J.-E. Roberty; Vers la Démocratie, di W. Monod ; La Guerre est-elle un châtiment de Dieu? di H. Barbier; L’Allemagne et le Protestantisme, di J. Viénot; L’Appel aux Moissonneurs, di W. Monod; Heureux les Morts, di J.-E. Roberty.
Volumetto 7®: En rançon pour plusieurs (C.-E. Babut) -« Il faut opiniâtrer >• (John Viénot) - La guerre et la bonne conscience (H. Bois) - Le courage qui ne se perd pas (H. Barbier) - Source au désert (Ch. Wagner).
Volumetto S°: Où est ton Dieu ? (G. Boisson nas) - I.e rameau (Ch. Wagner) - La France d’hier et celie de demain (Ch. Vernes) - La garde du coeur (Frank Puaux) - Le Monde vaincu (W. Monod) - Pour la théologie (J.-E. Roberty).
Volumetto 9® : Les deux paix
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(H. Barbier) - Le désir de mourir (J.-E. Roberty) - La branche d’amandier (Ch. Wagner) -L’homme mort revivra-t-il ? (J. Viénot) - Lumière de Pâques (Ch. Wagner) - Pas de Six hors de là Justice (E.
ulier).
(Novità)
Volumetto io°: Le Message de l’Église en temps de guerre (W. Monod) - Les Causes ultimes. I. (L. Monod) - A la Lumière de l’invisible (H. Mon nier) - Les Mains sur la Montagne (A. Wauthier d’Aygal-liers) - Prières nationales (W. Monod) - Les Causes ultimes. II. (L. Monod).
Ogni volumetto di pag. 100: L. 1.25.
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Jean Lafon, Evangile et Patrie. Discours religieux (2 aout-25 décembre 1914). Pagine 210, L. 3.25.
Sommario. — 1. Notre forteresse - 2. Patriotisme chrétien - 3. Aux femmes - 4. Royaume' et Justice de Dieu-5. L’attitude de Jésus devant la doleur - 6. Le but de la vie -7. Temple en ruines et Temple Eternel - 8. La jeunesse de demain - 9. Foi et délivrance -10. Nos morts-11. Comment prier?-12. Pourquoi célébrer la fête de Noël?
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[Novità] Jean Lafon : Evangile et Patrie. Discours religieux. (20 volume) Pag. 360. L. 3.75.
Sommario: 1. Renouvellement - 2. Maîtrise de soi -3. L'héritage des Pères - 4. Ce que Dieu vent - 5. Aux affligés - 6- La tentation des représailles - 7. Un bon soldat - 8. Les armes du soldat - 9. La défaite - ïo. La victoire - 11. Le doute d’un prisonnier - 12. La grâce qui suffit - 13. En avant!
Ravvicino a queste considerazioni, quelle che sul tema: ■ La trasfigurazione della guerra » e' « Là guerra e il Cristianesimo » fa il canonico Scott Holland professore di Teologia ad Oxford e grande apostolo di cristianesimo sociale:
«... Lo splendore abbagliante dello spirito di sagri-fizio messo in luce sui campi di battaglia dovrebbe rendere ancora più odioso il contrasto con le circostanze in cui si rivela. Se morire per una causa è così onorevole, uccidere per una causa è l’azione più orribile. Se è la gloria dell’elevazione morale e spirituale che accende talmente la nostra immaginazione, quanto è spaventevole che essa sia identificata con tanti atti che, nelle loro forme migliori, non sono morali e nelle forme peggiori sono positivamente detestabili. È orribile che lo spirito di devozione ad alti ideali debba avere per suo sbocco, un materiale che è brutalmente indifferente a tutti i motivi spirituali e commette offese cieche e selvagge, a dispetto di tutte le norme etiche. L’abisso tra i due mondi delia vita spirituale e materiale diviene sempre più profondo quanto più sollevate gli elementi eroici dispiegati in guerra. È impossibile attuare la purità dello spirito per mezzo alla furia animale della carne. Una coscienza che è capace di affrontare la morte per amore deli altri, non può a meno di indietreggiare alla proposta del macello che la guerra richiede da lui. Come è possibile riconciliare la cieca e spietata liddite, con la volontà di dare la vita per i propri amici ? Quanto più alto è lo spi rito dispiegato in guerra, tanto più odiosa e scandalosa diviene la guerra stessa. Quando più ideali ne sono i motivi, tanto più diviene incredibile che la guerra possa essere lo strumento per cui essi operano. Giacché, la guerra identifica l’idea che si combàtte con gl'individui che la rappresentano: con individui, cioè, che un Cristiano deve sempre amare e perdonare. La guerra « à ou-trance » non è guerra che si possa combattere con « carne e sangue •, ma solo su di un piano spirituale e morale, con armi intellettuali e ideali controllate da principi etici. È la guerra tra il male e il bene, che non conosce tregua nè perdono, nè pace; che è guerra di «sterminio, perchè conflitto di inconciliabili. Ma tutto questo è pretto tradimento della causa morale, quando trasferito contro persone individue che non possiamo mai nè odiare nè distruggere. Questa crudele parodia del conflitto spirituale è un insulto a Dio e un oltraggio all’uomo.
- Ora, non è esso ufficio del Cristianesimo di far sentire l’abisso che corre fra l’una e l’altra guerra? Non dovrebbe esso sollevare il livello del conflitto tra bene e male, giusto e ingiusto, sì che la coscienza del genere umano ripudiasse con indignazione la schifosa caricatura di cui una battaglia fra nazioni pretende di rivestirsi?... Esso potrebbe disseccare tutto l’elemento di violenza e di passione delle guerre nazionali, sollevando il conflitto su in un’atmosfera veramente ideale... ».
E a proposito di - Cristianesimo e guerra ».
