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BILYCHNI5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno III :: Fasc. X. OTTOBRE 1914
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 15 OTTOBRE - 1914
DAL SOMMARIO: Salvatore Minocchi: Creste e i Cre-stiani. — SILVIO PONS: Tre fedi (Montaigne, Pascal e Alfred de Vigny). — ARTURO PASCAL: Antonio Caracciolo, Vescovo di Troyes. — GIUSEPPE LESCA : Sensi e pensieri religiosi nella poesia d’Arturo Graf. — A. WAUTIER D AYGALLIERS: Spiriti amari e volti amabili. — L. RaGAZ : Non la pace, ma la spada. — G. PIOLI: Come il Cristianesimo Inglese si va preparando alla pace, allo scoppiare della guerra. — G. E. MEILLE: Come si diventa Cristiani-sociali o magari Socialisti-cristiani — H. BACH : L'attività dei laici nella Chiesa, ecc.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo # # ------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero ------- Via del Babuino, 107 - ROMA -AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO
Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8.
Un fascicolo L. 1.
# Si pubblica il 15 di ogni mese
in fascicoli di almeno 64 pagine,
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Illustrazioni del presente fascicolo.
Ritratto di Alfred de Vigny (Tavola tra le pagine 216 e 217).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Palchetto.
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BIÙCnNIS
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RM51À DI SlVDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMAte
SOMMARIO:
Salvatore Mjnocchi : Creste e i Crestiani......... pag. 205
Silvio PONS Tre fedi (Montaigne - Pascal - Alfred de Vigny) . . >214
ARTURO Pascal: Antonio Caracciolo, Vescovo di Troyes .... » 222
Giuseppe Lesca : Sensi e pensieri religiosi nella poesia d’Arturo Graf. » 238
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
A. Wautier d’Aygalliers : Spiriti amari e volti amabili . . . . > 248
L. Ragaz: Non la pace, ma la spada ........... > 256
« Un geografo incredulo »: Una veduta della Realtà. . . . . » 261
NOTE E COMMENTI:
Giovanni Pioli: Come il Cristianesimo Inglese si va preparando alla pace, allo scoppiare della guerra ........ > 264
A. : Il nuovo pontificato ....... .......... » 268
TRA LIBRI E RIVISTE:
Giovanni E. Meille : Come si diventa Cristiani-sociali o magari Socialisti-cristiani » 270
H. Bach : L’attività dei laici nella Chiesa ............. » 276
F. Rubbiani: Dupanloup ................... » 278
E. R.; Modernismo? ................. .... » 279
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PROSSIMAMENTE:
Roland D. Sawyer: — Gesù e ¿a filosofia socialista della vita.
GIOVANNI Lezzi: Il modernismo nella Chiesa cristiana del primo secolo.
CRESPI: L'evoluzione della religiosità nell'Individuo e nella Società.
M. VELATO: L'altare al Dio sconosciuto.
G. E. MEILLE: Intorno all'immortalità dell'anima.
MARIO Rossi : Un'interpretazione religiosa di uno leggenda della Grande Sirie in Sallustio: i fratelli Fileni.
Giovanni Costa: L'Impero romano e il Cristianesimo.
Mario Rossi: Il « Tu es Petrus » e la storia delle religioni - Saggio di una nuova interpretazione.
F. Momigliano : Gioberti e i Gesuiti.
GlOSUE Salatiello: L'umanesimo di Caterina da Siena.
Giovanni Costa: Mitra e Diocleziano.
T. Neal: Maine de Biran.
L. RagaZ: Cristianesimo e patria.
UGO Janni: Le varie dottrine circa l'essenza della religiosità.
G. Adami : Preghiere democratiche.
S. BRIDGET: Per la storia di uh terribile dogma.
Paolo Orano: L'esitazione spiritualistica.
Salvatore Minocchi: La madre degli dei nella gnosi cristiana.
NB. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli Aatori.
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CRESTO El CRESTIANI
UELLI — narrano gli Atti degli Apostoli — stati dispersi dalla persecuzione avvenuta per via di Stefano passarono in Fenicia, a Cipro e in Antiochia, a nessuno annunziando la parola, se non solamente a Giudei. Ma v’erano tra loro alcuni Ciprioti e Cirenei, che venuti in Antiochia parlavano eziandio pure ai Greci, evangelizzando il Signore Gesù. E la mano del Signore era con loro, e gran numero vi fu di credenti che si convertirono al Signore. E venne la fama di loro agli orecchi della chiesa in Gerusalemme, e manda
rono Barnaba fino in Antiochia. E com’ei fu giunto e vide la grazia di Dio, si rallegrò, e tutti esortò, con fermezza di cuore, a perseverare col Signore ; perchè era un uomo egregio e pieno di spirito santo e di fede. E una gran folla fu acquistata al Signore. Ed egli si recò quindi a Tarso a cercarvi Saulo, e trovatolo il condusse ad Antiochia. Ed avvenne che essi per un anno intero convennero nella chiesa, e vi insegnarono a gran folla, per guisa che dapprima in Antiochia i discepoli furono denominati cristiani » (i).
L’affermazione degli Atti, che in Antiochia i fedeli della prima generazione, un dodici anni dopo la morte di Gesù, ricevessero il nome di «cristiani», è considerata dai critici, dal Renan all’ Harnack, come testimonianza di irrecusabile valore storico. Anche il Preuschen, nel suo recente commentario agli Atti, reputa superiore ad ogni dubbio la storicità di questa asserzione, ed anzi riconnette l'origine e il significato del nome ad un equivoco messo in rilievo dallo spirito sarcastico della popolazione antiochena. È da notare, bensì, che dopo il Baur e il Lipsius anche il Weizsàcker nella sua classica storia dell’età apostolica fa sulla storicità dell’asserzione degli Atti riserve così esplicite, che possono prendersi per una vera e propria negazione; ma le acute osservazioni dell’insigne critico hanno pure un lato debole nel senso ch’ei non accenna, se Antiochia dev’essere messa da parte, dove e come avesse origine l’appellativo di « cristiani > (2).
(1) Atii, XI, 19-26.
(2) Renan, Les Apôtres (Paris, 1889), pag. 233-236; Harnack, Missione, ecc. (Torino, 1906), pag. 304-307; Preuschen, Apostelgesch. (in Lietzmann, Handbuch z. N. T. IV, ï, Tübingen 1912), pag. 73-74; Weizsaecker, Apostol. Zeitalter (Tübingen, 1902), pag. 90.
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Tuttavia, per quanto i eritici siano disposti ad accettare come storica l’affermazione degli Atti, nondimeno sono costretti, quasi loro malgrado, a sentire le difficoltà di una soluzione che a loro medesimi si presenta assai malcerta. Essi in fondo non si mostrano convinti che di una cosa, la quale, con l’origine di queirappellativo in Antiochia a quel tempo, niente ha che vedere : e cioè, che il nome « cristiano » non si formò da prima in seno alla comunità dei fedeli, ma fu anzi dai gentili inventato per contradistinguere dalle altre società religiose i nuovi fratelli in Cristo, e con un significato più o meno, lo nota il Preuschen, dispregiativo ed ironico (i). E che del resto il nome di «cristiani» provenga dal paganesimo, e sia piuttosto in uso su bocche di gentili o comunque di non cristiani, discretamente lo indica anche il testo degli Aiti degli Apostoli. Ma le incertezze sorgono non appena si ha da stabilire come e perchè tra i gentili antiocheni potesse aver origine l’appellativo di «Cristiani». E ciò innanzi tutto perchè la parola ^cercavo; è di carattere nienf affatto greco, ma specificatamente latino. (2) Escluso, infatti, com'è ovvio, che la terminazione adiettivale -avo; possa reputarsi una specie di variante dorica della terminazione -w;, un aggettivo del genere di ^pwrrcavó; è fuori del dominio della lingua greca propriamente detta, anche nella forma detta della civiltà greco-asiatica. In bocca greca, e secondo lo spirito del linguaggio ellenico, l'appellativo proprio a denominare colui che faceva principio di vita religiosa e morale la fede nel Cristo poteva essere, come suppone il Renan, per esempio E' vero che già in documenti piuttosto antichi,
anzi negli Atti stessi degli Apostoli, trovasi l’appellativo di àoiavó; ; e che in fondo è ammissibile, come opina con altri critici l'Holtzmann, l'aggettivo con terminazione in -avo; o -lavo; quale forma ellenistica (3). Ma si tratta di sapere se tale denominazione adiettiva, senza dubbio derivata dal latino, e che troviamo già consacrata dall’uso negli scrittori greci, per esempio cristiani, del secondo secolo (4), fosse già adoperata durante il primo secolo in Oriente. E soprattutto apparisce sommamente improbabile, che fosse d’uso nel linguaggio greco ordinario degli orientali, per esempio in Antiochia, nei primi decenni del primo secolo, quando ancora la civiltà latina, non essendo pieno e perfetto il dominio di Roma sulle provincie di Siria, aveva influenza scarsissima nell'anima orientale.
La forza di questa difficoltà è stata dai critici così sentita, che i più autorevoli fra loro, cito il Renan e l’Harnack, hanno dovuto ammettere per maggiormente probabile l'origine puramente latina del nome jfpwrwwó;, coniato a bella posta dalle autorità del governo romano in Antiochia, nel tempo e nelle circostanze definite dagli Atti degli Apostoli, per designare chi era parte della novissima setta, la quale confessava per proprio capo il Cristo. Ma questa spiegazione, che non oltrepassa i limiti di un mero supposto, non solo non riceve alcuna conferma dalla giacitura del testo degli Atti, ma contradice espressamente a un
Ìi) Unti, impomatati, per ironia ; in che senso, il Preuschen non indica.
2) La Grammatica di Kuehner-Blass non menziona forme d’aggettivi con tale desinenza.
3) Holtzmann, Hand.-Comm. z. N. T. (Freiburg i. B., 1892) I, 367-368; Atti, XX, 4; e notisi il partito degli 'HfwStcwoi nella tradizione evangelica (Marc., Ili, 6; XII, 13; Matt., XXII, 16), che però non dà garanzia di rimontare alla prima generazione cristiana ; Giuseppe Flavio, B.J., I, 16, 6, ha 'HpwSiìc; e simili.
(4 ) Per esempio, in Giustino, Dial. 35 : Mapuavoi, ecc.
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dato storie© positivo ed accertato; ed è la ignoranza in cui rimase per circa tutto il primo secolo l’autorità del governo imperiale romano intorno al proprio carattere della nuova setta dei fedeli nel Cristo, stimata nè più nè meno che una semplice associazione, fra le molte, della religione giudaica, e confusa in uno col giudaismo, ufficialmente conosciuto e sottoposto a certe leggi. Così una diecina d’anni dopo la presunta coniazione del nome « cristiano >, per parte dell’autorità romana in Antiochia, l’imperatore Claudio, secondo il celebre testo di Suetonio, espèlle, come vedremo, da Roma i cristiani, considerati però come < Giudei »; qualifica mantenuta anche dagli Atti* nel testo relativo alla espulsione, comandata da Claudio in persona, dei due celebri missionari cristiani, Aquila e Priscilla. Verso il medesimo tempo, secondo gli Atti degli Apostoli* il proconsole Gallione rifiuta di accordare ai Giudei la condanna di Paolo come fautore di una nuova religione diversa dalla loro e a loro contraria ; perchè non vede nelle loro contese che l’espressione di questioni religiose interne e non riconosce nei < cristiani » alcuna ragion d’essere autonoma dal giudaismo, per cui debbano esser cacciati fuori dalle sinagoghe (1). L’affermazione di Sulpicio Severo, che Tito facesse distinzione fra le due religioni separate dei giudei e dei cristiani, e che si suppone risalga a un testo perduto delle storie di Tacito, non solo manifestasi in contradizione con le disposizioni d’animo ben diverse che • attribuisce a Tito Giuseppe Flavio, ma con le espressioni, sicuramente rispondenti alla verità storica, di Suetonio e Dione Cassio, secondo cui furono sotto Domiziano accusati e condannati a titolo di « ateismo e di costumi giudaici » personaggi illustri, che sap piamo essere stati senza dubbio martiri cristiani (2). Ciò dimostra che ancora verso la fine del primo secolo la legislazione e la polizia imperiale romana ignorava propriamente la esistenza del « cristianesimo >, altrimenti che come setta del giudaismo : conclusione confermata dal fatto, che le lettere di Plinio il Giovane dalla Bitinia a Traiano e il rescritto di Traiano, pubblicato qualche decennio appresso, fanno appunto l’impressione che la religione dei « cristiani > ora per la prima volta venga distintamente a conoscenza delle autorità romane, e sia fatta soggetta alle leggi dell’impero.
* * »
Come abbiamo accennato, sono unanimi i critici nel riconoscere che l’appellativo di < cristiani > non fu attribuito dai credenti medesimi a se stessi, ma sì nacque dapprima tra i gentili, e servì sulla bocca dei gentili per designare i credenti. E infatti le due volte che, oltre la citazione già fatta, incontriamo nel Nuovo Testamento questa parola, essa comparisce sulla bocca di un non credente, il re Agrippa, oppure è rammentata quale designazione e titolo d'accusa che i non credenti fanno dei credenti (3). In seno alle loro comunità religiose, i cristiani primitivi davansi i nomi di santi* di fratelli* di eletti* di fedeli* di poveri* e simili (4).
(1) Alti* XVIII, 2, 12-17.
(2)Sulp. Sev. Chron.* II, 30; Suet., Domit.* 15; Dio Cass., LXVII, 14.
Atti* XXVI, 28; I Pietro* IV, 16.
(4) Weinel, Bibi. Theologie des N. T. (Tübingen, 1913), pag. 252-256.
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Quest’ultima e antichissima denominazione di poveri, nella sua forma semitica ebraica di Ebionim, ellenisticamente ’Epitóvcrai o ’Epiwvocfot, passò poi, con un significato piuttosto sarcastico, sulle bocche dei non credenti. Ma i fedeli, del resto, avevano ánche un’altra solenne denominazione con la quale si riconoscevano come oi toG XpicroG; espressione intraducibile dei primissimi cristiani, Che appresso fu interpretata soprattutto nel senso di oc ^atterra« toG Xpcc-roG, di discepoli del Cristo, e dalla quale legittimamente ebbe origine senza dubbio fra i gentili la denominazione di xpwrcavoc(i). Ma questo appellativo non potè nascere in Oriente e precisamente in Siria e in Antiochia nel tempo e nelle circostanze accennate dagli Atti degli Apostoli, per la semplice ragione che allora i gentili ed in genere i non credenti orientali adoperavano già per designare i cristiani altri epiteti d’uso comune e riconosciuto, e soprattutto quello per cui erano denominati Nazarei o Nazorei, Na^wpatbc. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Gesù, i suoi primi discepoli solevano essere dai Giudei in Gerusalemme, e in genere dagli estranei in Palestina, denominati Galilei, PalO.aToc, dal loro paese generico di provenienza : appellativo che non dovè essere inventato dall’ imperatore Giuliano, ma che fu da lui rimesso a nuovo avendolo inteso ripetere eventualmente dai pagani durante i suoi anni di educazione in Asia Minore (2). Il nome « Galilei », però, dovè essere ben presto abbandonato, per qualsivoglia motivo ; e sostituito con l’altro di Nazorei, col quale i cristiani erano conosciuti e nominati in tutto l’Oriente, non solo negli anni in cui, secondo gli Atti, avrebbe avuto-origine l’appellativo di cristiani, ma anche più decennii dopo.
Checché possano avventurare in contrario i negatori della esistenza storica di Gesù, fondandosi sulle confuse affermazioni di un Epifanio, l’epiteto di Nazorei non può essere che relativo ai seguaci del profeta di Nazara o Nazaret, comunque' noi vogliamo identificarla con una città (o meglio una borgata) oppure in genere, secondo il Wellhausen e il Cheyne, in tutto o in parte con la Galilea (3). E’ vero-che nella tradizione del secondo secolo il nome di Nazorei, come quello anche: di Ebioniti (Poveri), è proprio esclusivamente dei cristiani più o meno giudaiz-zanti e serve a designare piuttosto una sorta di eretici. Ma rimane pur sempre-un fatto, che l’appellativo di Nazorei, come anche quello di Ebioniti, dovè essere(j)ZZ Cor., X, 7; Z Cor., I, 12; XV, 23; Rom., Vili, 9; XIV, 8; Gal., Ili, 29; V, 24 (Weinel, 231-232). L’affermazione del Weinel, 253, e dell’Harnack, Kirchenverfassung (Leipzig, 1910), pag. 5-9, che 0« fiaftwai sia « der àlteste Christenname > è uno dei moki errori e pregiudizi dell’odierno sistema scientifico-religioso, secondo cui i critici protestanti liberali, tedeschi hanno ricostruito le origini del cristianesimo, e la cui demolizione è necessaria per il progresso della scienza; vedi, in genere, Minocchi, II Panteon (Firenze, 1914). Le osservazioni con cui I’Harnack, pag. 7, elude la difficoltà insuperabile, che Paolo non fa uso di tale denominazione, dimostrano soltanto con quale ingenua disinvoltura si possa esprimere un uomo, a cui nessuno, in Germania, osa ancora di opporsi apertamente. Ma la reazione da. qualche parte verrà. Bisognerà bene persuadersi, alla fine, che là tradizione evangelica, testimone dello stato di coscienza della seconda e della terza generazione cristiana, non può esser di leggieri portata a testimonianza storica della prima generazione, specialmente là dove è in contrasto con la parola delle più sicure lettere di Paolo.
{a} Alti, I, ix ; II, 7;. ed anche, a parer mio, Maic., XIV, 70, proiezione leggendaria di qua dalla morte di Gesù di un elemento storico, posteriore di qualche anno.
(3) Minocchi, Panteon, pag. 290 e seg.
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contemporaneo alle origini del cristianesimo, e servire durante il primo secolo, almeno in Oriente e soprattutto in Palestina o in Siria, a designare in genere tutti i cristiani. Il nome di Poveri (Ebioniti) è d’uso corrente già nelle lettere di Paolo (1), per designare i fedeli. E che il vocabolo di Nazoreo (Nazareo, Nazareno) sia altrettanto antico rilevasi, se non altro, da ciò : che la tradizione evangelica lo fa rimontare fino ai tempi e alla persona di Gesù. Ma la conferma positiva nel senso che la parola Nazorei designasse allora in Oriente sulla bocca dei non credenti tutti i cristiani, si ha nel testo medesimo degli Atti degli Apostoli} i quali appunto narrano che Paolo, arrestato a Gerusalemme, fu accusato a Cesarea, presso le autorità del governo romano, come un « principal fautore della setta dei Nazorei » (2). Questo accadeva circa il 60, una ventina di anni dopo la presunta origine in Antiochia dell'appellativo di « cristiani >; la quale se fosse vera, Paolo più di ogni altro avrebbe meritata l’accusa di « cristiano », non solo per esser egli una principale causa del fatto per cui si formò la chiesa dei « cristiani » in Antiochia, ma eziandio per il carattere della sua predicazione e di tutta l’opera sua, aliena da qualsiasi compromesso col giudaismo, ed anzi affatto diametralmente opposta a quella tendenza giudaizzante che poi fu riconosciuta come propriamente ebionita o nazorea. Del resto, che in Oriente, durante il primo secolo, il nome di Nazorei fosse comune a tutti i cristiani, è confermato anche dal fatto che tale si conservò tra i popoli di stirpe semitica, per esempio fra gli Arabi ; e che là lontana setta cristiana gnostica dei Mandei babilonesi, pur senza essere una setta giudaizzante, si appropriava tuttavia il titolo e la qualità di « veri nazorei >.
* * *
Escluso pertanto Che debbasi ricercare l'origine del nome « cristiano > in Antiochia e in genere in Oriente, è ovvio che tentiamo di rintracciarlo in paesi di linguaggio propriamente latino, e cioè in Occidente. Ed il pensiero corre naturalmente a Roma, dove nei medesimi decenni erasi andato formando un notevole gruppo di fedeli, e dove era ovvio che i credenti, noti còme oí toO Xpurrov, seguaci del Cristo, venissero denominati alla latina, in bocca greca o ellenistica magari, christiani, come già i partitanti di Cesare o di Pompeo erano detti Pompeiani e Caesariani. Tale conclusione è infatti, a parer mio, là vera, ed è anzi esplicitamente confermata da un’antichissima testimonianza, quella di Tacito, nel suo ben noto passaggio relativo all’incendio di Roma, al quale forse i critici non hanno fatto, per un soverchio riguardo agli Atti degli Apostoli, attenzione abbastanza. Bene considerando il tratto di Tacito, si riconosce che lo storico romano ha, circa i cristiani e le origini del cristianesimo, una cognizione assai più larga, che non ci espongano le nude parole da esso adoperate a tal proposito in rapporto all’incendio di Roma. Egli sa particolarmente che il cristianesimo, di recente origine, dalla Giudea, dove fu da prima e per poco tempo perseguitato, e represso, era direttamente penetrato nell’Urbe, « quo cuneta undique
II, io; II Cor., Vili, 2; Rom., XV, 26.
(2) Atti, XXIV, 5.
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atrocia autpudenda confluunt celebranturque >(i). Per comprendere tutto il valore di quest’ultima parola, bisogna metterla appunto in relazione con l’asserto enun-ziato poco prima circa i «cristiani », che venivano proprio denominati così allora dal volgo : quos ... vulgus... appellabat. Tacito, insomma, ha precisa conoscenza del fatto che alla nuova setta, ancora priva di un nome officialmente noto e dal governo imperiale riconosciuto, era stato frattanto dal pubblico imposto un nome provvisorio di «cristiani». E l'incendio di Roma avveniva, come è noto, nel luglio dell’anno 64.
E’ notevole, anzi, che Tacito conosce non solo la denominazione volgare della nuova setta ai tempi di Nerone, ma ne determina anche la precisa pronunzia: chrestianos. Questa lezione è, fuori d’ogni dubbio, la originale del Codice archetipo mediceo-laurenziano di Tacito (2) ; e che essa rappresenti la scrittura genuina dell’autore, rilevasi anche dal fatto che la frase: quos per flagitia invisos vulgus chrestianos appellabat, vuol esprimere un rapporto di antitesi tra il nome, grecamente interpretato, di Oresti ani, seguaci di Xpxrró;, buono, probo, onesto, e i flagitia con i quali i fedeli nel fatto si disonoravano. Questa antitesi, tutt'altro che arbitraria, a proposito d’un autore denso di pensiero come il nostro storico, non è dei resto ignota all’antica letteratura cristiana, e vi allude espressamente Giustino, dicendo : ^ptcrcxvoi yzp eivxc zaT'nyopoóy.sOz- tó Ss ^pjGTÒv jaigsIìtOzc où Sizaiov. Giacché è noto che, nella primitiva età cristiana, i gentili solevano appunto confondere il nome Xptoró< con quello più noto e più ovvio di Xp/jcró;, ed i cristiani perciò solevano essere invece denominati ^pjGrcavoc. Lo nota ancora Tertulliano, tra il secondo e il terzo secolo, polemizzando contro i pagani : christianus vero, quantum interpellatio est, de unctione deducitur: sed et cum perperam chrestianus pronuntiatur a vobis, nani nec nominis certa est notitia penes vos, de suavitate vel benignitate compositum est\ ed ancora: corrupte a vobis chrestiani pronuntiamur. E più tardi Lattanzio osserva che i pagani si ostinano a pronunziare il nome di Cristo : immutata littera Chrestum (3).
La cosa è tanto più considerevole in quanto che pare che al tempo di Tertulliano e Lattanzio i fedeli ripudiassero con indignazione di avere il nome derivato da Cresto. Invece nell’età più antica, quando l’appellativo di « cristiano » non era ancora reputato titolo di onore, essi accettavano senz’altro la denominazione, sia pure paganamente sarcastica, di « crestiani ». E ne fa fede il testo medesimo del Nuovo Testamento, il quale, in tutti e tre i luoghi dove occorre l’appellativo, reca, secondo la lezione del Codice sinaitico, specialmente autorevole per la corretta distinzione che suol fare tra le parole scritte con » piuttosto che con 1, xpviGTwcvoó;, XP'fl^Tiovóv, jrpiGT’.avóv. Federico Blass, l’insigne editore critico del testo degli Atti, accetta senz’altro questa lezione come originale, per i primi
(lì Tac., Ann., XV, 45.
(2) Plut., LXVIII, cod. 2, fol. 38 r., cól. II. Il codice in pergamena è del secolo xi; la e di chrestianos è stata leggermente erasa di seconda mano, in guisa da potersi leggere a prima vista christianos. Ma uno scambio non è possibile, perchè nel codice la scrizione re è affatto diversa dal gruppo ri, uno duciti calami, che si nota, ad esempio, nella seguente parola Chrislus. In margine, una mano più tarda, nota: chrisliani.
(3) Justin., Apol., I, 4; Tert., Apol., 3; Ad nat., I, 3 ; Lact., Dio., IV, 7. Si sarebbe tentati di credere che anche Giustino avesse scritto /pr-cviavoc.
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due casi (i). Ma la lezione della ia Lettera di Pietro, per il terzo caso, è ancora più degna di nota, perchè è insieme una conferma della lezione chrestianos del testo tacitiano con quel significato antitetico che sopra abbiamo messo in rilievo, e una conferma dell’origine romana dell’appellativo in questione. Poiché, se pure quella lettera non è di Pietro, ciò non di meno ha avuto origine in seno alla Chiesa romana, verso la fine del primo secolo, imperante Domiziano, ed è opera senza dubbio di un’alta autorità ecclesiastica, di qualche episcopo o presbitero che, in una chiesa la quale derivava da Pietro il suo valore, ben poteva assumersi il compito, secondo i metodi letterari in uso a quei tempi, di parlare in nome del grande apostolo. Ora l’autore della ia Lettera di Pietro, scrivendo ai fedeli dell’Asia Minore, mentre li esorta a perseverare nella fede e nella confessione di Cristo, fra le incombenti persecuzioni che loro tocca a soffrire, special-mente inculca loro : < Nessuno di voi sia punito come omicida, o ladro, o malfattore; ma se invece come crestiano, non se ne vergogni, ma con questo nome glorifichi Dio > (2). Non par di sentire in queste parole un’allusione all’antitesi di Tacito, secondo cui il volgo chiamava crestiani (gli « onesti » o i « probi ») coloro che al contrario erano odiati per i loro delitti (per Jlagitia invisos) ? I due scrittori erano con temporanei, e torse più d’una volta l’insigne storico s’incontrò per le vie dell’ Urbe, senza conoscerlo, con lo spregiato episcopo cristiano. Ma l’origine romana dell’epiteto è confermata dal fatto che, per mezzo dell’autore della i* Lettera di Pietro, esso per la prima volta entra nella letteratura cristiana del Nuovo Testamento come una novità, nella forma e nella pronunzia pagana del nome: crestiano. Gli Atti degli Apostoli sono infatti di origine, senza dubbio, posteriore alla Lettera.
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Messo pertanto in chiaro, che l’appellativo di cristiano, nella sua primitiva forma crestiano, nacque in Roma, ed era già in uso tra il pubblico dei gentili nell’anno 64, vien fatto di domandarsi e ricercare se sia possibile determinarne più da vicino l’origine. Ed a ciò, noi crediamo, soccorre ben a proposito il ricordo che, nella vita di Claudio, serba Suetonio, dicendo che Judaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit (3). Taluni autorevoli critici hanno voluto escludere in questo tratto un'allusione al Cristo, ammettendo invece che lo storico accenni a un Cresto qualsiasi vivente allora in Roma, circa il 50, e promotore di tumulti popolari giudaici (4); e in genere si nota una tendenza nei critici a non
(1) Blass, Ada Ap. (Lipsiae, 1896). Il famoso codice D reca la lezióne xpewT. In moltissime iscrizioni sepolcrali cristiane dei primi secoli in Asia Minore e in Sicilia, per esempio, s’incontra la lezione xpw.
(2) Z Pietro, IV, 15-16.
(3) Suet., Claud., 25; la lezione Chresto è assolutamente fuori di dubbio. Ho esaminato nella Mediceo-Laurenziana sei codici di Suetonio in pergamena dell'antico medioevo; i migliori: Plut , LVI, 39; LXVIII, 7, hanno chresto \ altri: Plut., LXIV, 9; XX, sin. 3, già S. C., hanno cherestro-, e uno, Plut., LXIV, 8, ha impulso rechesto, corretto da mano posteriore.
(4) Così, dopo il Graetz (III, 3, 449) ed altri, Kurth Linck, De antiquissimis veterani quae ad Jesum Nazarenum spectant. teslimoniis (Giessen, 1913), pag. 104-107.
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servirsi francamente, per la storia delle origini, del resto così oscure, del cristianesimo in Roma, del testo di Suetonio. Ma essi a parer nostro hanno torto; e noi al contrario sosteniamo che la frase di Suetonio è da riferire esclusiva-mente al Cristo, e contiene una preziosa testimonianza in proposito. Poiché ha da notarsi che nulla, nelle poche parole dello storico, indica o fa supporre che quel Cresto fosse un agitatore allora vivente ed operante in Roma; o non piuttosto un uomo intorno al quale, vivo o morto che fosse, da presso o da lungi, tra i giudei, si accendevano discussioni vivacissime, che solevano degenerare in tumulti fuor delle sinagoghe per le pubbliche strade di Roma. Che l’espulsione violenta e tumultuosa dei primi cristiani dalle sinagoghe fosse tra i giudei sistematica soluzione delle loro discussioni con i fedeli, risulta, fra gli altri, anche dal fatto narrato negli Atti a proposito del processo contro Paole, intentato alla presenza del proconsole Gallione in Corinto. Ma in ogni modo, considerato che, secondo i gentili a quel tempo, e pertanto secondo il linguaggio di Suetonio, motivo d’ogni discordia, in seno al giudaismo ellenistico, permanente in Roma, era non precisamente il Cristo, ma invece un ignoto Creste> dal cui nome i suoi partitanti erano detti crestiani\ non resta a nostro avviso dubbio di sorta, che la frase dello storico riferiscasi a una situazione fra giudei e cristiani in. Roma analoga a quella, raccontata negli Attit dei giudei di Corinto al tempo della permanenza di Paolo in quella città (i).
L’osservazione in contrario, portata in campo dal Linck, che Suetonio parli qui di soli giudei, mentre non avrebbe altrimenti taciuta l’espulsione eziandio dei cristiani, è superficiale ed inutile, perchè appunto a quel tempo la setta dei crestiani nell’opinione pùbblica non erasi ancora formata, e i cristiani erano dalle autorità trattati, come da Gallione in Corinto, quali più o meno tumultuanti giudei. Non a torto, perciò, lo storico cristiano Orosio (2), pur leggendo Chrestey riferisce senza dubitazione il passo di Suetonio al Cristo ed ai primi Cristiani.
Gli Atti degli Apostoli rappresentano dunque una tarda testimonianza, tra la fine del primo secolo ed i primi decenni del secondo, dell’origine e dell’uso primitivo del nome «cristiano», che non corrisponde alla genuina verità della storia. Nè questo appellativo potè nascere, verso l'anno 40, in Antiochia; nè, come riconosce anche l'Holtzmann (3), potè essere adoperato realmente, verso il 58, dal re giudeo Agrippa in presenza di Paolo. Nell’uno e nell’altro passo in cui la parola cristiani o cristiano (propriamente crestiani e crestianò) si incontra negli Atti, questo epiteto è adoperato personalmente dal redattore del libro, non già
(1) Sarebbe interessante sapere se Suetonio scrisse chresliani, la dove Ner. 16 narra: afflicli suppliciis christiani, genns hominum superstilionis novae et malefica*. Sfortunatamente i sei codici da me esaminati lasciano la questione irresoluta, perchè recano tutti la sigla monastica Xpiani. Ma la domanda può essere senza valore, perchè Suetonio scrisse le sue vite verso il 120, perciò dopo il rescritto di Traiano contro i christiani. Secondo il Linck, pag. 80, n. 2, anche Tacito dovè scrivere Chrestus. La supposizione non è necessaria, perchè lo storico potè benissimo far distinzione tra là pronunzia volgare chresliani e la sua Chrislus. Se anche gli Annali furono composti prima del rescritto di Traiano, non furono però pubblicati che verso il 1x5 o il 117.
SOros., Adv. pag. hist., VII, 6, 5.
I, 420.
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CRESTO E I CRESTIANJ
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riferito da documenti anteriori, e da lui è proiettato nel racconto dei fatti avvenuti un quaranta o sessantanni prima, e forse anche più. Il termine « crestiano » è ormai generale nell’uso dei gentili, a Roma come nell’Asia Minore — dove forse gli Ani degli Apostoli sono stati composti — e anche in Antiochia. I fedeli poi principiano ad accettarlo nella corretta pronunzia di « cristiano », e col vescovo Ignazio già formasi una parola nuova: ypccTM'viqzó; (1).
In ogni modo, però, bisogna riconoscere che gli Atti degli Apostoli se pure determinando l’origine dell'appellativo « cristiani » in Antiochia non sono storicamente esatti, tuttavia in sostanza vogliono porre in rilievo ed esprimono un fatto storicamente e profondamente vero. Com’è noto, l’epiteto di « nazorei » ha un carattere spiccatamente semitico, ed è di origine palestinése e propriamente giudaica. Si formò già nel primo tempo della chiesa di Gerusalemme, e rappresentò durante i primi decenni il nome del Cristianesimo e de' suoi fedeli, quando ancora agli occhi del mondo la nuova religione non si era liberata da’ suoi rapporti etnici, sociali e cultuali col giudaismo, ed appariva più o meno una setta giudaica. Questa liberazione del cristianesimo dal giudaismo, che produsse di suo l’origine del nome nuovo per designare una cosa nuova, avvenne principalmente durante la seconda metà del primo secolo, in seno alle chiese della gentilità, per dato e fatto della conversione dei gentili alla fede. Ma la cosa che necessitò l'apparizione del nome si era già nettamente affermata e delineata nella prima metà del secolo, in Antiochia e soprattutto per opera personale di Paolo, un dieci o dodici anni dopo la morte di Gesù. Paolo e i suoi convertiti erano detti nazorei\ ma i nazorei della chiesa madre di Gerusalemme li repudiavano nè volevano aver nulla di comune con loro. E l’autore degli Atti degli Apostoli riconosce che infatti essi erano qualche cos’altro: cristiani.
Salvatore Minocchi.
(1) Ign., Ad Polic., VII, 3.
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TRE FEDI
(MONTAIGNE - PASCAL - ALFRED DE VIGNY)
ON lungi dal tranquillo e vasto estuario della Garonna, fra la calma e solatia natura del Bordolese, nasce Michele Montaigne e cresce nel castello avito, in mezzo alle più dolci cure e alle più amorose sollecitudini paterne, quando tutta la Francia arde e si strugge in amare competizioni religiose.
Il padre di Michele, uscito dà una famiglia di commercianti, « prévôt », poi «jurât », poi « sous-maire » e infine sindaco di Bordeaux, senza essere un letterato, lui stesso, fu un fervente del rinascimento delle lettere ; egli volle che Michele
il più grande dei suoi cinque figli fosse educato alla scuola dell’antichità e lo attorniò di servi che non gli parlavano se non latino e di citazioni greche e latine ornò le vecchie mura e il soffitto della biblioteca, di quella tanto studiata biblioteca del figlio suo Michele (i).
Ed al figlio Michele, a quello che, solo, renderà immortale la potente e ricca famiglia degli Eyquem, rivolgerà tutte le cure perchè cresca in una vita dolce; perchè nella vita entri tranquillo e fiducioso, frammezzo alle procellose
(i) Su la biblioteca di M. si aggira, quasi unicamente, il profondo studio di Pierre Villey su Les sources et ¡‘évolution des Essais de Montaigne (Paris, Hachette, 1908, 2 vol. in 8°) e di questo libro parla M. Dell’Isola, in Etudes sur Montaigne (Pavia, Mattéi, 1913, 1 vol.) e talora sembra parlarne come d’una di quelle opere: «qui jettent une clarté singulière sur l’œuvre de Montaigne », e talora egli si domanda : < si la lecture des deux volumes de M. Villey a ajouté quelque chose à l’impression que l’on reporte de la lecture des «Essais ». Perii Dell’Isola il «Catalogue méthodique del Villey, ne donne pas l’impression de la vie». D’altra parte ammette che in esso « nous suivons pas à pas le travail du philosophe, nous expliquons l’origine et la génèse des idées qu’il a lancées dans le monde. Plus encore nous assistons à l’évolution des « Essais* ; nous saisissons dans l’œuvre la personnalité de Montaigne, qui perce même à travers l’impersonnalité des premiers essais; nous étudions en lui le courant moral et le courant logique, son doute et sa méthode, sa morale, tout ce qui constitue le penseur, tout ce qui se rapporté au philosophe et à l’homme ». Tutto ciò potrebbe convincere il Dell’Isola a non credere cosi morto il forte studio del Villey che rivela l’anima stessa del Montaigne. E se anche ciò non fòsse non se ne potrebbe far grave colpa al Villey. Si potrebbe, tutt’al più, ripètere questa autodifesa che di sè fa lo Strowski: «...Dans l’ouvrage que j’ai publié sur Montaigne j’ai essayé de retrouver Montaigne à travers son livre, et sa philosophie à travers sa personne. Ici, au contraire, je décris moins l’homme que le livre ; et je dis moins ce qu’est, dans son fond et dans sa réalité, la sagesse de Montaigne, que l’impression laissée par son livre sur ses contemporains. Si donc l’on m’opposait à moi-même, je répondrais que je n’ai pas changé d’opinion : j’ai Changé de point de vue ». Pascal et son temps. Paris, 1907, pag. 28, vol. x«r.
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TRE FEDI 2X5
tempeste politiche che imperversano su la Francia, su Bordeaux in special modo che il partito protestante agognava, per farne la capitale di un nuovo regno abbracciante la Navarra, il Béarn e la Guienna.
Il gentiluomo campagnuolo nel suo castello del Périgord cresce con lo spirito ornato ma non frenato, con l’anima « libera e tutta sua», lungi, qual novello Alcibiade, da menzogna a bassezza, da passioni e da irrequietezze. Ma la gran quistione del giorno, la quistione religiosa gli s’affaccia. E come non doveva affacciarsi a lui che in casa stessa aveva dei protestanti, un suo fratello ed una sua sorella, dei simpatizzanti per le idee della riforma, la mamma, e degli ebrei, fra i suoi ascendenti?
Ma quelle idee penetrano fino a lui attraverso due muraglie ugualmente potenti e se a lui s’affacciano, gli giungono pur sempre con quella luce fioca e temperata che lasciavano penetrare nello spirito suo la grande muraglia del suo castello e quella più grande ancora della filosofia stoica, di Catone, di Bruto, di Marco Aurelio, di Seneca, di Epitteto, specialmente, con quella di Plutarco, di leggèro sapóre stoico, e con quella anche di Cicerone (1).
Ed è grazie a queste interposte muraglie che rimase attaccato all’antica religione dei suoi ricchi avi.
Non lo fece con passione, non spinto da coercizione alcuna (e come parlare di coercizione nella dolce vita del Montaigne ?), ma lo fece per spirito d’ordine, come accettava le leggi del suo paese, come avrebbe accolto tutto quanto poteva concorrere alla pace e al bene suo e della sua patria (2).
