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BILYCHN5
RIVISTA MENSILE ILLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno VI : : Fasc. IX. SETTEMBRE 1917
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 30 SETTEMBRE 1917
DAL SOMMARIO: Antonino de Stefano: Delle origini dei “ Poveri Lombardi ’’ e di alcuni gruppi Valdesi - LUISA Giulio Benso : Lamennais (con ritratto) - GIOVANNI PIOLI : La fede e l'immortalità nel “Mors et Vita" di Alfredo Loisy (II) -FERRUCCIO MUTTINELLI: Il profilo intellettuale di S. Agostino -Vincenzo Cavalleris: Effetti del dolore-Carla Cadorna: Il doppio significato della •• Rivolta femminile " - TRA LIBRI E RIVISTE: m. : Rassegna di filosofia religiosa (XVIII) - Letteratura di guerra, ecc.
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BILYCHNIS rivista mensile di studi religiosi
7^ —-.-T < 4 < < FONDATA NEL 1912 > > * >
CRITICA BIBLICA STORIA DEL CRISTIANESIMO £ DELLE RELIGIONI PSICOLOGIA PEDAGOGIA
FILOSOFIA RELIGIOSA - MORALE QUESTIONI VIVE LE CORRENTI MODERNE DEL PENSIERO RELI-Gl OSO LA VITA RELIGIOSA IN ITALIA E ALL'ESTERO SI PUBBLICA LA FINE DI OGNI MESE.
REDAZIONE: Prof. LODOVICO PaSCHETTO, Redattore Capo; Via Crescenzio, 2, Roma.
D. G. WHITTINGHILL, Th. Ù., Redattore per l’Estero; Via del Babuino, 107, Roma.
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BLÌO1NB
RIVI51À DI SlVDi RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMAÈ
Anno sesto - Fascio. IX
Settembre 1917 (Vol. X. 3)
SOMMARIO:
Antonino De Stefano : Delle origini dei « Poveri Lombardi » e di alcuni gruppi Valdesi .....................................Pag. 122
Luisa GIULIO BENSO: Lamennais e Mazzini - II. Lamennais . . . >13$
Illustrazione: Ritratto di Lamennais (Tav. tra le pagine 136 e 137).
Giovanni Pioli: La fede e l’immortalità nel < Mors et vita » di
Alfredo Loisy (II). . . . . . ........ » 145
Ferruccio Muttinelli: Il profilo intellettuale di S. Agostino . . » ,155
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Vincenzo Cavallerie: Effetti del dolore . . ....... » 161
NOTE E COMMENTI :
Carla Cadorna: Il doppio significato della «Rivolta femminile» . . . . » 166
P. De Gennaro : Su «La nuova coscienza religiosa in Italia » di P. Orano » 169
Elga Ohlsbn: Pro Israele........ > 171
Qui Quòndam: Pro Ventate - Newman e l’Inquisizione . ; ....... » 172
TRA LIBRI E RIVISTE;:
m.: Rassegna di filosofia religiosa (XVIII): La subcoscienza - Il subconscio -Neurogrammi - Conconscio - Idee ed emozioni - La personalità Inconscio e spiritismo - R. Ottolenghi .............. . * 174
Giovanni.Pioli: Letteratura di guerra: La guerra e la vita religiosa - Che avverrà dopo la guerra? - L’educazione nazionale come equivalente morale della guerra - La letteratura francese durante là guerra -I poeti e la guerra......... ........ » xSo
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DELLE ORIGINI DEI “ POVERI LOMBARDI ”
E DI ALCUNI GRUPPI VALDESI (SPERONISTI — RUNCARII — TORTOLANI)
a Lione e dal Dclfinato i discepoli di Valdo si diffusero, come è noto, nella Provenza, passarono nella Catalogna, sconfinarono in Italia, ove, specialmente nella Lombardia, si formò un nuovo centro d’irradiazione valdese (i). Milano, in particolare, metropoli ricca di commerci e d’industrie, che Federico II chiamerà madre e nutrice di eretici, era terreno mirabilmente adatto allo sviluppo del valdismo. Questo si diffuse in Italia sin dalla prima ora, probabilmente in occasione del
viaggio di Valdo a Roma presso Alessandro III nel 1179. Un tardivo documento raccoglie la tradizione secondo la quale Valdo avrebbe fatto allora molti discepoli nella città eterna c attraverso le regioni d’Italia, organizzando le prime com-munità evangeliche (2). Credo che si possa affermare che il valdismo si sia diffuso in Italia già durante il suo primitivo periodo cattolico, prima della «condanna
(1) «Sic multiplicati super terram. disperserunt se per illam provinciam et per partes vicinas et confines Lombardiae» Ada Ina. Carcass., Döllinger Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters, München, 1890, II, 6. — « Postea in Provincie terra et Lumbardie, cum aliis haereticis se admiscentes » Stefano Borb., 293.