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• Sembrerebbe che il Cristianesimo ricevesse un colpo crudele dalla guerra. La nostra fede fu colpita dai crudi orrori di essa, come da un gelido tagliente, ed ogni istinto che ci portava a credere in un Padre che è nei sommi Cieli, e in un Cristo nato a Bcthlem a recar pace agli uomini di buon volere fu oltraggiato e lacerato dall’urto di questa diavoleria selvaggia. La guerra, con la sua barbarie e la sua follia crudele, gettò la sfida contro il nome stesso del Dio che è « Amore ». Ma da questa scossa noi ci riavemmo, quando riconoscemmo che non stiamo già combattendo perchè Cristiani, ma appunto perchè Cristiani non siamo mai stati. Se il nostro Cristianesimo fosse stato reale, la guerra non sarebbe mai scoppiata. Non è il Cristianesimo che è restato convinto d’impotenza, ma siam noi che fummo convinti di non essere ciò che ci Ì>rofessavamo di essere. Gli armamenti che noi accumu-ammo per anni fino a che ci precipitarono nella guerra, erano già stati la prova evidente del sospetto, della gelosia, dell’ambizione e dell’odio che erano le forze predominanti direttive dell’attività nazionale. Erano essi una sonora protesta, che le nazioni rifiutavano di affidarsi solamente alla loro fratellanza cristiana e di' preservare la loro unità come « membri del Corpo di Cristo ». Col loro aumento progressivo, essi divennero eloquenti testimoni del tradimento di Cristo, vincolo di pace. Le nazioni del mondo vivevano di timore, e non di amore: ed esse lo sapevano, ed esse lo volevano. Esse investirono quei mostruosi milioni di danaro in ferro e sangue, nell’impegno deliberato di non fidarsi di Cristo. Ed ecco perchè ora si trovano nelle strette della morte. Tiitti fummo colpevoli: tutti siamo in guerra perchè non apparteniamo al suo gregge. È questa persuasione che ha ridestato la fede, e cj ha fatto esclamare: Oh se fossimo stati suoi! O se almeno potessimo divenirlo! Mai più questo incubo spaventoso potrà offuscare la faccia della terra, se Cristo diverrà il Re. Cosi, la guerra ha proclamato un risveglio cristiano in nome di una nuova fede, nei Vangèlo della Croce;..».
Il rapporto fra le « Donne e la Guerra - dal punto di vista dell'etica cristiana fu l’oggetto di profonde considerazioni del Rev. Norton, nella Chiesa « Con-gregazionalistica » di Lyndhurst-road in Hampstead (Londra). Citando Théodore Parker, egli parlò delle « profondità che la ragione scandaglia con la face nella sua mano al di là delle altezze a cui l’immaginazione assorge con le sue grandi ali, e delle profondità più profonde a cui la ragione non giunge, delle altezze più eccelse non tocche neppure dall’immaginazione, le profondità della giustizia, le altezze dell'amore. E questo il porto sconfinato della religione, dove la coscienza si solleva, l’affetto s’innalza, l’anima si eleva: e questa è la dimora della donna. La donna ha toccato maggiori profondità di giustizia e si è sollevata ad altezze
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H. Bois, Patrie et humanité. Conférence. Volumetto di pagine 73. L. 0,75 (A beneficio delle vittime della guerra).
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L’Eglise et la guerre par Mgr. Batiffol, MM. P. Monceau, E. Chenon, A. Vanderpol, L. Rolland, ecc. L. 4. Ecco i Soggetti di alcuni capitoli: Les premiers chrétiens et la guerre. Saint Augustin et la guerre. Saint Thomas d’Aquin et la guerre. Les applications pratiques de la doctrine de l’Eglise sur la guerre. Synthèse de la doctrine théologique sur le droit de la guerre, ecc.
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Guglielmo Quadrotta. Il Papa l’Italia e la Guerra. Con prefazione di Francesco Scaduto. Milano, 1915. Voi. di pag. 175- L. 2. Estero L. 2,25.
Sommario: La chiesa romana alla morte di Pio X -Il conclave di Benedetto XV -La figura del Papa e la sua preparazione politica - La caduta del potere temporale e la politica ecclesiastica del nuovo regno - La legge delle Guarentigie e il suo valore - Il Vaticano e la partecipazione dell’Italia alla guerra delle nazioni - Benedetto XV e l’Italia - Il papato in Europa -Documenti.
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Louis Trial: Sermons patriotiques prononcés pendant la guerre 1914-1915. Volume di pag. 100. L. 1.25. (A beneficio dei feriti).
Sommario: Motifs d’éspéran-ce - «Consolez, consolez mon S eu pie» - «Demeurons fermes ans la profession de notre foi ■ - La .patrie - Exaltation du patriotisme.
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[Novità].
Giovanni Costa: « Il Dalmata fatale ». (Diocleziano). Con 6 illustrazioni. L. 0,75.
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Epitteto: • Il manuale ». Traduzione del P. A. Ghigno-ni. L. 2.
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Ugo Della Seta: « Morale, di-dirtto e politica internazionale nella mente di Giuseppe Mazzini ». L. 1,50
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Adolfo Baci: « Cori liturgici » ad uso delle chiese cristiane d’Italia. Con prefazione di Ugo Janni. (Kirie. - Gloria Patri. - Gloria in excelsis. -Pater. - Credo. - Sanctus. -Agnus Dei. - Benedizioni. -Amen. - Nunc dimittis. -De profundis. - Misercre. -Te Deum. - Intende, qui rcgis Israel. - Victimae pa-schalis-laudes. - Veni Sancte Spiritus. — Benedictus. — Magnificat. - Veni, Creator Spiritus). L. 2.
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H. Hóffding, Compendio di Storia della Filosofia Moderila, L. 5.
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Venticinque Sermoni e allocuzioni di W. Burt: La luce del Mondo - Coraggio! -La testimonianza cristiana -La santa Cena-La Conversione di Paolo - Che cosa invece dell’anima? - Salario di peccato - L’acqua che disseta - Doveri di figliolanza -Come vivere - Tre parabole - Tutte le cose con Lui - Sul primo Salmo-Il battesimo dello spirito - Natale - Per la vita cristiana - Come si può vedere Gesù? - Le ulmaggiori di amore e di fede che l’uomo... Fino a che il mondo sarà governato soltanto dalla ragione e dalla fantasia, senza la cooperazione della giustizia e dell’amore, vi resterà sempre una ruota morta nel carro del progresso, e un’impossibilità di attuare, il massimo bene di cui l’umanità sarebbe capace ». Col Lamennais, col Curtis, con Emerson, egli ritiene che « la pietra di paragone della civiltà è data dalla stima della donna: che la civiltà è più o meno elevata, a proporzione del potere che in essa ha la donna; e che il genere umano non potrà salire la ribalta del progresso, finché l’altra metà del genere umano resterà solo spettatrice ». E applicando questi concetti alla questione della guerra, prende a prestito il giudizio dell'eminente femminista inglese Mrs. Fawcett: < Io non pretendo dire che le donne sarebbero immuni dalla febbre della guerra, ma solo affermo, che con, molta più probabilità che gli uomini, essi si sforzerebbero di introdurre condizioni di vita tali da prevenire la guerra, da volgere maggiore attenzione a quei rapporti fra Stati che conducono ad una intesa e a buone relazioni reciproche, anziché a quelli basati sull’odio e sulla rivalità reciproca. E Suesto punto di vista che dovremo sforzarci con tutto potere di inculcare agli statisti che si aduneranno nel prossimo congresso della pace per stabilire le condizioni dei rapporti in avvenire... Non è bene che l’uomo sia solo: e il successo che il governo degli uomini ha finora avuto non è così splendido da autorizzarli a disprezzare l’aiuto che 'la donna può loro apportare. Dinnanzi ai campi devastati della Francia, del Belgio e della Polonia, e alle case desolate di ogni nazione belligerante. penso che gli uomini di oggi sono disposti a riconoscere che la loro prova del governo del mondo non ha avuto un grande successo. » E conchiude con le parole: « Mentre con gli occhi fissi sul Signor nostro Gesù, gli domandiamo quale giudizio egli reca di nazioni che pur portano il suo nome, mi pare che non possiamo a meno di sentire che Egli il quale ha posto la donna sul suo piedistallo come compagna e cooperatrice dell’uomo, egli che rese la donna cosciente della sua eredità, e capace di compiere le sue alte c sacre funzioni nel mondo, quale vita religiosa e coscienza Spirituale dell’umanità, risponderà: « Che essa venga: datele il benvenuto. Io parlerò anche per mezzo di lei, e per suo mezzo addurrò il regno della sapienza, della pace e dell’amore... ».