Ritirato nella sua torre, nel fior degli anni, mentre tutti si agitano e combattono attorno a lui, se pur non è preciso dire che non si lamenti della sua solitudine (3), egli se ne distrae popolandola con le piacevoli fantasie dei suoi « Essais », e adattando reciprocamente i precetti antichi alla vita sua e questa a quelli.
E nella comunione dei filosofi egli diventa scettico e nella lontana contemplazione del sangue che scorre a rivi per le religiose competizioni egli diventa dubbioso e a così poche si riducono le sue credenze che lo si potrebbe chiamare incredulo se questa parola non implicasse una decisione impossibile in Montaigne, una rottura coi suoi famigliari, non consentita dall’indole bonaria del nobile campagnuolo. Egli « non è » neppur « sicuro del suo dubbio » (4) e « il bollire interno delle passioni era fuori della saggezza sua» (5).
(1) Vedi Strowski, Montaigne. Paris, Alcan, Collection des grands philosophes.
(2) Su l’attitudine religiosa del Montaigne molto s’è scritto.
Vedi Strowski, Saint François de Sales (introduzione^; Strowski, Montaigne (capitolo sul suo scetticismo) ; Bonnefon, Montaigne, l'homme et l'œuvre, Paris, 1893 ; Stapfer, Montaigne, Paris, 1895; Albalat, Le vrai Montaigne {.Journal des Débats, n. 5, nov. 1906); M. Dell’Isola, op. cit. Quest’ultimo studio ben riassume «l’idea religiosa nell’opera del Montaigne» ed è certo fra i migliori saggi, di limitata mole, che si possano leggere sul Montaigne. Ne potrà dare un’idea l’abbondanza delle citazioni che di esso noi faremo qui, a mo* di recensione.
(3) Come dice il Dell’Isola (pag. 25, op. cit.). Ricordiamo che M. stesso dice (II, 8) : «C’est le chagrin de la solitude qui m’a mis premièrement en teste cette resverie de me mesler d’escrire... ».
(4) Dell’Isola, op. cit., pag. 52.
(5) Farinelli, Dante e la Francia. Milano, 1908, vol. I, pag. 503.
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2x6 BILYCHNIS
Perciò egli praticherà la fede dei suoi antenati, ma esteriormente, ma solo per non procurarsi noie, per raggiungere l’ideale suo di vita tranquilla. Tentar nuove vie sarebbe pericoloso e perciò, dice egli « en toutes choses, sauf sim-plement aux mauvaises je fuy la nouvelleté ».
E quel fuggir la novità lo spinge ai riti religiosi. Lui, che non credeva alla vita futura, frequenta la messa, perchè Cicerone glielo prescrive nel suo Trattato delle leggi. Non che egli non sia sincero, ma sol perchè un gran signore che vuol saper vivere non deve cercare le ostilità.
Egli detesta ogni «bransle», ogni sconvolgimento che dovesse spingerlo a riflettere alle cose che fa per abitudine contratta di lunga mano e che allontanasse lo spirito suo, « esprit primesaultier >, da quel continuo interrogare il suo « io » così originale e così loquace.
« Quella religione che gli detta certe azioni della sua vita, egli l’ha trovata nella sua famiglia; suo padre, eccellente uomo, l’ha seguita; i suoi antenati se ne sono trovati contenti; la cambierà forse lui, Michele di Montaigne? No. Quando tutto si agita attorno a lui, egli rimane fedele ai principi dei suoi avi. Egli compie tutti i doveri del cristiano cattolico; va alla messa come alla confessione, si comunica quando sente l'appressarsi di un morbo che potrebbe rapirlo» (i). E, da grande signore qual era, durante il viaggio che quel curioso spirito fa attraverso l’Italia, si reca in pellegrinaggio a Loreto e ivi, nella cappella della Vergine, egli porta, quale divoto omaggio, un quadro con quattro figure d’argento raffiguranti la Vergine, lui, la sua moglie e la sua figlia. E nel suo Journal de voyage descrive a lungo quella cerimonia (voi. Il, pag. 241) e dai particolari si può vedere, come ben osserva il Dell’ Isola, che « egli desiderava seguire tutte le pratiche del cattolicismo, malgrado l’assoluta mancanza di fede che appare negli « Essais ».
Quello strano razionalismo, epicureo e cartesiano, che, passando per Molière e Cartesio, giungerà fino a Voltaire, mi spinse un giorno a ricercare fra le curiosità della « Santa Casa > di Loreto quel curioso ex-voto di un filosofo non cristiano. E, sebbene non mi sia occorso di rintracciarlo, asportato forse dalla furia depredatrice di quel Napoleone che trecent’anni dopo dettava, in Loreto, editti di tolleranza verso degli acattolici (2), pure non potevo fare a meno di pensare al pellegrinaggio che Cartesio farà anche lui alla Santa Casa, verso il 1624 o 1625.
Uomini entrambi spogli di ogni cattolica fede amano il vivere quieto e perciò uno si piega alle cerimonie di culto che trovò nel seno della sua famiglia e l’altro, spaventato dalla condanna di Galileo, distrugge il suo «Trattato del mondo >.
« Non dubitiamo neppure un istante che Montaigne abbia per scaltrezza portato quel manto di credente. La sua profonda sincerità ci assicura il contrario. Egli crede con tant'altri che una fede religiosa sia indispensabile nel mondo, e segue quella che trova tracciata presso di sè : egli non la discute, non ne ragiona, l’accetta senza giudicarla ; ma quella legge religiosa non influisce affatto sulla sua
(1) M. Dell’Isola, op. cit., pag. 53.
(2) I valdesi.
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*•»
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[I9I4-X]
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individualità di pensatore... Michele di Montaigne va alla messa, ma il filosofo non ricerca il significato del sacrificio che si compie davanti a lui... Pare che Io scetticismo di Montaigne e le sue pratiche di cristiano cattolico siano procedute sempre di comune accordo... Egli compie pacificamente i doveri che la Chiesa prescrive ai fedeli : nemico dichiarato di turbolenze e di noie, serba quella fórma di culto che i suoi antenati gli hanno tramandato, e ne compie gli imposti riti senza rumore e senza ribellione » (1). E così il ricco e nobile filosofo, bacierà la pantofola del papa con la stessa bonarietà con la quale viveva.
Che di questo ricevimento papale non si faccia cenno negli «Essais», pare soverchiamente stupire il dell'Isola (pag. 55). Io non ne farei caso, perchè il Montaigne degli « Essais » altrove volgeva lo sguardo e il pensiero suo e non si soffermava se non sulle azioni e sui fatti della sua vita dai quali poteva trarre luce a conoscenza dell’uman genere e ammaestramento nell’arte sua di saper vivere.
Inquanto alla discordanza fra la teoria e la pratica della fede del Montaigne, se pure la si può giustificare e se pure non è « enorme », pure esiste. La possiamo comprendere, molto perdonando allo studioso, la dobbiamo ammettere, anche sapendo che egli non è ateo, la dobbiamo, fors’anche, talora ammirare nel secolo suo tempestoso d’intolleranti raffiche religiose, ma ad altri tempera-menti sarebbe parsa strana e non degna di un forte uomo di carattere.
« « «
Tale essa parve a Biagio Pascal. Figlio, in molta parte, delle idee filosofiche di Montaigne che egli parafraserà non sempre « invano » come sosterrebbe il Dell'Isola (2), egli vide negli « Essais > la sua « Bibbia profana » (3).
Pascal porta Montaigne a Port-Royal non come egli fa per Epitteto, quale nemico da demolirsi, ma quale ausiliare. In Pascal, però, Montaigne si trasforma secondo l’indole stessa del solitario filosofo. Pascal si vale di Montaigne, lo trasforma e non è un plagiario come sosteneva Carlo Nodier in una sua tesi. Non si poteva in quel tempo fare di Montaigne alcun plagio all’insaputa del pubblico. Bacone e gli uomini del secolo xvn leggono assiduamente Montaigne. La gente si compiace nella sua compagnia ed è forse per questo che Pascal finisce cól combatterlo, violentemente. Quella « Bibbia profana » era pericolosa in mano ai profani e Pascal volle sostituirla con una Bibbia sacra, con « I Pensieri ».
Il metodo dei filosofi antichi, e conseguentemente quello di Montaigne, era diametralmente opposto allo spirito del cristianesimo; non così la psicologia. Pascal vi ha imparato questa ed ha trascurato e combattuto quella.
A Biagio Pascal che, appena diciottenne, spossato dall’eccessivo lavoro, sentiva i primi tormenti della malattia, molto diversa che al tranquillo Montaigne doveva apparire la vita.
Datosi alle scienze esatte, poi alla filosofia, egli si domandò e cercò invano
(1) Dell’Isola, op. cit., pag. 54.
(2) Pag. 29, op. cit.
(3) Stapfer, op. cit.
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in Epitteto e in Montaigne se veramente non vi fosse verità all’infuori della rivelazione. « Aspirava alla felicità: la reclamava; ne domandava la via ai filosofi; la cercava nella scienza, nell’esercizio del pensiero; la sognava almeno nella vita mondana, nei godimento delle passioni » (i).
Ma altrove, nella religione, credette di scorgerne la via e in quella s’incamminò col fervore dell’asceta e con una esaltazione quasi profetica. E per conseguire quella felicità nulla gli parve eccessivo, niente gli sembrò esagerato. Nè il martoriarsi le carni coi cilicio, nè il prolungato digiuno, nè la presenza continua di una reliquia sul suo corpo od anche d’un semplice foglio di carta cucito tra la fodera e il panno dei suoi umili indumenti. Per lui, come per San Francesco di Sales, si potrebbe ripetere con lo Strowski : <... Sacramenti, buone opere, e immagini, e santi, tutto è necessario all'unica cosa necessaria : tutto è necessario per amare» e per credere.
Come Montaigne, Pascal cominciò con la sua introspezione e si vide debole, imperfetto, sofferente, in balia a mille forze a lui avverse.
Nel suo cuore vide il vuoto, il nulla e la noia, il tedio mortale. E mentre talmente misero egli si sentiva di frónte all’universo, vide fra tante forze avverse una forza buona che nel deserto del mondo sembrava chiamarlo per salvare il meglio di lui, l'anima sua immortale (2). E, come nel dubbio se dovesse o no seguire le pratiche religiose, Montaigne preferì sottomettervisi perchè ciò accresceva la sua tranquillità terrena e perchè ciò gli sembrava più prudente e più utile, Pascal vide che gli conveniva di offrirsi alla « grazia » e tale egli la ricevette senza discuterla più, solo per sentirsi beato. E da questa beatitudine infiammato, egli si mise a predicarla ed ad esaltarla con ardore per la « salute » dell'uman genere. E passò così l’ultima parte della sua vita alla ricerca di un sistema che si risolve, in fondo, nella dimostrazione di una potente regola di morale, fondata sulla religione cristiana.
A quell’epoca non si pensava, neppure fra i «libertini», di poter separare la morale dalla religione. Non si poteva supporre che, abbandonata la fede, si potesse conservare la primitiva « religio », « la regola della condotta ». E quando, poco più di cent’anni dopo la morte di Pascal, nascerà il terzo fra gli uomini dalla più profonda vita interiore che illustrino la letteratura francese, sarà strano di vedere un fanciullo timido, iniziato dalla madre ammalata alla lettura della « Imitazione di Cristo » e della più mistica letteratura pascaliana, crescere fra stenti e dolori e giungere a poco a poco ad una forma di religione, spoglia, è vero, 'di tutto il soprannaturale, eppure tanto benefica che basterebbe a ridare alla società molte e molte creature per cui al naufragio della religione è seguito anche quello del senso morale.
(1) Lanson, Hist. de la lilt. fr., pag. 450.
(2) ... Pascal sombre et pieux me rend, pusillanime
II me donne la peur, et me laisse effaré.
Quand il porte au zénith et lâche dans l'abîme L'homme superbe et vain, misérable et sacré.
(Sully Prudhomme).
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*
* *
Moschettiere, poi tenente dei «gendarmi rossi », poi della «guardia a piedi », Alfredo de Vigny aveva provato quanto sa di sale la dura disciplina militare e quanto poco essa convenga a un meditativo, ad un solitario, a un uomo dalla « vita interiore » (1). A soli ventidue anni « colpito di polmonite cronica e di emotisi assai frequente» (come dice un rapporto del 1819), egli entra nella sua vita di dolori, consolato soltanto dalla continua meditazione poetica. Muore la madre sua, per lungo tempo amorosamente assistita dal poeta, mentre egli già sedeva al capezzale della moglie.
« Ahimè ! », scrive nel suo bellissimo Journal d’un poète y « sempre la stessa vita! Lascio le lacrime per la malattia e la malattia per le lacrime! ». E il suo Calvario durerà assai!
Nel 1860 è colpito da un cancro allo stomaco, costretto a vivere di latte ed acqua; nel ’62 muore la sua compagna, che non gli potè dare la gioia della paternità, che non seppe mai comprenderlo e che, con la sua fredda natura nordica, contribuì moltissimo al progressivo isolamento del poeta (2).
Eppure egli l’amava, come aveva amato la madre sua (3) ed i suoi cari amici, Brizeux e Nodier specialmente.
Ma tutte queste sofferenze che sopportava con stoicismo, « stoïque fierté » (4), tracciavano un profondo solco nell'animo suo e la sua vita, che gli dovette sembrare vita di divertimento e di mondana gloria quando abbracciò la carriera delle armi, che gli parve vita di lusso quando sposò Miss Lydia Bunbury, credendo di sposare una dote, gli apparve allora aspra e difficile e risolvette di viverla sorretto dalla gioia e dalla forza del dovere compiuto lottando con onore.
La religione del dovere, per lui religione dell’onore, diventerà la sola fede che gli sarà di sostegno. Più volte i divoti che l’attorniavano, il pastore ginevrino Bungener, la protestante Camilla Maunoir, la cattolica Luisa Edmea LaChaud, il P. Gratry e un altro prete, «cominciarono», come egli dice, «l’assedio della sua anima ». Ma Vigny giudicava indiscreto il loro zelo ed affermava che in esso « non entravano abbastanza idee sane e veramente gravi >.
E di idee gravi era formata la sua fede. Giovane àncora, ai balli della principessa di Béthune, sfugge alla festa per pensare a quanto v’ha d’effimero nella giovinezza e nella bellézza, ed esclama:
Vers les astres mon œil se lève:
Mais il y voit pendre le glaive De l’antique fatalité.
(j) Nel centenario della morte del Vigny, testé celebrato, sono apparse pubblicazioni che illuminano di una nuova intensa luce questo scrittore che nella «trinità romantica», formava, con Vittor Hugo e De Musset, lo spirito pensatore della scuola. Notiamo specialmente: E. Dupuy, La vie et l’œuvre d'A. de Vigny (3 vol.); A. Dupouy, A. de Vigny (1 voi.); Léon Séché, A. de Vigny.
(2) Di lei avrebbe potuto ripetere col Bouilhet :
... comme un air qui sonne aux bois creux des guitares. J’ai fait chanter mon rêve au vide de ton cœur.
(3) Leggere nel Journal d’un poète il ricordo dell’agonia della madre. Vigny non scrisse nulla di più bello. Leggere la Ietterà che scrive alla signora Du Plessis su la morte della moglie.
(4) La mort du loup.
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L’antico fato pesa sull’umanità che soffre, che interroga ed accusa, e che cerca in sé, nella voluttà e nella scienza dei rimedi alla sua miseria («Eloa»). E più d’ogni altro poeta francese egli s’accosta al nostro Leopardi (i) laddove vede la natura « matrigna » dell'uomo, la natura insensibile («le sommeil de la terre») ai mali di un essere cosi debole eppur così grande. E in questa indagine sulla infermità umana (« débiles que nous sommes »), egli si fa pascaliano e pare che, parlando dell’uomo che soffre allorché dovrebbe regnare, egli si fàccia eco poetica delle umili parole del Pascal : « ... Sono miserie da gran signore, miserie da re spossessato >.
Fin d'allora «Vigny non era più cattolico. Era ancora cristiano? Sì, per quanto lo si può essere personificando l’umanità in Cristo». In lui si trova lo spirito cristiano privo della fede. Colui che, dopo avere scritto il « Monte degli Ulivi», vi aggiunse, un anno prima di morire, la strofa del « Silenzio », quello il cui « Giornale » ha così nettamente rivelato la sua perpetua insurrezione contro Dio; colui che l’empietà di Don Giovanni seduceva, che dava ragione a Caino contro Geova, che pensava al suicidio delle creature più elette per punire il Creatore, colui può ben essere con Pascal contro i miseri « trastulli » degli uomini, contro il loro orgoglio, l’illusione della loro felicità e la vanità della loro ragione ; egli ritorna nettamente fra i « libertini » quando si tratta di pregare e di credere > (2).
Ed egli non prega:
... Gémir, pleurer, prier est également lâche, ed egli non crede se non in un
... Empereur toul-puissanl qui voit d’en haut les choses, in un essere, nel Destino, che non s’occupa dell’uomo.
Eppure quell’incredulo aveva l’anima dell’apostolo (« Moïse »). E in quel «naufragio universale delle credenze» bandisce all’uomo la sua ultima religione: la religione ^dell’onore.
Gli uomini sono in preda al Destino crudele (3), ma essi non devono essere deboli, devono «alzarsi contro lui e plasmarlo secondo il loro volere». E se la loro sconfìtta fosse il termine inevitabile di quella lotta ineguale, essa sarebbe pur sempre uno spettacolo bello e salutare.
... Fais énergiquement ta longue et lourde fâche Dans la voie où le sort a voulu te placer. Puis, après, comme moi, souffre fit meurs sans parler.
E’ bello lottare senza speranza di ricompensa, per nulla, per l’onore. Per il dovere, avrebbe detto un filosofo, ma per lui, poeta, per lui nobile gentiluomo della Beauce, l’onore è la poesia del dovere.
La pietà si sveglia per questa religione dell’onore, « religione maschia, senza simboli e senza immagini, senza dogmi e senza cerimonie»; religione che può
Si) Vedi l’ormai famoso studio di M. Serban sul Leopardi.
2) Dupouy, op. cit., pag. 64.
3) Prima di Victor Hugo egli ha innalzato un tempio a l’’ANArKH.
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servire di valido appoggio ai forti, agli eletti, soltanto, e non al común volgo. E questa religione confina con quella dell'abnegazione, e questa col sacrificio di sé. Il poeta s’innalza giorno dopo giorno verso quella « storica fierezza » che è la rovina dell’ « io », quella rovina che egli ha fatto così ben valere nella sua vita di «sacrifici modesti, silenziosi, oscuri, dimenticati», e così egli «fa energicamente il suo lungo e penoso lavoro » sorretto dall’amore del prossimo. L’amore è l’ausiliare dell’onore. Egli ama tutti gli uomini e li ama individualmente perchè sono delle creature effimere:
Aimez ce que jamais on ne verra deux fois!
perché sono delle vittime, perchè soffrono:
J'aime la majesté des souffrances humaines.
E, a sessantanni, egli scriverà ancora: «Io do vita e coraggio a tutto quanto mi circonda, vi consumo tutto quel che c'è di gioia naturale e primitiva nel mio carattere ». E lui, che fu detto stoico, insensibile ed « impassibile », scriverà, nell’estasi della sua fede, nella gioia del dovere compiuto:
Sacrifice, toi seul, peut-être, es la vertu!
Silvio Pons.
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ANTONIO CARACCIOLO
VESCOVO DI TROYES
I.
LA VITA
1. LA FAMIGLIA.
Antonio Caracciolo, Principe di Melfi, che nel secolo xvi fu vescovo di Troyes in Champagne, appartenne ad una delle più antiche ed illustri famiglie del regno di Napoli.
Suo padre, Messer Giovanni o Ser Gianni Caracciolo (i) difese eroicamente la piccola città di Melfi, di cui era signore, contro i ripetuti assalti del generale Lautrec durante la invasione francese dell’anno 1528. Ma, mancate le vettovaglie e le munizioni, dovette alla fine arrendersi a discrezione del nemico, che, ingeneroso ed inumano coi vinti, s’abbandonò a violenze inaudite.
Spogliato de’ suoi feudi, forse i più ricchi di tutto il reame — che furono dati, come premio del tradimento, all’ammiraglio genovese Andrea Doria — il Caracciolo fu per lungo tempo tenuto prigione ed ostaggio al campo francese con tutta la sua famiglia.
Ogni tentativo di riscatto falli, perchè il principe d’Orange, supremo comandante di parte imperiale, non volle e non potè conce(1) Su Giovanni Caracciolo, Principe di Melfi, e sulla sua famiglia cft. : Paolo Giovio, Dell"Istorie del suo tempo IfxoÀ. di Lod. Domknichi), Venezia, 1608,11,48-50; Frantomi, Oeuvres complètes (ediz. Lalannk in Soc. d. VHìst. d. Frani), I, 158, 176-177; 1!, »8, 226-339; V*’ 272 ■ V|*’ 6x, 233-34; Antonio Tbrminio os' Contorsi, A pologia di tre seggi illustri di Napoli. Venezia, 1581, p. 40 e seg. ; François dx Boyvin Sikur Du Villars, Mémoires sur les guerres dItalie, Parigi, 1629, p. X9-23; Ansklmk, ¡fisi, génial, Parigi, 1733, VII, 192 ; Mariano D'Avala, Giovanni Caracciolo in Areh. Stor. ¡tal., s. Ili, t. XV, p. 268-279, a. 1872 ; Litta, Famiglie Celebri Italiane-, s. II, fase. XXIV ; E. Picot, Les Italiens en France aux /6' siècle in Bull, liai., I. 107-108, III, 26, 33; Romikr, Les origines des guerres de Religion. Paris, 19x3. p. 170-171. Cfr. inoltre i dizionari di Baylk, Morbry, Marchand, ecc., articolo Caracciolo.
dere alcun aiuto di danaro al suo infelice capitano. Il quale, non potendo altrimenti riavere la libertà, finì per cedere alle lusinghe ed alle promesse del Lautrec e passare dalla parte francese, che aveva già fieramente avversata, ma che doveva poi fedelissimamente servire per tutta la vita.
Accettò pertanto il comando di un esercito francese, alla testa del quale, iniziando una serie di fatti fortunosi, assediò Gaeta, percorse l’Abruzzo e l’Umbria, espugnò Molfetta e difese Barletta, finché il trattato di Cambrai (1529) non pose fine a tante guerre ed a tante rovine.
Ma la pace, la quale, sembra, avrebbe dovuto restituire il principe melfitano nei suoi feudi — quale giusta ricompensa del suo valore e doveroso castigo del nuovo tradimento del Doria — spense invece per lui ogni speranza e lo pose a fronte di quest’amara alternativa: la povertà o l’esilio. Scelse l’esilio; e con tutta la famiglia passò alla corte di Francia, dove gli fu assegnata dal re un’annua pensione (i).
Riaccesasi, dòpo breve tregua, la guerra tra Francia e Impero, lo troviamo al servizio del nuovo re combattere eroicamente in Provenza e sotto le mura della fortezza di Lussemburgo, ottenendo in premio del suo valore la signoria di parecchie terre (2), che non valsero però a compensare il sacrificio dei beni paterni e l’abbandono della patria. Nel 1544, col duca di Montpensier, difese la citta di Troyes, di
(1) Fu data a lui una pensione di xo.ooo libbre ed a ciascuno dei suoi figli una di 600 libbre: Catalog. des Actes de Francois I, II, n. 413$, $ox6, 6619, 732X ; III, n. 8x73, 9436; Picot, l. c.
(fi) Sono: Romorantin, Nogent, Brie-Comte Robert, Mar tigucs, Vitry aux Logcs, Chateauneuf sur Loirè.
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cui suo figlio doveva, otto anni più tardi, rivestire la suprema carica ecclesiastica; e fu eletto pel suo valore, dopo la pace di Crépy, maresciallo del regno (4 dicembre 1544).
L’anno seguente poi, quasi ad attenuare il doloroso distacco della patria, il re lo inviò governatore in Piemonte; dove si acquistò fama di saggio e prudente capitano, ponendo freno alla licenza ed alle violenze delle milizie francesi. Ma nel 1550 sia che, affranto dai disagi della vita militare o dal peso degli anni, avesse egli stesso sollecitato il ritorno, sia che fosse stato richiamato per piacere ai capricci dell’onnipotente Diana di Poitiers (i), mentre si avviava alla volta di Francia, fu colto a Susa da un grave malore che in pochi dì lo trasse alla morte.
Le sue spoglie furono trasportate a Torino e sepolte con grande pompa nella chiesa di San Domenico.
Così vecchio ed esangue la terra d’ Italia raccoglieva per sempre questo figlio glorioso, che le inique sorti delle armi avevano cacciato, ancor giovane ed intrepido capitano, al di là delle Alpi.
In esilio alla corte di Francia, il Caracciolo fu seguito da tutta la sua famiglia : quattro femmine —- Isabella, Susanna (2), Camilla, Cornelia — e tre maschi — Traiano, Giulio ed Antonio — natigli dai due successivi matrimoni con Giovanna d’Acquayiva, figlia di Giov. Francesco, marchese di Bi-tonto; e con Eleonora di San Severino dei Principi di Salerno (3).
Isabella e Susanna andarono spose a due nobili napoletani, esuli e, come il padre, al servizio di Francia : la prima ad Antonio d’A-quino, marchese di Corato, naturalizzato francese colla moglie nel 1550 (t a Chateauneuf nel 1555); la seconda a Francesco d’Acquavi va, duca ¿’Atri, al quale Enrico II diede nel 1557 la signoria di Bois e Francesco II nel 1560 quella di Brie - Conte - Robert. Camilla sposò Claudio,-barone di Pestels (26 maggio 1547): Cornelia, detta principessa di Melfi, sembra non aver preso marito, e morì nel 1586 nel suo feudo di Chateauneuf avuto per decretò reale nel 1568.
Dei tre figli : Traiano, marchese di Atella, morì nel 1544 combattendo tra le file francesi
(1) Du VlLLARS, z. <?.
(2) Susanna è secondo il Litta detta Camilla dagli autori italiani e con essa, confusa.
(3) Alcuni genealogisti citano come figli di Giov. Caracciolo due altri che molto probabilmente appartengono ad un altro ramo: Afaria, la quale sposò Gian Vincenzo di Capua, e Oliviero, che sposò Laura di Bartolomeo del Tufo.
nella battaglia di Ceresole ; Giulio o Giulio Cesare, pure marchese d’Atella, fu fatto luogotenente ¿’una compagnia di ottanta lande della Guardia del re; Antonio, il più noto, fu vescovo di Troyes e forma l’oggetto speciale del nostro studio (1).
2. LA GIOVINEZZA A CORTE.
Nacque nei feudi paterni, probabilmente a Melfi, nel secondo decennio del secolo. Era ancora adolescente, quando col padre e colla famiglia si trasferì in Francia alla corte di Francesco I e di Margherita di Navarra.
D’ingegno vivace (2), incline al culto delie lettere per natura e per sangue — chè suo padre ebbe fama di colto ed erudito — avvezzo agli splendori di una corte, agli usi di una società raffinata e galante, alla domestichezza di spiriti eletti, il giovane Antonio non dovette sentire troppo amaro il distacco dalla patria.
A Parigi trovò infatti — sebbene più raffinata, più varia e più cosmopolita — una soli) Su Antonio Caracciolo, oltre le opere già citato a pag. 1, cfr. PiTKOU, Storia ms. dell'introduzione della Riforma a Tropee (Bibl. de la Soc. du Prot. Frane., Parigi); Th6od. de B*zk, Hist. Eccles. des Égli*. Rifar, de Frante, Parigi, 1889, I, 101, 849; II, 191-X92, 318; Opera Calvìni (ediz. Baux, Cunitz e Rsuss), XVI, 482; XIX, 64, xoo-iox, 109-1x0, xao, x$8, 182 ; Santa Croce (Cardinale di). Lettres écrites pendant sa nonciature en Franee au cardinal Borromìe, La Haye, »727, p. 68, 71, 20$; LanGVST, Arcana secali decimi serti: Epìstolae Secretar ad Principem suum augusta/» Sax. ducei». Halae, 1699, lib. Il, »49, 152, 159, 184; Mémoires de Condì ou Recueil pour servir à Phist. de Franee. Londra, X743, IV, x30-13* ; V, 47; Caxuzat, Promptuarium Sacrarnm antiqui fatum Tricassinae diocesi*. Augusiae Trecorum, xóxo, p. 249 c scg- ; PaSQUIer, Oeuvre*. Amsterdam, 1723 ; II, 88 ; Du Brbuil, Le Théâtre des Antiquités de Paris. Parigi, 1639, p. 321; Paolo Sarpi, Histoire du Concile de Trente trad. par Axblot de la Houssave avec remarques histor. polit, et moral, Amsterdam, 1699, p. 67X ; Martbnb et Durand, Feterum Scriptorum Monumentorum... amplìssima Collectio, Parigi, 1729, I, col. 1615-16; De la Croix, Du Maine et Du Verdier, Bibliothèques Françaises. Parigi, 1772, L 3°. Durin, Bibl. des Auteurs Ecelesiast. du *(p siècle, pana II, t. I, 552 ; Cantò, Gli eretici d'Italia, III, 12-X3; Haag et Bordier, Franee Protestante, 2* ediz., III. 741 e seg. È quest'ultimo il lavoro migliore che ab biamo sul Caracciolo; ma aneli'esso è molto lacunoso.
(2) Il PiTHOU ha lasciato del Caracciolo, adulto c vescovo, questo bellissimo ritratto: «Il estoit doue d'une mémoire singulière, prononçant le lendemain mot à mot tout Ce qu'il avait lu le jour précédent es bons livres des-quelz il s’aidoit. Son parler estoit doux et attrayant, sa diction propre et pure, sa langue diserte, ayant un grand artifice et véhémence à persuader et attirer les personnes, avec une grâce singulière de se bien expliquer et faire entendre ». France, Prot., Z. c. Anche il De Tkou lo dice ■ vir literis non mediocriter ornalu* ».
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cietà pressoché uguale a quella che il mecenatismo di suo padre, nei giorni di maggior fortuna, aveva accolto nelle sontuose sale de) palazzo di Melfi — la « Piccola Napoli » come veniva chiamata — tra le rare finezze delle tappezzerie e degli arazzi, e gli splendori di un’argenteria quasi regale (x). Trionfava allora anche al di là delle Alpi il Rinascimento italiano. Le corti di Francesco I e di Margherita di Navarra ospitavano parecchi eletti ingegni d’Italia; le arti e le lettere vi fiorivano con impronta spiccatamente italiana ; ed ogni crotigiano si piccava, come nelle più umili corti d’Italia, di essere od almeno di apparire poeta e uomo di lettere.
I primi anni di vita parigina trascorsero per il giovane Caracciolo parte alla corte e parte alla Sorbona (2), tra lo studio ed il culto delle Muse, e le feste e gl’intrighi di corte; tra gli esercizi militari e le bizzarrie enciclopediche dei pedagoghi; tra la mistica lettura dei libri sacri e dei Padri della Chiesa, e la folle adorazione del Petrarca e degli infiniti petrarcheggiami di quel secolo.
Vorremmo conoscere più intimamente e più minutamente i suoi studi, le sue occupazioni, i suoi costumi soprattutto, che ci aiuterebbero a meglio intendere lo strano rivolgimento che stava per compiersi nell’animo di lui.
Ma i suoi biografi sorvolano su questo momento della sua vita; e solo poche parole, scritte da lui medesimo più tardi, possono gettarvi un lieve raggio di luce.
Anch'egli, seguendo l’andazzo del tempo e del luogo, e secondando la naturale inclinazione dell’animo, si consacrò ben presto al culto delle Muse, « cantando d’amore e di altre cose profane», spasimando per la sua donna gentile e crudele, per la bellezza ed il piacere che« friggono ed avvelenano il cuore », colla speranza che « amando e scrivendo » potesse un giorno «d’un verde allor aver cinta la fronte». Forse non andiamo errati supponendo che parte delle sue poesie profane fossero indirizzate a glorificare la bellezza della Diva di Poitiers (3), verso cui, molti anni dopo- serbava ancora tale devozione da tradire per lei i più sacri doveri di figlio. Ma fortunatamente queste o ben più gravi follie amorose non gl’impedirono di avere un sentimento di grande ammirazione e di purissimo affetto per un’altra donna da quella ben disti) Tkrmimo, /. c.
W LlTTA, Z. C.
(3) Famosa cortigiana de! tempo di Francesco I c di Enrico II, nota per la sua bellezza ed i suoi intrighi. Fu cantata da molti poeti e creata duchessa di Valentinois nel 1548 (n. 1499. f 23 aprile 1566).
simile di mente e di cuore, cioè per Margherita di Navarra, la quale sembra aver circondato il figlio della stessa benevolenza dimostrata al padre (x),ed aver prodotto sull’animo di lui, in un dato momento, un grande e benefico effetto (2).
3. LA CONVERSIONE
ED I PRIMI ANNI DI VITA MONASTICA
I biografi del Caracciolo — antichi e moderni — narrano ch’egli, dopo alcuni anni di vita spensierata e cortigiana, fastidito delle pompe e de) lusso, ma soprattutto ferito nel suo amor proprio di nobile e di principe dalla ristrettezza de’ mezzi che non gli consentiva di gareggiare coi più eletti cavalieri della corte e di soddisfare la sua giusta ambizione, si ritraesse nella solitudine del convento di Saint-Baume in Provenza.
Noi non vogliamo disconoscere i gravi e plausibili motivi addotti dai biografi per spiegare la sua repentina conversione ; ma, per parte nostra, crediamo eh’essi non siano nè sufficienti nè completi. Il dramma, che si svolse nell’animo suo e lo portò d’un tratto sulla dura via della penitenza e del sacrificio, dovette essere assai più complesso e tormentoso: non fu solo un atto di dispetto o di momentaneo capriccio causato dall’ambizione insoddisfatta, ma ebbe pur cause religiose e spirituali. Oltre ad un intrigo di corte, di cui potè essere vittima, oltre ad un violento amore punto o mal corrisposto che lo nauseò dèlia vita mondana e cortigiana, ci fu sull’animo suo una ripercussione della conversione ascetica di Margherita di Navarra sua protettrice, e l'influsso od almeno lo stimolo delle nuove dottrine dei riformatori protestanti.
Turbato e fermato nella rapida china della vita mondana dalle voci di coloro che predicavano nuova santità di vita e, con nuove dottrine agitando il pensiero religioso, richiamavano la società al più austero culto delle cose divine ; stimolato dalle conversazioni della devota Principessa o dalle conversioni di alcuni suoi amici; desiderò anch’egli rinunziare
(’) Brantòmb, 4»/. cit., Il, 232-33, narra che la duchessa Margherita onorò grandemente il principe Caracciolo c cercò ogni modo per alleviargli il dolore dell’esilio, invitandolo spesso a cena cd a pranzo con lei, facendolo sedere, in segno di speciale affetto, alla sua seconda tavola. Spesso anzi gli mandava piatti prelibati perche ne gustasse per amor di lei.
.(’) Dell'affetto cd intimità del giovane Caracciolo colla principessa è prova la sua nomina ad abate di S. Vittore, dovuta ad intercessione di lei, e la canzone ch'egli compose alla sua morte. Egli appartenne senza dubbio al cenacolo spirituale c poetico della Regina di Navarra.
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ai beni terreni e fallaci per conseguire quelli celesti ed eterni. Ma, aborrendo dal gettarsi o per timore o per naturale avversione nella aperta eresia, piena la mente della lettura di San Girolamo e dei Padri della Chiesa, preferì appartarsi dal mondo e rinchiudersi in un monastero « illudendosi che soltanto tra monaci potesse esistere la vera perfezione cristiana» (1).
Cosi, disilluso ed illuso ad un tempo, passò dalla fastosa corte di Parigi alla fredda solitudine di Saint-Baume, da una vita di leggerezza e di piaceri ad una vita di penitenza e di sacrifìcio, che alla sua mente appariva ideale, ma per la quale l’animo suo non era nato od almeno, non era ancora preparato. E’ naturale pertanto che una nuova delusione lo aspettasse. Il cuore, che la fredda teologia patristica non poteva scuotere profondamente nè mutare, e che per natura anelava alla gloria ed al dominio, si trovò presto a disagio nella stretta cerchia di un monastero povero e solitario e non tardò a rimpiangere i beni e le gioie della vita passata. E la mente stessa, agitata dai primi annunzi delle nuove dottrine, non si quetò più nella vecchia teologia patristica o nelle fredde allegorie de’ mistici medioevali, ma si tese ad ascoltar l’eco più vitale e fecondo delle dottrine protestanti che per più vie penetrava entro le mura dei conventi.
Spinto dalla sua naturale ambizione, parendogli troppo angusto campo ad essa il povero convento della Provenza, passò, dopo alcuni anni, alla Certosa di Parigi, e di qui, senza averne ultimato il noviziato, sempre insoddisfatto e cupido di più alti fastigi, all’Abazia di San Vittore, dove fu ricevuto ad istanza della pietosa Margherita di Navarra. Non tardò a diventarne canonico regolare (2), poi abate nel 1542, alla morte del Padre Bordier.
Ma l’onore ed il potere, dando libero sfogo all’ambizione fino allora mal repressa sotto l’umile manto di frate, distrussero presto in lui le tracce delle austere penitenze del romitaggio e lo allettarono a cercare nella vita ecclesiastica gli onori, la gloria, la potenza, che la società mondana gli aveva negate.
4. L’ABAZIATO DI S. VITTORE.
Il convento di San Vittorei situato alle porte di Parigi, popolato di monaci nobili e ricchi, opulento di redditi, pareva fatto apposta per
indurre a vita di mollezza e di dissoluzione. Onde non ci stupiscono queste parole che leggiamo in Pasquier : Appena fu fatto abate, il Caracciolo condusse una vita molto dissoluta;' tanto più che questo concorda colla testimonianza di Teodoro di Beza è di altri contemporanei,- ed è confermato anche dall’analisi delie poesie e delle lettere del Caracciolo stesso.
Sete di benessere e di ricchezze lo fece quasi subito abusare del suo potere. Infatti, avendo voluto dividere i ricchi redditi del convento in redditi per la mensa abbaziale ed in redditi per la mensa conventuale, scontentò i monaci, i quali, credendosi lesi nei loro diritti, non cessarono di agitarsi or più or meno vivacemente finché Enrico II non ebbe abolita tale partizione sótto pretesto che fosse contraria agli usi della chiesa gallicana (x).
Principe mondano più che umile prelato portava lunga la barba, vestiva da laico e cingeva la spada al fianco.
Una tradizione, ben nota, racconta che nel 1546, allorquando Carlo V si avanzò minaccioso fin quasi sotto le mura di Parigi, il Caracciolo contribuisse alla difesa della città raccogliendo due strani eserciti di scolari e di monaci : in tutto settemila persone. Solo a negare l’autenticità della tradizione è il Fab-bris (2), il quale riferisce il bel gesto al fratello Giulio Cesare, capitano della Guardia del re. Ma noi, dato il carattere ed i costumi dell’abate, continuiamo a credere che alla tradizione non si possa negare assolutamente ogni fede, perchè se, da un lato, può parere più attendibile attribuire l’organizzazione dell’esercito di scolari a Giulio Cesare, sembra, d’altra parte, più naturale riferire la formazione dell’esercito fratesco ad un monaco stesso: l’abate Caracciolo.