(2) o Ipse (Valdus) nihilominus in urbe praedicavit, discipulos plurimos fecit et per regiones Italiae iter faciens fecit congregationem, ita ut in pluribus partibus tarn ipse quam alii ejus successores multos ad eorum conversationcm attraxerunt et multi-plicati sunt vehementer ». Cod. di Closlernenburg, Döllinger, II, 353; cfr. Epist. jratrum de Italia, ibid., 358.
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DELLE ORIGINI DEI « POVERI LOMBARDI »
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del 1184, se i valdesi di Milano avevano potuto ottenere dal Comune della città un terreno per edificarvi una schola (1).
Pochi anni dopo, verso la fine del secolo xn, dalla Lombardia, ì valdesi erano penetrati nei paesi renani diffóndendosi man mano attraverso la Germania meridionale e l'Austria, raggiungendo infine là» Boemia.
Il valdismo di divide quindi in due grandi gruppi: quello dei Poveri di Lione e quello dei Poveri Lombardi. Questa distinzione è esatta poiché il movimento valdese, quale esso si affermò e predominò nelle regioni italiane, dalle quali poi si diffuse in territorio tedesco e boemo, presenta delle caratteristiche proprie di fronte a quello francese. Si erra, però, a mio avviso quando, come è ¿eneralmente ammesso, si voglia intendere per Poveri Lombardi i valdesi delle legioni indicate, come se questi avessero formato sin dalle origini e avrebbero continuato a formare un gruppo unitario per opposizione al gruppo francese o quando si creda che in territorio lombardo-tedesco non sieno esistiti gruppi che, per le loro dottrine e la loro organizzazione, si riannodassero al valdismo francese.
In realtà il valdismo sin dalle sue origini costituisce tutt’altro che un organismo compatto e uniforme. Esso è invece caratterizzato'dal tumultuoso formarsi di gruppi più o meno autonomi, pur avendo una comune origine e un contenuto comune.
Dobbiamo considerare in particolare il valdismo lombardo, nel periodo della, sua primitiva irradiazione, come uno stato di diffusa fermentazione spirituale, in cui vanno rapidamente differenziandosi, dall’originario nucleo lionese molteplici gruppi, varii ed affini, che diversamente si colorano a seconda dell'ambiente in cui sbocciano, che prendono nome da un corifeo o da una località, che, pur essendo concordi nell’opposizione di fronte alla Chiesa Romana, sono, per spirito di ambizione e contraddizione, gelosi dei propri aderenti, rivali ed ostili tra di loro (2).
Secondo la confessione fatta a Stefano Borbone da un Valdese che, per addottrinarsi nella sua eresia, aveva trascorso 18 anni a Milano, c’erano in questa città, nella prima metà del sec. xm, ben 17 sètte diverse (3).
(1) Innoc. Ili, Episl. XI, 17 (3 aprile 1209). Cfr. Müller, Die Waldenser und ihre einzelne Gruppen bis zum Anfang des 14. Jahrhund., Gotha, 1886, p. 19.
(2) « Ex ambicione primatus et erroris contrarietate, diversis inter se opinionum altercationibus conscissi, in diversas hereses divisi sunt, et denominati ab illarum auto-ribus opiriionum cuiuslibet horum sectatores. Agnoscunt autem se mutuo diversarum heresum sectatores et detestantur et condempnant,' et suos complices ab aliorum consocio custodiunt, ne ab’eis seducantur. Non autem, prodit unus alium de alia heresi, ne forte vicissim et ille prodat... Omnes autem unanimiter exosam habent ecclesiam eatholicam ». David d’Aug., Preger, Der Traclat des David von Augsburg, München, p. 36.