G. Pioli.
IL PENSIERO DI UN “ MODERNISTA” INGLESE
Alfred Fawkes.
Il Rev. Alfred Fawkes, l’illustre oratoriano inglese, che la persecuzione modernista ha risospinto fra le braccia della Chiesa Inglese, la Chiesa del suo battesimo, pubblica ora sul ■ The Nation » alcune profónde
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considerazioni su: ■ II Mondo Incompleto ». I cataclismi trascinano gli uomini via dalla religione non meno che verso di essa; gli effetti delia guerra sono già grandi e saranno grandissimi, in ogni senso; e, poiché una catastrofe su larga scala suole stimolare moltissimo l’immaginazione, vi è e vi sarà un risveglio religioso, vi è e vi sarà poi un decadimento. Quei tali che, dopo il disastroso incendio al Bazar de Charìtt di Parigi perdettero la fede in dio per una settimana, nelle condizioni attuali, probabilmente, l’avranno perduta per una quindicina di giorni. Quello che più spaventa noi mortali è l'inaspettato: esso non trova posto nè nella nostra filosofìa nè nel nostro modo di vivere, e le persone più sensibili sono ossessionate dal pensiero di questo elemento strano ed ostile, vasto, distruttivo, maligno, che irrompe di tanto in tanto su l’universo e sopra di noi come una belva scatenata. Così sorge spontanea in noi la domanda: 'che cosa‘ha da dirci su questo la religione?
Funzione della religione infatti è quella di interpretare la vita e cesserebbe di esistere se questo non facesse. Non ci aspettiamo certo da essa una interpretazione completa: poiché noi sappiamo che le nostre conoscenze sono parziali e che il nostro tesoro è affidato a vasi di creta, benché conoscenza e tesoro, crescano cogli anni. Ora. noi pensiamo, che ciò che la religione ha da dire su l’argomento sia presso a poco quello stesso che ci san dire il buon senso e la ragione: e a quelli che si aspettassero di più., diciamo che siccome non può esistere ragione o buon senso senza religione, così non possiamo immaginare religione, senza ragione e buon senso. Vediamo allora, per primo, che cosa la religione ha da dire riguardo alle vittime. Vi sono certi mali peggiori, e di molto, della morte: e quando noi riflettiamo alle alte qualità mostrate in contingenze speciali da uomini e donne che in circostanze ordinarie sono, o per lo meno sembrano, persone comuni, non vi è alcuna difficoltà nel supporre che tutta la maturità morale e spirituale fu, concentrata per essi in un solo momento, e che l’apparire di esso in quella-loro .miserabile vita era la miglior cosa che potesse ad essi capitare. Giacché fu allora, che i grandi orizzonti de l’universo si aprirono a loro davanti, essi furono fortunati di poter morire per qualche cosa, per qualche ideale.
In secondo luogo la religione esclude certe credenze superstiziose riguardanti la provvidenza divina che governa il mondo e che alcuni sfoggiano a proposito e a sproposito, superstizioni che crebbero a vista d’occhio come l’erbaccie dannose fra gli uomini primitivi, e che non si sono ancora potute sradicare.
Un ecclesiastico di mia conoscenza non è mai stanco di ripetere alla persona di cui gli è affidata la cura spirituale, che la guerra è un castigo di Dio, a causa della «Separazione» della Chiesa dallo Stato nel Paese di Galles. È vero bensì che in un senso lato, la storia del mondo è il giudizio universale del mondo stesso, ma il vedere giudizi e provvidenze particolari negli avvetime parole di Cristo - Pasqua - Il vero fondamento, ecc. Prezzo !.. 2.
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Fontana Ferdinando: « Antologia meneghina» 19.15, 2 volumi L. ro.
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N. Tommaseo: « Canti illirici » a cura di Domenico Bul-feretti. L. 5.
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Giuseppe Rolla: « Del mondo esterno» 1915, L. 1,50.
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Elisa Majer Rizzioli (Infermiera volontaria superiore Croce Rossa Italiana). «Accanto agli eroi », 1916. L. 3.
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Do.tt. H. Ch. Lea: «Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella chiesa latina » 1® volume L. 18; 2° volume L. 18.
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Ignazio Von Doellinger: •< Il Papato dalle origini fino al 1870 » L. «5 [Importantissimo].
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H. C. Lea: » Le origini del potere temporale dei papi -La immunità del clero», 1915 L. 5.
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U. Janni: « I valori cristiani e la cultura moderna », L. 6,50.
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Benito Mussolini: « Giovanni Huss ». Il veridico. Collezione storica dei martiri del libero pensiero. Pag- 120. L. 0,80 estero L. r.
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[Novità]. Gaetano Sai vernini: Mazzini. Catania. 1915. Volume di pag. 200. L. 2,50. -Estero L. 2,75.
Parte prima. Il pensiero: I! criterio della verità - Le « basi di credenza ■ - La educazione del genere umano - Le religioni del passato - La discordia è per ogni dove - La nuova rivelazione - La nuova dogmatica - La nuova morale: il dovere - La nuova politica - Le repubbliche unitarie e democratiche - La teocrazia popolare - La teoria delle liberta -Le rivoluzioni nazionali e democratiche - La missione dell'Italia - La terza Roma - Carattere religioso del mazzi nia-nismo.
Parte seconda. L’azione: Influenze immediate e influenze mediate - Insuccesso della predicazione religiosa mazziniana - Unità e repubblica nel pensiero mazziniano - Unità e repubblica nell’azione mazziniana-Mazzini egli altri repubblicani - Mazzini e l’Unità d’Italia - Mazzinianismo e Socialismo: le analogie - Mazzinianismo e Socialismo: le opposizioni — Il mazzinianismo sociale nel risorgimento italiano.