Nè è questo il solo atto di attività profana, di cui egli avrebbe dato prova in questo lasso di tempo. Le relazioni con la corte, bruscamente interrotte dalla conversione e dal romitaggio, poi a poco a poco riannodate, finirono per gettare tra le sacre mura dell’abazia di San Vittore l’eco profana di intrighi cortigiani; ed il Caracciolo, troppo debole d’animo, ne fu facile preda.
Vuoisi che per piacere a Diana di Poitiers, la quale, vinta la sua rivale, la duchessa di Estampes, era diventata onnipotente, l’abate Caracciolo, che allora trovavasi a corte, ac(x) V. la sua epistola del s6 febbraio 1563 in Mfmoiree de Condì, V, 47.
(a) Fece la sua professione la vigilia di Natale dell'anno X538.
(1) De Breuil, Z. c. Cantò, Z. c. I documenti, nssa numerosi, della lite tra il Caracciolo ed i suoi monaci sono conservati nella Bibl. nazionale di Parigi.
(2) LlTTA, Z. C.
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Gettasse di intercedere presso il padre perchè rassegnasse il governo del Piemonte nelle mani dell’ambizioso maresciallo Brissac, favorito di lei (1). Il colpo riuscì, sia che il nobile principe melfitano già sentisse il peso degli anni e della carica, sia che giudicasse inutile ogni resistenza o cedesse alle promesse di ricompensa fatte a lui ed al figlio (2). Infatti non è improbabile che — se cosi stanno le cose — appunto in quest’occasione fosse promesso e assegnato all’abate Caracciolo il vescovato di Saint-Jean de Mauriennè, che fin dal 1544 era vacante e ch’egli rèsse, più nominalmente che di fatto, sino all’anno 1551 (3).
5. OCCUPAZIONI LETTERARIE E TENDENZE PROTESTANTI
Ma quantunque intrigato in questi ed in altri affari mondani, il Caracciolo non tralasciò punto gli studi prediletti nè il culto delle Muse.
Di ciò fanno fede il Mirouer de la vraye religion (Paris, S. de Colines, 1544, in-80, 34 ff.), la Traduzione italiana dei Salmi, composti durante l’abaziato di San Vittore, e non poche delle sue Rime Sacre.
Tra le quali è qui degna' d’essere riferita, sebbene quasi priva di valore letterario, la descrizione che della sua vita egli compose allora (1548-1551), sotto forma di capitolo, per Diana di POitiers, duchessa di Valentinois.
ALLA DUCHESSA DI VALENTINOIS.
Perchè alle volte l’Eccellenza vostra
Di saper quel ch’io faccia e quel ch’io dica, Come a me par, d’aver piacer dimostra,
Spinta da quella parentela antica, Da quella gentilezza e cortesia, Che la fé’ sempre del mio onore amica,
<i) Du Villars, l. c., afferma che l’abate Caracciolo fece a questo fine un viaggio in Piemonte presso il padre.
Co) Ibidbm: «Promettant (Diane de Poitiers) a ces fins fiar lettres de sa main et au fière et au fils de leur mo-yenner toute la recognoìssaxee et faveur qui devaient eslre esfierèes de si genereux Prince qui est le Roy ». Anche il re quando seppe l’esito delle trattative avviate dalla sua favorita se ne compiacque e per bocca del suo segretario Peliston rinnovò le sue promesse di ricompensa promet* tendo al padre il castello di Romorantin coi relativi redditi, ed al figlio dei benefici.
(3) Il Gams, Séries Efiitcofiorum (Ratisbonae, 1873) non io. cita tra i vescovi di Moriana. Tuttavia, che almeno no-minalmente sia stato tale, lo prova il titolo di vescovo di Moriana messo in fronte della sua traduzione italiana dei Salmi.
Qui leggerà, piacendole, qual sia, Lontana dalla plebe e dal rumore, La felice e tranquilla vita mia.
Subito ch’esce dal suo albergo fuorc
Il biondo Apollo sul carro che suole Esser guidato e condotto dall’Ore, Mi levo a salutar l’eterno sole,
E per tosto ottener ciò ch’io domando, Drizzo a Cristo la mente e le parole.
L’anima peccatrice raccomando
Alla clemenza sua, pentito affatto D’ogni peccato e d’ogni error nefando;
E prometto osservar la legge e il patto Del Testamento suo santo e beato, Serbando il cuore immaculato c intatto.
Fregolo ch'abbia la sua grazia allato, Che mi conduca per la strada dritta Lungo dalla superbia e dal peccato;;
Che la sua legge io porti impressa e scritta In mezzo della mente, e di saetta Di vero e puro amor l'alma trafitta.
Perchè la fede sincera e perfetta Sola penetra il cielo e placa in tutto Di Dio la formidabile vendetta, Ed imbellisce il volto oscuro e brutto
Del vecchio Adamo e spoglia Calme e priva D’ogni manto lugubre c d’ogni lutto.
La vera fede al terzo cielo arriva,
Dove regna d’amore il gran Pianeta, Che fa per grazia l’alma bella e viva.
Finita la preghiera mia segreta, A legger i Profeti e il Vangelo Volgo la mente mia tranquilla e lieta.
Mi giova di veder squarciato il velo, Ch’a Mosè ricopria la bella .fronte, Quel che celava il tempio e quel che il cielo;
E che il benigno Padre sopra il Monte, Ad offrire il Figliuol per salvar noi Da morte eterna, ebbe le man sì pronteM’allegro di veder eh’ Isaco poi Ci benedica sotto all’altrui vesta E che n’accetti per eredi suoi ;
E che l’odor di Cristo abbia cotesta
Virtù nella sua chiesa, che non sia Di lei la puzza al Creator molesta.
M’allegro che trovata abbia la via Giuda di vender Giosefo in Egitto, Per salvar noi di fame orrenda e ria;
E veder Faraon, pien di despitto, Nel battesmo affogato e noi per l’onda Alla promessa patria andarne dritto.
M'allegro ch’ogni cosa corrisponda
Del Nuovo e Vecchio Testamento insieme E che la luce a noi più non s’asconda.
Perchè nelle Scritture è sparso il seme, Ch’alle nostr’alme fa produrre i frutti Di vera fede e cantate e speme.
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E credo senza dubbio alcun che tutti
Quei, che spendono in quelle i giorni e l'ore, D’eterno pianto avranno gli occhi asciutti.
Dopo me n’esco, ruminando faorc
Li- cose lette e m’appresento in chiesa Per ivi udir lodar l’alto Fattore.
E vedendo candela o lampa accesa, Se in me non arde carità con fede, Veggo ch’io non ho ben la legge intesa.
Perche Dio benedetto da noi chiede
Un altro lume ancora, e quel più luce, Che con Copre dimostra com’ei crede, Benché la sua chiarezza a noi traluce
Talmente che sena’essa tutti siamo
Ciechi ch’andiam di notte senza duce.
Da questo avvien ch’io mai sempre disamo In me ciò ch’io conosco d’esscr mio Ed in me la sua grazia abbraccio ed amo.
Quando mi spinge naturai disio
A dare ai corpo nutrimento ed esca
Verso l’albergo mio lieto m’invio;
E acciò tal servitù men mi rincresca, Fo legger spesso qualche istoria antica. Dando all’animo ancor vivanda fresca.
Dio ringraziato, in una piaggia aprica Me ne vo sollazzando insino all’ora Ai nuovi studi comoda ed amica.
Sento il liuto e la viola ancora. Concedendo a me stesso ogni diletto Ch’aver da me si può, dal vizio infuora.
Tendo ancora la pania all'angelicita E spesso di veder correr le lepri Anch’io mirabilmente mi diletto.
E tra spine alle volle e macchie e vepri Tendo reti e lacciuoli, ed i conigli Piglio tra gli odoriferi ginepri.
Cosi, pur che natura un pezzo pigli
Qualche trastullo e che dall’ozio oppressa Al vizio ed al peccato non scappigli,
Ogni giusta allegrezza gli ho concessa, Sinché l’ora ritorni, che tornare Dal piacer debbia ancor l’alma in sé stessa.
Cosi torno i miei libri a visitare,
Sinché, volgendo il sol verso occidente, I servitor m'invitano a cenare.
E nella cena ragioniam sovente
Delle lezion passale e può ciascuno Dir l'opinion sua liberamente.
Quando la notte il cielo ha fatto bruno, Rimase solo, io mi confesso a Dio Di tutti i miei peccati ad uno ad uno,
Pregandolo di voler porre in oblio
Tante mie colpe e d’aver l’occhio fisso Solo al merlo di Cristo e non al mio.
Gii ricordo che Cristo ha crocifisso
Il peccato e la morte, e rovinato
Il regno di Plutone c il nero abisso.
Com’io sento il mio cuor pacificata,
Nella croce addormenta il mio pensiero, Sin ch’io sento il mio corpo addormentato.
Sicché, Signora, qui dipinta al vero
Vi mandò la mia vita, acciò veggiate
S’io v'ubbidisco o con ragióne io spero Che, vivendo così, sempre m’amiate.
Come si vede, svaghi, studi sacri e profani, opere di pietà e di devozione si alternano nella sua giornata di lavoro ; e il suo non è più l’ascetismo del M. Evo, non è anzi neppur più ascetismo, perchè la mondanità dell’ambiente e del secolo, la cultura umanistica, l’indole stessa dell’animo suo hanno cosi attenuata ogni rudezza di vita religiosa da farla parere quasi più mondana che claustrale. Tuttavia non si può negare che, a malgrado di questi atti esterni apparentemente contrastanti coi rigidi ideali della vita monastica, non sopravviva nell’animo del poeta un sincero sentimento religioso. Anzi il « Capitolo alla duchessa di Valentinas» nel ricordo della lettura costante e. quotidiana del N. e del V. Testamento vietato allora severamente dalla chiesa ; nell’affermazione ereticale dell’inutilità delle cerimonie religiose e delle opere, ove non corrisponda loro adeguata la fede, nel rapido accenno alla dottrina della grazia, già lascia intravedere il graduale orientarsi dello spirito del Caracciolo versò le dottrine protestanti.
Del rinnovarsi della suà concezione religiosa, in questi anni, sono esplicita conferma il suo epistolario, la Traduzione Italiana, dei Salmi inspiratagli da quella protestante di Clemente Marot ; e soprattutto i sospetti e le accuse che allora cominciarono a levarsi contro là sua fede e giunsero fino all’orecchio della S. Inquisizione di Roma.
Di là infatti si mandò ordine (28 marzo 1550) al nùnzio di Francia, Fra Luigi, vescovo di Verona, di prendere segrete informazioni sulla sua fede (1). Ma il Caracciolo, vistosi scoperto e sentendosi inetto ad affrontare, per semplice coerenza d’animo, sacrifizi ancor più gravi di quelli che la vita monastica gl’imponeva e che a lui erano parsi intollerabili, si affrettò ad inviare a Roma le sue discolpe ed a sollecitare l’ intervento autorevole del padre che era a Rivoli in Piemonte. Costui, in una lettera ad un cardinale della S. Inquisizione (Giovanni Du Bellay ?), giurò l’innocenza del figlio, dichiarandolo incapace per animo e per tradizione famigliare di un simile delitto, e pro(1) Fontana, Documenti l'aiicanì in Are A. d. Soc. Rom.
St. Pair., XV, 4x0.
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testò, per conto proprio, con rude cinismo, di volerlo morto piuttosto che eretico (i).
Quale sia stata la sentenza del Collegio dei Cardinali, è certo tuttavia che il Caracciolo, ritrattandosi e dissimulando più cautamente i suoi veri sentimenti, potè allora sventare il colpo e sedare lo scandalo. Molto probabilmente trovò a Corte benevoli protettori, i quali non solo lo difesero dalle minacce dell’inquisizióne, ma lo favorirono anche l’anno seguente, quando si trattò di eleggerlo a vescovo di Troyes.
6. ASSUNTO AL VESCOVATO DI TROYES VI PREDICA LA RIFÓRMA
Secondo quanto narrano i biografi, l’abate di S. Vittore avrebbe scambiata l’Abazia di S. Vittore, di .cui era insignito, coi vescovato di Troyes, il quale era allora tenuto da Ludovico di Lorena cardinale di Guisa. Lo scambio, se non fu promosso dalla Corte stessa, fu da lei però agevolato e confermato, giacché il re, volendo servirsi del Caracciolo come legato ed ambasciatore in affari di grande importanza, stimava indispensabile prima rivestirlo di un’alta dignità episcopale senza allontanarlo troppo da Parigi. E, non meno dell’alta dignità ecclesiastica, considerava necessaria, a conferirgli autorità e gravità nelle ambascerie, anche la lunga barba che aveva fino allora portata contro le regole canoniche. Onde, appena il Caracciolo fu innalzato alla cattedra episcopale di Troyes, il re si affrettò a scrivere ai canonici di quella diocesi pregandoli di non adontarsi nè scandalizzarsi, se, per i motivi suaccennati, il loro vescovo avrebbe conservata la sua lunga barba (2).
La storia non ricorda alcuna ambasceria di cui il Caracciolo sia stato allora protagonista. Ma. se questa avvenne, è probabile che avesse per campo l’Italia, sua patria, e fosse di brev» durata. Infatti consacrato vescovo il 15 novembre 1551, egli fece la sua entrata trionfale in Troyes il 13 dicembre di quell’anno medesimo. Il popolo con ricchi baldacchini venne ad aspettarlo alla porta della città ; e quattro baroni io portarono, come in processione ed in trionfo, dalla chiesa di Notre Dame aux Novarrais alla cattedrale di S. Pietro.
Appena ebbe preso possesso della sua carica, pieno di zelo e di attività — come spinto da un intimo bisogno fino allora forzatamente
(*> Pascal, / l'nMeti r ¡1 Parlamento Francese tli Torino (*S39->859), Pincrolo, 1912, p. «r.
(2) Edita in Martènk et Duran». /. c. (27 novembre i5$i).
represso — si diede a predicare con grande assiduità e successo, sicché i fedeli, sedotti dalla sua dottrina, dalla sua grazia e dalla sua eloquenza accorrevano in gran folla ad udirlo. Doveva loro anzitutto tornar nuovo e quasi unico, in quel tempo, lo spettacolo di un vescovo, il quale regolarmente saliva il pulpito per predicare al popolo. Inoltre eran nuove anche le dottrine che predicava : nuove ai più, che non ne avevano mai sentito parlare e nuove anche agli altri che già ne avevano avuto sentore, perchè per la prima volta le udivano dalla bocca di un vescovo ed in un tempio cattolico. Infine, era pronto a ricevere la buona semente anche il terreno arato di fresco.
Infatti la Riforma Protestante, per opera di arditi novatori, già aveva messe profonde radici nella città, ond’era naturale che per l’ardita predicazione del vescovo i riformati militanti accrescessero il loro zelo ed il loro proselitismo, trascinando dietro a sé i tiepidi ed i titubanti ; e che i cattolici intolleranti, per contro, scandalizzati e scompaginati dal tradimento del loro capo, rimanessero pel momento confusi ed inattivi. Ed era non meno naturale che il vescovo stesso, a sua volta, trovando attorno a sè tanto consenso ed applauso di popolo, fosse indotto a procedere con maggior coraggio e con crescente libertà in quelle dottrine, che per più anni aveva dovuto dissimulare o contenere nell’animo suo a causa della vicinanza della Corte e delle spie del Nunzio.
Predicava — dice un suo biografo — le dottrine protestanti desunte dalle « Istituzioni » di Calvino e dagli altri trattati protestanti del tempo, flagellava liberamente gli abusi delia Chiesa Romana e dei suoi prelati ; ma, per non dar troppo sui nervi ai cattòlici intransigenti nè levar troppo alto lo scandalo, non rinnovò nulla circa la messa, punto fondamentale di controversia tra cattolici e protestanti ( i ).
Il suo protestantesimo era dunque ancora, per forza delle circostanze, velato e larvato, ma tale però da infondere buone speranze in coloro i quali inclinavano alle nuove dottrine ed auguravano in cuor loro la conversione definitiva del vescovo; eda incutere, per contro, timore ai cattolici conservatori, che aborrivano dall’eresia e temevano lo scandalo.
Ma questi, protetti come sempre dal potere civile e dal braccio secolare, non tardarono ad avere il sopravvento sui primi, per modo che il Caracciolo, minacciato di destituzione, fu costretto a ritrattarsi pubblicamente nel feb(x) Bkze, ofi. cit., I, 101-102; Cantò, Z. c., cfr. anche l'epistola del Caracciolo già citata (26 febbraio 1563).
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braio dell’anno 1552 in presenza dei due monaci Boucherat e La Ferie dell’ordine di San Bernardo, e di Nicolò Tarlier, ufficiale civile (1).
La timida abiura del Caracciolo, seguita — com’è probabile — da atti d’intolleranza e di persecuzione, arrestò il favore che la Riforma incontrava nella città, ma non potè impedire che il piccolo nucleo dei Riformati, che era andato aumentando per la predicazione del vescovo, continuasse coraggiosamente a combattere per la pròpria bandiera. Un umile cardatore di lana, Michel Poncelet, prese nella congrega il posto abbandonato dal Caracciolo es’adoprò ad edificarla colle sue prediche sino all’anno 1557, in cui la persecuzione costrinse tutti a fuggire (2).
7. INCOSTANZA DELLA SUA FEDE
SINO AL COLLOQUIO DI POISSY
Dopo lo scandalo e la ritrattazione, il vescovo tentò di far dimenticare, con una pre? dicazione strettamente ortodossa o con un più dignitoso silenzio, il fallò commesso e le accuse lanciate contro la sua fede. Ma il ricordo di esse non svanì più nè in Francia nè a Roma ; anzi gli precluse per sempre la via agli alti onori ecclesiastici che l’animo ambizioso bramava.
Infatti, quando alcuni anni pili tardi (3), approfittando della sua parentela con papa Paolo IV, temerariamente egli agognò il cappello cardinalizio e si recò a Roma nella speranza di potere colla sua presenza rimuovere ogni ostacolo e distruggere ogni reliquia di sospetto ereticale, trovò che papa e cardinali erano purtroppo memori del passato e contro di lui inesorabili. Nessuno prestò fede alle sue proteste di ortodossia nè lo ritenne adatto a cosi alto grado.
Pieno di sdegno, se ne ritornò dunque in Francia ; ma, passando per la Svizzera, volle abboccarsi coi grandi campioni della Riforma per cui andavano celebri le città di Ginevra e di Zurigo. Era naturale che l’ambizione del vescovo, punta cosi amaramente sul vivo dall’umiliazione patita, ravvivasse nell’animo i germi di sorda ribellione alla chiesa già fomentati dalla mente e lo spingesse a riannodare coi Riformati quelle intense relazioni spirituali che solo l’interesse personale e la paura del pericolo gli avevano fatto troncare pochi anni prima.
(«) Bàz.K, o/. cit., I, 106 ; Cantò, l. c., Du Brevil, l. c.
(2) BèzE, l. c.
(3) Alcuni biografi collocano la data del suo viaggio a Roma nell'anno 1556, altri nel «557.
A Ginevra (1) il Caracciolo ebbe un abboccamento con Calvino e con Beza, dai quali fu efficacemente confermato nella fede protestante ; ed a Zurigo, col grande teologo e predicatore Enrico Bullinger, il quale ammirando la dottrina e le buone disposizioni del vescovo francese, lo esortò caldamente a lasciare ogni titubanza ed a tradurre in atti pratici la sua fede interiore (2).
Ma la persecuzione scatenatasi in quell’anno medesimo su tutta la Francia ed infierita a Troyes con speciale crudezza, lo obbligarono a continuare nella via della coperta simulazione e ad aspettare occasione più propizia. Così passarono quattro anni.
Ma quando finalmente nel 1561 la Corte, cedendo alle insistenze dei Protestanti, permise che si raccogliesse a Poissy (3) un’assemblea di prelati e di ministri per disputare delle dottrine controverse e cercare un accordo, il Caracciolo, chiamato a parteciparvi, subito colse l’occasione per dar prova del suo spirito liberale e tollerante e del suo vivo desiderio di una conciliazione (4). E quando, dopo numerose ed infruttuose sedute, l’assemblea virtualmente fu sciolta, senza aver potuto concluder nulla, egli volle ancora essere tra gli undici prelati che, più o meno favorevoli alle nuove dottrine, si fecero promotori di un ultimo tentativo di accordo coi protestanti. Falli anche questo, come tutti i precedenti ; ma il disgusto per l’intolleranza di molti prelati cattolici, la simpatia e l’ammirazione suscitata in lui dalla condotta e dalle parole dei teologi protestanti, segnatamente da Pietro Martire Vermigli, ebbero tal effetto da fargli quasi immediatamente
(1) J biografi concordemente affermano che egli passò per Ginevra. Ma fa specie il non trovarne la menoma notizia nelle lettere di Calvino.
(2) Opera Colpirti, XVI, 482 (leu. Bullinger a Calvino xvi maggio 1557) * Roma venii epìscoptts Trecensis (Troyes) princeps melphitamts, homo quantunt ex colloquio licnit colligere non alicnuc a nostra religione. Deus ipsi animun; addai ut aliquando quod faciundttm novìt audeat ». Nota come il termine Roma sembra escludere il precedente passaggio del Caracciolo per Ginevra.
(3) Sul Colloquio di Poissy cfr. Bèzb, 0/. cit., lib. 4®, c gli studi del Dklabordb, del Klipfel e De Ruble, ecc.
(4) Opera Calvini, XIX, >09-1x0. Beza a Calvino. (Da Parigi, 9 novembre 1561): • Quis antea /uerit episcopus (Caracciolo} satis noeti. fu contienili Possìacertsi nomo esse fortiorem et tiieriorem praestitit. Sed interra magnar causar sant cur suspecta sii homini levitar ». Languet, op. cit., cpist. 149, 17 ottobre 1561 : • ¿fanrnt in aula sex ex ipsis (episcopio} qui cum nostris deliberent de incunda concordia et de componendis dissidiis. Delrcti sunt autem il qui nostris partibus maxime /avent ut Card. Casti-lionens, episcopi t'alentinus et Trecacensis ex Melphitana familia. Aliortim nomina nandù m scio*.
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spezzare ogni vincolo colla chiesa materna e gettar via la maschera colla quale aveva fino allora coperta la sua vera fede. Che interessi personali lo allettassero al nuovo atto di abiura — data la sua ben nota ambizione — potrebbe supporsi, in un momento soprattutto in cui i protestanti parevano prendere alla Corte il sopravvento sui cattolici stessi ; ma ciò non esclude che il ritorno al protestantesimo abbia potuto essere anche un atto intimamente sincero, una rivolta naturale della sua coscienza, che, stanca ormai di una così lunga simulazione, cercava riposo là dove pure l’animo era allettato da maggior miraggio di gloria e di benessere.
8. LA GRANDE RIFORMA : VESCOVO E MINISTRO
6. Pieno l’animo di nuovi ed arditi propositi, il Caracciolo, verso la fine di settembre od il principio di ottobre, se ne tornò nel suo vescovato (i). Quivi la Riforma, dopo la violenta persecuzione dell’anno 1557, aveva ottenuto un grande successo; la folla accorreva in cosi gran numero alle prediche dei ministri ugonotti, che la sala, dove solevano tenersi, in casa di Girolamo Girardin, era spesso incapace di contenerla. Si celebravano culti tutti i giorni, di mattina e di sera ; ed un concistorio composto di parecchi ministri ed anziani vegliava alla fraterna armonia ed al crescente sviluppo della chiesa risorta (2).
Tanto entusiasmo per le nuove dottrine ruppe ogni indugio del vescovo, che, come nel 1551, ricominciò a predicare apertamente l’Evangelo, a riformare le cerimonie del culto ed a stringere pubblici ed intimi rapporti coi principali promotori del movimento protestante.
Ma presto si persuase che ad attuare nella sua diocesi quelle ardite riforme del culto che egli vagheggiava, gli era necessario non solo la benevolenza platonica, ma il concorso pratico e diretto dei riformati ; era indispensabile che la congrega ugonotta formasse come il nucleo della nuova chiesa, come il punto centrale d’irradiazione delle nuove tendenze e delle nuove riforme, e ch’egli, senza cessare d’esser vescovo dei cattolici, divenisse nello stesso tempo anche ministro dei protestanti.
(z) Bìzk, of. cit., I, 849, dice « culla/¡ne di cettcmbrc ■; ma, secondo una lettera del Langubt, sarebbe stato in corto ancora il 17 ottobre. Op. cit., cpist. 149 (17 ottobre x$6t).
(9) Sui progressi e sulle vicende della Riforma a Troyes dopo il »ss? cfr. Bùzk, «/. cit., lib. II, HI, VII /arci*. 0/cra Caldini, XIX, 49*53Il suo disegno era ardito e geniale, ma di difficile attuazione.
Infatti, il Caracciolo sapeva che la Corte gli si sarebbe opposta, perchè, fin dal mese di settembre, avéndo a questo fine saggiato l’animo di Caterina de’Medici, questa gli aveva fatto rispondere — in termini assai vaghi ma poco rassicuranti — che, se avesse date le sue dimissioni da vescovo, sarebbe stato sostituito (1). Prevedeva inoltre che il clero delia diocesi, aizzato dal suo fanatismo o dalle mene di altri prelati cupidi del vescovato, gli avrebbe mosso una guerra spietata e senza quartiere ; che i riformati stessi per i principi rigidi della lóro confessione di fede difficilmente si sarebbero arresi a riconoscerlo per ministro finché serbasse il titolo e gli emolumenti di vescovo cattolico.
Ma il ritirarsi ora, ad opera cos bene cominciata, gli pareva non meno difficile e pericoloso. Ormai, dopo tante prove d’eresia, la sua riconciliazione colla chiesa romana era diventata impossibile od almeno infruttuosa perchè non gli avrebbe permesso nè di conservare più a lungo il vescovato nè di salire a quelle alte cariche che aveva ardentemente bramate ; e si sarebbe, d’altra parte, alienato tutto il partito ugonotto per il quale sentiva allora si viva simpatia, rimanendo solo tra due nemici egualmente propensi alla vendetta.
Miglior partito era dunque procedere innanzi virilmente secondo la propria coscienza, fidando sull’arrendevolezza e sul concorso dei Riformati di Troyes, sui difensori che avrebbe trovato alla Corte tra i protestanti, sullo stimolo che il suo esempio avrebbe potuto destare in quei vescovi cattolici, che come lui inclinavano alle nuove dottrine ma non osavano per primi varcare il Rubicone.
Convocò dunque gli anziani della chiesa riformata di Troyes e, manifestati i suoi intenti, domandò loro se fossero disposti ad eleggerlo e riconoscerlo per loro vescovo e ministro, dicendo ch’egli avrebbe consacrata tutta la sua vita per edificare ed accrescere la chiesa di Cristo: che se non lo trovassero degno dell’alto ufficio, glie lo dicessero apertamente e, scegliendo chi ne fosse più atto, permettessero a lui almeno di vivere modestamente nella chiesa riformata secondo la santa disciplina dell’Evangelo (2).
Dinanzi ad un caso così nuovo e temerario
(x) Pithov, <*/. cit. in Haag, c(2) I più ampi particolari di questo episodio della vita del Caracciolo sono in : Bèze, *»/. cit., I, 849 ; Ofiera Calcini, XIX, xoo-xoi, 109-xxo, X2O, 158, 182; Haag et Bordi«», Z. c.‘, Langubt, ofi. cit., I, X59, X84.
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i Riformati di Troyes, non meno della Corte, rimasero perplessi. Pareva agli uni che la confessione di fede protestante vietasse categoricamente a qualsiasi prelato cattolico di passare nelle fila della Riforma conservando il titolo, i benefizi ed i redditi inerenti alla dignità cattolica; ed inoltre che la vita spesso scandalosa ed ambigua tenuta dal vescovo negli anni precedenti potesse volgere la sua conversione più a danno che a vantaggio • dello sviluppo della chiesa riformata. Agli altri invece sembrava che la conversione pubblica e solenne di un vescovo dovesse vincere anche nei tepidi ogni titubanza, rimuovere ogni ostacolo alla Riforma nella città e darle grande incremento in tutta la Francia, allettando a seguirlo gli altri prelati cattolici inclini alle nuove dottrine.
La congrega riformata di Troyes si divise pertanto in due partiti: l’uno favorevole alla elezione del Caracciolo a ministro, l’altro ad essa apertamente confrario. Capo di quest’ut-tima fazione fu un ministro stesso" di Troyes, il Le Roy, il quale tuttavia non è chiaro se vi si opponesse più per reale persuasione del danno che la persona del Caracciolo avrebbe recato quanto per un basso sentimento d’invidia.
Poiché la disputa minacciava di agitare a lungo gli animi senza venire ad una soluzione, si decise di domandare il parere dei teologi protestanti che si trovavano ancora alla Corte. Ma questi, riluttanti ad addossarsi la responsabilità di una tale decisione, preferirono trasmettere la domanda a Calvino, pregandolo di rispondere a questi tre punti sui quali verteva in modo speciale la disputa: i° se prelati di alto grado, come il Caracciolo, potessero essere ammessi con esame nella chiesa riformata conservando il loro titolo; 2° quale significato si dovesse dare alla loro primitiva dignità, fosse essa episcopale o di altra natura; 30 che cosa infine si dovesse decidere a proposito del l'oro temporale.
Calvino, imbarazzato anche lui dal caso nuovo, non volendo con una risposta troppo assoluta e particolare compromettere molti altri casi simili, indugiò dapprima a decidere, poi finì per rispondere, consigliato a ciò dal Beza stesso, in termini assai vaghi e concilianti.
Ma intanto il Vermigli, ritornandosene da Parigi a Zurigo, passava per la città di Troyes (novembre 1561), dove, avuto agio di conoscere meglio i sentimenti ed i propositi del vescovo e soprattutto lo stato reale della Riforma, patrocinò con gran calore la richiesta del Caracciolo nella congrega dei Riformati.
Questi allora, rimossa ogni opposizione, dopo aver ricevuto in forma solenne la sua abiura ed avergli fatta pubblicamente sottoscrivere la confessione di fede protestante presentata nel colloquio di Poissy, dichiararono di riceverlo e di riconoscerlo per loro vescovo e ministro. Il Beza afferma che gli fu imposto, come condizione, di rinunziare al titolo ed agli emolumenti di vescovo. Ma ciò non è esatto; e se il Caracciolo dovette non molto dopo rinunziare alla dignità ed ai benefizi della sua carica episcopale, conservando solo più il vuoto titolo di vescovo accanto a quello di ministro dei Santo Evangelo, ciò non avvenne per opposizione dei Riformati, a cui la risposta evasiva di Calvino fi) sembrò dare più ragione che torto, ma per le mene dei ministri regi e dei prelati cattolici che aspiravano a succedergli.
9. L’OPPOSIZIONE DELLA CORTE E LA RESINAZIONE DEL VESCOVATO
Proclamato vescovo e ministro dai Riformati, il Caracciolo tentò di predicare la Riforma nella chiesa stessa di S. Giovanni ; ma il popolo, aizzato dal clero con falsi prodigi, si levò a tumulto provocando l’intervento del conte d’Eau. governatore della provincia. Questi venne e, sebbene fosse ricevuto con deferenza dal vescovo e dai principali Riformati alle porte della città, tuttavia, per amor di pace, vietò al Caracciolo di predicare. Ma l’intrepido ministro, il domani stesso, disubbidì all’ordine ricevuto e tenne una predica nella sala del vescovato, alla quale assistette una folla di ben tremila persone (2).
Ciò provocò nuovi tumulti e nuove rappresaglie dei cattolici fanatici contro lui ed i Riformati. Sebbene una grave malattia, dovuta alla sua debole e malferma salute, interrompesse quasi subito la sua attività di predicatore, la crociata dei cattolici crebbe a tanta violenza ch’egli fu costretto a cercar rifugio alla Corte nella speranza di provocare qualche rimedio ai mali suoi ed alla triste condizione dei Riformati di Troyes (3).
Ma la Corte per tutta risposta gl’intimò di dimettersi da vescovo, perchè il titolo e gli emolumenti di quella dignità erano assolutati) Cfr. O/. Calv., X, 184; XIX, ito. Fu tradotta io francese da Beza.
(a) Cantò, l. e. e Bull. d. Soc. d'Hitt. du Prot. Frane., XVII, 282 (22 novembre x$6x). B&», l. c.
(3) Sorel a Calvino, 16 dicembre i$6i in O/era Calzini, XIX, x8a ; Langukt, e/. cit., I, <84 ; vedi più oltre la lettera stessa del Caracciolo alla chiesa di Troyes.
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mente incompatibili colle funzioni di ministro protestante. Invano egli cercò di schermirsi, reso forte nel suo rifiuto dalla convinzione della necessità di una riforma nella chiesa e soprattutto dalie promesse di aiuto del Condè e degli altri principi protestanti; invàno egli destò grande ammirazione per il suo coraggio, per la sua eloquenza e la sua dottrina concionando in casa del Condè o sostenendo fiere dispute col cardinal di Ferrara che gli rinfacciava la sua apostasia(i): egli non potè aver ragione nè dell’intolleranza de’ministri regi nè dell’invidia dei prelati cattolici, i quali lo fecero dichiarare eretico e ribelle e come tale privare definitivamente del titolo e del reddito episcopale.
Il Pithou afferma che gli fu promessa come ricompensa della rinuncia una pensione di 4500 lire, che in pratica non gli fu poi mai corrisposta (2).
La sua destituzione avvenne sul principio dell’anno seguente, sebbene solo nel febbraio gli fosse dato un successore nella persona di Claudio Carlo Roger di Beauffremont (3).
Mentre il Caracciolo trovava» a Corte i Riformati di Troyes continuavano ad essere oggetto delle violenze dei cattolici (4). Onde egli informatone, sulla fine di dicembre, spediva loro dalla corte un’affettuosissima lettera in cui, arieggiando lo spirito e lo stile di S. Paolo, li esorta a vivere piamente, santamente ed in pace tra loro, ubbidendo al re ed agli editti, perdonando ai persecutori, dando esempio di moderazione a tutta la Francia, fidando in Dio, e nel prossimo e felice ritorno di lui. Questa lettera ci mostra che il Caracciolo, sebbene intimamente protestante, aborriva però dalle violenze ed intemperanze a cui il partito ugonotto così spesso si abbandonava e che secondo lui ritardavano il trionfo della loro causa. Egli era alieno da ogni tu
(1) Laxgvbt, Z. c. ; Braxtóme, II, 938. Entrambi hanno elogi per Ini : ■ Non enim ifi'i desìi eruditi«, nòe fiacundia, et quamoìt sit Italùs, eleganter tamen loquitur Gallice* (Languii) e »Ce ne fusi sans die finte; car ce firince eve-sque e/toit fori scavante (Brontolile).
(a) Haag, Z. c. ; Laxguet, ofi. cit. (io gennaio 1569):
• Regina fut audio) dal ei annua duo milia francorum, quibus se alai ».
(3) Parecchi erano gli aspiranti al vescovato. Cfr. Santa Croce, ofi. eit., p. 71 (lett. 93 febbraio 1560): • Al vescovato di Troia si è detto che si nominava-fir ima il vescovo di Macon, fisi Mone, di Paus, adesso dicono di un cognato di Me. dì Care, che fu in Roma; il quale fier ri-sfielto a detto Mone. di Care, merita molto. Ma io intendo che da lEquivalenza al ¡'/scovo olim di Troia, dico olim, firesufifionendo che sì fiat sera con i debiti mezzi alla Privazione, o alla Re/ignatione ».
(4) Languet, ofi. cit., p. «84 ; BàzE, ofi. cit., lib. VII.
multo; ed in tale moderazione, che potè a taluno parere eccessiva o addirittura viltà, è forse da ricercare il motivo della sua futura condotta e dello screzio avuto più tardi con Teodoro di Beza e gli altri ministri protestanti.
La lettera, diventata così rara che non se ne conosce ormai più che un solo esemplare (1), merita di essere integralmente riferita :
Eplstre En||voyee Aux Fi || déliés de ¡’Egli || se reformée qui est A II Troye, Il Par un excellent personnage. Mi Untare du saint Euanglle || 2. Pier x.xo || Estudiez vous A rendre ferme vostre vo || cation et élection : car en ce faisant, vous ne tomberez jamais.
Antoine, Evcsque et Ministre Du Saint Euangile, a I* * Eglise de Dieu, qui est â Troye, Et aux Fidelles en Jésus Christ et sanctifiez par iceluy: giace, miséricorde, et paix vous soit donnée de par Dieu nostre père, auec la communication de son S. Esprit.
Mes frères, le rends grâce A Dieu et à nostre Seigneur Jesus Christ, d’entendre que vous perscuerez en la Foy, fructifions en bonnes oeurcs csqucllcs vous estes appelez, pour rendre tesmoignage de l’csperànce qui est en vous, par l'Esprit que vous auez receu de Deu, en la prédication de son saint Euangile : Lequel Jesus Christ vous a esté offert et présenté, non seulement comme appoin-tement et rançon pour voz péchez: mais aussi comme un patron et portrait de toute perfection, auquel il vous faut conformer, i celle fin que Dieu soit glorifié par l’exemple de vost-e sainte conuersation, et que vos consciences estans asse u re es que vous estes enfans de Dieu, et que son Esprit habite en vous, iouyssent du vray corps et Sabbat du Seigneur. Prenez donc garde, mes frères, que quelqu'un de ceux qui se nomment frères, ne inatchc desordonnément entre vous, donnant scandale A l'Euangilc du Seigneur, auquel reluit la gloire de son Fils. Et que chacun de vous possède son vaisseau en telle sanctification et honneur, que ny ordure, ny paillardise ne soit seulement nommée ou souspeçonnee entre vous: mais au contraire, qu’en toute pureté et chasteté vous conucrsicz en la maison du Seigneur, qui est son Eglise. Que les Marchands se contentent d’un raisonnable profit, sans se laisser surmonter par cupidité d’aua-ricc, disans tousiours vérité à leur prochain. Et ceux qui sont en l’autorité de Magistrat, rendent A un chacun ce que justement luy appartient, sans acception de personnes: car telle est la volonté de nostre Dieu. Brief, que tout homme appelé à la parteclpation de l'Evangile, et à la communion du corps de Jesus Christ, marche dignement en sa vocation: et que ceux qui sont exaltez, estiment que le plus grand honneur que l’homme puisse avoir, est celuy que nous Avons pour estre faits par foy enfans de Dieu: Et aussi ceux que fortune a déprimez, (i’ entends par fortune, la condition de ce monde) qu'ils s'esiouyssent, se cognoissants par Jésus Christ estre faits participans des honneurs cclestes, et des biens éternels et pcrdurables. Voyla, mes frères.
(1) B. Hof-u.-Staats-Bibliothek di Monaco. Polcmic 873 in-8°, 1561.