(3) « Requisitus recognovit quod bene noverat apud Mediolanum septemdecim sectas ad se invicem divisas et adversas, quas ipse eciam de secta sua omnes dampnàbant, et eas mihi nominavit et differencias earum ». Stefano Borb., 280. Le sètte nominate da Stefano Borb. 280-1 sono le seguenti: « Pauperes de Lugduno, Pauperes de Lumbardia, Tortolani, Communiati, Rebaptizati, Arnaldisti, Speronistae, Leonistae, Catari, Patereni, Manichei sive Bulgari » • a suis inventoribus sic dictis ».
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Ora, la maggior parte di queste sètte sono appunto di origine valdese e di queste, alcune appartengono al gruppo.francese, come quelli dei Poveri Cattolici e dei Tor-tolani; altre appartengono, invece, al gruppo lombardo, come gli Umiliati, gli Spe-ronisti, i Runcarii, i Sifridensi, gli Ortlibarii.
Di queste sètte alcune hanno vita breve o grama, altre ci appaiono dotate id più robusta costituzione e di maggiore forza di espansione. Così i Poveri di Lione e i Poveri Lombardi, tra i Valdesi; gli Albanesi e i Concorresi, tra i Catari in Italia (i). Più tardi le frazioni del valdismo saranno riuniti in 3 grandi gruppi, a seconda delle 3 principali nazioni, in cui esso si è maggiormente affermato: Francia (Romani), Italia (Pedemontani) e Germania (Alemanni) (2)..
Scopo appunto del presente studio è di illustrare questo concetto delle molteplicità dei gruppi valdesi primitivi, ripigliando in esame le origini del gruppo dei Poveri Lombardi, per mostrare che se questo fu il più importante e il più attivo, non fu però il solo nè il più antico di quelli che ebbero sviluppo su territorio lombardo-tedesco, trattando nello stesso tempo di queli altri gruppi appartenenti, sia al ramo lombardo che al ramo francese, che furono o trascurati del tutto o appena sfiorati dagli scrittori di cose valdesi, e cioè degli Speronisii, dei Runcarii e dei Tortolani.
LE ORIGINI DEI «POVERI LOMBARDI”
Se verso la metà del secolo xm il valdismo aveva già invaso la maggior parte dell’Europa, la Lombardia rimase sempre non soltanto il suo centro più importante in Italia, ma il più intenso focolare d’irradiazione e di propaganda ereticale. Da essa infatti, sin dalla fine del secolo xn, partirono la maggior parte delle missioni . destinate ad evangelizzare le regioni tedesche, austriache e boeme. È naturale quindi che accanto ai poveri di Lione le antiche fonti parlino anche dei Poveri di Lombardia, come uno dei due grandi rami in cui si divise il valdismo. E si trattava non di semplice divisione territoriale, ma sopratutto dottrinale, poiché i Poveri Lombardi rappresentavano una tendenza religiosa nettamente distinta dalla lionese, con proprie credenze ed abitudini (3).
(1) «Major non potest esse divisio. Pauperes Leonistae et Pauperes Lombardi sunt divisi, et hae quatuor (c. Alban, et Concorric.] secfcàe sunt contrariae una alteri Spasi ignis aquae, et una ad mortem aliam condemnat, et quilibet eorum dieit, se esse iscipulum Christi et si aliqui sustinent mortem, dicunt, quod sint martyres Chnsti • Salve Burce, Döllinger, II, 73.
(2) « Sed producant ipsi Waldenses suos doctores, qui tarnen nullius sunt momenti, et in suis erroribus et opinionibus tripartiti, et per consequens ecclesiam minime consti-tuentes, cum ecclesia sit una et similiter fides sit una et non plures. Imo ipsi Waldenses constituant monstrum triceps, nota quod dicunt se facere unum corpus et tarnen tria capita, aliqui enim suorum haeresiarcharum dicuntur Romani, alii Pedemontani, alii vero Alemanni, ncque aliquis eorum ab altero jurisdictionem sive auctoritatem suscipit, nec alterius se subditum confitetur ». Nota puncta scu arlicuìos sectae Waldensium, Döllinger, II, 244-5.