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. [Novità]. N. Turchi, La civiltà Bizantina. Torino, 1915. Volume di p. 330. L. 5. - Estero L. 5.50.
Sommario: Introduzione - I caratteri della civiltà bizantina - L’economia commerciale ed agricola dell’impero bizantino - Le fasi della storia politica di Bisanzio - La letteratura bizantina - La religiosità bizantina - Un patriarca bizantino nel sec. IV: S. Giovanni Crisostomo - L’arte bizantina.
Platone, Dialoghi, volgarizzati da Fr. Acri. Tre volumi
nimenti degli uomini, l'interpretare i successi e gli insuccessi delle imprese umane come indice del favore o della collera di Dio oltre ad esser stupido è una bestemmia. Cc lo dice il Fondatore stesso del Cristianesimo: « Credete voi che questi diciotto su cui cadde la torre di Siloam fossero più peccatori di tutti quelli che vivono in Gerusalemme? Questo vi dico, che se voi non vi pentirete morirete tutti in tal modo ». Affermando pure la connessione generale tra male fisico e morale Egli ripudiò, quindi, enfaticamente là nozione di una casualità o di una conseguenza particolare: « 11 Padre nostro—fa sorgere il sole sul buono e sul cattivo, e manda la pioggia sul giusto e su l’ingiusto ». In particolar modo noi dobbiamo escludere quella specie di gelosia delle imprese umane, che gli uomini primitivi ascrivevano alla Divinità. Tracce di questa credenza si trovano nella Genesi: « Guardate, l’uomo è diventato come uno di noi » e nella.narrazione della torre di Babele: « Ecco quello che essi incominciarono a fare, ed ora niente risparmieranno. Va ad essi, e confondi le loro lingue in modo che l’uno non capisca la parola dell’altro ». Anche nell’atmosfera più pura di Atene, Solone potette dire che il Divino era sempre « invidioso e disturbatore * e su nei pulpiti, non poche volte si fa entrare questo sentimento quando si parla di calamità pubbliche. Lontani da noi questi cattivi sogni! Dio ci fece a sua immagine e simiglianza, e non dobbiamo renderlo noi a simiglianza nostra.
In terzo luogo, è vero che per noi destinati a vivere in una zona temperata, in una civiltà ordinata, e, per lo meno normalmente, in condizioni pacifiche, la nostra esistenza è, per modo di dire, piana in tutta la sua estensione e la catastrofe su larga scala è eccezionale. Ma non è sempre così nella storia o in tutto il resto del mondo: anche ai dì d’oggi, vi sono scene tali di dolore, che, sol che vi fissiamo lo sguardo, la terra ci appare come un sogno di orrore: le tenebre della terra son piene di sangue. E non è a dire che questo stato di cose sia incominciato con la guerra odierna e che finirà con essa.
Noi non dobbiamo misurare la vita dalla infinitesimale frazione che penetra il nostro io e la nostra esperienza personale, locale o di classe. Questa obesità spirituale del Cristiano ben nutrito, è cosa da far venire le lagrime agli angeli.
E se ben vi riflettiamo, i mali minori, inseparabili dalla nostra natura umana e che noi, per l’abitudine presa, consideriamo come inevitabili, non militano con minor forza contro quell’ottimismo facile e superficiale, che dal fatto che noi abbiamo, forse, i nostri Sosti regolari ogni giorno, ne deduce che tutto è per meglio nel migliore dei modi possibili.
Se l’esistenza del dolore è inconciliabile con l’idea di una potenza divina che governi il mondo, la gradazione di questa sofferenza è quistione di dettaglio. Un mal di denti o un cancro, la morte di un piccolo o la caduta di una nazione, sono argomenti ugualmente buoni, per quanto non ugualmente impressio-
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nanti. Se dolore e morte protestano contro l’idea di Dio, allora ad una sola conclusione dobbiamo venire, e non occorre una catastrofe su larga scala per convalidarla: se dall’altra parte noi accettiamo Dio come essenziale postulato di vita e di pensiero, la nostra credènza deve essere di carattere tale da includere il male, sia morale che fisico, non già come un elemento permanente nell’universo, poiché così cadremmo nell’ateismo, ma come un suo attuale fattore impedito dall’esercitare pienamente il suo potere — altrimenti distruggerebbe noi e l’opera nostra — ma rattenuto in modo imperfetto e intermittente.
Ma la spiegazione di tutto questo sta nel fatto che noi viviamo in un universo ridotto all’ordine solo in parte e tolto solo in parte dal chaos; un universo rudimentale, in processo di evoluzione, e incompleto. Nel mondo vi è certo della bontà, ma una bontà im-¡»erfetta: vi è ragione, ma ragione incipiente; vi è egge, ma una legge imperfettamente formulata ed applicata.
Era bene un mondo incompleto quello, dalla creazione del quale Dio si riposò; ed è ancora ben distante il Suo ed il nostro giorno di riposo: esso è riservato pei' il popolo di Dio. Supponendo una creazione completa, il mondo dovrebbe essere un teatro di propositi in conflitto e di intenzioni spezzate: Dio sarebbe un sogno, la vita una cosa insignificante. Questa visione era implicita nella vecchia religione dualistica, che considerava il mondo come un campo di battaglia fra la luce e l’oscurità, fra il principio del bene e del male. Ma il suo errore derivava solo dal significato relativo ’ da essa dato ai due elementi, non dal riconoscimento del conflitto presente su cui è fondato il famoso argomento di S. Paolo ne l’Epistola ai Romani: La gloria non è ma « sarà » resa palese in noi; l’uomo non è ma « sarà » liberato dalla schiavitù della corruzione; e, come noi «aspettiamo la redenzione del nostro corpo », così le sue « prime speranze aspettano la manifestazione dei figli di Dio ». In Natura questo conflitto si chiama Evoluzione; nella speculazione filosofica, essa diventa la Dialettica de l’idea; ne la religione, essa è il « Dio tutto nel tutto » visto come l'ultima meta del progresso del mondo. Ma il mondo intero è per noi, una cosa non diventata ma da diventare, non finita ma da finirsi; un disegno realizzato imperfettamente, potenziale, in via di ridursi all’attualità...
Di qui quella nostalgia dell’anima, che grida: « Non abbiamo qui la nostra patria permanente, ma siamo in cerca di una futura patria ».
Se non fosse così, il mondo sarebbe pieno di disillusioni, e, col mondo, la Vita, l’Uomo. Pensiamo alle creazioni scomparse negli ultimi tempi, alla Fauna, alla Flora dei mondi scomparsi; agli Oceani, ai continenti, alle civiltà sepolte nel succedersi degli anni e dèlie età. Se il visibile fosse il tutto, potremmo noi sfuggire alla conclusione che:
« Noi siamo formati di quella stessa materia di cui
L. 5 ciascuno. — Voi. I. L’Eu-tifrone, ovvero del Santo-L’apologià di Socrate - Il Cri-tone, ovvero di quel che si deve fare - II Fedone, ovvéro della immortalità dell’anima - L’As-sioco, ovvero della morte.