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comment chacun se contentera de sa condition, et de sa qualité, rendant grâces au Seigneur, et espérant en bric! la conyssance de l'héritage promis aux Saints. Et pourcc que le Seigneur par tout ce monde nous a laissé avec la paix de conscience, la paix extérieure, ainsi comme un gage et tesmoignage de la réconciliation faite par son moyen entre Dieu et nous : efforcez vous, tant qu'en vous est, d'auoir paix auec tout le monde, et ne souffrez qu'homme du monde recoyuc iniure de vous qui estes marquez du saint Esprit: mais au contraire, si quelqu’un vous en fait, qu’il soit confus par vostre douce patience, et patiente douceur. Priez pour ceux qui vous blasmcnt et persécutent, et ployez les gcnouls «le vo-tre coeur deuant nostre Dieu, suppliant sa diuinc Majesté, qu'il vueillc illuminer ceux qui sont encores en tenebres, en leur osier le voile qu'ils ont sur le visage de leur coeur, affin que se destournans de l'experance des choses mortes. ils se conuertissent au Dieu viuant, et sur tout auec l’exemple irrépréhensible de vostre chaste et sainte conversation : Efforcez vous de les amener A l’cscholc de Jésus Christ, prenant garde que rien ne sorte de vostre bouche qui ne donne gloire au Seigneur, ou édification au prochain qui vous cscoutc: Car vous estes les instru-rnens de Dieu, par lesquels le bruit de son Evangile dolbt résonner. Soyez donc sobres, et vous gardez soigneusement que voz coeurs ne soient grcuez d’yuron-gneric, ou gourmandise: mais prenez plaisir de vous remplir du saint Esprit, chantons les hymnes et chants spirituels, a la gloire du Seigneur, et le tout doucement paisiblement, et sans scandale: car une mauuaisc maniéré de faire, souuentesfois fait trouucr une chose mauuaise, que de soy mesme est bonne et louable. Ne monstrez donc point de contenncr le mandement et l'Edicl du Prince, lequel Dieu vous a donné pour supérieur, et qui ne prétend ¡»oint de vous cmpescher vostre dévotion, et voz diuins exercices, mais il cmpesche que débat, noise, ou tumulte ne s'esmcuuc entre vous, comme ccluy qui a en sa main le sceptre et la houlette, pour régir le peuple et le troupeau de Dieu. Attendez donc en patience la visitation de Dieu, perscucrans en prières, et monstrez exemple de modestie aux autres villes de France, à celle fin qu’il soit manifeste à un chacun que l’Esprit du Seigneur est ccluy qui vous gouucrne et conduit, et que vous ne ressembliez à plusieurs, lesquels par leur furie et indiscrétion reculent le cours du sainct Euangile, et refroidissent l'affection de ceux qui ont la puissance et la volonté d'y favoriser. Soyez donc discrets, modestes, cl obéissants à vostre Prince, et portons reue-rencc à son conseil. Et si ic demeure icy plus que vous et moy ne vendrions, et ne puis vous communiquer la parolle de vie ainsi que i'auoyc commencé ; Soyez certains que Dieu le permet pour quelque bonne fin: car il est necessaire qu’il y ait en ceste compagnie des Fidèles confessants le nom de son fils. L’absence toutefois, à mon iugemeni, ne sera pas longue, ne telle que vous deuiez désobéir A vostre Prince, faisants assemblées défendues, par lesquelles vous pourriez procurer (encores que le zcle et l'intention fust bonne) la ruine cl désolation de vostre pauure Cité. Parquoy. mes frères, ic vous prie, au nom de nostre Seigneur Jésus Christ, et par les entroilles de sa miséricorde, que vous ayez patience iusques A mon retour auquel, auec son ayde et sainctc protection, i'espere vous consoler de sa parolle en la communication des Sacrements et sainctes prières, selon sa diuinc cl sainctc volonté, qui est que l’on obéisse aux Princes, fuyant sédition et effusion de sang, noyse et tumulte. Attendu que nous scruons un Dieu, qui est
Dieu d’union cl de paix, non point de débat et dissen. tion. Gardez donc que soubs espece de pieté l'ennemy ne vous dèçoiuc, ci que pour vous haster vous ne vous précipitiez: Car ie scay que l'intention de ceux qui ont puissance icy est bonne, et que nostre seigneur .en brief vous consolera. Vostre but ce pendant dolbt estre de plaire à Dieu en toutes choses, dcspouiücr vostre vieil homme, et vestir Jésus Christ, estre doulx, traictables, humains, hospitaliers, saincts, deuolieux, sobres, persc-ucrans en prières, charitables, patiens, supportons l'un de l’autre, ayant la bouche pleine de bénédiction, et action de grâces, le coeur enflammé de parfait amour de Dieu, et l'oeil de l’entendement fiché au bénéfice rcccu d'iccluy par Jésus Christ, ic coeur plein de ioye au milieu des afflictions, et l'cspcrancc arrcstec aux promesses de Dieu, iouyssans par foy de l'héritage éternel, et riche par l'attente infalliblc de la gloire promise à tous cro-yans. et a ceux desquels les noms sont escrits au liurc de vie. Mes frères, ne mettez point en oubly que les vaincucurs mangeront le fruict de l'arb c de vie, et que les bons combatans tant seulement seront couronnez : Ne vous lassez donc point, bataillans contre l'ennemy, cl croyez indubitablement, que ccluy qui csl en nous, est plus fort, sans comparaison, que celuy qui csl en ce monde. Pères de famille, soyez soigneux d'instruire voz enfans, et les faire nourrir en l'amour et crainte du Seigneur. Marys, aimez voz femmes, cnsclgncz-les, conso-lez-les, et les gouvernez et gardez soigneusement comme un vaisseau infirme, leur gardant parfaite loyauté. Vous Femmes, soyez subiectes à voz Marys, en toute obéissance, et ornez vous de ch steté, humilité et modestie, qui sont les ornemens deuant Dieu plus précieux que Rubis, Perles, ou Diamants: vostre habit soit modeste, sans dissolution, voz parolles pleines d'honneur et de pudicité, et vostre manière de viure sobre et simple, car cela est louable deuant Dieu, et proffitable pour le monde. Enfans, soyez obeissans à vos Pères et Mères, et à tous ceux qui ont charge de vous, et vous gardez de les contrister, mais rcsiouysscz-les, en seruant Dieu, et vous gardant de désobéir à leurs commandemens; resionyssez vous au Seigneur, détectez vous d’ouyr sa sainte parolle: Fuyez toute mauuaise compagnie, en laquelle Dieu n'est ¡»oint glorifié, gardez vous du mauuais. I’espere que Dieu me fera la grâce de retourner bien tost à vous : Car vous estes mes enfans, ma richesse, et ma ioye, cl espère en la miséricorde du Seigneur, que vous ferez ma couronne en la iournee du Seigneur: lequel me fera la grâce de vous garder saints et irrépréhensibles pour celle iournee. qui sera horrible pour les ennemis de son sainct Euangile : mais â nous qui l’auons rcccu cl embrassé bien heureuse, estants asseurez de sa miséricorde obtenue par Jésus Christ, auquel soit gloire éternellement. Je vous salue tous au nom du Seigneur : Soyez uniz ensemble en charité. La grâce du Sainct Esprit soit auec vous. Ainsi soit il.
10. IL SUO MINISTERIO PROTESTANTE
Incerte sono le prime vicende del Caracciolo, dopo la sua destituzione.
Second© una lettera del cardinal di Santa Croce (1) (5 febbraio 1562), egli sarebbe ri-masto qualche tempo a Parigi, nel numéro
(i) Of. cil., p. 68.
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dei ministri ugonotti, soccorso e protetto dal Condé e dalie dame protestanti della Corte, vivendo miseramente e quasi pentito della pazzia fatta.
Secondo il Pithou, si sarebbe recato a Losanna e Ginevra, donde fu poco dopo mandato ministro a Bigione (1).
Quello che è certo, è che al principio di agosto, dopo un inutile tentativo per rientrare in Troyes o dopo esserne stato scacciato dalla violenta persecuzione che v’infieriva, si trovava come in tranquillo asilo a St-Lyé, terra poco discosta dalla città, che i re di Francia avevano da secoli assegnata ai vescovi di Troyes. Era con lui la sua piccola famigliola, ch’egli si era creata, non sappiamo dove nè quando, dopo la sua apostasia.
Al principio di agosto i Riformati di Troyes, traditi dal duca di Nevers, che per paura della peste si era rifugiato a St-Lyé, e segretamente aderiva al partito cattolico, furono in parte uccisi, in parte fatti prigioni o costretti alla fuga. Il ministro protestante, Giacomo Sorei, con la scorta di pochi de’suoi, riuscì quasi miracolosamente a fuggire, e si rifugiò a St-Lyé, sperando trovarvi soccorso presso il duca di Nevers, il quale fino allora lo aveva trattato con grande deferenza. Non è improbabile che egli ospitasse in casa del Caracciolo. Ma il Nevers, il domani stesso, ordinava al ministro di partirsene immediatamente, e vietava a chiunque di ospitare ugonotti espulsi dalla città. Conformemente a ciò, il Caracciolo, il 9 agosto scriveva: «Aux Maire et Echevins de Troyes» (2) una breve lettera, in cui, lamentando di essere stato cacciato dalla città, immemore dei benefizi ricevuti da suo padre, diceva di non volere ospitare nel suo castello alcun calvinista espulso dalla città, desiderando vivere costì in pace e senza rumore, nell’intimità della sua famigliola. Il tenore un po’misterioso di questa lettera non può spiegarsi che supponendo nel Caracciolo il timóre di possibili rappresaglie dei cattolici contro di lui per la protezione concessa ai Riformati, ed anche un certo malanimo e contrasto di sentimenti verso di questi per non averlo forse abbastanza efficacemente sostenuto nel suo ritorno a Troyes o non aver ascoltato i suoi consigli di moderazione e di prudenza, accusando lui di viltà e di simulazione.
Intanto in tutta la Francia i fatti precipitavano verso la guerra civile. Condé ed i capi protestanti ammassavano truppe ad Orléans,
ed i triumviri (Navarra, Guisa e Montmorency), occupando ad una ad una le città poste all’intorno, si preparavano a stringerla di fame e di assedio. Troyes fu una delle prime città a cadere nelle loro mani. Sicché il Caracciolo, lasciato il tranquillo rifuggi© di St-Lyé, dovette cercar scampo come gli altri Riformati nella città di Orléans. Vi giunse sulla fine di settembre o sul principio d’ottobre; e, non senza qualche opposizione; riuscì a farsi ammettere nella congrega dei ministri.
Ma non tardò a levar scandalo. Infatti, avendo preso ad esporre ih un corso di lezioni l’Epistola agli Efesi, si lasciò sfuggire alcune affermazioni cattoliche intorno al battesimo, sostenendo che esso fosse necessario come mezzo di salute eterna e che chi ne moriva privo, fosse dannato. Citato a dar conto della sua fede dinanzi a un solenne consesso di 45 ministri, che, con passi della Bibbia ed altre ragioni, gli mostrarono la falsità della sua dottrina, egli, dopo averla a lungo difesa, finì per ritrattarla. Ma la sua ritrattazione lasciò in molti il dubbio che non fosse sincera, e ch’egli si fosse arreso solo per amordi pace, per entrare nelle buone grazie dei ministri ed esser ricevuto de’ loro. Perciò gli fu risposto che non si poteva prendere nessuna decisione in proposito, finché le ragioni dell’opposizione mossa contro di lui dalla chiesa di Troyes non fossero state ampiamente discusse dalla Sinodo generale delle chiese riformate che si doveva riunire a Lione (1).
Rimase tuttavia nella città, protetto dalla principessa di Condé e dagli altri grandi della sua Corte.
Di là il 26 novembre, saputa la morte del re Antonio di Navarra, colpito da un archi-bugiata nell’assedio di Rouen, mandò all’infelice vedova, Giovanna D’Albret, una lettera piena di affetto e di simpatia, per consolarla della morte del marito e raccomandarle là fiducia in Dio (2).
[26 Novembre 156a].
Madame. Les cnfans de Dieu, lesquels sont gouvernez et conduiz par son esprit, ne scauroyent recevoir des hommes en leurs adversitcz, telles consolations qu’ils re-cevoient de l’esprit mCire qui les gouverne, et qui est leur consolateur. Parquoy scachant oue vous estes fille de Dieu, et régénérée par Son Saincl Esprit, je n’espère pas vous pouvoir donner consolation qui approche de celle que vous sentez par i’Esprit de Dieu habitant en vous, toutesfois comme Chrestlen et comme vostre obligé et ancien serviteur, je m’efforceray de vous conformer en vostre constance, plustost que de vous fortifier en vostre
(x) In Haag, of>. cit., I. c.
(a) Edita da Eugènb Chavaray in Rrv. dei Autogr., n. x$6, art. $o, a. 1893.
(x) Bàz8, o>. cit., Il, 191-92.
(a) Edita in Mtm. de Condì, IV, 130-131.
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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infirmité ; et vous supplie d’avoir souvenance que vous estes consacrée à Dieu pour estre entièrement sienne, et non plus vostre : ce que vous ne pouvez faire sans dépendre entièrement de sa volonté, et sans vous despouiller de vos désirs pour n’avoir rien pour agréable, sinon ce qu’il plalst à sa divine Majesté : n'estimer rien profitable, sinon ce qu’il a ordonné, ni expédient, sinon ce qu’il dispose: car tous nos discours et opinions se doyvent taire, quand il est question de mettre en avant ou le conseil ou le bon plaisir de Dieu ; et encore que la chair se lamente et estime que Dieu vous ait blessé en trenchant la moitié de vous, toutefois l’esprit vous montrera qu'il vous a guérie, coupant ce qui n’estoil pas bien joinct avec vous: et à bien prendre, qu’il ne vous a pas mis en estât de viduité, pour vous rendre désolée, mais vous ostant ce qui vous aduisoit et cmpcschoit de penser tant seulement à luy, vous rendra du tout sienne, et conséquemment consolée : maintenant l’Espoux qui vous est demeuré vous sera fidèle, et vous surmontera en amitié: ne s’esloigncra point de vous, ni vous permettra que vous vous esloignez de lui: vostre bien sera indissoluble, et vostre amitié inséparable, et la mort que nous estimons ennemie de nos intentions, et meurtrière de nos plaisirs ne pourra que vous joindre de plus près à celuy qui vous a esponsée en ses grâces, et fiancée en ses miséricordes. Je vous supplie donc. Madame, au moyen de luy mesme de vouloir essuyer les larmes de vos yeux, et estre as-scurée que toutes choses redondent au bien de ceux qui aiment Dieu; et que tout ce qu’il dispose, revient au profit de ses esleus, et que le plus souvent, ce que nous estimons perte, est gaing; et ce que nous estimons misère, est félicité ainsi que l’esperience vous monstrera en cest endroit, par la Providence et bonté de celuy nostre bon Dieu: lequel je supplie. Madame, vous augmenter ses bénédictions et grâces.
D’Orléans ce 26 de Novembre 156e.
Vostre à jamais très-humble et obéissant serviteur
A. Prince de Mblpiik.
11. LE AMBASCERIE ALLA CORTE E LO SCANDALO DI ORLÉANS
Lasciato ii titolo di vescovo e di ministro per quello di principe di Melfi e cinta la spada, non è improbabile che avesse parte nel preparativi della battaglia di Dreux (19 dicembre 1562) e nella difesa della piazza d’Orléans. Assistette al ritorno delle truppe decimate e senza capo e al dolore profondo della città e della corte dei Condé per la prigionia del principe. Anzi, poiché godeva della grande fiducia della principessa e stretti vìncoli di affetto lo legavano all’infelice suo sposo, rimasto prigioniero dei nemici, egli ottenne facilmente di esser scelto come intermediario ed ambasciatore della principessa con la Corte per la liberazione del marito. Si sperava molto nella sua facondia ed abilità oratoria, nella sua autorità e nel suo vivo desiderio di moderazione e di pace.
Il Caracciolo Darti d’Orléans il 23 dicembre con una lettera del vecchio connestabile De
Montmorency alla Regina Madre, nella quale con pari ardore le raccomandava il principé prigioniero ed il principe ambasciatore, impetrando per quest’ultimo il permesso di vedere personalmente H suo signore e recarne i saluti alla moglie sconsolata (1).
Giunse a Parigi il 26 dicembre, ed espose alla regina la sua.ambasciata. Il colloquio durò assai a lungo, perchè Caterina non pareva disposta, ad accettare le sue proposte. Il nunzio ed il signor di Montpensier, che probabilmente assistettero al colloquiò, approfittarono dell’occasione per assalirlo con aspre parole e rimproverargli la sua incostanza ed apostasia. Egli confessò di aver parecchie volte cambiato d’opinione in fatto di fede, ma dichiarò di aver finalmente, per grazia di Dio, trovata la buona, nella quale desiderava vivere per sempre e morire. Quelli tornarono a replicargli che aveva commesso una grande follia e che faceva malissimo di trarre gli altri sulla stessa via ; poi, visto il poco frutto che traevano dallo sdégno, conoscendo la sua grande vanità, cercarono di piegarlo con promesse e lusinghe. Questo secondo metodo riuscì meglio del primo (2).
Infatti, le ambascerie del Caracciolo alla Corte si ripeterono, ma con poco o nessun successo per il principe e la principessa di Condé, e con grave malcontento dei Riformati. I quali, per bocca del Beza (3), andavano insinuando ch’egli avesse chiesta con grande insistenza alla principessa questa missióne, non tanto per amore e gratitudine speciale verso di lei e suo marito, quanto per amor di se stesso e de’ suoi privati interessi ; e che, pensando che ormai il partito ugonotto fosse definitivamente sfasciato e che a lui più non giovasse rimanere tra i Riformati militanti, intendesse a riconciliarsi con la Corte mediante qualche atto di singolare deferenza : che perciò venuto alla Corte, non si occupasse tanto delle cose del principe, quanto d’ottenere da Caterina il permesso di ritrarsi in pace, dopo un anno di vita errante e travagliata, nel possesso paterno di Chàteauneuf, e lo ottenesse alia condizione — ignobilmente accettata — che s’impegnasse a staccare dai partito protestante due dei principali riformati della città, ostinati nel ricusare la pace : Antonio d’Aure, barone di Gramont, e il signor di Buffa.
(1) Aumale, Histoire des Princes de Condì, Paris, 1863, I» 395(?) Cfr. Journal de l’an 156s in Rev. Rltrosp., V, 209 citato in Iîèzk, of. eit., II, 318 in nota; Chantonna y, lett. 9 gennaio 1563. Ibidem.
(3) Bèzb, l. c. Nel racconto del Bére c'è evidente esagerazione, ed imparzialità dovuta a divergènza di principi politici e diffidenza.
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BILYCHNIS
Infatti il Caracciolo, tornato ad Orléans, cercò con allettamenti e promesse di staccare dagli ugonotti i due autorevoli personaggi designati (1), ed in una pubblica conclone, dinanzi ad una folla immensa, che, spinta dai ministri (2), voleva la guerra ad oltranza anziché una pace creduta svantaggiosa, egli, ubbidendo in parte al suo naturai sentimento di moderazione, in parte cedendo alle pressioni della Corte ed al miraggio di una ricompensa, esaltò talmente le condizioni di pace volute dalla regina, che la sua condotta parve viltà e tradimento (3). I ministri, ed in modo speciale il Beza, lo accusarono apertamente presso il popolo, e la principessa di Condé, la quale, sdegnata, non appena si fu ristabilito da una breve malattia, gli comandò di uscire dalla città e di non tornarvi più mai sotto pena della vita (4).
Il Caracciolo, sentendosi odiato a morte dai ministri e dal popolo, abbandonò la città verso la fine di gennaio o sul principio di febbraio e si ritirò a Brie-Comte-Robert per menarvi vita privata e tranquilla.
Ma, separandosi dal partito dei Riformisti militanti, egli non intese punto staccarsi dalle loro dottrine (5). Pertanto questa comunanza ideale di pensieri e di alletti sopravvissuti al violento screzio avuto con essi, ci dimostra che il Caracciolo, nonostante le sue contraddizioni e debolezze, fu e volle conservarsi intimamente protestante.
12. RESIPISCENZA
A Brie-Comte-Robert, nella solitudine e nel raccoglimento, il vescovo-ministro di Troyes ebbe agio di riandare a mente pacata quanto grande fosse lo scandalo dato a quella chiesa, ch’egli aveva giurato di edificare con la sua predicazione e coi suo esempio. Un pentiti) Bèze, Z. C,, dice che il S. di Bnffy per tutta risposta minacciò di dargli uno schiaffo; ma quanto a Grammont, la sua decisione rimase secreta.
(2) I ministri di Orleans ed i principali capi ugonotti erano risolutamente contrari alla pace quale era voluta dalla corte e non nascosero il loro rammarico quando fu firmata ad Amboisc (19 mano X563). Aumale, o/. eli., I, 92$ e seg., 420.
(3) Gfr. epistola del Caracciolo, 26 febbràio 1563 in Mini, de Condi, V, 47.
(4) Bà», Z. c.
($) Santa Croce, >5 gennaio 1563, • L'olim Pescavo di Troyes, che si fa chiamar Trincipe di Milfi è prossimo a partirsi dalli ugonotti, perchè è poco d'accordo con loro, ed in particolare con il Beta, et dice di non voler aian-donar la Dottrina loro, ma volersi ritirare in qualche suo Luogo segregato da costoro perchè la lor Pitta e Costumi non gli piacene ».
mento, che sembra profondo e sincero, non tardò ad opprimergli l’animo, inspirandogli, insieme con alcuni carmi veramente notevoli per i caldi accenti di rimorso e di fede, ánche un nobile tentativo di riconciliazione con la chiesa riformata. Infatti, il 26 febbraio, egli indirizzò dal suo romitaggio un’umile lettera ai Pastori di Orléans, in cui, ricordando per sommi capi tutta la sua vita, lo scandalo dato nella città e le parole irriverenti lanciate contro di loro ed il Beza, li assicura dei suo sincero e profondo pentimento, accusando pubblicamente il suo orgoglio che lo illuse di poter essere vescovo e pastore, prima d’aver imparato ad essere umile agnello nella greggia di Cristo ; il suo egoismo, che gli fece sacrificare la gloria di Dio e la potenza della sua chiesa al suo particolare benessere; la sua presunzione, che lo rese insofferente delle ammonizioni — e li prega di volerlo riconciliare con la chiesa e con Beza, dichiarandosi pronto a sopportare ogni giusta penitenza ed a vivere e morire per la gloria di Dio.
Lettre d’Anthoine Carraccioli, Prince de Melphc, autrefois Evoque de Troyes, aux ministres et Pasteurs de l'Eglise d'Orléans, dans laquelle il leur rend compte de sa conduite par rapport à la Religion Reformée qu’il a embrassée.
Aux Sainctz Ministres et Pasteurs, Diacre et Anciens de l’Eglise de Dieu qui est à Orléans: Salut, dllection et paix de par Notre Seigneur Jesus-Christ, lequel vous veuille de plus en plus enrichir et orner des dons et grâces de son St Esprit, pour l'cdiffication et conservation de sa Maison, de laquelle il vous a faict les Architectes, pour luy préparer le lieu auquel il puisse habiter et manifester sa gloire, laquelle luy soit rendue et donnée de toutes créatures éternellement. Amen.
Mes frères. Ainsi que vous scavez que les dons de la vocation de Dieu sont sans repentance, pareillement vous n'ignorez poinct que la vocation de Dieu ne monstre poinct son efficace, si non au temps ordonné et determiné par son conseil éternel, auquel il renouvelle ses créatures, changeant leurs cœurs, et les ployant à son obéissance, escripvant sa volonté en leurs entendements, et sa Loy en leurs entrailles, mortifliant leur chair, et la rendant subiecte à l’espoir, puriffiant leurs cœurs par Foy, et les fortiffians par i'esperance infalible de ses promesses, et finallemcnt, les faisans constans et immuables par la vertu et par la Foy qui embrassent, et luy qui ayant vaincu le monde, leur communicquc sa victoire. Toutes CCS choses ay dictes pour vous supplier au nom de Jesus-Christ cru-ciffié, de par les entrailles de sa miséricorde, de voulloir avoir pour agréable le discours de mon infirmité, et la vérité de ma repentance : car estant devant la face et le Siège Judicial de mon Dieu (je vous jure] que je vous cscripz la pure vérité, accompaignant mes Lettres d’ab-bondancc de larmes et de souspirs.
Dés ma premiere jeunesse, s'ay tousjours senti en mon cœur une picqueur et ung éguillon qui me sollicitait à chercher Dieu ; et n'entendant poinct ou il le falloit trouver, la frequente leçons de St jherosme me plongea de-
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ANTONIO CARACCIOLO VESCOVO DI TROYES
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dans ung Monastaire. m'ayant persuadé que la perfection Chrestiennc fust entre les Moyncs. Puy après, ayans la dedans par plusieurs années, esludié les S.tes Lettres, Il me sembla pour les faire profliter que je debvois prandre ung Evcsché; ce qui je ficiz, estant favorise des Roys, sans considérer la grande charge d’ung Evoque, et la perfection qui y est requise, tant en la Doctrine, qu'en la vie et conversation d’ung homme appcllé à si haute vocation; et toutesfois encore que ma vie ne fut poinct reformée ne telle qu’elle debvoit estre. Nostre Dieu par le ministère de ma Prédication, gaigna ung grand peuple a Jesus-Christ; car javois dcsjà leu l'institution de Nions. Calvin et beaucoup de Docteurs modernes, près* chans Jesus-Christ asses appertement ; jusques a ce que le collocque des Evesques fut faict à Poissy, ou voyant leur obstination, je dellibcré du tout laisser la Papaultc • et me ranger soubz l'Enseigne de Jesus-Christ, me mec-tant en son Eglise, mais ma témérité fust d’accpter l’Estat de Pasteur, sans estre premièrement Brebis, et sans praticquer la profonde humilité laquelle il faut ap’ porter en la Maison de Dieu : parquoy le Seigneur Dieu offencé de mon orgueil cl irrite par mes péchés, permect que estant à Orléans au temps de la grande adversité de ¡'Eglise, estant là en ung Théastrc et à la voue de tout le monde, où je debvois exposer hardiment ma vie et monstrer une constance invincible, je monstray au contraire une deffiance et pusillanimité, habandonnant le St Trouppeau de Dieu, pour chercher mon particulier repos et asseurauce; et mesures en estant admonesté par mon très cher et honorable frère Théodore de Béze, remettant scs corrections, j'en cust paroi les picquantcs avec luy: ce que le Seigneur mon Dieu m’a faict si bien re-congnoislre, que mes yeux sont devenus ruisseaux de larmes, et ma poictrine une officine de souspirs, et mon cœur est couvert d’une espesse nuée et d’ung voile de honte de façon que ne pouvant autrement remédier a cestc faultc, j'en demande pardon a Dieu et a son Esglise, pour laquelle je promeelz et proteste devant sa saincte Majesté, estre prest d’exposer ma vie en toutes occasions et réparer par toutes voyes et manyercs à moy possibles, la faulte passée; vous asseurant en son Sainct Nom, mes frères, que le Seigneur m’a faict la grâce de me communiquer son Sainct Esprits, me faisant goutter le fruict et régénération et renonciation de vie: parquoy je vous prie de nouveau, par les entrailles de la miséricorde de nostre Dieu, que vous aceptiez et ayez pour agréable ma répen-tance et conuerslon, cl vous conformiez au voulloir de nostre Dieu, n’estant poinct immonde ce qu’il a nettoyé ; et ayant souvenance que les Stcs Anges font plus de joye d’ung pécheur faisant pénitence, que de quatre vingtz-diz-neuf justes, qui n’ont poinct mesné de repentance ; et que nous sommes tous vaissaux infirmes telz qu’il n'y en aurait pas ung de bout, si le Seigneur ne l’avoil aficrmy. Toutesfois, si mes larmes, la parfaite douleur et la réparation de ma vie, ne vous contante et apaise, et qu’il vous semble que je mérite autre punition pour le scandale que je puis avoir donné en la Stc Esglise de Dieu, laquelle j’estoys cl suis tenu édiffier et consoler, je ne refuse poinct d'endurer ci souffrir toute punition et correction qui me sera par icelluy ordonné, me soubmectant a sa sévérité et discipline, comme l’enfant légitimé a l'autorité de sa mère. Au demeurant, mes pères et frères, je vous supplie obtenir pour moy la fraternité; réconciliation de mon très-honorable frère Théodore de Béze, auquel je demande humblement pardon. La lumière de Dieu vous (éclaircj, son bras et sa puissance vous deffende
et sa gracc soit de plus en plus multiplyée cn Jesus-Christ Nostre Scigneur par la vertu et communication de ses graccs. De Bryc-comte-Robcrl ce 26 febvricr «563.
Vostre humble et obeissant frere en Jesu-Christ Nostre Scigneur Anthoink Carraciou,
Prince de Melpbles.
13. LA MORTE
Non sappiamo, purtroppo, quale accoglienza i ministri fecero alla supplica del Caracciolo.
Da questo momento egli cade quasi interamente in oblio, chè la bolla papale dei 7 aprile >5^3. sebbene facesse il suo nome accanto a quello di altri quattro prelati e lo citasse, sotto pena di scomunica, a comparire in Roma per dar conto della sua fede, giungendo a fatti compiuti, quando ormai aveva rotto ogni legame con la chiesa cattolica, lo lasciò affatto indifferente e tranquillo (1).
Visse plàcidamente gli* ultimi anni di sua vita preparandosi cristianamente alla morte, che l’età e la malferma salute gli facevano presagire ormai vicina. Gli furono di conforto, nel tormentoso ricordo degli anni trascorsi, gli studi diletti sin dall’infanzia, ma soprattutto le Muse, che, da profane e mondane fattesi, come l’anima sua, pie e divote, gli vennero a volta a volta suggerendo accenti di odio contro il peccato e l’orgoglio, amari ricordi e liete speranze, placide visioni di fede e di beatitudine celeste.
Vecchio, compose ancora, nel 1568, l’Zwwo genetliaco per la. nascila del conte di Soissons, figlio del principe di Condé, col quale volle rappacificarsi ; e l’anno seguente (1569) VInno della gloria dei beali-, che dedicò all’ infelice Renata di Francia, la quale, forse più d’una volta, lo ospitò nel suo castello di Montargis e gli fu prodiga, come a molti altri, di aiuto.
Mori il 3 agosto 1570 a Chàteaurieuf. La voce che tornasse cattolico prima della morte è assurda, perchè l’inno sopracitato, nonché altre poesie, composte a breve spazio dalla morte, sono documento inconcusso della sua fede protestante, e perchè il fatto d’essere stato sepolto in una chiesa parrocchiale non prova per nulla lasua conversione all’ultima ora. Anzi spirò tra le braccia del suo fido amico e zelante riformato, Matteo Beroaldo, dopo una bellissima ed ampia confessione della sua fede (2).
Della famiglia del Caracciolo, nessuna notizia particolare e sicura ci è giunta.
fCo/tiìnua; Arturo Pascal.
(I) Sarpi et Amklot de la Houssave, «•>. cìt., p. 671 ;
Marchamo, Dici, ffiti. »ri. Caracciolo;
(a) Pithou in Haag, l. c.
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SENSI E PENSIERI RELIGIOSI
NELLA POESIA D’ARTURO GRAF
(Continuazione. Vedi Bìlychnit, Giugno 19x4, p. 394).
Nel volume Le Danaidi, edito il 1897, *n due libri e con raggiunta d'un terzo nel 190$, la musa del Graf appare prevalentemente impersonale, sempre triste, ma animata da una forza, che contro il cieco destino, di cui vede gli uomini gravati, si leva come per dire : < operare, tentare, sperare, finché non venga la redenzione, il riscatto ». V’è sempre del pessimismo, ma, sia permesso chiamarlo così, eroico; come quello, che al Leopardi faceva celebrare Saffo e Bruto, ribelli alla vita dolorosa, mossi audacemente incontro alla morte, e gli faceva infine esaltare la « ginestra » impassibile ad eventi favorevoli e contrari.
In un sonetto, qualificato « fraterno », dopo aver detto alla cieca stirpe dell’uomo che egli non la loderà « con raro Verso di sogni e di pie lodi istrutto », dopo averla chiamata stupida, rea, vile,
Soggiogata all’error, dannata al lutto,
aggiunge con ispirito eroico:
Ma pur, mentre un destin cieco ti guida, Se in mezzo all’ombre onde il tuo ciel s’annera Alcuna luce inaspettata arrida;
Io soprastando a quest’empia bufera D’ingiurie atroci e d’angosciate strida. T’esorterò: Leva la fronte e spera!
« Leva la fronte e spera ! >. Nel Titano sepolto, poi come nella Città dei titani (due fantastiche concezioni che ricordano la maniera d’alcuni poeti inglesi, svol-gitori di miti antichi secondo un concetto moderno) la ribellione eroica è evidente, con ferma fede nel trionfo del ribelle.
Chi mai simboleggia il titano sepolto? Il pensiero? la libertà? lo spirito umano? Meriterebbe che si riportassero tutte le robuste, eloquenti quartine, preludio ad altre cose, per le quali abbiamo nel Graf uno dei pochi veramente poeti, sociali o umanitari, che conti il nostro paese; ma lo spazio e la via non breve ancora da farsi consentono soltanto un rapido cenno. Il bieco Iddio ha sentenziato: rempio titano languirà sotto « l'incarco del monte » finché non sappia uscirne con l’opera propria; e il titano giacque, curvato, sotto l’alta mole
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ma non prosteso. Sepolto, stretto dalla rupe ferrigna, non tremò il suo cuore nè il labbro mandò un grido; nella mano destra però aveva un'àscia d’acuto acciaio, e con questa cominciò a ferire l’aspro macigno.
Squarcia qua e là, notte e giorno, con muggiti di tuono, mentre « sulla tèrra maledetta a volo >.
Passan l’età come le incalza il fato;
In cièlo il dio vittorióso e solo S’è del vinto titan dimenticato.
Ma un dì ton formidabile ruina Si squarcia il fianco dell’eccelsa mole. E roteando l’àscia adamantina Il risorto titan s’affaccia al sole.
Biondi i campi di spiche ei mira e denso D’arbori il giogo e il mar senza alcun velo, E con un grido di letizia immenso Sveglia la terra e fa tremare il cielo.
Lo stesso spirito di questi gagliardi versi, anima quelli <A Issione», sebbene il tòno non ne sia così severo e grave: essi concludono:
Non ti stancar, datti le mani attorno, Prosegui senza riposarti inai ;
Abbraccia nubi, ancora nubi : un giorno L’agognata bellezza abbraccerai.
A consimile ammirazione per le cose grandi, fatte di fede e di perseveranza, ci richiama La città dei titani, ribelli ai numi, che invano i pigmei si provarono a distruggere; come L'ultimo viaggio di Ulisse e la Leggènda <PEc-carto. Col primo, che ricorda la tradizione medievale fermata da Dante nel ben noto cantò XXVI dell’inferno e ripresa dal Tennyson, nonché dal Pascoli (i), il Graf, pur avendo visto essersi simboleggiato in Ulisse l’infrangersi di certe audacie contro l’ignoto e avverso destino, a me pare ci sia venuto a dire: — tentare, operare, meglio che lasciarsi vincere dal tedio della vita. L’accedia infatti, la medievale accedia di certi spiriti, è necessario combattere. Ulisse, colui che par nato per non essere mai tranquillo (ecco il suo fato 1), dopo tant’anni di travaglio, nella pace del suo piccolo regno, s’annoia: vuol di nuovo vigilare, soffrire anche, faticare; e tenta l’ignoto. Troverà la morte! Che importa? « Se la vita dev’essere una tremenda alternativa fra il non fare e il dolore dell’opera con la morte, meglio questa che questa! > par voglia dire il poeta moderno. Quanto diverso perciò dall’antico, che fa, sì, andare il suo Ulisse, ma lo danna alle pene eterne, so bene per la frode del ligneo cavallo, frode però perdonabile, come altri peccati d’antichi più gravi eppure parsigli perdonabili, se non fosse stato fedele alla filosofica rassegnazione che esprime col notissimo « State contente umane genti al quia » e a tutto lo spirito, così sentito nel primo medio
(i) In Poemi conviviali, « L’ultimo viaggio ». Bologna, Zanichelli, 1904.
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evo, della terza ode oraziana maledicente ai tentatori dell’ignoto periglioso (i). Ma già, l’errore d’Ulisse, con la conseguente morte, non è dato da Dante e da tutto il Medio Evo per espiazione ? (2). Checché sia di ciò, la concezione gra-fiana ha fine e cause diversi dalla dantesca; come è diversa da quella dell'inglese, nel breve soliloquio che ne forma il poemetto: dell’inglese che derivada Dante, e non se ne allontana.
Con La leggenda d'Eccarto, il monaco cui un secolo di rapimento in Dio, in un bel mattino di primavera, trascorse così rapido da parer poche ore (anche questo fa già cantato da altri), egli ha voluto significare la dolcezza dell’estasi; che è anelito verso la eterna città di Dio, comunicazione diretta con lui.
Questi poemetti fanno pensare, quanto a fusione di reale col fantastico, alla maniera romantica nel senso originario della parola, come fu osservato (3); quanto a sentimento e pensiero ci dicono che il Graf ha trovato qualche uomo, che può essere a suo modo contento, se non felice, cioè che ha una ragione per vivere.
(1) Non consento dunque a quanto in proposito per i tre poeti scrisse A. Bertoldi Rassegna nazionale (i° luglio 1905, pag. 21 e 22), del suo Ulisse in Dante e nella poesìa moderna-, nè alle parole, usate in genere per gli Ulissi precedenti a quello dannunziano, del prof. A. Avelardi, in una lettura fatta il 5 febbraio e stampata nel maggio 1905, Il ritorno di Odisseo, Montevarchi : lettura, in cui sono osservazioni, che hanno del vero, come quella sul poema pascoliamo, « defluente dall’ampia fiumana omerica »: qualche cosa di vero, ripeto, perchè per il Pascoli nessuno può negare certa derivazione omerica. Ma la parte, diciamo così, concettuale, o ragion poetica, come si diceva una volta, che ha datò origine agli Ulissi del Pascoli e del Graf è originale ; sicché la nota, in proposito, d’un recente scritto sul Graf {Nuova antologia, i° dicembre 1913, pag. 4S1), pare a me inesatta pel Graf, inconcludente per il Pascoli. Per il Graf, richiamo l’attenzione sulla seconda delle note seguenti.
(2) Vedasi VOdissea dantesca in Della trilogia di Dante di A. Chiappelli, Firenze, Barbèra, 1905 : studio sagace, informato dell’ampia materia sull’argomento, che il Chiappelli domina con maestria di scrittore.
(3) C. de Lollis, Nuova antologia, 1® febbraio 1897. Al chiaro critico pare più sobrio il Tennysqn, citato dal Graf in una nota, nella descrizione della noia dell’eroe. Ma appunto in questa insistente nota, che noi sappiamo donde provenga, sta la causa dèi nuovo viaggio e la figurazione spirituale nuova d’Ulisse, il quale, si capisce, è in parte il poeta di Medusa.
« E una torbida nube il guardo acceso. L’ampia fronte oscurò. Non già che il peso Ei dell’età sentisse, o di celato Morbo l’insidia, o di nemico fato L’ira funesta paventasse e i danni.
Ma sottil come tossico un disdegno Di se stesso e d’altrui lento sorgeva Nelle vene d’Ulisse; e qual si lèva Da ree paludi accidiosa e tetra Nebbia che infoca il sole, occupa l’etra ; Tale in Ulisse si levava il tedio.
Il quale fra altre cose, dice ai compagni futuri, per incitarli al viaggio :
«.......Ad uom di vera
Virtù premiato e per gran fatti egregio È pena l’ozio, onta la pace, sfregio La sicurtà........>.