(3) < In omnibus sunt civitatibus Lombardiae, et in provincia, et in aliis regnis et terris, plures auditores habebant, et in publico disputabant, et.populum vocabant ad
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DELLE ORIGINI DEI « POVERI LOMBARDI » 125
Come abbiamo già visto in Lombardia esistevano parecchi gruppi valdesi, ma i Poveri Lombardi costituivano la comunità più saldamente organizzata e, probabilmente, la più numerosa. Certo, essa apparve come la più importante anche ai polemisti cattolici che scrivessero verso la metà del secolo xm. Per questo motivo prima di passare in rassegna le sètte valdesi derivate dal nucleo lionese, conviene prendere le mosse da quelli dèi Poveri Lombardi. Non per determinarne le caratteristiche dottrinali e disciplinari, perchè questo compito è stato sostanzialmente assoluto con grande acume e precisione da K. Muller nella sua opera: Die Wal-denser, ma per studiarne le . origini, intorno alle quali gravitano ancora incertezze e dubbi.
Secondo il Dieckhoff (i), i Poveri Lombardi Sarebbero il risultato del miscuglio di elementi valdesi con altri elementi più antichi, specialmente arnaldistici.
L’Herzog (2), che aveva da prima accettato la teoria del Dieckhoff, sostenne in seguito che i Poveri Lombardi fossero costituiti di soli elementi valdesi, che per le speciali condizioni dell’ambiente italiano, accentuavano più che i francesi, l’opposizione alla Chiesa Romana.
Il Preger (3) sostenne, invece, l’indipendenza dei Poveri Lombardi dai Valdesi di Francia, traendo, dall’esame della lettera dei Poveri Lombardi a quelli di Germania del 1218 i seguenti argomenti a sostegno della sua affermazione: 1. i Poveri italiani (fratres italici) formano un’organizzazione chiusa in sè e ben distinta da quella dei Francesi {fratres ultramontani), detti Valdostani, electi valdesii sodi, società? valdostana; 2. .se in origine i Poveri Italiani avessero formato una cosa sola con quelli di Francia, Valdo; imponendo, come condizione della pace e unione tra le due communità dei Poveri, la separazione dei primi dalle Congregaciones laboranciwm non avrebbe parlato di semplice separazione da "un elemento ritenuto in contraddizione con i principi evangelici senza far cenno d’uno stadio anteriore, in cui essi ne erano staccati (Rescriptum, n. 6). 3. L’indifferenza, che ostentano i Poveri Lombardi di fronte al problema della salvazione di Valdo, indica l’assenza di legami di filiazione e di diretta dipendenza da lui (Rescriptum, n. 15). 4. Infine i numerosi punti di divergenza dottrinale tra le due communità.
Il Preger conchiude affermando che i Poveri Lombardi sono costituiti da questi tre elementi:
1. Gli4 Umiliati, con i quali avrebbero comune l’organizzazione operaia e del lavoro, la povertà volontaria, ecc.
2. Gli Arnaldisti, da i quali hanno derivato la teoria della dipendenza dell’efficacia sacramentale dai meriti del ministro e la violenta opposizione alla gerarchia ecclesiastica.
stationes solemnes in foro, in campo, et praedicabant in tectis. Non erat qui eos impedire audebat, propter potentiam et multitudinem fautorum suorum». Tract. de Waldensibus, ap. Flaccius, Catal. testium vcritatis, Lugduni, 1597, p. 542.
(1) Die Waldenser in Mittelalter, Göttinger, 1851.
(2) Die romanischen Waldenser, Halle, 1853.
(3) Beiträge zur Geschichte der Waldesier in Mittelalter, München, 1875.
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3. I Valdesi, che avrebbero impresso un impulso riformatore all’elemento umiliato-arnaldistico, e introdotto alcuni punti essenziali del loro insegnamento specialmente quello del carattere di autorità suprema attribuito alla Bibbia.
Il Müller (1) sottopone alla sua critica le affermazioni del Preger. Quanto all’elemento arnaldistico egli pensa che, dato che sia possibile determinare l’essenza di questo movimento e che sotto questo nome non debba piuttosto intendersi una varietà del valdismo, ‘esso non ha fornito nulla di essenziale al movimento dei Poveri Lombardi.