Voi. II. Il Ione, ovvero del furore poetico - Il Menone, ovvero della Virtù - L’Alcibiade, ovvero della natura dell’uomo. -1 tre ragionamenti contro i veristi: Contro i veristi filosofici - Contro i veristi politici -Contro i pochi veristi - Il Convito di Platone o dell’amore.
Voi. III. Il Parmenide, ovvero delle Idee - Il Timeo, ovvero della Natura - Dichiarazione del Timeo - Il Fedro, ovverò della Bellezza.
Eccellente versione.
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Biblioteca di studi religiosi, edita dalla Direzione della Scuola Teologica Battista. Volumi già pubblicali:
N. i. Cristianesimo e critica (gratis, a richiesta).
N. 2. Il pergamo. Manuale di omiletica del prof. N. H. Shaw. L. 2,50.
N. 3. I Battisti {Cenni storici di D. G.Wittinghill; Credenze di E. Y. Mullins; Il battesimo di G. B. Taylor). L. 1,50, Ìratis per gli abbonati di ‘ilychnis.
N. 4. Verso la Fede (Scritti di noti autori italiani) gratis per gli abbonati di Bily-chnis.
N. 5. Il Cristianesimo alla prova (Scritti di vari autori stranieri). Gratis a richiesta.
N. 6. La Scuola della Chiesa. Studio su la Scuola Domenicale del Dr. Everette Gill. L. 1,25.
Indice di quest'ultimo volume:
• Introduzione dell’Editore -Prefazione.
Parte storica: Periodo ebrai-
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co - Periodo post-apostolico -Periodo moderno.
Parte pratica: Lo scopo della Scuola Domenicale - L’organizzazione — L’arredamento.
Parte psicologica e pedagogica: Il fanciullo - La conversazione dei fanciulli - L’insegnante - Il pastore - Il movimento degli adulti.
Bibliografia.
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Opere di Carlo Wagner, predicatore a Parigi :
La vie simple. In-16,12* édition L. 3.75L’âmê'des choses. In-12, 4* édition 1913. L. 3.75.
A travers les choses et les hommes. Pour apprendre à vivre. L- 3.75’
A travers le prisme du temps. In-12, 1912. L. 3,75.
Auprès du foyer. In-12, 6e édition. L. 3,75.
Ce qu’il faudra toujours. In-12, 1911. L. 3,75.
Discours religieux. 2 .vol. in-12, 1912, ciascuno L. 3,25.
En écoutant le Maître. Discours religieux. In-12,1910. L. 1,20
Par la loi vers la liberté. In-12, 3" édition. L. 2,25.
L’évangile et la vie. Sermons. In-12, 6" édition. L. 3,75.
Justice. Huit discours. In-12, 8e édition, 1907. L. 3,75.
N’oublie pas. Discours religieux. In-16, 1913. L. 1,20.
Pour les petits et les grands Causeries sur la vie et la manière de s’en servir. (Opera premiata dall’Accademia delle Sicenze morali e politiche di Parigi), in-12, 4« édition, 1911. L. 3,75.
Sois un homme. Simples causeries sur la conduite de la vie. In-12, 4« édit. L. 1,50.
Vaillance. (Opera premiata dal Ministero dell’istruzione pubblica di Francia), in-12, 22e édition. L. 3,75.
i nostri sogni sono formati; e la nostra piccola vita è circondata di sonno»? E per mezzo del nostro mondo spirituale che noi sfuggiamo a questa ruota dell’esistenza continuamente girante, e discerniamo i valori completi della vita in quanto opposti agli incompleti. L’universo materiale non è che il simbolo e il principio di questo mondo superiore. Presi nel loro complesso, questi due mondi sono inseparabili, ma l’uno è idea l’altro il fatto. Un controllo puramente meccanico della Natura cade, quando la pressione degli elementi controllati eccede la sua capacità; non è la sola Forza, ma è lo Spirito che può domare la tempesta, e intimare il: « Pace! sta calmo! ».
Il nuovo cielo e la nuova terra non saranno, finché il mondo morale non sarà diventato una realtà. Finora, essi sono in formazione, e nella corrente Universale noi dobbiamo mettere, noi stessi, la Religione, anche Dio cosi come lo concepiamo: tutti insieme, operando, senza tema di altro. Aristotele ci parla di alcuni stranieri che andarono ad Eraclito e, trovandolo al lavoro, coperto di polvere e di fumo della fucina, volevano andarsene; ma il filosofo li fece entrare, animandoli e dicendo: « Anche qui vi sono degli Dei ».
G. Pioli.
LA RELIGIONE DOPO LA GUERRA
Della sorte delle Chiese Cristiane dopo la guerra, si occupa specialmente Io scrittore Cecil Jane, nel suo volume Le Nazioni in Guerra, in cui tenta di gettare uno sguardo sull’avvenire della civiltà europea dopo la « Grande Guerra ».
Nel capitolo « Religione », nota fra l’altro: «... Gli Alleati si sono fatti paladini dei deboli contro i forti, dell’uguaglianza contro la dominazione: della libertà contro la tirannide: essi sono i nemici dell’intolleranza e gli esponenti della tolleranza. Perciò la loro vittoria sarà in gran parte la vittoria del Cristianesimo, e tanto più, in quanto essa non sarà la vittoria di alcuna chiesa in particolare. E forse un vantaggio per la fede cristiana; in quanto distinta dalle chiese cristiane, che gli alleati rappresentino differenti credi: giacché, non solo la loro cooperazione tenderà a metterli in condizione di apprezzare i meriti reciproci delle diverse chiese, ma la loro vittoria sarà quella di una veduta più larga del Cristianesimo e di principi più liberali, su quei gretti sistemi dommatici da cui tanto spesso le più larghe vedute sono state oscurate.
« Tuttavia, anche le Chiese sentiranno l’influenza dell’attuale guerra; la vittoria del principio di tolleranza sarà feconda in religione non meno che in politica. Le Chiese Protestanti tenderanno a riavvicinarsi sempre più ai principii fondamentali della Riforma: e ad ammettere quel diritto di giudizio privato al quale
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LA GUERRA
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esse debbono la loro stessa origine, ma che con tanta Esistenza esse hanno rinnegato con la loro condotta.
Chiesa Russa Ortodossa sarà anche sospinta verso una maggiore larghezza di vedute. Laddove finora l'influenza della Chiesa nell'Impero Russo si è esercitata a vantaggio della tirannide, d’ora innanzi si volgerà a favorire lo sviluppo della libertà.