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Nei Le Danaidi è dunque un passo notevole verso un concetto più accettabile e più confortante della vita. Ma, ammesso ciò, qualcuno può chiedere: perchè il libro porta un titolo, Che ci fa pensare a Chi operi dolorosamente invano ?
Perchè anche qui abbiamo qualche volta l’anima cupa del poeta meduseo, espressa in accenti disperati, in descrizioni fosche e macabre, come il sonetto che raffigura le Danaidi, Paradosso, Sonetto di primavera, Saluto al mare, o La caccia disperata. Le ninfe di marmo. La danza dello scheletro, La carica notturna, terribile ma bella ; che sono tuttavia come vinte dalle cose accennate e dall’aggiunta del terzo libro, con cui il volume è fatto un tutto definitivo.
E questo libro è da osservarsi, non già per ispirilo nuovo, ma per l’insistenza su pensièri e sensi notati specialmente in Dopo il tramonto. Il tempio dell'amore (un piccolo tempio abbandonato, in un vasto e antico bosco), La scelta, A Issione, al Crocifisso lungo la via. L'incontro, hanno l’intonazione ironica e faceta, che, in argomento grave, forma quel che si suol chiamare umorismo heiniano. Fantasma lunare. L'isola dei morti, invece, sono rappresentazioni tetre ; la seconda delle quali ispirata da un noto quadro di A. Bocklin. Ma quanta delicata e dolce mestizia nelle fresche quartine intitolate Tristezza di novembre e Letizia d'aprile !
Tutto si sveglia e freme,
Palpita, anela e brilla;
Nel lume che sfavilla
Tutto gioisce insieme.
Ah non è ver ch’io sia
Interamente morto:
Qualcuno è in me risorto...
Sì, sì: l’anima mia!
O santa primavera,
Poiché t’ho riveduta, Ecco la stanca e muta Anima canta e spera.
Chiusa di sentimento, non meno riuscita di qualche brano descrittivo precedente : chiusa d'una ben chiara confessione ! L’anima, non solo è in lui risorta, ma canta, ma spera.
E come s’alternano descrizione e commozione in Guardando il cielo, in Fa-neggiamento notturno) E’ una notte d’estate, tra colli, ardente il cielo di Stélle: da una villa solitaria giungono gli accenti d’un oboe:
O memorie, o speranze ; o dolci inganni !
E tu sì presto dileguata e spenta Cara felicità, madre d’afiànni !... Or questa solitudine sgomenta !... E non altro che un suon de’ miei verdi anni. Che tra l'ombre s’aggira e si lamenta ».
Dunque anche la cara felicità, o poeta, fu un giórno tua compagna ? E’ vero però, essa pure madre d’affanni. Ma quei « verd’anni » perchè così mestamente ricordati? perchè altrove così mestamente rimpianta l’età fuggita? (Al cuculo').
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Mesto, ma rasserenato, lo sentiamo nel Al lago solitario, nel Al cipresso, e dolce nel Alla rosa ; e quanto notevoli poi non debbono apparirci i due sonetti che chiudono il libro!
« Una serena obliviosa pace >, egli non sa di dove, è scesa nel suo cuore, che poco la conobbe ma non conobbe neppur la resa : nel cuore < Avverso ai tristi e contro sè pugnace ». Tacciono in esso tumulti e contese: non vampe, non fumo, non brace. Come mai ? Cèrto questa pace non è discesa da « questo... al dolor cieco ed all’ira Dannato mondo insidioso oscuro». Forse dal più alto cielo ? forse da un futuro inscrutabile, « cui là stanca e presaga anima aspira » ? La sua giornata finisce dunque come alcune di quelle che, dopo nubi e tempeste, dileguano « serene, tranquille, consolate, D’avventurose luci vespertine ».
Giustamente il De Lollis notava in questo volume naturalezza di rappresentazione, unità e semplicità tecnica, avvicinandolo all’Ariosto per andatura facile e piana (i): ed egli non poteva scrivere se non dei primi due libri, che il terzo è stato aggiunto alla seconda edizione del 1905, materiato però di canti Che devono aver preceduto 0 quasi accompagnato quelli di Morgana-, un volume questo, che per varietà nell’unità della Costruzione e dell'intonazione, per abbondanza e per maestria, è degno fratello di Medusa, con sola, credo, una differenza. Questo par come l'immagine d’un tetro inverno nordico, quello è raccordo delle malinconie, dei languori, delle pacate dolcezze dell’autunno. Morgana insomma racchiude specialmente quanto forma in ogni vita la poesia dolce e mesta dei ricordi più cari; perchè vi senti le parole d’un uomo, che, avendo vissuto molto e molto ponderato, non solo sulla propria ma sulla vita comune, e anche molto esperimentato, dà immagine più serena e più comunemente vicina al credibile, di sè e delle cose.
Un giorno a lui i dolori propri eran forse parsi immensi : dovè poi accorgersi che quelli di tanti uomini erano ben più gravi; e Natura gli rivelò bellezze, bontà, non prima osservate. Egli inoltre sentì che la sola parola della disperazione non può nè deve forse suonare a lungo sul labbro di chi, nato poeta nel più nobile senso della parola, può sperare, e, sperando, può credere nel trionfo del bene (questa esortativa voce morale non nuoce all’arte, Che ne sia però intrinsecamente vibrante); e dal suo petto eruppero anche canti di fede: quei canti, che ad un critico parvero il prodotto di sentimento e d’idee maturanti d’intorno a noi, e che si possono invece credere un’intima e logica conseguenza dello sviluppo spirituale e mentale del poeta (2).
Morgana ci attesta che il pensiero di lui, se non è diretto a un giudizio dell’universo e perciò della vita, ottimistico, è tutt’altro che inclinato a scoprirvi solo il male e il mistero, anzi propende a vedervi una causa e un fine, che non possono dirsi nè mistero nè male. Fatale visione! se ad essa doveva giungere, dopo tanti altri quel feroce demolitore d’ogni passato, F. Nietzsche, dalla cui filosofia, accanto a un solo altro insegnamento pratico, « la società umana dev’essere retta da uomini superiori », dovevamo ricavare anche questo : « la vita non può avere torto : ogni etica, ogni religione che rinneghi la vita, è falsa ».
(1) Artic. cit.
(2) Domenico Oliva, Nuova antologìa, i° maggio 1901.
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Ma perchè là poesia dell’anima serenata e sperante, sotto il titolo che suona illusione? Affanni, speranze, delusioni, rimembranze: ecco forse la vita; ma in fine, quando sta per venire l’inerte vecchiezza pensosa, non pare tutto una illusione? Morgana!
Compongono il volume settantuna liriche, divise in due libri : predominano nel primo, accanto a rampogne amare e a fantastiche concezioni, distinti sensi di fede, donde una vigoria tenace che sa d’eroico; nel secondo ti trovi fra l'elegiaco, il descrittivo dolce e mesto, l’ancor caldo fervore delle gioie amorose. Scórriamolo insieme. Tantalo, mentre per poco tace il dolore nell’Èrebo, leva la voce contro Giove per il supplizio cui è dannato ; e il poeta : — il tuo castigo è crudele, ma vince quello d’altri, quello di noi, « cui negli stanchi petti Spenta ogni brama, ogni volere è morto»? Invece parlando a Sisifo, altro eterno sofferente, come per incuorarlo, afferma : « S'appressa il giorno ornai Che sul fermato sasso, Volgendo agli altri il viso, Placido, vineitor t’assiderai » (Tantalo, Sisifo).
I dannati, secondo una credenza viva e diffusa nel Medioevo, giunta la sera di sabato, riposano fino all’alba del lunedì. Quante voci d'umani mischiate via via a quelle dei divini, cacciati dal cielo! Parlano Caino, un dannato nuovo, un antico, Conte Ugolino, un poeta, Francesca e Paolo, un curioso, un sibarita, un mistico, un innamorato. Safio, ed altri, fra tutti più lungamente un angelo', il quale ricorda là cacciata dal cielo, l’esilio in terra, una speranza divina, che da tanto non si fa più sentire. « Abbandonato il mondò appare >.
— Abbandonato? — Chiedono le anime.
.......... Dato in balìa
Di cieche forze il tutto, avvinto e stretto Da ferree leggi, inesorate, oscure. Contro le quali ogni virtù si spunta:
risponde dolorosamente l’angelo; senonchè improvvisamente la scolta annunzia < un segno »: le anime corrono affannose interrogando: « Dove? in cielo? In alto? Mirate! Mirate! Mirate!» (Il riposo dei dannati).
Antitesi ben chiara a questo poemetto drammatico è quell’accozzo fantastico di voci, che emanano da un vecchio duomo : parlano gli architetti sepolti, le cento colonne, le lapidi sepolcrali, un coro d’angeli che Corona la Vergine, un demonio scolpito in un capitello, Porgano, una lampada, statue, e simili ; l’orologio ha ultimo la parola così:
Ora ed ognora
Fugge sonora Col vento l’ora. Non riposo, non dimora Un’altr’ora, un’altr’ora.
(si noti felicità di ritmo). Ancora altre « fantasie ».
Ecco la visione del Colosseo in un ritorno dell'antica età: popolo, gladiatori, matrone col pollice riverso, una fanciulla bianca su cui s’avventerebbe una tigre, se non fosse sgomenta dal rombo e dal barbaglio.
— Muori, rea cristiana! —
Ma nell’urlo feroce L’impetuosa voce Piomba d’una campana. (Colosseo).
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Un arbusto alpino soffre il cozzo dei nembi mostruosi ? Abbrividisce e trema spesso, solo solo nell’errore di ferrei scogli, ma pure si drizza al cielo, e non lo teme. {A un arbusto alpino). Un popolo infinito fa ressa a un’ immane porta di bronzo : batte, prega, grida : la porta non s’apre ai sofferenti nel deserto {La porta di bronzo).
Un cavaliere prima di morire, prega l’amata d'una promessa ; almeno dopo morto, non gli neghi il suo bacio. Egli muore, il bacio è dato : ed ecco, il morto riapre gli occhi alla luce, ridendo di letizia. Sorride con lui anche la donna, e dice : « dacché t’ho baciato morto, se ti piace, d’ora innanzi ti bacierò vivo » {Il bacio).
E’ morta una bellissima impura: l’angelo d'inferno deve volare e portarla negli abissi infiniti; va infatti e sta per ghermirla, ma, arrestandosi dinanzi al vivo fiore di vaghezza e di beltà, esclama:
.......................A tanta
Bellezza altri, non io, sarà crudel.
Vinto è l’inferno e la bellezza è santa.
Stato d'animo Che conosciamo (dirà qualcuno), questo contrastare tra il dolore e là resistenza, questa esaltazione dell’amore e della bellezza. Verissimo ! vero anche però che qualcuno di questi vecchi motivi è espresso così da parer nuovo. Ma nella rievocazione d'una scena truce, che cessa nel rombo della campana cristiana, non sentiamo noi qualcosa d’insolito per la musa del Graf, e come concezione e come modo di sentire? Nuovo poi quasi del tutto ci appare {quasi perchè l’esortazione ai poeti in Dopo il tramonto faceva supporre qualche cosa) in alcune liriche, che si direbbero comunemente sociali, e io direi dell’ottimismo umanitario o del socialismo ideale, in contrapposto al materialista.
E’ notte buia e silenziosa, quale non fu mai: all’improvviso da levante a ponente, «Squarcia l’ombre uno squillo di tromba». Trasvola lo squillo sui mari, per il cielo, spaventando, destando gli uomini d’ogni patria dal letargo, dai sogni vani. Ed eccoli uscire, costoro, dalle umili case, riversarsi per campi e costiere, gli occhi al cielo, chiedendo: — Chi ci chiama? Che suono è questo? Nunzio di un giorno nuovo e giocondo, o di uno più funesto dei passati?
Buio cielo coperchia ed intomba Terra e mar. Da levante a ponente Fragoroso, incalzante, furente
Squarcia l’ombra uno squillo di trómba. {Lo squillo).
Di nuovo notte : i popoli raccolti gremivano i campi col cuore e gli sguardi all'oriente, e l’oriente s'arroventava d’un bagliore torbido e cupo, come lava luogo i dirupi d’un vulcano, mentre fragoreggiava il cielo.
Lente, solenni trascorreva!! l'ore
Sugli aspettati insiem confusi e stretti : A quando a quando un immenso clamore Dagli ansii petti Rompea nell’ombra sconvolta e disgiunta, E un procelloso vento di parole Chiedea: s’incendia il vecchio mondo? O spunta Un novo soie? {Il bagliore).
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In certi momenti di rivolta, o alla lettura di notizie dalla terra infiammata, cui la libertà pare debba nascere dal fuoco, dal sangue, dall’esterminio, avete mai immaginato quadri grandiosi come questi? Forse sì. Solo qualche strana figurazione può darne idea, certo la fantasia li vede e li sente; e la riflessione aggiunge: proporzioni, linee, colori, che hanno del dantesco e del michelangiolesco. Ma proseguiamo nelle gigantesche visioni.
Spenta la luce, morti l’amore e le muse, e le ombre come un oceano cieco, impetuoso, senza ripari, tumultuavano confuse. Per quanto? Mistero! Le stelle erravano, come travolte nel profondo, le ore giacevano, sepolte nel buio. Ma ecco, improvvisamente, entro la notte orrenda,
Simile a un faro, una voce s’accese;
e crebbe modulata in un canto magnifico, forte: e corse una parola santa, vittoriosa,
Che debellava la notte e la morte.
Come volò e si diffuse per tutto la voce! nei cieli, sulla terra, per i mari. Sussultarono le città rovinate e le tombe, le ombre cominciarono a fuggire verso l’abisso cupo, voraginoso, per lunghi giorni. Di nuovo la luce rifolgorò, trionfando nell’alto, ribrillarono le stelle, ridanzarono le ore. E rinacque l’amore invitto, pulsante, che avviva i germi, stringe i contrari, « Suscita e mesce le instabili forme». E rinacquero le muse, Che sanno il principio, la fine e l’anima arcana delle cose.
Le pie muse, che al suono di cetre divine
Cantan ne’ cieli di fiamma il peana. {La voce fra Vombre).
E un peana è il canto, Che segue immediatamente a questo: canto veramente alato, degno d’esser denominato L'ale.
Chi disse al rejetto: poltrisci nell’imo!
Al tuo spirito disdiconsi l’ale: Formato di limo, rimanti nel limo L’etra sacro si vieta al mortale?
domanda subito il poeta, incalzando:
Chi diè tal sentenza? tu Giove? tu Momo?
Sperda il vento l’iniqua parola.
Strisciare è del serpe, lo spirto dell’uomo Nacque alato e com’aquila vola.
Poi, chiamando testimoni la terra, il mare, la nitida zona dell’aria, la candida luce che penetra tutti gli spazi, le stelle, la natura infinita, con impeto potente, nell’àmpio respiro di cinque strofe, prosegue:
Per lungo e per largo, di sotto e di sopra
A ritroso del tempo rapace;
Dai cieli ove tuona la forza che adopra
Agli abissi del vuoto che tace;
Lo spirito alato, ribelle alla mano Che presume confìggerlo al suolo, Spiando l’eterno, scrutando l’arcano. Sfrena e trae l’indomabile volo.
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Oh prode, superba letizia! Che importa
Se dubbioso, se fiero il cimento ?
In esso la stanca virtù si conforta, Quasi fiamma agitata dal vento.
Chi parla di morte? chi oppone la scura Larva al genio che vive ed agogna?
Oh miseri! un’ombra v’offende e spaura:
E’ la morte un’antica menzogna.
Deposta l’argilla che il grava e che il lega, Fatto in morte più vivo e vitale, Pei cieli infiniti lo spirito spiega
A gran voli più libero l’ale.
Versi questi, che, come quelli de’ canti intimamente loro collegati, non hanno bisogno di commento, per essere intesi in tutta la loro significazione, e che si possono dire dei pochi veramente belli, veramente degni d’esser chiamati poesia, nella congerie dei molti sociali o umanitari, che poesia non sono, perchè non sono quasi mai connubio di nobili spiriti in forme condegne.
Il libro, che contiene questi canti, si chiude con quello, in cui è appunto affermata la vita della poesia, durevole quanto la vita delle cose.
Quando l’ultimo, affranto core avrà palpitato L’ultima volta ; quando procellosa, confusa, L’antichissima notte risommerga il creato ; Quando tutto sia morto: allor morrà là Musa.
Il secondo s’apre con altra ben chiara affermazione : l’amore non può morire {Due voci). E tutto d’amore specialmente risulta materiato questo libro. Che nuovi accenti in esso e quanto lontani da quelli della poesia precedente ! Specie nelle liriche Venezia e Napoli, ascoltiamo come un poeta nuovo: delicato, tenero e per magistero d’arte quasi sapiente come il D’Annunzio, quando era echeg-giatore felice di melodie medicee e polizianesche. Le due città sirene del mare sono davvero ritratte in tutto il loro incanto ; in particolar modo Venezia, di cui si cantano in tre parti distinte, La laguna, Il canale, Il campiello, che con altre due Motivo amoroso e Plenilunio formano una così felice rievocazione, che tutto della perenne sognatrice ci pare rivivere innanzi, parvenze ed anima, se pure non ci sentiamo del tutto obliati in lei. E che fluidità nella musica delle strofe e dei versi ! Che spontaneità e vivezza di immagini, insieme con una felicissima semplicità signorile di elocuzione!
Tutto il resto di questo libro, benché contenga altre belle cose, come il descrittivo di La leggente. Le bagnanti. Notturno, La cima. Il canneto e il soave malinconico di Dulcia tristia, di Novembre, di Ultime foglie, è certamente vinto da queste liriche, accanto alle quali possono soltanto stare quelle che s’intitolano A tutte le rose, Passeggiata di primavera, Passeggiata d’autunno', mentre sono vere stonature certe tenui e scherzose voci, quali quelle di Al mio micino, Rosa specchiata, Foglia di rosa. Dubbio, che è un epigramma qui non gradevole. Tutto il volume ho definito un accordo delle malinconie, dei languori, delle pacate dolcezze autunnali (nell’affermare ciò pensavo specialmente a questo secondo libro, formato di quarantotto liriche).
Ben altro vogliono significare i dodici versi a rima baciata, in cui il poeta
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si domanda: — Perchè in certe ore stanche e mute, io mi ricordo di cose non mai viste? E perchè quanto mi è più vicino e noto, mi pare qualche volta più incognito e lontano? E perchè vedo sempre in sogno quello in cui non credo e che non bramo più ? Sorge forse entro me la visione smarrita d’un’altra vita, d’un altro mondo ?
O da’ suoi lacci sciòlta l’anima s’infutura,
E la presente vita al suo veder s’oscura?
O in me forse un ignoto ospite pur contende
E un’anima s’ammorza mentre un’altra s’accende?
(Barbagli fra le tenebre).
Domande da notare, una delle quali ti fa pensare alla condizione delle anime dantesche, che vedono il lontano soltanto nel passato e nel futuro; mentre l’altra determina più chiaramente quello che sentimmo alla fine del volume precedente. E anche sulla fine di questo giova richiamar l’attenzione: su Picciola fonte, immagine della poesia sua, ben diversa da quella d’altri tempi ; sul penultimo Con licenza (uomini gravi, che non sognate mai, lasciatemi sognare, perchè è dolce sognare quando manca la luce del giorno. E' cosa dolce dolce! e saggia! Non è tutto menzogna quanto risplende fra le ombre:
Uomini gravi, chi tacito sogna . Vede assai cose che voi non vedete), »
nonché sull’ultimo assai significativo Explicit, con cui il poeta confessa : nessuno dei vani beni nei quali confidai, mi ha tenuto fede, onde mi si riempie il cuore d’una grande speranza. La purificazione s’è dunque compiuta qui in terra. Dopo questa vita che cosa? Ricordiamo due versi danteschi:
Fede è sustanzia di cose sperate. Ed argumento delle non parventi;
e riandiamo ad altri suoi vessi.
Alla piccola fonte, che gli ha cantato in cuore e che ha ascoltata volentieri sino dal suo primo tempo, egli domanda: — Perchè non t’esaurisci, nè scemi mai? — Quindi segue:
Il di vien meno: già d’ombre crescenti La terra muta, già il cielo s’ammanta: Picciola fonte, tu pullula e canta Dentro il mio cor fin ch’io m’addormenti.
E par che la fonte abbia ascoltato il suo alimentatore, se da lei con le acque che già abbiamo visto passare, e alle quali voglio credere si sia qualcuno con me dissetato, se ne sono poi accompagnate altre : Il riscatto, per uscire di metafora, Poemetti drammatici. Le rime della selva.
(La fine prossimamente). GIUSEPPE LESCA.
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PERIAG/L1VRA DELL'ÀNIMA
SPIRITI AMARI E VOLTI AMABILI'”
... Il fratello maggiore si adirò e non volle entrare...
(Luca. 15, 28).
...Pensate a tutto ciò che è amabile...
(Filippesi, 4, 8).
Nulla come l’Evangelo è vivente. L’Evangelo ha bisogno della vita per essere commentato e sanzionato e la vita sprofonda nel buio se qualche raggio del Vangelo non rischiara le sue vie e non fa risaltare il dovere di ogni giorno. Non è possibile rileggere la meravigliosa parabola del Figliuol prodigo senza che si stabiliscano misteriosi contatti tra essa e i nostri cuori. Chi non vi ritrova come l’eco del suo tormento e il pungente rimpianto delle ore svanite? I più giusti risentono, nell’umiliazione, la loro fratellanza con quel vagabondo macilento che ritorna. Quale immagine, amplificata sino ad apparire un simbolo universale^ è quell’uomo che, per vie attraversate e riempite dalle avventure, ritorna verso la buona casa !...
Sanguinante, la veste lacera, attanagliato dalla fame, incerto sull’esito del
(1) Prèdica detta nel Foyer de l'Ame a Parigi. (Dalla Revue chrltienne^ agosto 1914).
viaggio, con nell’anima il lutto delle colpe che nessuna mano cancella, dei giorni che nessuna potenza risuscita! Come si riconoscono in quel triste ritratto tutti i mutilati dell’anima, tutti coloro che, spinti da un folle istinto di avventura, hanno abbandonato i rifugi placidi — abbiano essi nome verità, religione, dolcezza della casa, lavoro familiare— tutti coloro che, una notte, sotto le stelle impassibili, hanno sentito la loro indigenza: « ed io qui mi muoio di fame » — tutti coloro che, stanchi dei lontani esili, hanno virato di bordo e corretto la loro direzione.
Vi sono delle anime più lacere del mantello di quell’errante, più maculate di quella veste...
$ * »
Ma il simbolo è più vasto ancora.
In quella pagina c’è come l’intuizione grandiosa di quel ritorno.
Dopo le rudi battaglie donde si esce pesti dai dolorosi urloni, dopo tutti i lutti, nell’ultimo giorno il corteo sen torna verso la casa abbandonata... e in fondo alla via due braccia s’aprono per una stretta dove si struggeranno tutte le miserie...
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Storia di dolore e d’amore, essa è la storia nostra nei suoi particolari e nella sua portata lontana. Dolce sarebbe lasciarsi portare da essa, assimilarsi la lezione luminosa: l’uomo non può nascondere la sua corona; e s’essa cade nel fango, Dio stesso si china per rimettergliela sulla fronte purificata...
*
Ma oggi, non ci attarderemo a questo quadro di sentimenti.
Con poche pennellate profondamente umane, il Maestro ha abbozzato i personaggi e il quadro. Vi è mantenuta una delicata gradazione delle tinte ; ombre e luci, tutto si lega e si fonde; al timbro delle voci si sposa, nella pace profumata della sera, il suono delle danze e l’onesto chiasso della ridesta gioia.
Però, man mano che s’avanza il fratello maggiore^ un'ombra si stende.
Appunto di questo giusto, di questo impeccabile personaggio, noi vogliamo parlare oggi. Il suo viso austero e cupo, si profila con nettezza su di uno sfondo di cielo stellato dove rosseggia la fiamma dei fuochi di gioia. .
Notatelo : egli non è un personaggio di second’ordine ; senza di lui la festa sarebbe stata perfetta e il vagabondo avrebbe provato il perdono definitivo e completo che gli avrebbe reso il suo posto alla tavola di famiglia. Ma no! Lui è lì.
Sentite i suoi ragionamenti.
Egli non aderisce alle parole paterne. Il virtuoso insorge; mette dell’ombra nella scena luminosa; la sordina ai canti di festa; con un accesso di cattivo umore fuori luogo falsa tutto il significato della giornata. Dorinnanzi, nonostante i giorni che passeranno, un velo rimarrà sui cuori ; di quel movi
mento di acredine si farà sentire per un pezzo la ripercussione.
Quell'uomo severo e virtuoso ha reso in questo modo a se stesso il peggiore dei servizi. Perde, in un’ora, tutto il vantaggio morale che aveva sul fratello. L’altro è un vagabondo; non soltanto ha insozzato la sua veste bianca, ma ha fatto piegare lentamente suo padre verso la tomba ; al posto da lui lasciato per lunghi anni vuoto il lutto s’è assiso ; è un colpevole ; come un fiore di cui si seminano i petali immacolati, egli ha sfogliato la sua bella gioventù lungo sentieri torti.
Oserà egli persino raccontare le sue avventure? Ma sotto i suoi capelli arruffati e il suo mantello lacero, lo preferisco al figlio impeccabile drappeggiato nella sua altezzosa virtù ; uomo del dovere, lavoratore ordinato, figlio onesto, gli lasciamo il beneficio delle sue qualità. Ma con una sola pennellata il Maestro lo ha stigmatizzato. Egli non è all'unisono. Qualche cosa in lui neutralizza le sue virtù. Un vizio radicale lo corrode...
* ♦ «
È sempre cosa delicata di penetrare nell’intimo d’ùn uomo e di provarsi a discernere i moventi segreti dei suoi atti. È dunque con rispetto, con tatto che interrogheremo quel cuore del fratello maggiore ed è riconoscendo il suo valore e rimpiangendo l’incapacità delle sue alte virtù. Che assimileremo quel caso individuale a delle situazioni-generali.
Ne faremo il tipo di quella tabe interiore che troppo spesso è legata alle nostre qualità, la quale compromette la convivenza con gli altri, la pace domestica e che sin nell’ intimò del santuario dà una solenne smentita alla giòia del Vangelo: l'amarezza dello spìrito.
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* » «
In un ritratto ch’egli ha tracciato del figlio pentito (r), Enrico Drummond ha mostrato molto bene che non è figliuol prodigo chi vuole. Esiste una virtù che non è altro insomma se non una pigrizia travestita^ un amore troppo grande ai propri comodi, il timore di compromettersi. Ci vuole del coraggio per partire così verso il mondo immenso.
Occorre un cuore vibrante, una sete di vivere. Senza fare l’apologià del prodigo è permesso di constatare là cosa.
Quel ragazzo che non si lascia arrestare dalle lacrime d’un vecchio padre giuoca il tutto per il tutto. Intorno a lui, come le mosche intorno a un cavallo focoso, ronzano i commenti ; lo si giudica, lo si critica. Lui sogna lontane avventure, splendidi orizzonti intravisti ; e il suo sangue ribolle; da quell’ignoto misterioso che comincia all’ uscio di casa giunge a lui una musica deliziosa; le sue braccia si aprono come per afferrare la vita immensa il cui rumor sordo si ripete come un’eco nei battiti del suo cuore. Egli sta per conoscere i grandi rischi; egli sta per aprire i suoi delicati .polmoni al vento delle vaste pianure...
Un tale spirito, qualunque ne siano le conseguenze, non è desso più vivente ed anche più simpatico della saviezza del canto del focolare, la saviezza in pantofole i cui placidi aforismi vanno e vengono come la spola sopra un telàio tranquillo?
Nessuna colpa irreparabile, ma anche, nessuna virtù conquistata sotto l’aspro cielo; il mondo è chiuso con la linea dell’abituale orizzonte.
Ah ! io non posso impedirmi di preferire a una certa gioventù pecorona,
(i) Ideal Life.
banale e oziosa, quei veri giovani che cantano talvolta a voce troppo alta, ma che si sono buttati arditamente nella mischia, che non hanno esitato fra la tranquillità senza rischi e le dure lotte in cui si ricevono colpi quanti se né danno e che fin sotto i graffi sanguinosi serbano un sorriso ed una canzone ...
Quei rompicollo mancan soltanto di un freno : la vita, dopo varie delusioni, s’incaricherà di dar loro quello spirito di ponderazione, mentre che, nell’aria pesante in cui si confinano gli altri, i tesori restano improduttivi e giammai si spunteranno i bei fiori dell’eroismo e della bravura.
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Arriviamo con ciò al nocciòlo del nostro tema e ci troviamo di fronte a un fondamentale vizio del carattere: lo spirito amarot acre che offusca la gioia altrui, Che sospetta il male, che scrolla le spalle davanti alla gioventù vibrante, che discute e litiga, sospetta, falsa sistematicamente i migliori moventi; quello spirito dev’essere denunziato con forza. Ne soffriamo tutti, e ciò che rafforza le sue posizioni è il fatto di considerarlo con trascuratezza. *Egli è di cattivo umore », si dice di solito. E si passa oltre. Ciò non è esatto ; una simile tendenza è sintomatica: essa denota una tabe gravissima nella fibra morale d’un uomo.
Come una pietra, gettata in acqua, desta nel tranquillo specchio degli anelli concentrici, questa tendenza denunzia una quantità di lacune interiori.
L’acredine del fratello maggiore rivela una mancanza di giustizia nell’apprezzamento della propria felicità e l’incapacità di trar partito da quel che possiede.
La felicità! La nostra visione del
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*5»
mondo si è ingrandita e per ripercussione vogliamo delle felicità proporzionate alle nostre visioni... Salpiamo verso lontane e magnifiche felicità; si assiste così a stupende partenze a suon di fanfare, e nella luce magica d’un sole smagliante... Quali ritorni, spesso! Quali ritorni !
Una legge ci regge, troppo dimenticata dai giovani, la legge degl’ inizi modesti, dei principi umili. Il Cristianesimo non è egli nato in una fragile culla in cui sorridevano due occhi di bimbo?
Tutte le nostre disgrazie vengono da una mancanza di proporzioni tra i nostri sogni e i nostri cuori...
Noi abbiamo soltanto la felicità che ci meritiamo. La felicità assume le dimensioni dell'anima nostra. Se l'anima vostra è piccola e gretta^ la vostra felicità sarà piccina^ meschina... La vita intera è una questione di disciplina: senza disciplina i vostri lutti vi atterreranno e le vostre gioie romperanno il vostro equilibrio. Per correggere quest'ambizione della felicità rileggiamo quel delizioso Traiti des petits bonheurs di Giulio Janin...
Le piccole felicità! Esse sono accanto a noi... Abbiamo solo da stender la mano; esse sorridono nelle nostre case, esse non hanno vestiti sontuosi, esse non fanno chiassose parate, ma quanto sono più sicure ! Ahimè, noi siamo come quei ciechi della parabola orientale che correvano per le strade gridando la loro indigenza con le mani piene di gioielli... ; il più povero è ricco per uno dei lati del suo cuore; siamo tutti ricchi, e la nostra povertà non è altro spesso che una cecità volontaria e un vizio del nostro giudici©... Saper trar partito da quel che si ha, come quei soldati, di spirito sempre allegro, i quali con qualche patata raccolta e
qualche sarmento acceso si preparano uno squisito rancio condito di giovinezza e buon’umore.
Rimanere d'accordo... ecco, breve e riassunta, un’eccellente regola di vita.
Se il nostro personaggio avesse messa l'anima sua all'unisono^ avrebbe dato delle sue virtù una prova assai più convincente. Potete voi rappresentare la virtù senza un volto amabile?
La virtù senza un sorriso non è altro che una caricatura. Eppure, dovunque, abbondano fratelli maggiori. Certi individui col loro viso allungato e i loro lineamenti irrigiditi farebbero odiare le qualità ch’essi cercano d’inculcare ad altri. La virtù è una regina venerabile, ma la virtù musona non è che una regina decaduta: regalità inutile che ha perduto il segreto della sua seduzione.
Questo ci porta sempre col medesimo metodo della similitudine a parlarvi della virtù dal broncio. Il suo ragionamento è spesso questo : « Il mondo è una viva piaga. Il dolore è dovunque. Innumerevoli dolori rinnovantisi non appena succede un po’ di requie, ci asserragliano. Cataclismi formidabili travolgono delle Atlantidi. Su quale lontana vetta si è rifugiato Iddio, esiliato dalle nostre malvagità? Agli scandali rispondono gli scandali. E’ iniquo il giudice, furbo il prete e il soldato vende la sua spada. Io stesso dagli artigli degli eventi vengo fuori pesto, annientato, sanguinante...; il male trionfa e i giusti, se ve ne sono, si nascondono... Perchè sorridere? Il mio sorriso sarebbe in contradizione coll’universale malizia ».
Sia pure; per quanto il quadro sia troppo nero per essere equo, capisco il ragionamento. Ma perche^ nelle tene-bre> spegnere il povero lucignolo della
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gioia dal quale ci viene un po' di luce i Perchè sul piatto della bilancia che pende sotto il peso delle tabi e delle sozzure accumulate aggiungere, come una formidabile spada di Brenno, il peso della nostra disperazione? La logica vuole invece che noi facciamo da contrappeso.
In contrasto con tante miserie mettete la vostra speranza ; troppi sono gli spigolatori tetri, i quali nei campi desolati, van raccogliendo l’eco di tutti i lamenti, di tutti gli scandali; essi seminano del buio nelle nostre case, nelle nostre città, nei nostri templi. A tutti i frontoni quei tristi profeti mettono le bandiere a mezz’asta, e il sorriso dei fanciulli nelle candide culle è per loro un insulto personale. Bisogna reagire. Noi siamo del partito di Dio, dunque del partito della speranza che non abdica. Facciamoci spigolatori di bontày di gioiay d'eroismo. Con tutti i motivi che abbiamo di sperare, di credere, de cantare, facciamo un fascio luminoso; e se delle felicità passate, degli affetti svaniti rimarranno solo briciole, « raccogliete le briciole».
Senza questa premeditata tendenza a mettere in rilievo il lato eterno e amabile delle persone e delle cose, noi ci diamo mani e piedi legati in balia al tenebroso potere delle circostanze.
Quale più bell'esempio di quello del-\‘apostolo Paolo potrebbe esserci dato, di quello spirito eroicamente giocondo? Egli ha tutto contro di sè: le lotte in seno alle chiese, opere della sua carne e del suo cuore, il disprezzo dei contemporanei, l’odio della sinagoga, le prigioni e i ferri, le lunghe fatiche, le persecuzioni... Ma con spirito che sa trar partito da tutte le miserie, quél gigante attraversa i mari, sostenuto dalla bella visione d’un mondo da trasformare ; spazza il vecchio paganesimo,
apre dei cuori resistenti come le roccie, fa pianger di gioia soldati induriti, canta nelle prigioni, e colle sue catene forma una corona nobiliare. La fame gli rode le viscere; un misterioso male, con incessanti tormenti, gli ricorda un’ irrimediabile fragilità... e quell’uomo, quel ribelle che Dio conduce in trionfo attraverso le nazioni canta un inno di vittoria: «Ho imparato a contentarmi di quello che ho; so essere nel bisogno; so anche avere del superfluo ; sono preparato a tutto e dovunque: ad esser saziato come ad aver fame, ad avere il superfluo come a mancare del necessario. Io posso ogni cosa per mezzo di Colui che mi fortifica... ».
L’umanità, attraverso i suoi lunghi viaggi, non ostante i suoi lutti, non ha abbandonato mai la speranza che indica la via d'uscita. Io non penso mai senza commozione a una scena di cui fui testimone alcuni anni or sono e che mi rimane impressa come il simbolo dell’uomo superiore che nessun rovescio riesce ad abbattere definitivamente.
In una misera camera del sobborgo Sant’Antonio una madre sprofondata presso un giaciglio. Sul letto, un cor-pici no col viso dolorosamente solcato dalla morte e quella formidabile pace che è come una smentita a tutte le nostre agitazioni. Ad un tratto, mentre presso al morticino la madre ed io pregavamo, nella stanza vicina una voce gracile e fresca si destò: la madre allora si alzò... prese nelle sue braccia l'angioletto che cinguettava e gli cantò una cantilena oh molto semplice : « Fa la nanna bimbo mió...» Essa cantava ; aveva asciugato le sue lacrime ; canta va accanto a tutto l’apparecchio funebre: le lenzuola immacolate e il ramo di bosso in fresco dentro un bicchiere. Parigi rumoreggiava ai nostri piedi... Oh! allora quella madre che cantava
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una ninna nanna al sopravvissuto presso al gelido corpo del suo piccino, quella madre mi apparve come l'immagine eterna dell’umanità... Essa piange i suoi morti e s’inginocchia sulle tombe; ma essa si afferra sempre colie sue fibre più intime alla speranza, essa canta all’avvenire che si desta, l’immortale canzone della vita.
Proseguiamo la nostra similitudine. Lo spirito triste, acre, malcontento pure alleandosi talvolta ad autentiche virtù rimane pur sempre seminatore di torbidi. Esso aumenta la somma delle sofferenze e anzitutto l’uomo dallo spirito amaro compromette e sciupa la sua propria felicità. Nutrirsi di acredine, di malcontento espone al rischio di perire d’inanizione. L’anima ha sete di luce; non si sàzia con le tenebre. — « II fratello maggiore non volle entrare*. Egli firma in questo modo la sua propria condanna. Egli s’isola lungi dalla gioia rimuginando il suo cattivo umore. Quanti restano fuori dell’uscio in questo modo ! Respingon l’invito e non vogliono fondere la loro tetra virtù colla buona gioia generale ! Quanti, a cavallo sul loro rancore, seduti sopra un malinteso che sarebbe stato così facile dissipare si confinano in un mesto isolamento! Essi ignorano i loro amici; si mettono volontariamente al bando della famiglia; «essi non vogliono entrare! ».
Chi non ha nel cuore una ferita di cui è causa il cattivo umore? I più sensibili, i temperamenti fini-e delicati sono i più vulnerabili. Allora, toccati nella loro intimità, soffrono in silenzio. Dolori nascosti, sofferenze di giovani feriti sul vivo dalla parola acre di qualche spirito amaro, chi vi conterà ? Chi anzi v’ indovinerà?
Bisogna denunciare — specialmente in
assemblee come questa, in cui, alla luce del Vangelo vogliamo imparare a meglio vivere — bisogna denunciare lo spirito amaro come quello che attenta alla libertà delle anime. Esso s’impadronisce della gioia altrui e la confisca; falsa i segreti moventi degli atti ; snatura le situazioni; il bene lo volta in male; come i cagnolini ringhiosi esso brontola; s’impunta, ringhia ; circonda la vita coi suoi lamenti. Tutto va male...; esso è malefico e delinquente; e, nelle sue manifestazioni può essergli applicata la parola di Prometeo a Giove : «Tu prendi i tuoi fulmini, Giove; dunque tu hai torto».
Ah ! virtù dimenticata, affabilità, gentilezza delle anime e dei propositi ; sorrisi dei volti come abbiamo bisogno di voi ! In politica, in famiglia, in religione bisogna fare la coalizione delle buone forze del sorriso contro il vero oppressore. Nella famiglia anzitutto. Un musone turba tutti i rapporti; a tàvola i suoi sguardi si piantano come freccie nel cuore dei commensali, e i poveri bambini fiutando il vento cattivo si curvano mestamente sotto la raffica. Che cosa c’è da aspettare da un’educazione in cui, sin dai primi passi, la bontà è battuta in breccia e in cui trionfa il cattivo umore?