Più soldo fondamento invece sembra avere ai suoi occhi il contributo degli Umiliati all; formazione dei Poveri Lombardi; Al contrario, infatti; dei Valdesi di Francia, qw i di Lombardia ci appaiono anche, prima della separazione, costituiti in associazioni più o meno organizzate, e già dotate di una certa coscienza di partito. Degli stretti legami tra Umiliati e Valdesi fanno testimonianza il decreto contro gli eretici al concilio di Verona del 1184, in cui essi vengono considerati come una sola setta, nonché le bolle di conferma degli Ordini degli Umiliati, promulgate da Innocenzo III. A queste considerazioni, che erano state già accennate dal Preger; il Müller aggiunge la testimonianza del Chronicon Laudunense (2), e dalla, quale risulta l’identità delle due professioni religiose.
Il Müller ne conchiude che bisogna ammettere tra di essi un legame di filiazione diretta, in modo che i Poveri Lombardi derivino dai preesistenti umiliati convertiti alle dottrine valdesi, e dai quali essi ereditarono alcuni elementi caratteristici, come le associazioni lavoratrici, formate dal Io e 20 ordine degli Umiliati — e non, come aveva affermato il Preger, dal 30, che era una semplice fraternità laica (3).
Le conclusioni del Müller meritano alcune considerazioni.
Anzitutto non sembra che gli Umiliati esistessero e fossero costituiti in ordini religiosi e in associazioni lavoratrici anteriormente ai Poveri Lombardi.
Inoltre bisogna intendersi sul significato e l'ambito del termine di Poveri Lombardi.
Se si vogliono designare tutti i Valdesi della Lombardia e in generale dell’Italia, e in questo caso non c'è dubbio che il valdismo, essendo stato introdotto in Italia da Valdo o dai suoi discepoli immediati, i Poveri Lombardi derivano direttamente dai Poveri di Lione (4).
In questo primo periodo abbiamo, per esempio, a Milano un nucleo di discepoli di Valdo, che si chiamarono o Valdenses, Valdesii, o Pauperes, Pauperes.de Lu-gduno, o H umiliali.
Da questo nucleo primitivo, che conservò probabilmente il nome di Pauperes
(1) Die Waldenser, 75 ss.
(2) In Mon. Germ. Script. XXVI, 449, ad a. 1178.
(3) Cfr. Müller, 58-62.
(4) « Dividitur autem haeresis in duas partes. Prima pars vocatur Pauperes Ultramontani; secunda vero Pauperes Lombardi. Et isti descenderurit ab illis ». Rain. Sacc., Martene, Thesaur. nov. ance dot. V, 1175.
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DELLE ORIGINI DEI « POVERI LOMBARDI »
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de Lugduno, si vennero differenziando, a quanto pare allo scopo di adattare i principi evangelici alle esigenze della vita locale, altri gruppi autonomi che presero nomi diversi o ne adottarono definitivamente uno già noto. Così gli Speronisii di cui tratteremo in seguito, e gli Umiliati che reclutati principalmente tra i lavoratori dei panni pretesero conservare le antiche corporazioni di mestiere.
Questi gruppi dissidenti si sottrassero all’autorità di Valdo e dei suoi discepoli e rappresentanti; di tutti però si può dire che derivarono dai Poveri di Lione. Pare anzi che una comunità di Poveri di Lione propriamente detti, che si erano conservati fedeli all’insegnamento di Valdo, abbia perdurato a lungo a Milano e che vi abbia avuto scuole per istruire nelle proprie dottrine i seguaci (1).
Ora se i Poveri Lombardi sono menzionati come coesistenti a Milano accanto ai Poveri di Lione ed accanto ad altri gruppi certamente valdesi, come speronisi! e tortolani, ciò vuol dire che non si vuole con quel termine indicare in genere i valdesi tutti di Lombardia o d'Italia per opposizione a quelli di Francia, bensì un determinato gruppo valdese con organizzazione e caratteristiche proprie e che si dimostra tra i gruppi derivati, dotato di maggior vitalità e di più viva forza d’espansione e di assimilazione.
Noi possediamo al riguardo preziose testimonianze nel trattato: Supra Stella (2) che il piacentino Salve Burce, uno dei polemisti cattolici meglio informati e più precisi e più vicini alle origini, compose nella prima metà del secolo xm e che è rimasto ignoto ai migliori scrittori di cose valdesi, compresi il Preger eed il Müller.