« Ma è sopra la Chiesa Romana che le conseguenze della guerra si faranno più vivamente sentire...
« La guerra presente offre alla Chiesa Romana una opportunità unica, giacché con lo sfacelo dell’impero Austro Ungarico, la sua forza coercitiva sarà ridotta notevolmente; la sua potenza politica sarà ridotta ai minimi termini; ed essa sarà sospinta ad appoggiarsi soltanto sulla persuasione, anziché sulla forza. L’occasione sarà splendida; e se Benedetto XV saprà afferrarla, il suo nome passerà alla storia come quello di uno dei più grandi Papi. Si tratterà di un’opportunità di infondere nella Chiesa un nuovo spirito di tolleranza; di abbandonare per sempre quelle ambizioni politiche che si sono mostrate già nel passato come un’insidia e una delusione; di adattarsi al nuovo spirito dei tempi, e di mostrare che anche nella nuova èra in cui il mondo entrerà, vi è posto per una fede puerile e per uno spirito di sottomissione a un Dio Onnipotente. È facile descrivere quale dovrebbe essere la politica da adottare per il raggiungimento di questo fine: riconciliazione con l’Italia; atteggiamento più benevolo verso gli spiriti più liberali fra i figli della Chiesa; rinunzia a quei sistemi di conversione che hanno eccitato l’allarme e la sfiducia del genere umano. Non sembra troppo lo sperare che questa opportunità verrà colta, giacché nel passato la Chiesa Romana non ha mai mancato di trar profitto dalle crisi della sua storia...
« Qualunque poi possa essere il fato delle Chiese, la tolleranza trionferà dopo la guerra. I membri delle diverse sette religiose si renderanno conto che vi è lavoro per tutte, ed insisteranno a preferenza sui punti nei quali armonizzano, anziché su quelli in cui divergono: e si avvedranno del fatto, che tutte sono d’accordo nel desiderio di attuare ciò che è il meglio per il genere umano. Le divergenze d’opinioni continueranno; non tutti gli uomini accetteranno le medesime interpretazioni dell’ideale cristiano: ma le differenze saranno rispettate e tollerate, e più che al trionfo di una chiesa particolare, si mirerà all’elevazione del genere umano.
« ... Il Cristianesimo guadagnerà di quanto le Chiese potranno sembrare aver perso. Gli uomini saranno ispirati da un ideale di amore per il loro prossimo anziché da credi; dal *' discorso del monte „ più che dalla teologia paolina; penseranno meno alla dannazione e più alla salvazione eterna; meno a se stessi e più agli altri... Il Cristianesimo, in quanto Vangelo di pace e di assistenza mutua, avrà guadagnato un considerevole trionfo quando le armi degli alleati avranno riportato la finale vittoria ».
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Opere di Wilfred Monod, predicatore a Parigi:
Il a souffert, ou la soufrance humaine éclairée par Jésus-Christ. Six méditations. -L. 2,25.
Il vit. Six méditations. L. 3,75.
Il regnerà. Dix tableaux de la gloire de Jésus-Christ. L.3,75
Sur la terre. Sermons. L. 3,75. L’Evangile du Royaume. Sermons. L. 3,75.
Vers la justice. Sermons. L.3,75
Le problème de la mort. Cinq méditations. L. 2,25.
Délivrances. Sermons. L. 3,75. Aux Croyants et aux athées.
L. 3.75Libre-pcnseurs et penseurs libres. Conférence. L. 1,20.
Peut-on rester chrétiens? Trois conférences. L. 1,65.
Venez à moi! Manuel élémentaire d’instruction religieuse. L. 0,60.
Que ton règne vienne. Essai de catéchisme chrétien en 29 leçons, avec 3 cartes, 294 sujets de rédaction ou d’études bibliques et l’indication de morceaux choisis de l’Ecriture Sainte. Lire 1,15.
La fin du Christianisme. Trois conférences. L. 2,25.
Silence et prière. Simples méditations matinales pour chaque jours du mois. L.2,25
Prière et silence. 2e serie de Silence et prière. Simples méditations matinales pour chaque jour du mois. L. 2,25.
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Opere di Giorgio Tyrrell:
Le Christianisme à la croisée des chemins (« Il cristianesimo al bivio »). Ottima traduzione dall'inglese in Iran-
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BILYCHNIS
cese. Paris, 1911. Pag. 338. Prezzo L. 3,75.
Suis-je Catholique? (« Medioe-valismo •). Examen de conscience d’un moderniste. Paris, 1908. Pag. 260. Prezzo L. 3.75000
Opéré di Marcel Hébert:
Le pragmatisme. Etude de ses diverses formes anglo-américaines, françaises, italiennes et de sa valeur religieuse. 2ft ed. avec la réponse de W. James. Paris, 1909. Pagine 168. L. 2,75.
La forme idéaliste du sentiment religieux. Deux exemples: St Augustin et St François de Sales, Paris, 1909. Pagine 160. L. 2,75.
Jeanne d’Arc a-t-elle abjuré? Etude critique précédée de Jeanne d’Arc et ses voix et Îeanne d’Arc et les Fées.
ans, 1914. Pag. 154. L. 2,75
Anche il decano di Durham, Rev. Henson, in uh discorso tenuto ad un meeting in Newcastle, sul « Cristianesimo e la guerra », ha detto che a suo parere, il Cristianesimo come organizzazione si è mostrato impari all’opera: che però la fede degli individui ne è riuscita rafforzata. Da uno studio della storia egli crede si possa arguire che dalla presente guerra quattro conseguenze deriveranno, a parte dalle conseguenze politiche.
io Vi sarà un risveglio religioso, che molto probabilmente prenderà la forma di un ritorno considerevole a superstizioni da lungo tempo superate.
2° Noi avremo probabilmente da vivere in un Seriodo di acutissima miseria nazionale causata dalla islocazionc economica prodotta dalla guerra, la quale condurrà forse la civiltà fino agli estremi della rivoluzione.
30 Seguirà un grande rilasciamento dei vincoli della società. La vasta distruzione dell’elemento maschile turberà la bilancia dei sessi ed eserciterà un influenza sinistra e perturbatrice anche nei rapporti fondamentali della vita morale.
40 Vi sarà un campo aperto per molte teorie politiche le più sovversive e demolitrici; che finora non sono uscite fuori di piccole « coteries » di fanatici.
Nell’insieme, previsioni tutt’altro che ottimistiche, sia per la religione che per la morale.