Eccoci proprio al centro dei nostri pensieri. Vorrei parlarvi del Vangelo affabile; e subito mi imbatto nel suo nemico più antico: la pietà uggiosa. L’apostrofe del Cristo non l'ha scoraggiata : « Tu quando digiuni ungiti il volto e sorridi ».
Vi sono dei morti che bisogna uccidere. Nella settimana, piena di rumori, agitata dalle innumerevoli occupazioni, la domenica è una giornata amabile, una giornata lieta e serena. Ahimè! così aspri sono gl’ interessi in lotta che molti ignorano questa dolcezza d’una giornata messa da parte : la mano di ferro della
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vita strappa loro persino questa requie ; ma, per i privilegiati, qual richiamo all’ordineI... In quel giorno si apre la propria anima, ci si mette all’unisono, si accumulano forze, gioie colle quali si vivrà domani. Al principio della settimana una frescura disseta le anime come, all'alba, i campi lavorati dall’aspro aratro, s’imperlan di rugiada. La domenica è giuliva; essa canta, sorride; essa è davvero il giorno dell’eterno Vangelo..,.
Sfogliate il vecchio libro: come delle campane di cristallo in un cielo di Pasqua le parole si rispondono: Felicità — Speranza — Fede —Amore — Gioia — Salvezza !... Una fanfara che in fondo a noi fa vibrare delle arpe, canta in tutto il Vangelo. E noi — suoniamo il mortorio; diciamo: Pessimismo — Fine di tutto — Irreparabile — Peccato — Morte... Ah! la religione ha molti nemici : molti pugni sono tesi verso di essa, folle ostili abbattono le croci, il disprezzo sghignazza quand'essa passa. Ma il nemico vero non è all’esterno: esso è dentro la piazza. Noi non rendiamo la religione amabile} la nostra virtù misantropa fa fuggire i prodighi. Il nostro Vangelo è velato a lutto e i nostri canti non hanno ali : convertiamoci alla gioia!
«Una fede senza gioia, ha detto Vi net, è un altare sènza profumi ».Vorrei avere a mia disposizione anche per un momento soltanto il pennello dei pittori e il verbo dei poeti ; vorrei avere una voce in/ìammata che, al di là dei vostri volti svegliasse nei vostri cuori delle corde mute per celebrare la gioia del Vangelo... Per mezzo suo tutta la terra è trasfigurata; nei cuori più neri esso ritrova la pepita d’oro del bene dimenticato ; nobilita i peccatori pentiti, rischiara la morte, fascia le piaghe, infrange le catene ... ; le tristezze si fondono quando esso passa : « è la vittoria Che ha vinto
il mondo »... ; e poiché, dopo il Maestro, noi diamo a Dio quel nome in cui si riassume tutta la tenerezza e la fiducia degli uomini: «Padre», poiché siamo obbligati, non appena parliamo di Lui, a fare dell’antropomorfismo e di prolungare nell’infinito le nostre più pure aspirazioni verso il Bene sovrano, cerchiamo di avere un Dio amabile, un Dio che rischiari, un Dio che scenda fra noi, semplice, amante, tollerante, umano. Non facciamogli sposare le nostre brutture, le nostre dispute, le nostre piccinerie; non l’associamo al nostro cattivo umore. E che attraverso la nostra vita, attraverso questa cornice fragile e modesta filtrino, come dei raggi vivificanti, i sorrisi della sua grazia perfetta!
Riuniamo in fascio per concludere, i vari pensieri che ci ha ispirato il nostro argomento.
Per lottare contro lo spirito amaro che nasce dalle circostanze o Che sorge dal nostro cuore bisogna avere la pretesa amabilità. Bisogna portare avanti nella lotta, cóme uno scudo di diamante, l’umore lieto che nulla scoraggia.
Tutto ciò è disciplina', il vostro spirito amaro dimostra che le circostanze avverse hanno avuto il sopravvento su di voi. Non siete altro che. uno schiavo sotto la tunica d’un uomo libero. La vostra religiosità uggiosa smentisce Dio, da cui viene ogni salvezza e le cui promesse sono valide fino all’ultim’alba. Il vostro cattivo umore è la mesta dimostrazione che le ragioni di disperare e di capitolare hanno avuto in voi maggior potenza che le gioie che cantano vicino a voi.
La cultura di quello spirito di ardita serenità è un aspetto soltanto di quella disciplina generale alla quale deve sot-
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tomettersi ogni uomo. E grande l’eroismo che lancia i battaglioni nella mischia o che fa morire lo scienziato al capezzale d’un malato ; e santa la bontà che si curva sulle sofferenze, snoda i legami, divide il suo pane; commovente è la pietà che condona al colpevole e che discerne il bene, luce vacillante nelle tenebre di un'anima. Ma l’amabilità è fatta di tutte queste virtù insieme come quei profumi delicati in cui parecchie essenze si sposano.
Occorre talvolta dell'eroismo per conservare la propria serenità davanti allo spettacolo della cattiveria ; occorre della bontà per sorridere ài brontoloni, e tranquillamente, semplicemente, ristabilire nel loro equilibrio le situazioni che il cattivo umore ha travestiti. Occorre della pietà per tutti i poveri nervosi che il nostro secolo vibrante ha moltiplicati in tutti gli ambienti, per amarli, per non far caso delle parole acri e dei giudizi pessimisti... L’amabilità è una delle più beile vittorie che possiamo riportare su noi stessi, essa è ad un tempo letizia, sorriso, cortesia, tolleranza, gentilezza. Diceva di essa Renan, ch’essa implicava < un partito preso generale senza il quale io non concepisco una base comoda per la vita: cioè che ogni creatura umana Sino a prova del contrario, dev’essere tenuta per buona e trattata con benevolenza... Suppongo che ogni uomo che vedo per la prima volta, debba essere un uomo di merito e un uomo dabbene salvo a cambiar parere (il che mi succede spesso) se mi vi costringono i fatti... ».Gli scettici,disillusi di tutto,troveranno ingenuo un tale preconcetto... ; errore !
Voi vedete a che punto questa volontà tien deste le migliori forze del cuore.
La cattiveria schiaccia, la bontà emancipa. Ricordare duramente un errore al colpevole, è creare un nemico ; rialzarlo ai suoi occhi, perdonare la sua colpa, è ristabilire un uomo nella sua dignità primitiva e assicurarsi un collaboratore...
Che siamo circondati di difficoltà, accerchiati dalla distretta e dal male nessuno lo contesta; ma se noi facciam caso delle nostre disgrazie per lamentarci, lasciarci cascar le braccia, noi affondiamo più profondamente il carro.
Mettere la spaila alla ruota, uscire dalle difficoltà e credere alla salvezza collaborando al suo trionfo, ecco il do-vere.
Non siamo soli. Contro tutti coloro che complicano le situazioni, inaspriscono i rapporti e dividono gli uomini noi abbiamo altre e numerose autorità dietro alle quali ci trinceriamo. Se si fosse schiacciata l’umanità sotto il peso delle sue colpe, essa da un pezzo sarebbe precipitata in una incurabile disperazione ; ma Dio le ha fatto coraggio. Sulla via di Gerico dei buoni Samaritani hanno fasciato le sue piaghe ; nelle peggiori brutture delle voci buone sono intervenute per cantarle la sua nobiltà nativa.
Non siamo soli. Cristo ci sospinge e ogni qualvolta noi vogliamo amare, perdonare, pregare, salvare, siamo costretti a plasmare il nostro amore, il nostro perdono, la nostra preghiera, il nostro appello nello stampo imperituro delle parole del Maestro.
Egli ha dato un linguaggio alla gioia e un’aureola al sorriso: beati siamo se in noi, balbettanti fanciulli, qualcosa passa della sua bontà immortale!
A. Wautier d’Aygalliers.
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NON LA PACE,
MA LA SPADA
Non pensate che io sia venuto a recare la pace sulla terra; sono venuto a recare non la pace ina la spada. Perchè sono venuto a mettere la divisione tra il figlio e il padre. Ira la figlia e la madre. E si avranno per nemici i Propri servi. Chi ama suo padre o sua madre più di me non è degno dime; e chi ama suo figlio o sua figlia più di me non è degno di me. E thi non. prende la sua croce e non mi segue non è degno di me. Chi avrà conservato la propria vita la perderà, ma chi avrà perso la sua vita per causa mia la ri troverà.
Gesù (Mtt., 10/34.39)
V’è attualmente nel mondo un’agitazione . che diventa ogni giorno più tempestosa. Si direbbe che certe potenze tenute lungamente a freno e troppo lungamente soffocate, scaturiscono dalla profondità di un vulcano. I contrasti si urtano sempre più fortemente. Che cosa succederà di tutto ciò? Il mondo sta per rientrare nel caos ? La nostra coltura occidentale che si chiama — e non senza ragioni — cristiana porterà dessa a una guerra tra fratelli che sarebbe un suicidio ?(i)
Dove trovare, in quel dedalo, un senso, un pensiero creatore, il quale ci proverebbe che non andiamo soltanto incontro a una catastrofe, ma che, attraverso quelle dispute, quello siacelo, quel crollo, una via divina condurrà in alto, verso la luce?
Un fatto sembrami scaturire marcatamente dall’effervescenza attuale: il mondo è pieno di guerre e di rumori di guerre, e nello stesso tempo pieno di desideri di pace e di promesse di pace. La terra non ha mai assistito a così orrendi preparativi di guerra, giammai essa ha visto tanti uomini armati con un’arte così raffinata, giammai tanti atroci congegni di distruzione.
Se scoppiasse la cosa spaventevole che ci minaccia da tanto tempo, se quei milioni di soldati fossero lanciati gli uni contro gli altri,
(i) Questo discorso fu pronunziato circa due anni fa, crediamo, pel Natale 191». [N. d. T.J
se quelle macchine di guerra, diabolico fiore dèlia tecnica moderna, su terra e sotto terra, sul mare e sotto il mare, fossero lanciate e utilizzate tutte in una volta, avremmo uno spettacolo di fronte al quale impallidirebbero anche le descrizioni dell'Apocalisse.
E tutto ciò perchè l’ambizione nazionale e il bisogno di potenza sono più forti nel mondo che la fede e l’amore. Tutto ciò, duemila anni dopo l’apparizione di Gesù Cristo!
Ma lui, Gesù Cristo, dov’è? Che cosa è diventato ?
Eppure, in mezzo a quei minacciosi terrori, constatiamo un bisogno appassionato di pace, quale il mondo non ha mai provato.
Nella vecchia città svizzera, in riva al Reno(i), abbiamo potuto veder riuniti dei rappresentanti internazionali della massa popolare, in una delle più belle chiese che portano il nome di Cristo : Non vogliamo più la guerra, dicevano essi, noi vogliamo una umanità nella quale si realizzeranno le parole di Natale: Pace in terra, buona volontà fra gli uomini. La guerra non deve più esistere ! (2)
E — cosa strana — non sono in prima linea dei cristiani che parlano così, ma dei cosidetti increduli. Quanto è grande il pericolo di guerra che ci minaccia, tanto è stata potente ed unica nel suo genere quella proclamazione di pace; il primo è una sfida lanciata alla nostra cultura cristiana ; l’altra un raggio dello Spirito di Cristo.
Cosa non meno strana, i portatori di quel pensiero di pace si elevano contro i potenti che dirigono, secondo la loro saviezza del tutto umana, la sorte dei popoli. Nel caso in cui questi potenti decidessero la guerra, essi li minacciano d’un’altra guerra che chiamano Rivoluzione. Ed ecco una nuova prospettiva di lotta accanita. E’ probabile che presto il mondo la vedrà scoppiare. Gii uni gridano :
(1) Allusione al Congresso socialista internazionale te nutosi a Basilea nel novembre 1913. (N. d. T.J
(a) Ahimè! il lamentevole fallimento dell’Internazionale proletaria, con vari pretesti, ma in tulli i paesi !
(N. d. T.)
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Vogliamo la guerra ! Gli altri : Non la vogliamo! e così dicendo, si mostrai! pronti a divorarsi a vicenda.
Allo stesso modo stanno le cose nel movimento sociale. La nostra vita economica porta ugualmente il segno della guerra. Attualmente la vita economica si riassume tutta quanta nell’idea che ciascuno vive per se stesso, e quindi tende ad accaparrare quanto può. Da ciò disordine e lotta tremenda. Una parte della popolazione si oppone a quell’idea, chiede di rimettere l’ordine nella società e sembra voler stabilire un’economia sociale nella quale il lavoro diventerebbe un servizio reciproco in cui regnerebbe la pace.
Ma, sembra un assurdo, questo desiderio d’ordine e di pace conduce a una lotta più accanita ancora; i rappresentanti delia pace vogliono introdurre il regno della pace per mezzo della guerra, la guerra tra le classi sociali dichiarata dal proletariato ; questi si dice chiamato a creare un’era nuova, e non vorrebbe lotte sanguinose; ma la cosa è impossibile senza violenza. E in tal modo adunque il proletariato s’arma per una guerra avente per ¡scopo la pace. I preparativi, vicino e lontano, sono sempre più importanti. Ma più tremendi ancora sono quelli dei suoi avversari.
I l mondo osserva con angoscia quei preparativi minacciosi ; ma un’angoscia più viva ancora ci afferra, quando pensiamo all’ora in cui fatalmente quei due eserciti s’incontreranno, in cui scoppierà la guerra civile, in tutto l’orrore delle passioni a lungo contenute e metteranno il mondo in fiamme.
Si realizzi o no quella lotta sanguinosa, ci troviamo pur sempre ogni giorno di fronte al dilemma sociale, morale e religioso, altra lotta questa che ci costerà il sangue de! nostro cuore.
Il mondo vive sotto il segno della spada. L’atmosfera è burrascosa. Le anime sono inquiete. E da lungi, noi udiamo il suono delle campane di Natale al quale si mescola il tuono dei cannoni. In che modo la nostra testa e l’anima nostra sopporteranno questa contraddizione ?
* » »
E’ proprio una contraddizione ? Questa lotta possente che scuote il mondo non sarebbe forse il risultato dell’azione di quel Cristo di cui festeggiamo la venuta ? Non sarebbe forse lui, il principe di pace, che accende questa guerra ?
Eccoci di fronte a questa parola enimma-tica : « Non crediate che io sia venuto nel mondo a recare la pace, ma la spada».
Forse, se la comprendessimo, troveremmo noi in quella parola, la soluzione dell’enimma che attualmente ci turba; la spiegazione di quell’incontro armato tra la pace e la guerra. E’ certo che quella parola di Gesù ci pare misteriosa. Quanti commenti non sono stati fatti a suo riguardo ! Molti vi hanno trovato la sanzione della guerra. Forse è vero, ma in un senso diverso da quello che pensano.
Gesù soggiunge che è venuto a separare la figlia da sua madre, il figlio da suo padre, a recare sulla terra la divisione tra gli uomini. Sentiamo subito, leggendo quelle parole, che Gesù non è l’essere passivo, unicamente dolce che ci hanno abituati a contemplare.
La sua pace non è di certo quella cosa confortabile e un po’ meschina che molti suppongono, e che, devo dirlo apertamente, sarebbe inferiore all’ideale guerriero ; quello almeno contiene un’idea di eroismo.
Gesù non voleva la pace ad ogni costo. La parola un po’rude che studiamo, respinge l’idea d’una pace debole e molle. Essa chiede la guerra prima della pace, la quale è fatta per quei discepoli — e ve ne sono stati in tutti i tempi — che cercano il Regno di Dio su dei sentieri ornati di rose.
Coloro che vedono in quella parola la sanzione della guerra si sbagliano ugualmente. Come si può supporre che il Gesù del Discorso sul monte, il Gesù della Parabola del Buon Samaritano, sanzionerebbe la guerra, la violenza, il sangue sparso? Il più grande amore che il mondo abbia contemplato, può forse essere, nello stesso tempo, l’occasione del più violento disaccordo?
Ecco l’enimma! Gesù oppone alla guerra sanguinosa il Regno di Dio, nel quale non vi è più guerra. Egli oppone al regno del mondo quello del suo Padre; all’odio, la bontà che perdona ; al bisogno di dominare, il bisogno di servire ; alla violenza il mutuo soccorso ; alla maledizione la benedizione. Egli svela agli occhi dei suoi un'umanità così grande, cosi luminosa che accanto ad essa il più bell’eroismo guerriero impallidisce a un punto tale da parere puerile.
/'V è così ch'egli afferra la spada, è così che dichiara la guerra. Guerra al mondo quale esso è, guerra allo Stato, alla Chiesa, alla morale. Tutto dev’essere rovesciato quando appare la verità divina. Lo Stato, l’imperialismo romano riposa sulla violenza, sopra un’usurpazione orgogliosa; il suo diritto è tutt’altra cosa che il diritto divino. La Chiesa si è cristallizzata, essa è diventata una parte della-vita esterna ; la morale non è più altro che un mantello che ricopre l’ipocrisia e l’assenza
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di amore. Bisogna che il mondo nuovo si metta in guerra con quel mondo antico, è inevitabile. L’elemento divino arreca necessariamente la dissenzione quando penetra nel mondo; nulla agita maggiormente lo spirito umano che la rivelazione di quella forza. Ci siamo abituati a credere che la rivelazione divina sia ciò che procura maggiore sicurezza e amabile compiacenza attirandoci la lode della brava gente. Ed abbiamo trovato lì un criterio per giudicare di ciò che è o no divino, di ciò che deve, pensiamo noi, rassicurare il mondo. Eppure, non vediamo che è precisamente il contrario: la rivelazione divina deve turbare il mondo. Come potrebbe avvenire diversamente, poiché Dio e il mondo sono opposti l’uno all’altro? Il turbamento nel mondo è il sintomo che l’elemento divino vi lavora; quale agitazione non fu sollevata dalla Riforma, poiché v’era certamente in essa un elemento di verità divina ! Quanto sangue non ha essa fatto scorrere ! Quanti odi e litigi non ha dessa provocati, e ciò fino ai giorni nostri. Il presentimento che ne aveva Lutero pesava sull’ànima sua. Zwinglio non è egli morto con la spada in mano sopra un campo di battaglia ? E Gesù aveva preveduto molto di più ancora. Lui, il latore dell’amor di Dio, doveva scatenare fra gli uomini guerre più tremende di quelle d’un Alessandro, d’un Cesare, d’un Attila, d’un Napoleone. Egli aveva preveduto che, nel nome suo, tutti i cattivi spiriti, l’ira, l’odio, la menzogna, avrebbero invaso il mondo al quale egli voleva recare il Regno dei cieli! Gesù forse non prevedeva tutto quel che sappiamo oggi; ma non è vero forse che un presentimento oscuro benché certo opprime l’anima più che una precisa visione ? E questo é l’elemento tragico contenuto nel pensiero del Maestro. Ciò ch’ei vuole è la pace, la pace del Regno dei cieli sulla terra; ma egli sa che codesta pace non potrà scaturire che da una lotta accanita. Ciò è tremendo, è di un rigore spaventoso.
Ed è in nome dell’amore ch'egli ha gettala la spada, nel mondo! in nome di Dio ch’egli ha accesa in seno all’umanità la più grande rivoluzione che sia mai scoppiata. Diciamo la parola, egli è stato un rivoluzionario, nel nome del Padre e nel nome dell’amore divino. Le sue parole sono taglienti come una lama e non quali noi cristiani ameremmo udirle : dolci e tranquillizzanti.
Egli stesso era la spada. E dopo ciò egli è andato a farsi inchiodare sulla croce, non ha più pronunziato una parola dura, si è lasciato flagellare, abbassare, insultare, ha pregato pei suoi carnefici. Cosi facendo, egli ha fatto a
Dio e al mondo i> dóno dell’anima sua ; cosi facendo, egli ha creato un asilo di pace, di vera pace divina, di riposo per coloro che lottano.
***
Ma, è cosa certa, - ed ecco ancora l’enigma-la crocè ha fatto nascere nuove agitazioni. La croce ha rovinato l’impero romano, ha sconvolto il mondo intero, attraverso tutta la storia, ne abbiano gli uomini avuto o no coscienza. E'la croce che reca ancor oggi il turbamento nell’umanità.
Considerare l’enigma sotto quest’angolo,-equivale a risolverlo.
E’ perché Gesù lavora nel mondo, che questo è pieno d’un tale fermento. Il mondo pagano non conosce questo fermento, vive nella fatalità; l’agitazione vi s’introduce soltanto per mezzo del contatto con Cristo — come si constata in Cina. Gesù non permette all’umanità di riposarsi in seno ad una sicurezza da cui Dio sarebbe assente. La verità a cui egli rende testimonianza vi si oppone. Il regno dell’amore si erge contro il regno dell’oppressione. Ecco perchè la figura di Gesù giganteggia oggi più che mai. Lo si prende sul serio. I compromessi tra lo spirito del mondo e lo spirito del Cristo coi quali i cristiani si sono così spesso acquietati vanno in frantumi.
I contrasti si accentuano, l’obbligo di scegliere s’impone. Ecco la ragion d’essere dell’inquietudine profonda che agita il mondo, la ragion d’essere di tutte quelle angosciose questioni. Abbiamo noi il diritto, noi cristiani, di accettare la guerra ? Abbiamo noi il diritto di violentarci e danneggiarci a vicenda coi commercio? Il nostro cristianesimo non è desso una misera mediocrità, mezzo divina, mezzo umana e, appunto perciò, impotente come tutto ciò che proviene da un cuore diviso ? La nostra Chiesa risponde essa al pensiero del Cristo ?
I conflitti interni hanno torturato fino alla disperazione l’anima gigantesca d’un Tolstoi e sono alla base di tutte le lotte umane dell’epoca nostra. Il mondo, secondo Iddio, voluto dal Cristo, lavora nelle profondità ed erompe come un vulcano. Tutte queste lotte sono dei precursori della festa di Natale migliori di quel che non sarebbe una pace, una facile sicurezza ; per mezzo di essi il Principe della pace ci dimostra ch’ei vuole entrare nel suo regno.
* »
Così stando le cose, che dobbiamo fare? Dove trovare la soluzione che porterà la liberazione al mondo?
Credo che una cosa sola possa aiutarci:
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camminare con Gesù e percorrere la medesima sua strada. Ciò che nella vita di Gesù è stato riunito, la spada e la croce, dev’esserlo altresì nella nostra vita, ma non certo nei modo di coloro che, in altri tempi e oggi ancora, alzano, per benedire una spada sanguinosa, una croce profana, una croce che nulla ha più a che fare con quella di Gesù.
Il terribile errore del Cristianesimo è stato quello di tradire il pensiero di Gesù, di crearsi un ideale molto basso, fatto unicamente di consolazione e di conforto, per sfuggire a un mondo brutale invece di cercar di.trasformarlo allorquando quel mondo aveva afferrato la spada sanguinante che Gesù voleva sopprimere. Quésto errore è stato commesso perchè il Cristianesimo stesso è caduto sotto la potenza del mondo. La vita divina non è più in esso la forza che giudica e che redime. La spada del Cristo è scomparsa dal mondo. Si predica la pace, ma non si lotta sul serio contro le potenze che distruggono la pace: contro lo spirito di egoismo che regna in tutte le organizzazioni della vita contro lo spirito di Mammona che ostacola il Regno di Dio, contro lo spirito che odia, che litiga, che lancia gli esseri gli uni contro agli altri, che crea una falsa politica, una falsa morale, un falso ordine sociale, una falsa pietà. È’per questo che questa predicazione di pace non è presa sul serio e che appare disprezzabile e ipocrita a molti. Qui troviamo la spiegazione del fatto che l’elemento rivoluzionario che ricorre alla violenza riesce ad insinuarsi nelle file di coloro che chiedono pace. E vediamo chiaramente donde vien ci j : la forza divina che deve rivoluzionare, in tutt’altro modo però, non è ancora rappresentata con potenza e convinzione sufficienti. Ciò che par’essere ordine nel mondo solleva l’indignazione di ciò che v’ha di più nobile nell’essere umano, chiunque egli sia, e lo spinge alla violenza.
Chi ha intravveduto un raggio del Regno di Cristo, non può più accettare il mondo qual'è: colla sua politica, la sua giustizia, la sua morale. Se non capisce il significato di quella luce intravista, allora prende le armi e ricorre alla violenza. Ma quei violenti sono spesse volte più vicini al Cristo di quelli che sono soddisfatti dell’attuale stato di cose. Può darsi che i più nobili, i migliori e i più dolci, quelli che sarebbero pronti a ilare la vita pei loro fratelli, spinti dalla loro indignazione contro la brutalità e l’ingiustizia del mondo, passino sotto la bandiera dei più violenti anarchici. Dichiariamo che, in un certo senso, codeste agitazioni rivoluzionarie hanno la loro sorgente nell’insegnamento del Cristo.
Col rivelare all'umanità l’esistenza d’un mondo superiore, Gesù ha acceso sulla terra un fuoco ardente e ravvivato la lotta ; egli ha destato nell’anima umana il bisogno dell’assoluto. E’ certo che, allorquando l’elemento divino appare in tutta la sua purezza, non ha bisogno di violenza; esso lotta senza valersi d’alcuna spada profana. La rivoluzione è allora più che mai profonda e completa. Là dove invece manca l’elemento divino, la rivoluzione scoppia secondo l’uso del mondo colla violenza del terrore e dell’anarchismo.
Però, più che non si creda, i violenti hanno ragione anche se non si trattasse che di questo mondo e se la protesta divina non esistesse. I cristiani non hanno alcun diritto di lamentarsene fintantoché essi non combatteranno con maggior passione ancora, cioè con una passione divina, contro l’egoismo, là guerra omicida, il regno di Mammona e tutte le potenze inumane.
« * *
Solo là spada divina,’ allorquando appare, può far cadere a terra le spade umane e dar loro torto. Ecco perchè ripetiamo che la pace è impossibile senza la spada.
Bisogna che la grande verità del Regno di Dio ricompaia in tutta la sua forza e la sua serietà assoluta. Bisogna eh’essa infranga definitivamente i vincoli che ancora la legano al mondo. Bisogna che sorgan degli uomini i quali saranno i rappresentanti di quella verità, perchè le avranno dato tutto intero il loro essere. Al principio, ve ne saranno molti che, pur piegandosi ancora esteriormente all’ordine stabilito, ne soffriranno. Lo combatteranno con tutta l’anima loro e non vi si sottometteranno interiormente. Invocheranno il miglioramento coi loro sospiri, le loro speranze e le loro supplicazioni. Così crescerà una forza che si manifesterà nel giorno decisivo e si ergerà come una testimonianza contro l’ordine stabilito, quell’ordine che impedisce alla vera pace di regnare.
Chissà se non verrà il giorno in cui i soldati getteranno le loro armi con questo grido : Non possiamo più sopportare di sparare sui nostri fratelli; in cui i ricchi daranno i loro beni dicendo: Non possiamo più sopportare di vivere nell’abbondanza mentre altri hanno fame; il giorno in cui gl’intraprenditori di affari non si considereranno più come soli proprietari delia loro* impresa e dichiareranno: Abbiamo bisogno di vivere d’orinnanzi coi nostri operai sulla base di relazioni affatto nuove. Quel giorno vi saranno anche dei ministri del culto i quali rinunzieranno alla loro
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professione : Non possiamo continuare a predicare l’Evangelo, diranno essi, fintantoché siamo cosi poco cristiani noi stessi.
Tutto ciò succederà, e più grandi cose ancora avverranno, quando il Regno di Dio ci afferrerà. E' allora solamente che cadrà il regno della violenza, il giorno in cui sorgerà l’alba dello stato migliore.
Il fermento provocato dal Cristo non è più turbato dagli uomini, dal momento in cui è Cristo stesso che viene a giudicare e a rinnovare il mondo.
Allora, è cèrto che, anzitutto, la guerra scoppierà più forte ancora, l’agitazione aumenterà, e delle risoluzioni prese produrranno breccie profonde nel benessere e nella sicurezza delle nostre esistenze. Vi saranno seri conflitti. Lo Stato e la Chiesa si crederanno colpiti e lesi.
Vi saranno divisioni fra gli uomini; ¡ legami naturali saranno allentati, vecchie amicizie si romperanno; perchè coloro che saranno rimasti indiètro diventeranno i peggiori avversari dei loro amici, portatori di rivelazioni nuove. Il figlio si opporrà al padre, la figlia alla madre. 11 turbamento sarà grande. I più dolci si solleveranno, i più pacifici faranno del chiasso. Gesù lo ha detto : non vi è che questa via per giungere alla pace. E’ impossibile sfuggirvi. Vi saranno delle vittime. Allorquando la via deve condurre a una luce più grande, a una nuova tappa, bisogna che i martiri mostrino la via. Prima di giungere alla pace, bisogna ancora camminare sotto il regime della spada, ma anche sotto quello della croce. Diciamolo chiaramente e senza possibili malintesi ! « Colui che non prende su di sè la mia croce e non mi segue, non è degno di me». Se Gesù non fosse stato pronto a lasciarsi mettere in croce, neppure lui avrebbe avuto il diritto di maneggiar la spada. Del pari succede per quanti vogliono seguirlo su quella via che è le sua. A quelli soltanto si rivelerà quella legge inesorabile: è in nome dell’amore soltanto che avete il diritto di portar la spada, è in nome della pace soltanto che avete il diritto di recare la guerra. Solo coloro i quali soffrono delle ferite che la loro arma divina ha dovuto infliggere, delle dispute che la loro missione imponeva loro di suscitare, hanno in ciò la prova eh’essi sono chiamali perchè soltanto l’amore ha il diritto di tener la spada di cui parliamo.
Il Cristianesimo non aveva abbastanza amore: ecco perchè ha lasciato cadere quella
spada. Gli uomini che la tengono non hanno più il diritto di odiare, di colpire per rendere i colpi, di inalidire quando li si maledice. Essi possono distruggere il regno della violenza solo se sonò sfuggiti al suo dominio. Essi dovranno offrire se stessi in sacrificio a quella violenza che s’infrangerà soltanto passando sui loro corpi. Come Gesù, dovranno riscattare la spada colla croce. Allora solamente, e come lui, essi saranno stati messaggeri di pace.
Donde verranno quegli uomini? Dio stesso li sveglierà, poiché tutto ciò che abbiamo descritto, la lotta e il dolore è un elemento divino.
« *
Noi viviamo in un’epoca decisiva. Il contrasto tra il regno di questo mondo e il regno di Dio si accentua, diventa acuto. Siamo ad una svolta della vita umana, alla fine di un ordine di cose e al principio di un altro. Un’epota decisiva anche pel Cristianesimo. Bisogna ch’esso si ridesti, che prenda la spada di Cristo, altrimenti la causa di Dio sarà tolta dalle sue mani e affidata ad altri.
La serietà di quest’ora concerne ciascuno di noi; prima della pace verrà l’angoscia, ed è per mezzo di essa che Dio metterà alla prova la nostra fedeltà.
Beato chi è armato pel combattimento. Beato chi non è avvinto nelle catene di questo mondo.
Io saluto con gioia l’alba del giorno che ci desta per l’azióne, che ci trae dalla nostra pericolosa sicurezza colla sua chiamata alla vera vita.
Non lamentiamoci di quell’appello austero. Si è accusato Gesù di distruggere l’armonia antica. Ma non era forse il solo mezzo di portare all’anima e al mondo la vera libertà? Senza di lui, saremmo schiavi del mondo e volendo guadagnare la vita la perderemmo. E’ per mezzo dell’inquietudine ch’ei ci condurrà alla vita libera, regale e divina.
In mezzo alla tempesta, e nonostante il timore che precede l’avvento del regno di Dio, accogliamo la sua venuta con grida di gioia. Egli viene, è la vita! I vostri lombi sian cinti e le vostre lampade accese, e siate come coloro che aspettano il loro Maestro!
Zurigo.
L. Ragaz.
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PAGINE SCELTE:
UNA VEDUTA DELLA REALTÀ
E’ questo un articolo pubblicato da un o geografo incredulo'» nel Bollettino dei Professori universitari cattolici di Francia. Si tratta di un vero bassorilievo sociale. In questo anonimo capolavoro, il contrasto delle ombre e delle luci è di un’austera e dolorosa bell essa. Lo scritto, riprodotto da Marc Sangnier nel suo giornale La Democratie, è anche citalo da W. Monod nel lavoro esaminalo in un’altra parte di questo medesimo numero : Conte si diventa cristiani sociali o magari anche socialisti cristiani, e serve all’autore per dimostrare il suo asserto che le vecchie forinole religiose non bastati più per soddisfare i bisogni e risolvere i problemi dell'ora presente. [Red.].
Amiamoci gli uni gli altri. Sta bene. Ma in che modo amarsi se non ci si comprende?
Infatti, ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, non hanno che una parte molto piccola di responsabilità nella lotta che li pone di fronte; gli uni e gii altri sono lo zimbello di una forza impersonale, che agisce sul mondo delle passioni sociali col medesimo ineluttabile rigore che l’attrazione della luna sui flutti del mare. E’ dal punto di vista economico che bisogna considerare gli uomini per comprenderli, e — se si può —- per amarli. Lasciatemi raccontarvi una semplice storia.
Vent’anni or sono, tutta la regione che si estende tra Longwy et Briey era uno dei punti più desolati della Lorena ; vecchio residuo dell’antica foresta delle Ardenne, esso era rimasto la contrada selvaggia che spaventava i soldati di Cesare. Fitte boscaglie dove solo regnava il cinghiale ; nessun villaggio ; punti abitanti ; appena, qua e là, qualche tugurio di carbonai simili a capanne di selvaggi.
Alcuni ingegneri avevano pensato di trarre quel paese dai suo sonno millenario. Avevano trovato, smuovendo il suolo, alcuni sassi dove vedevansi delle tracce di ferro; ma, all’analisi, quel ferro fu riconosciuto fosforoso. Il fosforo rende fragile la ghisa. « Un chilo di ghisa
lorenese in una storta Bessemer, dissero, è una colata perduta ». Essi lasciarono il paese. I tedeschi, nel 1871, dopo qualche esitazione abbandonarono alla Francia quel deserto pensando che non se ne poteva cavare nulla.
Ora, vent’anni or sono, un chimico inglese, lavorando nel suo laboratorio, scopre che certe materie terrose hanno la proprietà di ridurre il fosforo. Egli imagina di costruire una storta in tal modo che, se vi si mette della ghisa fusa, le pareti dell’apparecchio sono sufficienti per fissare il fosforo e lasciano uscire soltanto un metallo puro e resistente. E’ questa la storta basica di Sir Tommaso Gilchrist. Ed ecco che una rivoluzione sta per compiersi ; una di quelle rivoluzioni che gli storici ignorano, e che pure sono le sole che trasformano e rinnovano in modo duraturo la faccia del mondo.
Guardate bene quello strumento panciuto che oscilla pesantemente sul suo asse: di là stanno per uscire, per milioni di uomini, delle officine, delle città, della ricchezza e del dolore, della civiltà e della miseria.
Non v’è che un fattore di rivoluzione : la scienza.
Ed ora la scena cambia. Un banchiere, nel suo studio, legge un rapporto d’ingegneri: uno scienziato inglese ha trovato il mèzzo di ridurre il fosforo ; ma allora, il minerale lare-tiese diventa utilizzabile! Quella terra sterile può portare delle officine ; quei sassi racchiudono milioni! Bisogna sfruttarli.
Ben presto, mediante qualche mancia, il nostro uomo ottiene da un Parlamento ignorante, per un canone derisorio, una concessione di alcuni milioni di ettari nella regione della Meurthe e Mosella. Poi lancia una emissione alla Borsa, pubblica dei « soffietti » nei giornali, raccoglie alcuni milioni, arruola degl’ingegneri e costruisce delle officine. Gli alberi secolari cadono, gallerie sono scavate sotto terra, camini si rizzano verso il cielo, colossali martelli a vapore scuotono il suolo ; tutta l’antica foresta risuona d’un fracasso ciclopico ;
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e, la notte, gli alti forni infiammano il cielo con una luce di vulcano.
Allora da ogni parte, dalla Francia, dal Belgio, dalla Germania, dall’Italia, dalia Polonia, accorre la folla macilenta degli uomini senza dimora, i quali, un fagotto sulla spalla, se ne vanno pel mondo cercando una galleria di miniera dove piegare il loro torso, una macchina dove irrigidire le loro braccia, un forno dove bruciare il loro volto, perchè quella rude fatica rappresenta, per essi, del pane, un ricovero, dell’alcool e dell’amore.
Si drizzano degli accampamenti, e poi si costruiscono delle case, delle botteghe, delie bettole, un ospedale, un municipio, una città, varie città ! Jceuf, Godbrunge, Monte S. Martino ! Duecento mila uomini si pigiano in quell’angolo poco prima deserto.
Magico effetto di una storta basica!
Ed ora ecco le locomotive ansimanti fermarsi alla porta delle officine. Nei vagoni si ammucchiano le rotaie, i travicelli, i pezzi di macchine che i piroscafi trasporteranno in Turchia, in Africa, nel Giappone, nella Nuova Zelanda. Col ferro lorenese si costruiscono le strade ferrate sotto i tropici o nelle nevi della Siberia ; le fiamfias deserte diventano nutrici d'uomini ; la sicurezza, l’ordine e la pace penetrano nelle montagne Curde; la Cina addormentata si apre ad una coltura nuova. Nei colpi pesanti del martello a vapore della Lorena, si ode battere il cuore della civiltà universale !
Ma bisogna produrre, produrre sempre ! Nessun arresto nel lavoro; nessun riposo! Un alto forno che si spegne è un alto forno perduto; e un alto forno costa 100,000 lire. Gli azionisti aspettano i loro dividendi ; i concorrenti stranieri cercano di toglierci le ordinazioni. Bisogna lottare cogli inglesi per ottenere una partita di locomotive pel Brasile, coi tedeschi per la costruzione d’una ferrovia in Siria. Si fa appello al Governo per sostenere la metallurgia nazionale. I diplomatici intrecciano intrighi, intese, alleanze, combinano degli « aggiramenti » e delle rotture. Si letica pel Marocco o per la strada ferrata di Bagdad ; Schneider contro Krupp, Essen contro Birmingham ; Parigi manda proteste agrodolci a Berlino, Berlino spedisce note poco cortesi a Londra; si minaccia di mettere in moto le corazzate ; le dreadnoughls allungano il muso minaccioso dei loro cannoni; i popoli, abilmente messi su dalla stampa — tutta quanta nelle mani dei finanzieri — si agitano, s*irritano. E’ la guerra che, tutta armata, esce fuori dalla storta Thomas come ne uscivano poco prima la pace e la civiltà.
Intanto, seduto alla sua scrivania, tra il suo telèfono e i suoi libri, il capo dell’industria, come un capitano sul ponte di comando, dirige l’enorme impresa: sorvegliando i suoi ingegneri, i suoi operai, le sue macchine, i suoi azionisti, i suoi clienti ; seguendo nello stesso tempo i movimenti sociali e le oscillazioni dei mercati internazionali ; sballottato tra le crisi parlamentari e gl’intrighi internazionali, egli deve ogni giorno prevedere un accidente, evitare uno scoglio, pieno d’energia e di sangue freddo, l’occhio limpido e la mano ferma, tutto teso dalla volontà di vincere.