Rivolgendosi ai Valdesi in generale. Salve Burce afferma di scrivere circa 60 anni dopo che Valdo ebbe abbandonata la Chiesa Romana quando erano ancor vivi molti di coloro ehe gli erano stati famigliari. Riguardo alle origini dei Valdesi, egli dice che il lionese Valdo era stato il loro capo e che tanto lui che i suoi discepoli e seguaci avevano prima fatto parte della Chiesa Romana. Come potevano vantarsi dunque di essere la vera Chiesa di Cristo? (3)
Riguardo poi alle origini dei Poveri Lombardi ed ai loro rapporti con i Poveri di Lione sino alla loro definitiva separazione, il trattato di Salve Burce contiene delle preziose indicazioni che giova riprodurre nel testo originale:
« Pauperes Lombardi exìverunt a Pauperibus de Leono et hoc est circa 20 annos, et surrexit Johannes de Roncho, qui eorum erat ancianus, et ipse crai idiota et absque bitter is (4).
(1) Cfr. Stefano Borb., Anecdotes historiques, ed. Lecoy de la Marche, Paris, 1877, pag. 280.
(2) Pubblicato dal Döllinger, II.
(3) « Valdexius, qui fuit de Leono, fuit vestrum caput, et a Valdesio in retro non habebatis caput, nisi ecclesiam Romanam, et hoc esse potest circa 60 annos, et multi sunt modo de illis hominibus, qui fuerunt sui familiares, et ipsemet Valdexius, fuit de ecclesia Romana; quomodo ergo creditis, quod ecclesia non esset a Valdexio in retro? » Salve Burce, Döllinger, II, 74.
(4) Salve Burce, Döllinger, II, 64.
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»0 Pauperes Lombardi, vos fuislis primo de ecclesia Romana, quia non placuit vobis ecclesia, junxistis vos cum Pauperibus Leonistis, et eratis cum eis sub regimine Gualdensis, et stetistis àliquo tempore sub suo regimine, poslea eligistis unum aliud caput displicendo Gualdensi et pauperibus Leonistis, cuius nomen fuit Johannes de Roncho, quem ego vidi, et praedicaslis aliquibus annis id, quod Pauperes praedicabant dicendo, quod non oratis contra eos, sed modo maxima discordia est inter vos ad invicem...
« Sed, vos Pauperes Lombardi, non potesti s probarc, quod vestra (ecclesia) sii de. triginta sex (annis), et ideo positus est millesimus in isto libro, quia multi viderunt vos esse in ecclesia Romana, et ivislis cum Pauperibus Leonistis et exislis de congre-gatione eorum et feristis prò vobis congregationem, et adhuc dicilis quod ecclesia Dei stelit amissa multis annis usque ad vos et vos reslituistis (i).
Da questa testimonianza risulta:
i. Coloro che dovevano formare più tardi 'il gruppo dei Poveri Lombardi erano passati direttamente dalla Chiesa Romana, di cui, come lo stesso Valdo, facevano parte, tra le file dei Poveri di Lione, senza passare attraverso il gruppo degli umiliati valdesi; 2. che la loro adesione individuale al gruppo lionese, nonché la loro separazione da questo ebbero luogo mentre Valdo era ancora in vita (sub regimine Gualdensis, displicendo Gualdensi.} (2); 3. che la loro scissione dai Poveri di Lione fu provocata da un valdese della prima ora, un certo Giovanni da Ronco, che fu il primo capo della nuova communità dei Poveri Lombardi; 4. che le cause della separazione furono estranee alla dottrina, ma piuttosto d'indole disciplinare (elezione di un altro capo). Ciò che esclude l’influsso diretto dell'eleménto arnaldistico sulla primitiva costituzione del gruppo; 5. che usciti dalla congregazione dei Poveri di Lione, i Poveri Lombardi formarono una nuova congregazione. Ciò che elimina ogni confusione con gli Umiliati (3).
Le notizie, che intorno alle origini del gruppo dei Poveri Lombardi ci vengono trasmesse da Salve Burce, ricevono luce e conferma da uri altro importante documento emanante, a quanto pare, dallo stesso gruppo: la lettera che i Poveri Lombardi scrissero nel 1218 ai Poveri di Germania per informarli dei motivi del loro dissidio coi Poveri di Lione e delle vane trattative di riconciliazione avvenute tra loro (4).