G. P.
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CROCE ROSSA ITALIANA
Bisogna che i cittadini SI RENDANO SEMPRE MEGLIO CONTO DELL’ENTITÀ DEI SERVIZI AUSILIARI DELLA CROCE Rossa, sentano l'orgoglio di questa Associazione, cresciuta CON LE LORO CONTRIBUZIONI SPONTANEE E CON LE LORO PRESTAZIONI PERSONALI, E COMPRENDANO LA NECESSITÀ E LA UTILITÀ DI ALIMENTARNE IL PICCOLO TESORO PER RENDERLO PROPORZIONATO ALLE GRANDI FINALITÀ.
■---------GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell* Unione Editrice, via Federico Ce«, 45
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* Bilychnis” Jl dicembre 1915
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Prossima pubblicazione
GUERRA E RELIGIONE
Con questa serie di volumi popolari della quale inizieremo tra breve la pubblicazione, ci siamo proposti di profittare della intensa e multiforme esperienza di questo momento ineffabilmente tragico e rivoluzionario della storia'dcU'uinanità -esperienza che é anche, anzi soprattutto, religiosa — per richiamare l’attenzione dei nostri connazionali (non osiamo certo dire: dell’Europa; benché mai come ora, a dispetto di tanta lotta, l’Europa sia stata una cosa sola, un comune campo e un comune soggetto di esperienza) sulle cause d’ordine spirituale e morale della mancata unità d’Europa, dei dissidii che essa covava nel seno e del loro improvviso erompere in una grande guerra: sulle lacune e sui vizii della cultura europea e delle dottrine di vita aventi corso in essa, sullo squilibrio profondo fra le ambizioni e le possibilità, fra la tecnica te la saggezza della vita, sugli errori e le colpe politiche e sociali che hanno condotto alla prepotenza di talune nazioni, alla debolezza ed alla impreparazione di altre; e cosi, di grado in grado, risalire, o ridiscendere, alle cause ultime del male, ai traviamenti c agli errori ed alle implacabili discordie di natura più propriamente religiosa, all'irrigidimento spirituale delle vecchie chiese, al caotico fermentare di nuove religioni, all'audacia di dottrine che, come quella del nazionalismo tedesco, mascheravano un ritorno ài più rozzi e brutali istinti di predominio e di violenza.
L'argomento. così posto, comporta tutto un esame accurato e penetrante, libero da ogni pregiudizio, della cultura europea, delle religioni storiche d’Europa, nettamente definite dalla loro tradizione ed organizzazione ecclesiastica, e di quelle altre religioni, mascherate e insidiose, che, in veste di scienza o di filosofia o di dottrine estetiche o di programmi nazionali, corrodevano negli animi tutte le antiche nonne e freni morali e universalistici, spesso senza nulla sostituire; come furono il romanticismo, il positivismo, il super-umanesimo, il germanesimo. il nazionalismo francese, ecc.
‘Il campo è vasto. E chi si propone di scrivere sopratutto per italiani non può in nessun modo tagliar fuori ’'Italia, pur così povera di vera ed autonoma vita spirituale, in questo esame generale della coscienza religiosa europea alla vigilia della grande guerra, e nel corso di essa, negli ultimi decenni. E l’Italia ci conduce allo studio del cattolicismo, cosa essenzialmente italiana e latina, e del papato, che ha accentrato in sé ogni potere ed ogni iniziativa, e della loro condotta dinanzi alla guerra. La quale condotta si riassume intiera nella neutralità, che è rinunzia a giudicare dei valori ideali in conflitto, delle responsabilità, della giustizia e del orto; e quindi rinunzia, di incalcolabile portata pratica, al governo spirituale dell’umanità; e poi, in un periodo susseguente, che incomincia con l'avvento al potere
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ecclesiastico di Giacomo della Chiesa, con l'iniziativa diplomatica, diretta a surrogare in qualche modo la mancata iniziativa religiosa ed a circoscrivere l'opera e il programma del pontificato nei limiti angusti di questa miserevole Europa guerriera, per trovarvi ragioni e occasioni dì vita e di consistenza politica internazionale.
E. nel campo stesso della nostra vita culturale e religiosa italiana, è facile esaminare le due manifestazioni più acute, le due forme estreme della malattia religiosa dell’Europa contemporanea: una religione storica, millenaria, ricca di una tradizione singolarmente grandiosa e di un formidabile potere di privilegio, di organizzazione c di ricchezza, che, confondendo ostinatamente la causa dello spirito religioso con la causa del suo proprio dominio ecclesiastico, si chiude in un rigido tradizionalismo e si modella sul pas-' sato, desiderosa solo di farlo rivivere e di imporlo, con mezzi indoramenti estranei alla religiosità ed alla religione: di un contro-dommatismo, superficiale, facile alle negazioni, risoluto a rompere ogni vincolo col passato, intollerante, utilitario, inteso a demolire più che a costruire, romanticamente fiducioso, nel meno peggio dei casi, nella asserita bontà naturale .dell’uomo c nella taumaturgica efficacia di riforme economiche c sociali: e di un indifferentismo scettico, dispregiatore di ogni energia e di ogni dovere morale, disposto a riconciliarsi con quella stessa religione cattolica nella quale non crede, sul terreno dell'intrigo* e del predominio politico.
Questo disegno religioso della vita italiana, che eravamo andati tracciando col pensiero ed anche in numerosi brevi scritti nel periodo della neutralità italiana, lasciava tuttavia il posto ad una speranza da noi -esposta e caldeggiata sin da allora: la speranza che. sotto tanta miseria morale. fossero ancora forze sane, «Ierivanti dalla migliore nostra tradizione antica e recente, disposta a non lasciar chiudere l’Italia, come in un lenzuolo funebre, nel giolittismo politico e nella indifferenza scettica dinanzi all’Europa che subisce
una così tragica crisi di rinnovazione: e che questa minoranza poco numerosa, che rischiava d’esser sopraffatta da quegli altri, trovasse la forza di prevalere, per la fortunata presenza al governo di alcuni uomini chiaroveggenti c per il concorso della opinione popolare.
.E non ci ingannammo: e la partecipazione dell’Italia al conflitto ci offrirà mòdo di esaminare, in ultimo luogo, il delincarsi, nella guerra, medesima, nella disciplina morale e nelle virtù che essa suscita, nella reazione spirituale contro il germanesimo, l'inizio od alméno la speranza non vana di una profonda rinnovazione morale, la quale non avrebbe potuto non essere anche religiosa.
Questo il piano del nostro lavoro, nelle sue linee essenziali.