Ma .ecco, s’odono dei mormorii fra l’equipaggio della nave. I disgraziati che ansavano in fondo alle gallerie delle miniere, o alla bocca dei forni, soffrono e si ribellano: la miniera li soffoca, la macchina li stritola, il forno li brucia, l’officina li consuma. Quale gioia hanno essi in cambio di quell’estenuante lavoro? Un vestito sudicio ; un’abitazione lurida ; punte donne ; nessuna vita di famiglia ; nelle officine nuove non si son condotti dall’Italia e dalla Polonia che dei maschi.
Prostituzione, alcoolismo: l’ebbrezza che rende folli, l’amore comprato che imputridisce. Avvilito nel suo corpo, insaziato nella sua anima, il proletario si sente invaso da una oscura disperazione. La potenza dei ricchi, il loro lusso, la civiltà, l’ordine e la pace riposano sul suo lavoro di schiavo. Come l’Ebreo nell’antico Egitto, ei sente pesare sul suo dorso tutti i sassi delle Piramidi.
Da pecora calma e impaurita, ad un tratto ei diventa arrabbiato. Bruscamente, a proposito di un nulla, di una delle mille seccature ch’ei subisce senza mormorare ogni giorno, egli cessa di lavorare: è lo sciopero!
— Che cosa succede? esclama il principale furibondo. Ecco le mie macchine immobili ; i miei alti forni perduti ; il nostro cliente brasiliano disdirà il suo contratto; l’inglese, il tedesco che stanno in agguato ci porteranno via le nostre ordinazioni. Ecco i nostri dividendi diminuiti, il nostro avvenire compromesso. Ah no ! niente arresto, niente sciopero. Bisogna produrre. Presto, andiamo a cercare il politicante addormentato che calmerà quella gente. Se no, ben vengano le baionette democratiche !
E’ fatto! Una larga pozza di sangue imbratta la polvere del grande piazzale davanti all’officina. Il triste gregge rientra; le macchine rombano di nuovo. Tutto è a posto... sino alla prossima rivolta.
Questa è la questione sociale.
Prodotto dell’odio e dell’orgoglio, dell’egoismo e della misèria, dicono gli spiriti super-
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fidali. No, prodotto di una storta ! Effetto inevitàbile del macchinismo, figlio della scienza, causa di ogni progresso e di ogni lotta, di ogni civiltà e di ogni miseria, creatore del bene e del male, forza insensibile e ineluttabile !
Nei tempi antichi, nell’ergastolo romano, dove soffriva lo schiavo, l’apostolo cristiano recava la dolce parola; il monaco irlandese penetrava nella foresta sassone per portare al germanico e allo slavo un po’ di luce. Mi si dice che ancora oggi dei missionari sen, vanno a predicare ai cinési e ai malgasci.
Chi dunque evangelizzerà la Meurthe e Mo-sella?
Soltanto, badateci, la paróla antica ha bisogno d’essere rinnovata.
Predicate all’industriale la carità, ei vi risponderà: costo di produzione. Dite all’operaio : rassegnazione, ei vi risponderà : disoccupazione.
Per parlare a quegli Uomini che faticano nella rossa geenna del ferro, bisogna trovare un linguaggio nuovo. Quale? Tocca a voi, cristiani, di trovarlo. Spiriti lucidi, anime ardenti, cercate e trovatelo. Altrimenti, non sarete mai altro che dei recitatori di oremus, buona gente dal cuore tiepido e fiacco che il vostro Maestro rigettava, indegni figli di colui che predicava ai pecorai nelle campagne della Galilea e li amò sino alla morte.
¿7» geografo incredulo.
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COME IL CRISTIANESIMO INGLESE SI VA PREPARANDO ALLA PACE, ALLO SCOPPIARE DELLA GUERRA
« Abbiate fiducia in Dio, e badate di tenere asciutte le vostre polveri», era la raccomandazione di Oliver Cromwell alle sue truppe. Cosi, con le vesti succinte e la lucerna ardente nelle loro mani, le chiese cristiane in Inghilterra si sono preparate ad affrontare la terribile prova che attende l’impero britannico e l’Europa tutta, con un forte senso di responsabilità religiosa, memori che nelle grandi crisi, più ancóra che nei periodi di ordine, debbono i discepoli di Cristo riconoscersi dall’amore fraterno, e che non il solo pregare « Signore, Signore ! » si addice al cristiano, ma «il fare la volontà del Padre celeste».
E la voce che discende da tutti i pergami e si solleva da ogni meeting è d’invito e di proposito di dare al mondo uno spettacolo degno di una nazione cristiana, e di trarre bene dal male, preparando nell’abnegazione e nei sacrifizio che ora tutte le classi volontariamente accettano, un nuovo edificio sociale in cui i sentimenti ora considerali come di eccezione divengano la norma della sociale convivenza.
Se dovessi tener conto di tutto quello che le autorità dello Stato e la privata iniziativa van facendo per fronteggiare i problemi della disoccupazione e della miseria, non esagererei punto dicendo che lo spirito cristiano in atto di cui esse danno una splendida mostra, è il più grande omaggio dell’attività dispiegata dalle Chiese specie nell’ultimo periodo di risveglio religioso a tipo di servizio sociale.
Dovrei allora cominciare dal ricordare gli sforzi fatti dal governo inglese, in persona di Sir Edward Grey, per conservare la pace europea e mantenere la neutralità inglese ; dovrei
ricordare l’opposizione fatta al Parlamento, — e fuori in centinaia di comizi, — alia dichiarazione di guerra, in nome dei più puri principi cristiani. E dovrei mettere a conto dell’opera di conversione delle classi agiate operata dal cristianesimo alleato e incorporato con la democrazia, i grandi provvedimenti già presi dalla Nazione per alleggerire « il peso che sta per piombare sulle spalle più deboli e meno preparate a sopportarlo », come ha detto nel suo proclama, per raccogliere il fondo di soccorso, il principe di Wales : dovrei accennare’ alla somma di 13 milioni già raccolta per tale fondo in soli tre giorni ; alla somma di due miliardi e mezzo votata dal Parlamento, non solo per le spese di guerra, ma anche per il sollievo dei più bisognosi ; ai 100 milioni dedicati alla costruzione di case popolari per fornire impiego ai disoccupati ; ai provvedimenti presi dal governo e secondati dalla maggioranza della popolazione, per impedire l’approvvigionamento egoistico delle famiglie a danno della parte più povera della comunità: insomma, a tutto il sistema di prevenzione della miseria, condotto sulle linee della più elevata giustizia e carità sociale.
Ma ciò richiederebbe, da un lato, un lungo studio, e dall’altro non potrebbe dare che una veduta sommaria delle grandi linee del programma, il cui svolgimento si andrà eseguendo per mesi, se non per anni. Riferirò invece delle espressioni delio spirito che anima in questo momento le diverse frazioni della famiglia cristiana in Inghilterra : del modo con cui esse riguardano la situazione e i doveri che essa impone loro: delle loro speranze, delle loro previsioni.
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NOTE E COMMENTI
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A tale scopo, ho compiuto un’inchiesta, raccogliendo alcune voci più rappresentative, specie in pubblici meetings, in servizi religiosi, in proclami delle Chiese. Fra questi ultimi, riporterò qualche brano dell’appello lanciato « agli uomini di buona volontà » dalla Società dei « Friends » (Amici). « In quest’ora solenne, quale dev’essere —essi si domandano — l’atteggiamento degli uomini e delle donne cristiane, e di tutti quelli che credono nella fratellanza umana? Nell’angoscia e perplessità della nuova situazione, molti sono rimasti così sbalorditi che non possono quasi discernere qual'è la via del dovere. Avendo Dio innanzi Sii occhi, noi dobbiamo cercare anzitutto di irci ai nostri più fermi principi, e determinarci ad operare in modo da poterci sentire degni cittadini del Suo Regno. Nel fare questo sforzo, richiamiamoci alla mente quei gruppi di uòmini e di donne in tutte le altre nazioni interessate, che saranno animati dallo stesso spirito, e che con noi credono che l’unione fondamentale degli uomini nella famiglia di Dio è la sola realtà, duratura anche quando siamo forzati di rinnegarla apparentemente.
« Benché sia prematuro pronunciarsi su molti aspetti della situazione, della quale non abbiamo dati sufficienti per darne esatto giudizio, noi possiamo e vogliamo chiamar voi e noi stessi a considerare certi principi che possono sicuramente essere enunciati :
« i° Le condizioni sociali che hanno determinato la présente catastrofe, devono essere da noi riguardate come essenzialmente anticristiane. Questa guerra significa il fallimento di molte cose che noi troppo leggermente chiamiamo. cristiane. Nessuna Nazione o Ghiesa o individuo può interamente sottrarsi a questo giudizio; tutti più o meno abbiamo avuto parte nel preparare queste condizioni, e siamo stati o soddisfatti o troppo poco insoddisfatti e contrari ad esse. Se noi pronunciamo parole di biasimo, non manchiamo però di biasimare anzitutto noi stessi, e di implorare il perdono dal Dio onnipotente.
« 20 In quest’ora di notte tenebrosa, non è degno di noi di perdere coraggio. Non vi fu mai più gran bisogno di uomini di fede. A molti verrà la tentazione di negare Iddio e di allontanarsi, disperando, dal Cristianesimo che sembra identificarsi con una carneficina su gigantesca scala. Cristo è invero di nuovo oggi crocifisso. Ma se molti l’abbandonano e fuggono, non tralasciamo di vedere quanti altri vi sono che restano impavidi con Lui, qualunque cosa accada.
« 3° Questo noi possiamo fare, continuando a mostrare a tutti lo spirito di amore. Per quelli a cui la coscienza proibisce di prendere le armi, vi sono altri modi di servire, e accordi definitivi sono stati già presi per renderli capaci di prendere una piena parte nel-l’aiutare il loro Paese in questa crisi. Nel compatire ed aiutare i feriti e i sofferenti nel nostro Paese, tutti dobbiamo aver parte. Ma se ci fermassimo a questo, « che cosa faremmo noi più degli altri ? ». Il nostro Maestro ci comanda di pregare per i nostri nemici e di amarli. Possiamo noi essere scusati se dimentichiamo che anch’essi sono figli dello stesso Padre? Riusciamo noi a pensare ad essi con amore e pietà? Possiamo bandire da noi pensieri di amarezza, aspri giudizi, spirito di vendetta? Il far questo non è antipatriottismo. Può essere che noi siamo vittime di malintesi, ma il nostro dovere è chiaro, dobbiamo essere coraggiosi nella causa di amore e nell’odio all’odio. Siamo pronti fin da adesso per il giorno in cui, ancora una volta, noi saremo in cordiali rapporti con quelli con cui ora stiamo in guerra, uniti nella ricerca del regno di Dio.
« 40 Non è troppo presto il pensare fin da ora alla situazione che sorgerà al termine della presente guerra. Non possiamo a meno di verificare faccia a faccia questo fatto, che la razza umana è stata colpevole di una follia gigantesca. Noi abbiamo, cioè edificato un livello di coltura, una civiltà, ed anche una vita ré ligiosa, superiore in molti rispetti a quella di ogni periodo anteriore, e ci siamo contentati di dare per base a tutto questo uno strato di sabbia. Una simile condizione sociale non può durare fino a che negli affari umani l’ultima parola resti alla forza. Prima o dopo, tutto doveva andare in frantumi.
« Ora, quando l’attuale guerra sarà terminata, noi ci troveremo di fronte ad una missione maravigliosa di ricostruzione sociale. Se essa sarà, da un lato, resa sommamente difficile dall’eredità di mal’animo, dalla distruzione di vite umane, e soprattutto dal gravame di provvedere al mantenimento dei milioni di persone rovinate dalla guerra, dall’altro lato, sarà facilitata dall’opportunità di rifare tutto e intieramente da capo. Nessuna nazione essendo più allora in condizione da suscitare una gara fra le altre nazioni per contendere ad essa quel primato militare che esisteva prima della guerra, sarà possibile di ricostruire l’Europa e la civiltà sopra l’unica base permanente possibile, cioè la fiducia reciproca e la buona volontà.
« Tale ricostruzione, non solo assicurerebbe
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la civiltà europea dell’avvenire, ma salverebbe il mondo dalia catastrofe ulteriore che lo minaccia, di véderé le grandi nazioni dell’Asia costruire anch’esse sull’arena il loro nuòvo ordinamento sociale, e rivòlgere gli sforzi e la ricchezza richiesti per la loro educazione e sviluppo, verso un sistema che rappresenterebbe uh impaccio per esse stesse e una minaccia per l’Europa. Tutti coloro che credono alla possibilità di un assestamènto sociale che garantisca per sempre contro la ripetizione di tale follia, dovranno renderlo possibile con l’unione dei forò sforzi:, e devono fin d’ora prepararsi a raccogliere i frutti della pace finale e a salvare la società da un nuovo ricorso del militarismo e delle rivalità nazionali. In tempo di pace, tutte le nazioni si sono preparate per la guerra : che tutti gli uomini di buona volontà, in tempo di guerra, si preparino per la pace. Le grandi democrazie sorelle, nelle diverse nazioni, debbono tenersi pronte a far sentire la foro influenza. E’ ora il tempo di parlare di questo piano di pace, di lavorare per esso, di pregare per esso.
« 50 Di vitale importanza ci sembra che la guerra non sia condotta in spirito di vendetta e che sia terminata il più presto possibile. Bisogna che fin da ora ci poniamo bene in mente che noi non ci prefiggiamo di schiacciare alcuna nazione. E se l’opportunità si presenterà, dovremo proporre condizioni accettabili da tutte le parti, e condurre i negoziati con spirito equanime. In un tempo in cui le grandi cause del progrèsso morale, sociale, religióso, ricevono un colpo sì terribile, nói dobbiamo rivolgere gli occhi con fiducia verso Colui a cui queste cause appartengono, e trovare nuòvo Coraggio nella certezza che il Suo Regno verrà : il Regno dei « Principe della Pace».
Che questo calmo e solenne appello di una società cristiana caratterizzata dalla sua pratica eroica e radicale della non resistenza armata e dal grande interesse che prende nella causa del servizio sociale, anziché provocare il rimprovero di inopportunità o di idealismo ingenuo, sia stato accolto con rispetto e simpatia quasi universale, quale espressione di sentimenti latènti in fondo ad ogni anima cristiana, è caratteristico dello stato attuale degli spiriti ih Inghilterra, e getta luce su tutta la situazione della coscienza nazionale. Esso móstra come sul terreno umanitario lo spirito cristiano s’incontri con gli ultimi escogitati dèi più radicali riformatori sociali. Alcuni di questi, nel segnalarmi come i provvedimenti presi dal Governo per una eventuale espropriazione forzata del cibo, la nazionalizzazione
dei servizi pubblici, l’assunzione da parte dello Stato dei grandi lavori per provvedere alla disoccupazione, la determinazione del prezzo dei cibi, ecc., da próvv.edimenti eccezionali diverranno probabilmente permanenti dopo la guerra, preparando l’avvento del collettivismo di Stato, mi parlavano, senza avvedersene, in termini di pura morale cristiana. Uno di essi, il signor Osbom, mi faceva notare che « non appena le persóne cessano di riguardare all’industria, al commercio, all’amministrazióne pubblica, dal punto di vista dell’utile individuale, per propórsi ad obbiettivo l’utilità generale, senza avvedersene cadono in provvedimenti di legislazione socialistica, anziché sociale ». Ed io, alla mia volta, gli facevo osservare che essi cadono anche in pieno cristianesimo :
« Portate l’uno i pesi dell’altro, e cosi adempirete la legge di Cristo»; «Che la vostra abbondanza sopperisca alla forò miseria, ih modo che vi sia l’eguaglianza». Un altro, il sig. Milum, mi ricordava il passo dell'Epistola a Diognete : « I Cristiani dimorano nella foro patria ma come di passaggio ; essi partecipano di tutti i vantaggi come cittadini, e di tutti gli svantaggi come forestieri ; ogni terra straniera è per essi cóme una patria ed ogni patria come terra straniera».
Così, anche gli orrori della guerra suscitano, in uh terreno preparato, un soffio di intenso idealismo : « Habenti dabitur, et abundabit ».
Ed ecco un’altra nota di speranza e di conforto dalla bocca dell’arcivescovo di Chanter-bury :
« ... Si sono forse tutti i nostri sogni di pace rivelati quali fantasie da fanciulli ? È forse vero che lo spirito bellicoso è così inveterato ed essenziale alla natura umana che l’estirparlo è un’impresa dà fanatici? Io non posso crederlo per un solo istante sènza rinnegare la fede, le promesse, le speranze cristiane... Un centinaio d’anni fa, niuno, salvo un pugno di uomini, credeva che le controversie fra nazioni potessero esser decise da altro arbitrato che da quello delle armi : ed óra, benché ancora la voce della passione abbia il sopravvento, e benché le nostre frustrate speranze siano tentate di mormorare perché le nostre preghiere non furono esaudite, pure non v’è dubbio che diecine di migliaia di persone si sono gettate in questa Causa con Un ardore che esse ripetono, a ragione, da Dio...».
In questo momento, la fortezza, il dominio di noi stessi, sono non solo desideràbili, ma un sacro dovere : a capo alto, intrèpidi, fiduciósi, dobbiamo camminare innanzi, col cuore e con le orecchie aperte alla sua voce; in-
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nanzi, a compiere nella nostra casa e sul terreno del lavoro quei semplici doveri che ogni giorno richiede da noi. Raffreniamo con forte braccio tutte le emozioni in questo frangente: imponiamoci un’autodisciplina e spirito di sa-grifizio : una virilità e femminilità da cristiani. Ogni rivalità egoistica deve esser bandita sì nelle piccole come nelle grandi cose, ogni pensiero di trar vantaggio dall’imbarazzo del prossimo in un periodo di tempo in cui le norme ordinarie della vita sono fuori d’ingranaggio. Nel « portare ognuno i pesi dell’altro » saremo figli del nostro Padre che è nei Cieli... ».
Accenno qui di passaggio che il Vescovo di Londra ha voluto seguire come cappellano di guerra la brigata fucilieri di Londra : e passo sotto silenzio le migliaia di comitati costituiti quasi in ogni chiesa di qualunque denominazione per venire nel modo più efficace in soccorso ai molteplici bisogni che si annunziano. Riferirò però almeno un’eco dei propositi espressi ieri, domenica, su alcuni dei principali pulpiti di Londra, non diversi certamente da quelli risuonati in tutta l’Inghilterra: notevole in essa la nota tutta pratica, volta a scongiurare alcuni dei più immediati pericoli. Per es. il Vescovo di Londra inculcò che non si desse accesso ad un timor panico facendo delle provviste straordinarie che produrrebbero un aumento dei prezzi dei viveri. Il famoso oratore Campbell, impedito dal tenere il suo sermone nella « City Tempie » inviò un appello al suo uditorio, da cui trascrivo le parole : « È questo il tempo che tutti noi mostriamo di che cosa sia capace la fortezza cristiana. Se noi abbiamo vera grandezza d’animo, ciò si mostrerà quando il bisogno e la miseria, la desolazione e i guai diverranno i compagni famigliari della nostra vita giornaliera, e livelleranno tutte le barriere del privilegio. Nel periodo calamitoso che ci sovrasta stringiamoci tutti e sosteniamoci fino al limite delle nostre risorse materiali e morali ».
Il canonico Carnegie in un discorso impressionante pronunziò quale risultato della guerra più terribile a cui il mondo abbia assistito, il sorgere di nuovi problemi sociali e politici, e forse il predominio di nuove idee di progresso in tutti i campi. « Noi — egli disse — non combattiamo perchè desiderosi di guerra ma perchè vogliamo affrettare la pace». Generalmente, la nota dominante in tutti i pergami fu quella che il rev. Mac Fadyen fece sentire nella Howard Hall a Letchworth : « Il mondo ci sta osservando in questo momento per vedere che cosa significhi l’essere cristiani: per vedere se noi che abbiamo elevato la nòstra protesta contro la guerra siamo ad essa
superiori o inferiori : se rifuggiamo da essa per pusillanimità e per fievole senso dell’onore nazionale, ovvero perchè crediamo veramente che la vita sia meritevole di un uso migliore. Se abbiamo fiducia nella superiorità dei nostri valori, è questo il momento di « cavare fuori dal nostro tesoro i valori vecchi ed i nuovi », secondo che il bisogno dei nostri fratelli lo richiederà ».
« • •
Nè l’appello degli oratori sacri è riuscito vano: già tutte le chiese cristiane fanno a gara — dalla < English Church » alla « Salva-tion Army » — nel mettere le loro istituzioni di beneficenza e il loro personale a disposizione del Gomitato nazionale di soccorso ; migliaia di signore si son poste a disposizione della « Croce Rossa » e più ancora delle « Guilds of help» e organizzazioni locali: le Offerte sono affluite al « Fondo Nazionale del Principe di Wales » per il soccorso delle vittime della guerra, e... — conseguenza inaspettata e comica di un lodevolissimo sentimento — l’invito fatto da parecchi pergami di adottare una dieta morigerata, astenersi da cibi di lusso, ecc., per dedicare il risparmio a sollièvo dei futuri bisognosi, ha prodotto una tale astensione e quindi tale ribasso di tutti i generi più ricercati (selvaggina, pesci delicati, frutta costose, ecc.) che ora i mercati ne sono inondati e i negozianti sono obbligati a venderli a prezzi inverosimili: mentre al contrario, alcuni generi più ordinari sono aumentati di valore. Si calcola che nei tempi ordinari solo un terzo della popolazione di Londra frequenti nella domenica «servizi religiosi »: ma la domenica scorsa tutte le chiese, tutte le. cappelle, tutti i «brotherhoods», tutte le adunanze religiose di qualunque genere erano affollate.
Non terrore nè panico nè spensierata fidanza ; non egoistiche preci nè baldanzosa fiducia nel Dio degli eserciti ; non oblio della fratellanza umana e del carattere sacro di ogni uomo nemico, non odio nè passioni terrene, salgono dal fondo dell’anima cristiana inglese in questo momento ; ma un senso di venerazione verso il mistero della società umana che sembra richiedere olocausti di dolori infiniti sulla via della propria ascensione; di fiducia nella prevalenza dell’amore sull’egoismo, della verità sulla passione, in un non lontano avvenire; di speranza contro ogni speranza; di fede nella pace, in piena guerra : di abnegazione, di simpatie universali, di perdono, di amore.
Lo spettacolo che l’Inghilterra cristiana dà in questi giorni, è degno di figli di quel Padre celeste, il quale fa — in queste magnifiche
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giornate di agosto, meritevoli di esser cornice a scene più liète — splendere il suo fulgido Sole su russi, francesi ed inglesi, come su austriaci e tedeschi, nello stesso modo come loro tributava pioggie benèfiche prima che essi irrompessero in questa guerra fratricida.
«Quando, oSignore, salverai il tuo popolo?» — hanno gridato milióni di voci ih questi giorni, da ogni luogo consacrato alle più alte esalazioni dello spirito. — « Quando salverai — non i re e i dominatori, ma le nazioni? Fiori de) tuo cuore, o Dio, esse sono. Salva o Signore, il popol tuo !
E che? il delitto produrrà sempre delitti, e la forza aiuterà sempre il forte? Salva o Signore il popol tuo ! Non i re e i dominatori, ma le nazioni. Essi son figli tuoi non meno che i tuoi angeli belli. Dal vizio, dall’oppressione,. dalla disperazione, salva, o Signore, il popol tuo ! ».
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Un'ultima nota tutta inglese! Al tempio eretto al «Principe della Pace», al Palazzo della Pace all’Aja è córso con tenerezza patetica il pensiero dei più devoti cultori delia pace, che in quel tempio risiede come una promessa ed un pegno. Un inno apparso sul «The Thimes» e riprodotto da altri giornali, dal titolo: « Preghiera per la pace » è tutto un conforto alia gentile personificazione dell’ideale della fratellanza umana e una promessa che quel tempio starà eretto come faro luminoso e voce di rimprovero solenne quando le nazioni saranno rientrate nell’ordine. E il « Christian Commonwealth» appone sotto l’incisione del « Palazzo della Pace » l’epigrafe consolatoria :
«Questo nobile edificio non è stata una patetica futilità, bensì il simbolo di una grande idea destinata a trionfare : « Pace sulla terra e buon volere tra gli uomini ».
« Esso sta eretto come una profezia e un monumento di quel tempo che, per quanto ora sembri lontano, non potrà tardare, -in cui le spade saranno trasformate in aratri e gli sproni in roncole per potare: in cui le nazioni più non sapranno che cosa sia guerra».
Con questo idealismo il cristianesimo inglese si prepara a raccogliere i frutti della vittoria.
Se non vuoi la guerra prepara la pace.
Londra, ago«« 1914.
Giovanni Pioli.
IL NUOVO PONTIFICATO
Se si accetta il comune giudizio, secondo il quale Pio X fu un papa « religioso » non si può non notare subito che, nel giudizio degli stessi cardinali riuniti in conclave, l’esperimento di un papa « religioso > non poteva riuscire più disastroso. Essi si sono infatti affrettati ad eleggere papa il più certo rappresentante di quell’altro pontificato diplomatico del quale Pio X interruppe così bruscamente la tradizione. Il nuovo papa ha passato tutta la sua vita di lavoro accanto al card. Rampolla, sino al giorno in cui questi perdette a un tempo la direzione degli affari vaticani e la tiara; ritiratosi il Rampolla, il suo fidissimo coadiutore era stato coinvolto nella disgrazia del suo capo, tanto che solo pochi mesi addietro, morto quello, potè avere la porpora. E sei anni di arcivescovado non furono per lui che un esilio.
Il conclave non poteva dare un più sevèro giudizio, con la sua scelta, dell’opera di Pio X.
Altra constatazione. Il Della Chiesa non era stato sino all’ultimo, in Vaticano, che un impiegato ; una specie di capo di gabinetto del ministro, segretario di Stato. Egli non aveva mai avuto una personalità sua, mai avuto occasione di parlare o di agire per conto proprio. Freddo, chiuso, taciturno, cinto di una piccola impenetrabile corazza di riservatezza, armato di una sottile punta di ironia, egli era l’uomo che non doveva avere; che non aveva idee sue. Attendeva ed eseguiva gli ordini. Tanto ciò è vero che dopo essere stato venti anni con Rampolla potè stare cinque anni, nello stesso ufficio nel quale Rampolla lo aveva lasciato, con Merry del Val. I sei anni di arcivescovado non hanno in nulla diradato il segreto di questa
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sfinge, perché l’arcivescovo si considerava a quel posto provvisoriamente, sinché la bufera passasse ; cauto, appartato, si limitava a dare ordini secchi e precisi, eseguiva passivamente le direzioni di Roma, evitava ogni atto che potesse essere discusso e, quando doveva scrivere per i suoi fedeli, si faceva stendere pastorali pietistiche, composizioni senza anima.
In un moménto difficilissimo e turbinoso, dopo due pontificati pieni di crisi e di contraddizioni e di delusioni, i cardinali hanno eletto l’uomo che aveva più taciuto, del quale meno si conoscevano le idee. Due nomi garantivano per lui: Leone XIII e Rampolla. Ma non bastava. Egli stesso garantiva per sé, in questo senso : che, pontefice, avrebbe continuato ad esser cauto, freddo, misurato, prudente ; non avrebbe commesso errori gravi, di nessuna sorte. E questo è bastato. Non si poteva avere di più, con nessun altro nome...
Sarà, dunque, un pontificato di raccoglimento. Con Leone XIII il papato si provò ad estendere la sua influenza ; aveva incoraggiato la scienza, la critica, la democrazia, si era avvicinato alla repubblica francese, aveva stimolato stu
diosi e uomini d’azione. E il risultato fu un grande spavento per il modernismo che minacciava la chiesa.
Venne Pio X, e tentò di salvare la chiesa dal modernismo. Ma il salvataggio è costato troppo, come abbiamo visto.
Benedetto XV dovrà dunque salvarsi da queste due vie. Il conclave non gli ha dato nessuna indicazione ; ha Scelto lui perchè, non sapendo nulla di lui, questo sapeva, che egli non era nè per l’una nè per l’altra via e che aveva avuto l’abilità di guardarsi dalla scelta.
Questa abilità assisterà il nuovo pontefice. Se il papato ha smarrito la sua via, esso conserva o riacquista, nello smarrimento, la virtù della prudenza, dell’ equilibrio, della paziente attesa. Protrae. E intanto la vita religiosa vera, quella che è sincerità e libertà e iniziativa, si isterilisce al centro, si isterilisce in tutto il corpo. O la stasi, che irrigidisce, o il progredire, che mette in pericolo l’ortodossia e l’autorità. Più che un pontefice, un capo, Benedetto XV ha l’aria di essere un commissario. Ma a vita, e senza superiori.
È un terzo aspetto, e interessantissimo, della crisi dell’autocrazia nella chiesa: l’infallibilità taciturna. a.
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COME SI DIVENTA CRISTIANI-SOCIALI O MAGARI SOCIALISTI-CRISTIANI
Il ben noto pastore e professore parigino, W. Monod, ha presentato ii 2 ottobre 1913 ad un convegno di studenti tenutosi in Sainte-Croix (Svizzera) un lavoro davvero suggestivo. Esso è stato pubblicato poche settimane or sono (1) e merita anziché una recensione affrettata, un ampio ed accurato riassunto.
I.
L'autore — com’è sua lodevolissima abitudine — comincia col darci un’ impressione d’insieme, col situare l’argomento speciale che tratta nella grande cornice delle leggi universali.
Noi giriamo intorno al sole con una velocità di 106,000 chilometri all’ora. L’età attuale della terra allo stato sferico, è compresa tra mille e duemila milioni d’anni. La rotazione della terra crea là diversità dei climi ; questa crea la diversità dei prodotti, la quale crea le industrie varie, gli scambi onde nascono il commercio... o la guerra.
La sottostruttura economica della vita politica delle nazioni, le cause economiche di molte guerre sono illustrate dall'autore con molti esempi, non tutti probanti, ma che certo illuminano di luce interessante la tesi ch’egli sostiene.
Però, s’affretta egli a soggiungere, la geografia non è la sola responsabile dei delitti che hanno spesso trasformato in martirologia la cultura, l’allevamento, il commercio e la industria. E d’altronde, nel campo delle rela(1) LauMQDC, La Concorde, «914, 73 pagine, in-ia°. L. 1. Rivolgerti alla Libreria Bilychnis.
zioni sociali, il fare appellò alla fatalità delle leggi naturali, è un rinunziare alla stessa umanità, questa avendo appunto per missione di dominare, di razionalizzare, di moralizzare, di trasfigurare la natura. Non basta adunque, per spiegare le sofferenze dei produttori, di allegare la cosmografia ; bisogna altresì incolpare l’ignoranza. Su 150,000 specie vegetali, non ve ne sono 300 che rappresentino delle culture generalizzate, sopra milioni di specie animali, non ce ne sono 200 di addomesticate, ecc.
Come non notare altresì l’egoismo sciocco dello sfruttamento devastatore. Esempio, quello degli alberi da cautciù, e in generale delle foreste, o quello degli uccelli insettivori, o quello dei pesci nei fiumi, ecc.
Specialmente da notarsi, tra le cause della sofferenza economica, l'avidità del guadagno. Noti sono gli esempi classici della ricerca dell’oro. Verso la metà del secolo scorso, la popolazione della California passò, in 18 mesi, da 1500 a 100,000 abitanti. Johannesburg, nel Sud Africa, piccolo villaggio di capanne nel 1888, erà nel 1905 una città moderna di 190,000 abitanti. Per la ricerca dell’argento sono sorte in Bolivia la città di Oruro che è a 3700 metri e conta 21,000 abitanti, e quella di Cerro de Pasca a 4350 metri con 13,000 abitanti.
Da questa concupiscenza folle della ricchezza deriva la crudeltà di coloro che vogliono ad ogni costo arricchirsi. Si ricordano ancora gli orrori del Congo, quelli dell’industria delle carni a Chicago svelati da Upton Sinclair (1), ecc.
(1) Vedi Bilycftnie. Anno I, p. 193.
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Ed è un certo concetto del diritto dì proprietà; che sta alla radice degli abusi più inumani. L’esempio classico è quello dell’ Irlanda dove, nel sec. xix, si stabilì il regime del latifondo. Settecento quarantaquattro lords possedettero più delia metà del terreno e il popolo fu ridotto a nutrirsi di patate. Nel 1845, successe una malattia del prezioso farinaceo la quale provocò la carestia dal 1846 al 1849. Durante questo, tempo di atroce calamità, i proprietari esportavano grano, orzo, avena e bestiame. I poveri incominciarono ad emigrare; e la popolazione, che nel 1846 contava 8 milioni e mezzo di abitanti era ridotta nel 1905 a 4 milioni e mezzo.
In quanto alla storia del carbone, bisogna leggere, nella biografia dei filantropo lord Staftesbury, dei particolari inauditi sulla barbarie dei capi dell’ industria nel secolo scorso.
Certo Oggi molte macchine hanno limitato la fatica materiale umana; ma il macchinismo stesso ha fatto e fa tutti i giorni delle vittime. Nel 1891, un deviatore addormentato causò uno scontro di treni; il tribunale dovette constatare ch’egli era rimasto quasi senza interruzione sul lavoro durante quattordici giorni e quattordici notti.
E ancora il problema dell’abitazione.
Nel quartiere popolare parigino di San Merri, la mortalità è dieci volte più elevata che nel quartiere aristocratico dei Campi Elisi. E’ vero che i poveri hanno la risorsa di esiliarsi in America. Ma quante sofferenze morali e fisiche in quella formidabile emigrazione. Nel 1909 entrarono nei soli Stati Uniti 200,000 emigranti spagnuoli, 300,000 austriaci, 500,000 inglesi, 600,000 russi, 600,000 italiani!...
E il nostro globo gira nello spazio ! Il sole splende sui buoni e sui malvagi, la pioggia annaffia i campi dei giusti e degli ingiusti ; la carestia colpisce cristiani e pagani, le leggi naturali, insomma, sembrano combinarsi coll’errore e il peccato per perpetuare quaggiù il regno della sofferenza, dell’anarchia e delia vanità delle vanità.
Bisogna forse rassegnarsi? .
Forse, se non fossimo dei discepoli del Cristo. Ma sono note le ambizioni di conquista e di vittoria sul male ch’egli accende nell’anima dei suqL E allora come esiterebbero èssi a combattere la sofferenza e la miseria apparentemente fatali?
Io non ho tracciato che un lieve schizzo della fatica e del dolore umano; ma questo basta per gettare un primo sguardo su di esso. Questo sguardo — se è sincero — è il punto DI PARTENZA CHE CONDUCE AL CRISTIANESIMO sociale. Non si dimentica più ciò che si è
veduto. Si è ricevuto dal Figliuol dell’Uomo il battesimo di pietà e indignazione'.
Ma tutti non fremono in presenza della realtà ; molti pensano che, facendo qua e là qualche lieve ritocco, tutto andrebbe bene nel mondo. Un simile ottimismo giustifica quel delirio sacro del Padre Gratry il quale, nei suo commentario sulla Passione, si ferma ad un tratto davanti alla crocifissione dell’intera umanità nella persona del Figliuol dell’Uomo e geme : « A questo punto io non posso più meditare con ordine. Non posso che dolermi e gridare. Occorrono qui delle lamentazioni, e non delle lamentazioni inutili, ma delle lamentazioni che servano e che — se ciò è possibile — trapassino finalmente il cuore del genere umano... Il sangue innocente continua a colare a torrenti per tutta la terra. E le nostre coscienze spente, e gli occhi nostri allucinati, accecati da quel sangue che cola sulle nostre teste, contemplano questo spettacolo senza vederlo... I popoli europei saranno benedetti colle più sacre benedizioni, il giorno in cui, trascurando ogni scopo secondario, essi andranno dritti allo scopo divino, cioè: fermare la crocifissione : la crocifissione dell’uomo Dio in ogni uomo che viene ucciso col ferro, colla schiavitù, coll’ignoranza o colla fame» (1).
II.
Noi cristiani non vogliamo essere del numero di coloro che patteggiano coll’ iniquità. Eppure, è precisamente su questo terréno che si formula una delle più tragiche opposizioni dell’ora presente, un’antitesi inammissibile e pericolosa tra le due grandi potenze morali dell’epoca nostra : il socialismo e il cristianesimo. Il socialismo si propone di cambiar la faccia del mondo, il cristianesimo tradizionale vi rinunzia. E certo, esso ha ragione di credere nell’ invisibile ; il suo ideale spirituale ha suscitato nobili martiri ; ma anche l’ideale della città futura da costruire quaggiù non è stato senza testimoni fedeli fino alla morte.
L’autore ricorda tra gli altri i « martiri di Chicago» che furono messi a morte l’xr novembre 1SS7 e cita un brano mirabile del discorso pronunziato davanti al tribunale da uno di essi, l’anarchico Augusto Spies. E’ impossibile di non riavvicinare questi pionieri della società giusta che compariscono davanti ai tribunali della civiltà capitalistica ai primi cristiani trascinati davanti alla magistratura di Cesare : i discepoli del Cristo recavano all’im(x) Commentario sul cap. XXVII di S. Matteo.
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pero invecchiato la speranza di un mondo nuovo (i). Certo il socialismo è un messianismo scoronato, un messianismo senza Messia; ma il cristianesimo attuale, alla sua volta, non ha conservato che una metà della verità totale, e predica un Messia senza messianismo. Commoventi malintesi! Misero divorzio tra l’ideale sociale e l’ideale religioso! Questo è simile ad una corrente d’acqua che fogge, senza incontrare una potente ruota di molino, la quale, alla sua volta, è immobilizzata per mancanza dj energia motrice. Ed ecco la questione che si pone : il cristianesimo tradizionale — ADOTTANDO L’ATTEGGI AMENTO PURAMENTE SPIRITUALISTA, RINCHIUDENDOSI NEL CAMPO DELLA VITA RELIGIOSA — È DESSO PIENAMENTE D’ACCORDO COLL’IDEA STESSA DEL CRISTIANESIMO AUTENTICO?
i. Consultiamo i nostri documentila Bibbia. Chi dice cristianesimo dice Cristo. Ora le radici psicologiche e morali del Cristo si sprofondano nel suolo ebraico, nel profetismo. Ecco le caratteristiche dell’insegnamento dei profeti (2).
A) La religione non è neramente cultuale. Dio domanda la giustizia. Egli vuole la misericordia e non gli olocausti. La vera religione è morale, non rituale; il tempo, il danaro, le forze consumate in esercizi puramente cultuali sono persi per il Regno di Dio.
B) Le virtù 'privale non esauriscono il contenuto dell1 ideale morale. Oggi.l’uomo casto, veridico, modesto passa per un modello; i profeti esigevano di più ; essi condannavano, nel campo sociale, l’ingiustizia, l’oppressione.
Inoltre, il popolo intero formava agli occhi loro un tutto, un « ente morale > il cui valore si esprimeva nella qualità della sua politica esterna ed interna.
C) L'impulso spontaneo dei profeliva verso i poveri a tal punto che le parole povero e pio sono talvolta adoperate come sinonimi. In quanto alla celebre legislazione sociale redatta dai profeti e che, quale essa appare nel Pentateuco, non è probabilmente mai stata applicata, essa rimane però, in qualità d’ideale economico, un caratteristico fenomeno nella antichità. Vi si vede, ad esempio, i diritti della proprietà infrangersi contro i doveri del-’umanità e il possesso del suolo restare collettivo.