(1) Salve Bürce, Döllinger, II, 74.
(2) Nel 1178, all’epoca della sua conversione, Valdo è ancor giovane, avendo • duas parvulas Alias ■ Chron. Land., in Mon. Gemi. Script. XXVI, 447.
(3) Basandoci sui dati forniti da Salve Burce si potrebbe stabilire la seguente cronologia: a. 1180 circa, data dell’introduzione del valdismo a Milano. Valdo è in Italia nel 1179, all’epoca del Concilio Lateranense III (Mapes, De nugis curialium. Edizione Wrigth, London, 1850, p. 64; Chron. Laud in Mon. Gemi. Script., XXVI, 449. a. 1200 circa, Giovanni da Ronco' provoca la scissione di un gruppo valdese di Milano da quello di Lione, costituendo il gruppo dei Poveri Lombardi; « et hoc est circa 20 annos et surrexit Johannes de Rónco', a. 1240 circa, Salve Burce scrive il suo trattato: « Valdi xius... futi vestrum caput...,et hoc esse potisi circa 60 annos ». In quest’epoca il gruppo dei Poveri Lombardi conta circa 36 anni di esistenza; « quod vestra [ecclesia] sii de tri-ginta sex (annis) ».
(4) ■ Rescriptum heresiarcharum Lombardie ad pauperes de Lugduno qui sunt
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Secondo questo Rescriptum, il dissidio sarebbe scoppiato sin da quando Valdo era ancora in vita (r), e sarebbe stato provocato da una questione «de proponimento », della direzione cioè della communità valdese. Il Rescriptum non ci dice chiaramente cosa volessero i Lombardi, ma. dal fatto che Valdo pretendeva che, nè lui vivo nè dopo la sua morte ci fosse alcuno a capo delle due società (2), si può dedurne che i Lombardi ne esigessero uno.
L’opposizione di Valdo era forse ispirata da un ideale di eguaglianza evangelica. Quanto ài Valdesi d’Italia, essi tradiscono sin dalle origini una spiccata tendenza all’organizzazione che sembra far difetto invece ai Valdesi di Francia (3). L’altro principale punto di discordia consisteva nel legame che univa i Poveri di Lombardia alle corporazioni lavoratrici e che Valdo pretendeva venisse ripudiato e spezzato (4). Un terzo punto di contrasto, infine, riguardava l’elezione e la consacrazione dei ministri (5). Il Rescriptum tace sulla parte avuta in queste vicende da Giovanni da Ronco. Tanto questi che Valdo erano certamente morti nel 1218 (6), quando, eliminato così l’ostacolo principale, s’iniziarono le prime trattative per un’eventuale riconciliazione. Si venne infatti ad un accomodamento, di cui ci. rimane traccia nel Rescriptum (n. 3). Anteriori a questo sono due altri scritti relativi alla presente controversia, e cioè un quesito dei Lombardi ai Francesi, e di cui vengono citati dei passi nei nn. 4-6 del Rescriptum, e la risposta dei Francesi. Le riserve contenute in questa riguardo le associazioni lavoratrici (de laborancium congregatone) provocarono una controrisposta dei Lombardi. Eliminate queste difficoltà vennero in discussione altri punti, per cui si ebbe un quesito dei Francesi, la risposta dei Lombardi e - la controrisposta dei Francesi (7). Allo scopo di sanzionare solennemente l’accordo nuovamente raggiunto, sei rappresentanti dell’una e dell’altra parte si riunirono nel 1218 a Bergamo. Durante le trattative si riaprì ed inasprì il dissidio, specialmente per ciò che riguardava l’affermazione della salvazione di Valdo e di Viveto, accettata solo condizionatamente dai Lombardi: si prò omnibus culpis et offencionibus suis deo salisfecerint ante obilum (8), e il rito della S. Cena. Le trattative naufragarono e la scissione divenne definitiva.
Il Rescriptum, ohe è prezioso documento per la conoscenza del contratto dei due gruppi e delle loro dottrine e consuetudini, è stato minutamente studiato dal Muller, al cui lavoro mi permetto di rinviare il lettore. In esso si manifestano
in Alamannia », edito dal Preger, Beitrage nur Geschichte der Waldesier in Mittelaller, Mönchen, 1875, p. 56-63 e dal Döllinger, II, 42-52. La data 1218 è del Müller, p. 27 ss.; il Preger, Beiträge, 6, aveva proposto l’a. J230.