Ci par nostro dovere collaborare a che gli italiani gustino intera la dolorosa ma salutare esperienza spirituale di questa guerra: c richiamare la attenzione loro su quella parte ed aspetto di questa esperienza che c, senza dubbio, il più fondamentale e importante ed all’esame del quale meglio ci preparavano i nostri studi e la stessa nostra lunga esperienza personale: poiché non è immodesto di ré che della superficialità e leggerezza e scetticismo cieco e delle volgari preoccupazioni politiche e utilitarie con le quali i connazionali riguardano ogni lotta , e problema ed iniziativa religiosa, chi scrive e l’opera sua furono, in' quésti ultimi decenni, vittima più che alcun altro.
' Abbiamo quindi deciso di pubblicare una serie di volumetti di non grande formato di almeno 160 pagine ciascuno,, dei quali ognuno riguardasse un momento ed aspetto determinato della grande guerra come esperienza morale e religiosa, e potesse in qualche modo fare da se; e di non limitare il nostro studio all'Italia e al papato e alla Chièsa cattolica, ma di raccogliere in esso, in rapirla sintesi, tutta l’espé-rienza religiosa europea dell'ultimo secolo e tutta la crisi determinata in essa dalla guerra: di limitare, in ciascun volumetto. al minimo necessario i documenti, raccogliendo, se mai, quelli che noli potessero trovarvi posto, in un volume a
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parte, da pubblicare in fine, quando una certa distanza permettesse già una cernita più razionale e rigorosa.
Il lavoro cosi progettato abbraccierà quindi una serie di piccoli volumi, popolari di formato e di prezzo, e- che potrà, salvo mutazioni che venissero a parerci opportune nel corso dell’opera, esser distribuito'come segue:
1. Il sangue e l’altare.
Le cronache della guerra offrono un meraviglioso materiale di esame allo storico delle religioni. Taluni motivi psicologici fondamentali dai quali sorsero le religioni primitive e che passarono poi nelle derivate, il valore, il posto e il significato della religione e dei suoi riti più caratteristici nella celebrazione della vita e della morte, sono messi in luce meravigliosamente da quel che avviene sotto i nostri occhi. Una esposizione sommaria «Ielle origini religiose e dei riti comuni a tutte le' religioni e dei fondamentali problemi umani, che il mito prospetta e risolve a suo modo, sarebbe quindi anche la più acuta interpretazione e dilucidazione della storia religiosa della guerra; e al riassunto storico si alternerebbero spontaneamente, vivificandolo, cronache ed esperienze della presente guerra.
2. Cattolicisnio e religioni ufficiali d’Europa alla vigilia della guerra.
La società europea, per tanta parte rinnovata nella cultura e nella democrazia, aveva ancora e coltivava religioni antiquate. Lo sforzo lungo c tenace che queste hanno fatto per resistere alla corrente, per coùservare le loro dottrine c«l il loro carattere strettamente teologico e gerarchico, alleandosi anche, per questo, con gruppi politici e con il potere civile e con il militarismo, ha una parte grandissima e decisiva nella storia europea «li prima della guerra c nello, spiegare le origini «Iella guerra stessa, li questa storia non d stata scritta. Chiesa ortodossa e autocrazia russa, luteranesimo e impérialismd ger
manico, cattolicisino c nazionalismo e dinastie si trovarono alleati nell’ostaco-lare i progressi dello spirito danidcratiCo; «Iella cultura popolare e della fraternità dei popoli. L’Europa guerriera • c aggressiva fu, dovunque, una Europa clericale, assetata di autorità e di conquista, antidemocrática;
Tipico, e degno di speciale rilievo, è quello che fu detto il catolicismo del terrore, la reazione di Pio X contro il modernismo, l’esaltazione 'dell'autorità àssoluta, della disciplina férrea, del rigido tradizionalismo:
Interessa quindi vedere quale era la posizione di queste Chiese alici vigilia della guerra, quale fu la loro condotta allo scoppiare di essa ed in seguito, per quanta parte esse sono responsabili delle divisioni e degli odi politici che l’hanno provocata.3. Religioni false, larvate e latenti del-l’Europa contemporanea.
Ma lo stato vero e«l il contenuto e le esigenze, e le aspirazioni della coscienza religiosa dell’Europa in guerra non sono date che per metà dalle chiese tradizionali, ortodosse ed anche non. conformiste: il moto di libertà religiosa e di interiorizzazione — ci si permetta la parola — degli elementi e dei dati «Iella vita religiosa noif si arresta al protestantesimo ed alle sue varie derivazioni. Dopo di esso, molto cammino è stato ancora percorso.
Nuove concezioni della vita e «lei mondo, sentimenti, dottrine e fedi nuove sono venute sorgendo e sviluppandosi, ciascuna delle quali ha creato rivolgimenti sociali profondi e correnti fortissime di pensiero e di azione, suscitando entusiasmi c devozioni pazienti, svolgendo o rinnegando, a volta a volta, i principi! e lo spirito del cristianesimo. 11 razionalismo, il romanticismo o individualismo mistico, l'idealismo tedesco, e il conseguente panteismo politico, il positivismo, il socialismo sono moti di quésta natura: religioni vere, nella sostanza, che, se trascuravano o annullavano ogni elemento liturgico ed ecclesiastico— e non tutte e non sempre lo
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trascurarono; poiché taluno di essi ebbe ed ha la sua chiesa ed i suoi sacramenti -esercitarono tuttavia una influenza grandissima. e talora preponderante, sul corso della cultura e degli eventi umani: creando dissidii e contrasti profondi — ad es. quello fra individuo e Italia, fra democrazia ed imperialismo — nei quali vanno in gran parte cercate le origini profonde e remote della guerra europea.
Importa, quindi, per avere la visione complessiva della coscienza dell’Europa contemporanea, dedicare un attento esame anche a queste pseudo-religioni o religioni nuove, ed esaminarne le più caratteristiche espressioni, manifestazioni ed effetti.
Se lo riterremo opportuno e le circostanze lo permetteranno verrà continuata nel 1917 la pubblicazione di altri tre volumi che completeranno il programma trattando i seguenti soggetti:
La spartizione di Dio;
Il Vangelo e la guerra;
La nuova Europa- e la religione dello Spirito.
Questo il programma della serie di volumi: Guerra e Religione, della quale inizieremo quanto prima la pubblicazione.
Sarà pubblicato un volume ogni quattro mesi, a cominciare da gennaio. Ciascuno avrà almeno 160 pagine e sarà posto in vendita al prezzo di !.. 2. Abbonamento ai primi tre volumetti: !.. 5,50.
Sollecitare le prenotazioni, inviando cartolina-vaglia alla Casa di studio, Gualdo (Macerata) od alla amministrazione di Bilychnis, Via Crescenzio, 2, Roma.
Abbonamento cumulativo a Bilychnis ed ai primi tre volumi di Guerra c religione: !.. 10.
Romolo MuRRl
D. G. Whittinghill, Editore.
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Prezzo del presente fascicolo doppio L. 2