D) L' « Al di là » dei profeti non significava ----------- ।
(») Questo concetto è ben sviluppato nello studio de prof. Ragaz su Cristia/usino e Patria, che pubblicheremo a cl numero prossimo della nostra Rivista.
(a) Per lo sviluppo delle idee che seguono vedi Rauschen-busch- Christianity and thè social Ordtr. Cap. I.
« altróve », ma « più tardi». Fu questa una lacuna della loro visione spirituale; però, la loro fede nel Regno di Dio sulla terra li preservò dal sentimentalismo morboso e dalle astrazioni quintessenziate d’una certa « pietà religiosa ».
Quando il Messia apparve, ei dichiarò : « Io non sono venuto ad abolire, ma a compiere ». Egli appoggiò l’attività sua su quella dell’ultimo profeta: Giovanni il Battezzatore. Egli annunziò il regno di Dio. Egli insegnò ai discepoli a mettere questa patetica speranza al centro della loro quotidiana preghiera : « Il tuo regno venga ! » tanto è vero che, come dice il Fallot, «il fine dell’anima è la società perfetta». Non lo Stalo, capolavoro del paganesimo ; non là Chiesa, capolavoro del cristianesimo tradizionale, ma la Società giusta e fraterna, capolavoro del messianismo evangelico.
Fondato sulla certezza ineffabile della sua comunione col Padre, Gesù, il Figliuol dell’uomo, il rivelatore dell’uomo, VEcce homo! inaugurò Pera dell’umanità. Fedele allo scopo proseguito, egli insistè sull’amore e non sulla credenza. Ei mise l’accento sulla condotta. Ei moltiplicò gli avvertimenti sui pericoli della ricchezza che rende i ricchi impropri al lavoro redentore non appena essa ottenebra la loro visione sociale o restringe l’orizzonte del loro pensiero. Perciò fu crocifisso dai possidenti e dai dirigenti del suo tempo.
Vinet ha avuto ragione nel dichiarare che Gesù fu messo a morte non per il suo domma, ma per la sua morale. Egli si era dato difatti pel Cristo, non nel senso ecclesiastico, ma nel senso ebraico e messianico di questo termine. E s’è vero di dire che il cristianesimo è il Cristo, allora P Evangelo è sociale nella sua essenza ; la nozione totale della salvezza, come un'arcata gigantesca, poggia da un lato sul concetto della salvezza individuale, dall’altra sul concetto della salvezza cosmica.
Un cristianesimo che si ritempra nelle sue origini, un cristianesimo biblico, sarà dunque un cristianesimo sociale. L’epiteto è già nella sua sostanza. Se lo si adopera è per là necessità di distinguere il cristianesimo completo, integrale, da tanti altri cristianesimi: cattolico, protestante, ortodosso, liberale, metodista, battista, pietista, nazionalista, colonia-lista, capitalista, ecc.
In fondo il cristianesimo sociale è semplicemente un cristianesimo che vuole concludere, che vuole realizzare se stesso, che vuole giungere alla mèta. Esso da ciò si distingue dal cristianesimo puramente spiritualista e individualista senza rinunziare — Dio ne guardi ! —
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ad essere un cristianesimo spirituale e individuale.
E’ questo l’apporto speciale della rivelazione evangelica al mondo, pagano, dove soltanto le collettività contavano qualcosa, dove la coscienza personale, la personalità, non aveva il diritto di affermarsi in faccia alla città.
Ma, d’altra parte, non ci soddisfano i concetti relativi alla redenzione dei singoli indipendentemente dalla massa umana.
Non sappiamo più accontentarci della teoria pessimista che vuota del suo contenuto l’attività umana per ridurla a una funzione di setacciò destinato ad operare la scernita tra coloro che andranno in cielo e coloro che andranno all’inferno; non sappiamo più maledire la materia, ritenere l’incarnazione come una incarcerazione, considerare il globo come una semplice nave-scuola destinata alle fiamme, e "ridurre la Buona Novella ad un si salvi chi può.
Uno dei più sicuri mezzi per diventare cristiani sociali, anche a nostra insaputa, quasi nostro malgrado, è dunque la meditazione intelligente e approfondita della Bibbia.
In ogni epoca i movimenti di riforma in seno al cristianesimo sono stati degli sforzi verso il cristianesimo sociale, verso il profetismo evangelico. Bisogna rileggere in proposito l’istruttiva e passionante storia delle sette; bisogna meditare sulle meravigliose intuizioni dell’anabattismo ai suoi inizi. Ahimè ! i Riformatori non osarono andare fino alle ultime conseguenze delle loro premesse. Lutero aveva bisogno dei principi contro gl’iconoclasti e contro i contadini ribelli. Calvino era un intellettuale, educato ih biblioteca, estraneo, per esperienza personale, alle sofferenze del popolo... Ma quando l’Evangelo è letto, non più attraverso i concili greco-romani, ma attraverso i Profeti e il Sermone sul monte, esso appare come il provvidenziale punto d’incontro tra lo spirito moderno e l’anima biblica, tutta compenétrala di moralismo spirituale e di socialismo religioso.
2. Si diventa cristiani sociali in un modo ancora più semplice, più intimo, più fervido, più irresistibile (e qui W. Monod racconta la sua propria storia) — mediante una fiducia assoluta nel Cristo salvatore.
Da ogni parte si chiede : il Cristo è egli ancora Oggi il Necessario, l’Unico, il Redentore ? Rispondo : Gesù è stato la manifestazione di uno spirito ; questo spirito era all’opera sulla terra prima dell’apparizione storica del Nazareno. Il Cristo salvatore camminava quaggiù molto tempo prima dell’èra cristiana. Ei vi
cammina ancora, e vi camminerà sino alla fine dei tempi. Essendo « sempre lo stesso », egli è sempre nuovo perchè egli è la stessa Umanità ; l’Umanità in marcia ; egli è lo Spirito, lo Spirito di Dio al lavoro.
E si dice : il cristianesimo sarà superato. Si, un certo cristianesimo ecclesiastico e giuridico. Ma non il Cristo. Come il nostro pianeta non può oltrepassare se stesso nella sua corsa attraverso lo spazio, così il mondo morale forma un insième in movimento che non può oltrepassare se stesso ; e questo mondo morale in moto è il Cristo eterno, lo Spirito di Dio all’opera per affrancare e glorificare la creazione. Gesù è stato la manifestazione storica, sopra un punto del tempo e dello spazio, di quel Cristo che oltrepassa lo Spazio, il Tempo e la Storia.
E’ difficile esprimere i sentimenti di stupore, di gioia, di solenne calma, di entusiasmo ardente che s’impadroniscono di un’anima allorquando il significato mondiale del Figliuol dell’uomo gli è in questo modo rivelato. Da quel momento, il Cristo s’identifica per essa col miglior io dell'umanità, col genio stesso della nostra razza; le Chiese che tentano dì confiscarlo, commettono il delitto di accaparramento; egli appartiene tanto alla pubblica piazza, al mercato, all'Accademia, al Parlamento, quanto alla cappella e alla basilica (1). Egli è il cuore vibrante del Regno di Dio. Questo è l’irradiamento sociale della vivente personalità del Cristo, cioè la penetrazione progressiva dell'umanità per opera dello spirito del Messia, e i risultati eterni che ne derivano.
Così l’entusiasmo per l’organizzatore della vittoria conduce alla visione della Città futura.
La questione che s* impone ossessionante è allora questa: « In che modo preparare una società in cui l’uomo abortito non sia più la regola generale?».
Ecco il fondo della questione sociale : creare un ambiente che faciliti la produzione del maggior numero d’individualità veramente umane. Così si esprime Fallot; ed egli formula in questo modo il primo dei « Diritti dell’uomo»: il diritto della salvezza.
I predicatori affermano, e con ragione, che l’ideale morale dell’Evangelo incontra, nel cuore del peccatore, una opposizione istintiva, radicale, ostinata. Ma come si fa a sapere sé le resistenze che un tale o un tal altro oppone all’influenza del Salvatore sono dovute unicamente a dei motivi d’ordine spirituale? Esse
(1) VediG. E. Mkillk, II cristiano tulla itila fiMlica, in Bilychait, anno II, p. 418.
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possono in molti casi spiegarsi ugualmente con delle ragioni d’ordine intellettuale, o anche d’ordine materiale. L’intensità stessa della nostra fede nella virtù salvatrice del Redentore, ci incita dunque a gettarci, corpo e anima, nell’opera della riforma teologica e in quella della riforma economica.
3. Si diventa cristiani sociali, in terzo luogo, per lo studio serio e coraggioso del meccanismo economico della civiltà contemporanea e del regime capitalista.
Esaminate nei giornali i « Fatti vari », quei fatti che formano la monotona film del cinematografo della miseria. Formatevi una collezione personale composta dei fatti che avrete osservati voi stessi. Preoccupatevi dei fatti che non si vedono ma che sono rivelati in opere speciali, per esempio, nel libro dei fratelli Bonneff, La vita tragica dei lavoratori, oppure Intorno a una vita, di Kropotkine.
Dopo avere registrati i sintomi della malattia del corpo sociale, ricercatene le cause. E’ qui che il cristiano sociale assume una viva somiglianza col socialista. « La questione sociale comporta varie soluzioni’, il socialismo è una di queste», si è detto. Ma, qualunque sia la soluzione del problema che verrà adottata, è certo che qualsiasi meditazione approfondita, scientifica, deve condurre all’esame critico del concetto di proprietà.
Nei suoi Principi di economia politica il prof. Carlo Gide mostra come il diritto di proprietà si è successivamente accresciuto dei suoi attributi essenziali, che sono : il diritto di far valere il proprio bene, di sfruttarlo per mezzo del lavoro altrui, il diritto di dare e di testare, il diritto di prestare e locare, il diritto di vendere. Egli dimostra come, per mezzo di questi attributi, il diritto di proprietà agisce con una forza irresistibile come ¡strumento di ripartizione, e conclude enumerando le tre conseguenze inevitabili e interdipendenti di questo diritto: 1® l’ineguaglianza dei beni-, 2® l'esistenza di una classe di oziosi ; 3® l’esistenza di una classe d'indigenti.
Ora qual’è il fondamento di un diritto cosi poderoso? Come si è costituita originariamente la proprietà ? Le spiegazioni dei giure-consulti si riassumono nel fatto delle possessioni. Ma questo fatto brutale essendo senza valore morale, si sono cercate delle spiegazioni più filosofiche.
Il diritto naturale? La proprietà sarebbe il prolungamento o la garanzia della personalità. Teoria pericolosa dal punto di vista conservatore, perchè il diritto è violato nella persona dei non-proprietari. Si' allegherà il la
voro? Se questa è la sola base logica e morale della proprietà, si dà ragione alla dottrina rivoluzionaria. I difensori della proprietà individuale hanno ancora messo avanti l’utilità sociale ; la proprietà è uno stimolo per la produzione. Ma da ciò risulta che l’individuo non è proprietario per se stesso ma per la collettività; la proprietà diventa funzione sociale; essa dunque non è più assoluta.
Così è aperta la via alla critica socialista del concetto di proprietà privata, critica fondata specialmente sul fatto che il plusvalore prodotto dal lavoro non ritorna al lavoro ma è accaparrato sotto forma di profitto, dal capitale. Sono queste questioni tecniche nei particolari delle quali noi, in questa recensione, non possiamo entrare. Dobbiamo pure sorvolare sulla discussione che fa il nostro autore riguardo alla proprietà della terra, basandosi sulla ben nota teoria dell’economista Enrico George.
La critica della nozione di proprietà conduce alla conclusione seguente: la miseria è un male artificiale; il pauperismo è il frutto di un errore collettivo. Adottando questa conclusione si oltrepassa il cristianesimo sociale, si diventa socialisti cristiani.
Il termine socialismo fa paura a molti, ma non indietreggiamo davanti alle parole; esse importano poco. Chi rifiuterebbe di sottoscrivere alla definizione data da Giorgio Renard dello scopo cui mira il socialismo : Assicurare ad ogni essere umano la possibilità d’uno sviluppo integrale, istituendo una ripartizione adeguata dei lavori e dei beni in una società razionalmente organizzata? {Le socialisme à l’œuvre).
Non v’è in ciò nulla che sia contrario all’ideale evangelico della fraternità fra gli uomini.
Senza dubbio si possono formulare dal punto di vista cristiano, delle obbiezioni molto serie contro il socialismo in azione, concretizzato nei partiti politici; e, per giudicarlo equamente, bisogna operare, in suo favore, la famosa distinzione del cui beneficio pretende godere lo stesso cristianesimo allorquando esso chiede ai suoi avversari di non confondere la Chiesa invisibile ed immacolata colle mediocri realizzazioni d’una cosi alta Idea nelle chiese visibili...
E poi, dopo tutto, che valgono le nostre logomachie in faccia alla realtà? Dopo aver passato in rassegna gli argomenti del conservatorismo sociale, Maeterlinck scrive : « Ecco il meglio del prò e del contro, le ragioni più ragionevoli che possano invocare coloro che non hanno fretta di finirne. In mezzo a quelle
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ragioni si erge l’enorme monolito dell’ingiustizia». Che cosa si aspetta per abbatterlo? « A tutti i quadrivi della via che conduce all’avvenire, l’umanità ha messo, contro ciascuno di noi, diecimila uomini che montan la guardia al passato ; non temiamo adunque che le più belle torri di un tempo non siano sufficientemente difese... I nostri eccessi di avvenire sono necessari all’equilibrio della vita. Abbastanza uomini intorno a noi hanno il dovere esclusivo di spegnere i fuochi che noi accendiamo. Andiamo sempre ai punti estremi dei nostri pensieri, delle nostre speranze e della nostra giustizia... Di zavorra se ne trova dovunque, per questo tutti i sassi dei porti, tutta la sabbia delle rive possono servire. Ma le vele sono rare e preziose». {L’intelligence des Oeurs).
III.
Giunti a questo punto viene spontanea là domanda se noi saremo tollerati in seno ài cristianesimo tradizionale.
La risposta varia secondo gli ambienti ; ma dovunque i soffi della nuova primavera spirituale si fanno sentire. Il Cristianesimo sociale è un clima ; nessuno sfugge alla sua influenza. Vuol forse dire ciò che chi si lascia portar via dal vento dell’alto mare, non avrà da soffrire nell’ambiente in cui si trova? Ma chi è risòluto ad essere un pioniere del Régno di Dio rifiuta una simile immunità. Egli è certo Che, checché succeda, la Chiesa alla lunga non potrà « resistere alla sapienza che è in lui » {Alti apostolici, 6, io) s’egli è umilmente, fedelmente, l’uomo della Bibbia, l’uomo del Cristo, l’uomo della realtà.
Dunque non temiamo di adottare come motto : riforma della Riforma, oppure ancora cristianizzazione del Cristianesimo. Questo, per distruggere i malintesi mortali che lo soffocano, deve recare al mondo moderno un mea culpa, una affermazione intellettuale, un programma di azione. Dei cristiani sono all’opera in questo senso un po’ dovunque. Anche nei paesi di lingua francese i protestanti — ultra-individualisti per temperamento, per tradizione e per principio — cominciano a fremere per l’ideale solidarista e cattolico {universalista ed unificatore) del regno di Dio.
A questo punto il nostro autore dà dèlie informazioni particolareggiate relativamente a varie Associazioni sociali d’ispirazione cristiana, per lo studio e per l’azione, che esistono nella sua patria. Le sue informazioni hanno però un significato generale, un valore d’orientazione che può servire per tutti i paesi.
Egli termina esortando i giovani studenti universitari suoi uditori ad « entrare nel movimento ».
E anche noi esortiamo i nostri lettori cristiani e diciamo loro: Studiate le questioni sociali, cercatene là soluzione; e, se anche non arriverete là dove noi vorremmo condurvi, sarete almeno del numero degli angosciati, d’infra coloro che un divino malcontento trasforma in pionieri. I dirigenti stessi, i possidenti, sono toccati da questo malessere redentore ; la élite morale della borghesia soffre dei più nobili scrupoli ; i privilegiati fanno la critica dei loro propri privilegi. Più di una volta ho constatato con emozione il risveglio della responsabilità sociale nella coscienza di giovani donne benestanti o di giovani uomini ricchi ; essi confessavano il tormento dell’anima loro di fronte alle empietà di cui loro malgrado profittavano. Ma, ahimè, li ho visti troppo spesso soccombere l’uno dopo l’altro nella lotta disuguale contro il loro ambiente: per mancanza d’un vincolo comune, d'una associazione che li riunisse, che li facesse conoscere l’uno all’altro: questi giovani, uomini e donne, scomparivano uno dopo l’altro nel turbine del mondo...
Oh ! io sogno una specie di terz’ordine aconfessionale di francescani novelli, destinati a promuovere l’ansia e a proteggere l’ideale sociale cristiano in seno a tutte le chiese. Un movimento, ad esempio, come quello degli studenti per la cultura religiosa completato e rinvigorito da un Ordine del servizio sociale!
La nostra vecchia civilizzazione grida al soccorso. Èssa volge verso i cristiani degli sguardi di angoscia, essa, con clamore vibrante, lancia a modo suo, in mezzo alla tempesta, verso il Cristo addormentato, il tragico grido : « Salva, Signore, noi periamo ! ». Siamo noi in grado di rispondere a questo appello ? Delle formule bell’e fatte, anche tradizionali, anche bibliche, anche provate da una lunga usanza nel passato, non bastano più ai bisogni e ai problemi dell’ora presente. Il cristianesimo del xx secolo, come ha detto Enrico Appia, sarà sociale o non sarà!
Il cristianesimo sociale — di cui con questo nostro studio' abbiamo messo in luce le radici — abbraccia un campo di azione infinitamente più vasto di qualsiasi socialismo. Però, a quanto sembra, il cristianesimo dovrà attraversare una fase socialista per rigenerarsi e per poter passare dalla fase individualista attuale alla fase solidarista e sintetica che tutto impone e che tutto annunzia.
Apriamo gli occhi ài segni dei tèmpi!
Vi sono eventi che passano inosservati da
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chi crede di dirigere il pensiero moderno, ma la loro luce, simile a quella d’un faro, lasciando nell'ombra gli edifici più prossimi, va ad illuminare in lontananza, sull’oceano del mistero, le biancheggianti vele dell’avvenire.
Giovanni E. Meille.
L’ATTIVITÀ DEI LAICI BELLA CHIESA
La preoccupazione di mantenere gli adulti uomini in contatto colla Chiesa ha tormentato quanti hanno cura d’anime e, a seconda dei tempi e dei luoghi, li ha spinti a costituire delle associazioni che hanno reso notevoli servigi, ma non hanno mai avuto lunga vita.
Circa vent’anni or sono, tre pastori anglicani (che occupano attualmente le più alte cariche della Chiesa) l’arcivescovo di Canterbury, l’arcivescovo di York e il vescovo di Londra, furono specialmente preoccupati da questo argomento e si posero a cercare i mezzi migliori per interessare gli uomini all’opera compiuta dalla Chiesa anglicana di tutto l’impero britannico.
Dopo vari tentativi, uno di essi, oggi arcivescovo di York, formulò i due principi seguenti, base della futura « Società degli uomini della Chiesa anglicana » :
i® Preghiera ogni giorno.
20 Fare volontariamente ogni giorno qualcosa che possa aiutare la Chiesa anglicana a compiere con successo i suoi doveri verso l’impero.
Con questi due impegni, da firmarsi da ogni futuro candidato, l’arcivescovo anticipatamente rispose a due bisogni profondi nascosti nel cuore di ogni cristiano anglo-sassone :
1® il bisogno di culto ; _
2® il bisogno d’una àttività precisa.
Anzi, fece di più: collo spirito di preghiera ei rimise in onore nella Chiesa anglicana l’attività dei laici, e diede alla nuova associazione il medesimo carattere che possedeva la Chiesa primitiva.
I tempi sono cambiati» ma i bisogni sono gli stessi.
Gli apostoli, sopraffatti dai molteplici doveri del loro ministero, chiesero d’essere esonerati dal servizio delle mense per consacrarsi più specialmente alla predicazione della parola di Dio.
Oggi i pastori, sopraffatti dalle molteplici cariche del loro ministero, reclamano il concorso dei laici.
« Venite in nostro aiuto » dicono essi. « Venite alla Chiesa non solamente per ricevere, ma per dare. Venite, là Chiesa oggi ha bisogno di voi ».
A questi appelli i laici hanno risposto.
L’Associazione ha celebrato circa un anno fa il suo decimoquarto anniversario (ottobre 1913).
I suoi membri sono oggi 129,600, divisi in 4524 rami, ed ha un bilancio annuo di 6306 lire sterline, cioè di lire 157,650.
Essa guadagna sempre più la simpatia del pubblico tanto che parecchie antiche società stanno per fondersi con essa.
Costituzione. — Quali sono i laici che possono diventar membri di questa Società?
Per fare un’opera santa occorrono degli operai santificati.
Il pastore si rivolge dunque soltanto ad uomini di almeno diciott’ànni, che sono stati battezzati e quindi ammessi nella chiesa, che si comunicano di frequente e dànno colla loro vita la testimonianza irrecusabile d’essere dei membri fedeli della Chiesa anglicana, cioè dei testimoni zelanti che non si vergognano del Vangelo di Cristo.
Il pastore deve guardare alla qualità e non alla quantità degli operai. Due, tre, cinque bastano per costituire una Società a patto che essi si impegnino per iscritto ad adempiere le due promesse suddette :
i° Pregare ogni giorno.
2® Fare ogni giorno qualche cosa per aiutare la Chiesa anglicana nell’adempimento della sua missione.
Attività. — Che cosa deve fare il membro della Società degli uomini?
Secondo le chiese, variano le attività.
Tocca al pastore il suggerirle. Per facilitarne la scelta, egli consegna al candidato un elenco di 161 attività diverse, elenco che riprodurremo quasi integralmentà più avanti.
Il candidato ne sceglie almeno una e la iscrive nel suo modulo d’impegno divenendo (pjo facto membro d’una delle sezioni costituite nella sua chiesa: Associazione cristiana dei Giovani. Lega antialcoolica, Coro, Finanze, Stampa, Visite, ecc.
Durata dell* impegno. — L’impegno è valido per un anno. Dòpo che lo ha firmato, il nuovo membro riceve il distintivo della Società (una semplice croce colle iniziali della
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Associazione) e paga la sua quota annua di uno scellino e sei pence (uno scellino per l’opera locale, sei pence pel Comitato Nazionale).
Se, per qualsiasi ragione, egli desidera ritirarsi dalla Società, basta ch’egli rimandi il distintivo senz’altra spiegazione.
Ogni membro che non paga la sua quota o che non adempie le sue promesse è semplicemente radiato dai quadri.
Si richiede un servizio: volontario,preciso, fedele e fatto lietamente.
Della Società non fanno parte dei dilettanti, ma dei lavoratori.
Le Sezioni. — A seconda delle parrocchie, i membri si dividono in una o parecchie sezioni : Visite, Finanze, Coro, Corrispondenza, Educazione, Conferenze, ecc.
Ogni sezione si riunisce una volta al mese nella chiesa.
L’adunanza comincia sempre con un breve studio biblico — quindici minuti — e lo studio speciale di un argomento. I più giovani membri sono di preferenza invitati a parlare.
Le sezioni d’una parrocchia o d’una città formano un ramo e tutti i rami fanno capo a un Comitato Nazionale la cui sede è a Londra (Church House, Westminster, Londra, S. W.).
Il pastore è per diritto il presidente di tutte le sezioni della sua chiesa. Nulla si fa senza di lui. Tutto si compie sotto la sua ispirazione e alta direzione.
Ogni sezione si costituisce liberamente col privilegio di organizzare dei culti speciali con una liturgia abbreviata e presieduti da un qualche predicatore laico specialmente autorizzato dal vescovo e salire in pergamo.
Un culto speciale. — Ho assistito a uno di questi culti organizzati da una sezione.
Alle ore quindici precise, il giovane pastore a cui facevo visita mi prega di aspettarlo per un quarto d’ora : « Il tempo di fare il giro del quartiere per annunciare l’adunanza», mi diss’egli. a .......... .
Egli esce. Dopo due minuti odo i concenti sonori d’una banda musicale. Precede il porta bandiera seguito dal giovane pastore.
Dopo un quarto d’ora, la banda ritorna circondata da una sessantina d’uomini; il pastore è accompagnato da un povero ubbria-cone. All’ingresso della chiesa, la banda si schiera da un lato e termina il suo pezzo mentre gli uomini entrano.
Scendo, entro anch’io. Cinque o seicento uomini riempiono le navate. Con mio stupore la banda s’insedia nel coro e accompagna 1 cantici.
Ogni due banchi, nei passaggi, sta in piedi un uomo il quale fa cortesemente Sedere gli uditóri, consegna l’innario, distribuisce degli opuscoli.
All’ora stabilita pel culto, le porte si chiudono, un breve servizio liturgico è fatto dal pastore ; poi un laico, professore uni versitario, sale in pergamo e fa un discorso sull’importanza della fede della Chiesa riassunta nel simbolo Apostolico. Si canta, si prega. Ognuno se rie va in silenzio.
Il culto è durato un’oretta precisa.
Esso era organizzato dalia sezione antial-coolica della chiesa. Ogni membro aveva scelto il suo genere di lavoro ed era al suo posto all’ora. Il pastore ha potuto ricevermi tranquillamente dalle 14 x/a alle 15, sebbene non aspettasse la mia visita. Alle 15 egli è sceso nella strada, alle 15 x/4 è cominciato il culto, alle 16 tutto era finito.
Terminato il culto, si conoscevano esattamente il numero dei presenti e le osservazioni fatte da alcuni di essi.
Che cosa è dunque la C. E. M. S., la Società degli Uomini della Chiesa anglicana?
E’, in seno alla chiesa anglicana, un’associazione di uomini pii, raccolti intorno al loro pastore,
— che non si vergognano del Vangelo di Gesù Cristo;
— che vogliono vivere una vera vita cristiana ;
— che vogliono manifestare questa vita per mezzo della loro fede, delle loro preghiere, delle loro opere.
E’ insomma una Società confessionale che mette in valore il ministero dei laici, ministero che viene così a moltiplicare quello dei pastori, facendo di ogni fedele un utile servitore della chiesa: un operaio specialista, un soldato di Gesù Cristo.
Una chiesa in cui ogni membro avesse un’opera speciale da compiere sarebbe, in qualsiasi paese, un focolare di luce.
(Dal Chrittianitme Social. Trad. G. A.). H. BACH.
Elenco delle attività suggerite dalla Men’s Society.
Distributori : Annunzi — Giornali della parrocchia — Inviti — Fiori e frutta — Letteratura ecclesiastica — Annunzi di culti e adunanze — Giornali illustrati per ammalati.
Vigilanza : Traslochi e sgomberi — Nuovi venuti — Malati — Estranei alla chiesa, frequentatori occasionali — Accoglienza dei prigionieri liberati alia porta delle carceri.
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Visitatori : Vie e distretti — Infermerie — Ospedali — Ospizi di mendicità — Carceri — Prigionieri liberati — Ciechi — Vecchi — Malati che devono essere visitati da uomini — Nuovi venuti — Assenti — Membri iscritti alla chiesa che non si fanno più vedere — Case operaie — Membri negligenti.
Manutenzione e Riparazioni : Mobili e arredi di chiesa — Stabile — Innario e libro di preghiere — Orologi e pendoli.
Pulizia : Bronzi — Mobili, arredi, biancheria.
Giardinieri: Il cimitero intorno alla chiesa — Il terreno delia chiesa — I terreni dati alla chiesa, i cui prodotti sono destinati ai poveri e ai malati.
Corrispondenti: Coi membri assenti — Col bollettino della parrocchia — Colla stampa locale — Coi periodici religiosi.
Aiuti letterari : Bibliotecario — Commissario nella sala di lettura — Repertorio e indirizzi della parrocchia — Annunzi colla macchina da scrivere — col velocigrafo — Indirizzi e buste — Pubblicità — Aiuto ai pa-pastori per le scritture — Redattore del bollettino della Chiesa — Direttore id. id.
Antialcoolismo : Juniores — Associati — Adulti.
Finanze : Collettori per le quote dei rami — per lo stabile della chiesa — per offerte volontarie — per scuole confessionali — per fondo di costruzione — per società varie — Cassieri di queste varie sezioni — Contabili id. id.
Economie: Diaconi — Società pel risparmio —- Cassa di risparmio dei io centesimi — per l’acquisto del carbone — del vestiario.
Soccorsi : Disoccupati — Malati e persone in miseria — Fraternità.
Purezza e Moralità: Croce bianca — Lega degli uomini — Associazioni di vigilanza : contro il giuoco, la bestemmia, le cattive letture, le illustrazioni, cartoline, affissioni, i distributori automatici, nelle stazioni e nelle fiere.
Fanciulli: Culto o catechismo — Fraternità o lega — Unioni missionarie — Unione antialcoolica tra bambini — Mantenimento dell’ordine nella chiesa — intorno alla chiesa.
Ragazzi : Campo all’aria aperta — Ginnastica — Ragazzi pionieri — Tiro — Altri clubs — Esercizi militari e di pompieri — Ufficio di collocamento — Corsi tecnici — Studi biblici — Contro l'abitudine di fumare.
Aiuti: Culti nelle case operaie, all’aria aperta, di evangelizzazione, nelle fattorie di campagna, per soli uomini, con proiezioni luminose — Fière di beneficenza — Scultura —
Pittura — Decorazione — Guardia dei gonfaloni — Commissari occasionali — Sacrestani Diàconi — Lettori laici (conferenzieri e predicatori laici autorizzati e specialmente consacrati dal vescovo per aiutare i pastori) — Anziani, membri del Consiglio di Chiesa.
Delegazioni : Delegati della Federazione della Società (C. E. M. S.) — Delegati alla conferenza regionale — Delegati alla conferenza della Diocesi — Delegati alle diverse Società.
Oratori e Conferenzieri : Per adunanze — all’aria aperta — occasionali.
Educazione : Visitatori di scuole —- Corrispondenti delle scuole — Sorveglianti delle scuole domenicali — Monitori permanenti, supplenti — Registratore delle presenze —■ Visitatori degli assenti.
Musica: Associazione degli ex-coristi — Orchestra (corale) — Banda (ottoni) — Società di canto — Suonatore di campane — Organisti — Tiramantici — Cori — ecc. ecc.
Dupanloup
EMILE FAGUET, Mgr. Dupanloup. Ha-chette et C.ic
Nel 1854, due anni dopo il colpo di Stato di dicembre, il Vescovo di Orleans fu eletto membro dell’Accadèmia francese. In quell ’occasione, nel discorso di ricevimento egli ribadì una volta ancora il suo gusto per l’umanesimo e difese con fermezza gli scritti dei classici greci e latini. Lo fece in una pagina eloquente nella quale dopo avere ricordato che anche quando «la notte pagana copriva la terra, i grandi secoli letterari avevano fatto brillare ammirevoli chiarità » egli esclamò evocando il ricordo degli scrittori antichi : « Io posso e debbo deplorare l’abuso che essi fecero spesso delle loro alte facoltà. Ma non posso nè disprezzare in loro, nè deridere i doni dei Creatore. Non mi sento il coraggio di riprovare, d’avvilire sotto il nome di paganesimo ciò che fu in quei grandi secoli il supremo sforzo dell’umanità decaduta per riattaccare il filo spezzato delle tradizioni antiche e ritrovare la luce che Dio vi faceva ancora brillare come un ultimo e sicuro riflesso della sua verità, per non lasciarsi senza testimonio nel mezzo delle nazioni e per mostrare che la creatura caduta non era interamente diseredata dei doni del suo amore. No, i versi che citava San Paolo a l’Areopago non erano dei versi pagani».
Forse il ricordo della pagina commossa ha indotto lo spirito da vero umanista — che ha
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sfiorato tutte le manifestazioni della cultura nella storia letteraria e nella vita di Francia — del Faguet a volgersi verso la figura del Dupanloup. Veramente essa stava come in una penombra dietro a quelle di Montalembert, Lacordaire, Veuillot, Lamennais e non si sapeva il perchè. Probabilmente non parve agli uni tanto ortodosso questo fiero oppositore della proclamazione dell’ Infallibilità pontifìcia quanto il predicatore di Nòtre-Dame, il direttore dell’f/wzwi o il pari di Francia, agli altri tanto eterodosso quanto il flagellatore implacabile e il disdegnoso reietto della Chiesa di Remali Faguet se non ha potuto mettere nella rievocazione quel pathos di commozione e di intima sensibilità che altri, passato per le stesse vie tormentose del Dupanloup avrebbe messa, ha coinpiuto però opera sincera e leale di studioso e di evocatore. Mentre la Frància attraversa un periodo che ha qualche punto di rassomiglianza con quello che vide l’opera tormentata dei cattolici liberali de V Avenir, onde cattolici mal sofferenti d’una situazione che la caparbietà politica del Vaticano ha creato, cercano con travaglio diuturno il ponte che li ricongiunga alla vita moderna della loro nazione e non si ribellano forse perchè non , è ancora sufficientemente chiarito nell’animo loro un po’ timido il motivo della ribellione, sarebbe stato facile all’A. tendere un facile inganno ai lettori portandoli ad appassionarsi per ragioni meno oggettivamente sicure.
Invece con una signorilità veramente invidiabile ed una esperienza psicologica lungamente maturata egli fa amare il libro pel suo valore esclusivo di rievocazione. Nessuna spie; gazione forzata, nessun traviamento di fatti — e la vita del Dupanloup è ricca di situazioni spirituali dalle quali avremmo tutti qualche cosa dà apprendere — a significati che non siano i propri, chiarezza, serenità, vivezza, sono le doti del non grosso volume del Faguet.
E’quasi inutile ripetere qui — raccogliendone in succinto le fila — là vita del Dupanloup. Chi è persuaso che un periodo vivacemente glorioso della storia della libertà religiosa in Francia è pressoché inspiegabile se ne sopprimiamo là sua figura, leggerà con interesse e con utilità la vita che nè ha scritto l’Accademico di Francia. Chi si appassiona allo studio dei migliori caratteri d’umanità, finirà col riconoscere la verità del giudizio del Renan, il quale fu suo allievo. « Che buono e grande cuore ! Era un risvegliatore, un eccitatore incomparabile ».
Ferruccio Rubbiani.
Modernismo ?
DAMIANO AVANCI NI. Modernismo. Romanzo. Milano 1913, Carlo Signorelli editore. (L. 4).
Se l’A. di questo romanzo, si fosse preso la briga di studiare, anche en amateur, il problema religioso nell’ora presente, e avesse cercato solo di intravedere, come almeno aveva fatto il Fogazzaro, al cui nome, non so con qual criterio, l’Avancini ha dedicato il suo volume, la grave crisi di anime che si agita nel clero e nei laici che alle cose dello spirito pongono attenzione, si sarebbe guardato dal pubblicare questo volume. Avrebbe risparmiato ai torchi di gemere per una simile pochade, e avrebbe risparmiato a se stesso il compatimento dei lettori.
Che ha inteso di far l’A. scrivendo un simile romanzo? Un romanzo d’arte, uno studio psicologico, 0 un romanzo a tesi ? In verità a giudicarne serenamente, anche se severamente, nel libro non c’è nè arte nè psicologia, poiché le persone che vi si muovono son tutte figure scialbe e sconclusionate, come le descrizioni degli ambienti in cui son poste. Romanzo a tesi, neppure : perchè in fondo ogni opera di tal genere, per quanto rechi con se ordinariamente un vizio d’origine che per solito la rende irreale, pure deve fare in modo che lo scopo che si propone venga convenientemente illustrato, che le dramatis personas non solo presentino qualche somiglianza con la realtà della vita, ma incarnino le posizioni e le opinioni che l’autore intende di combattere e di magnificare. Ora, in questo romanzo di modernismo non c’è che il titolo. Forse nelle intenzioni dello scrittore c’era la presunzione di dimostrare la fallacia del modernismo. In questo caso, avrebbe dovuto procedere più... da galantuomo. Ve lo figurate voi un modernismo fatto da sacerdoti isterici e scemi, da un ex-prète farabutto, da gente insomma che non abbia di mira che la soddisfazione di una passione Carnale o che a questa congiunga quella della megalomania ? Vi figurate un modernismo fatto da una donna pazza che si dà tutta al primo che le si para dinanzi, che è salvata da un prete « rosminiano», che torna a cadere quando per ragioni moderniste prima, per affari poi, si incontra con l’ex-prete avvocato celebre, deputato ministeriale, che dalla legittima consorte ha già avuto una quindicina di figli? Vi figurate voi questo deputato che si offende e si altera perchè alla Camera un altro deputato senza onore e senza riputazione gli rinfaccia la sua rinunzia al sacerdozio : e
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che da questa disputa nasca nientemeno un duello in cui l’ex-prete ferisce gravemente l’avversario che, prima di morire, vuol confessarsi a chi gli spezza la vita, perchè una volta era sacerdote (notate che a cinquanta metri dal luogo del duello v’è il convento di San Paolo fuori le mura,-con un centinaio di frati!). Da questo ne viene la fine politica dell’illustre parlamentare, e per una serie di contigenze strane, ne viene anche la sua fine morale.
Ebbene, questo cumulo di porcherie e di canagliate sarebbe, per l’Avancini, modernismo. E’ una diffamazione bell’e buona, ma neppure il Vaticano l’ha presa a proteggere, anzi l’ha presa in mala parte tanto da condannare il libro. Ciò ch’è tutto dire.
Ah! se Fogazzaro potesse, quanto volentieri si leverebbe dal suo luogo di riposo per dare all’Avancini il fatto suo !...
E. R.
COENOBIUM :
Sommario del fascicolo n. 68 (agosto) : James H. Leuba : L’Avenir de la religion — Amedeo Gazzolo : Religione e ragione — A. P. Scera :
Cri d'alarme conire l'auvre impie— G. Rensi : Haeckel e Carus — Guerra alla guerra : Due sensibilità e due inorali?; Dalla guerra alla pace?; Contro il preteso divino volere; Il patriottismo; Il partito socialista e la pace; Jean faurès; La voce degli amici del Coenobium ; Il rispetto della neutralità ; Neutralità, non indifferenza ; Neutrali, ma per affrettare la pace ; Vers l’incanna; Allo di Jede; Il delirium tre-mens nazionalista; Ciò che della guerra pensano i Giovani Turchi; Allora ed oggi; I volti della guerra; Parole di rammarico e di perdono; Riflessioni di R. Eucken ; Per la pace e per la giustizia; Siate fraterni e buoni; Così ovunque ; Il fallimento della pace armala; Affermiamo la nostra fede; Là rivolta delle coscienze; Delegati pacifisti di varie Chiese; Parole di fede e di speranza — Ressegna bibliografica: M. Hebert; G. Rensi ; G. Piòli — Rivista delle Riviste.: Il misticismo e le condizioni della sua legittimità ; Un corso estivo sulla guerra e la pace; Opposte tendenze nella Chiesa anglicana; La morte utile; Le Chiese istituzionali; L’idea internazionale; La bontà come mezzo di educazione — Per il testamento spirituale.
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INTRODUZIONE BIBLIOGRAFICA ALLA SCIENZA DELLE RELIGIONI
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GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
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Prezzo del fascicolo Lire 1 —