(i) Rescriptum, n. 4 «(Valdo) se'nolle»; n. 6: «cum de omnibus ahis esset pax et concordia inter eum et fratres ytalicos... pacem cum co habere non possent ».
(2) Rescriptum, n. 4 «se nolle aliquem in societate ultramontanorum ant ytalico-rum fratrum fore prépositum ». '
b
•(7
(8
Cir. Müller, 59.
Rescriptum, Rescriptum, Rescriptum, Rescriptum, Rescriptum,
n. 6.
n. 5.
n. 15.
nn. 8, 13.
n. 15-
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già quelle particolari tendenze che caratterizzano il yaldismo italico e il tedesco, che da quello deriva. t
Il valdismo italico è più radicale e più violento di quello francese.
Nei riguardi della Chiesa Romana, i Poveri Lombardi assumono un’attitudine più ostile e più distruttiva dei Francesi. Questi dicevano che la Chiesa Romana non era la Chiesa, e bisogna intendere la sola Chiesa di Cristo; i Lombardi affermavano che essa era la « congrega dei maligni, la bestia e la meretrice » di cui parla V Apocalissi (i). Per i Lombardi, cqme vedremo, aveva cessato di esistere sin dal tempo di Silvestro papa.
Un’altra caratteristica della mentalità dei Poveri Lombardi e insieme del loro radicalismo religioso era la teoria intorno all’efficacia dei sacramenti. Mentre i Francesi facevano dipendere questa sia dalle parole sacramentali, sia dal caràttere sacerdotale del ministro, o anche dalla virtù immediata del Cristo, secondo i Poveri Lombardi essa era condizionata e dipendeva dai meriti e dalla dignità morale del ministro (2).
All’epoca della composizione del Rescriptum, i Valdesi lombardi formano già un gruppo organizzato. I mittenti della lettera parlano infatti dei loro « socii » (3), della loro «societas» (4), della loro « congregati© » (5). Però essi dànno a se stessi il nome di (Fratres) Italici (6) o di pauperes spiritu (7), ma non si trova adoperato mai il termine di Pauperes Lombardi. Probabilmente questo nome venne loro, come spesso avviene, da estranei; comunque esso è già usato dagli scrittori di cose valdesi del 30 e 40 decennio del secolo xm. •
Nell’« inscriptio » della lettera figurano i nomi di parecchie personalità valdesi che sembra fossero i maggiorenti della communità, cui pare presieda uno di loro, un certo « Oto de Ramaceli© » (8).
Nessuno, credo, ha fatto caso sinora che il numero dei mittenti nominati nella « inscriptio » è esattamente di 12. Sapendo come l’imitazione « ad litteram » della
(1) «Item (Pauperes de Lugduno) dicunt quod ecclesia Romana non est ecclesia Ìesu Christi. Item (Pauperes Lombardi) dicunt quod ecclesia Romana est ecclesia ma-ignantium et bestia et meretrix, que leguntur in Apocalypsi ». Rain. Sacc., Martine, V, 1775.
(2) Rescriptum-, n. 19 e 20. I Lombardi dichiarano di essere pervenuti a questa concezione in seguito ad una più profonda conoscenza della S. Scrittura, mentre prima avevano condiviso una delle teorie dei Francesi. Ciò conferma l’informazione di Salve
Burce, secondo la quale i Lombardi, subito dopo la loro separazione, avrebbero continuato per qualche tempo ad accettare le dottrine dei Francesi.
(3 Rescriptum, n. io.
(4 Rescriptum, nn. 9, 13, 17.
(5 Rescriptum, n. 13.
(6 Rescriptum, nn. 6, 7, 23.
(7) Rescriptum, n. 1.
(8) « Ad honorem Patris et Filii et Spiritus Sancii, amen. Oto de Ramaceli©, dei grada confrater pauperum spiritu, J. de Sarnago, Tadeus, Marinus, G. de Rapia, L. de Lugduno, ,G. de Moltr’yo, J. de Mutina, J. Franceschus, Jordanus de Dogno, Bononius atque Thomas ». Rescriptum, n. 1. Testo dal Preger, Beiträge, tà, con le correzioni del Müller, 27.
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DELLE ORIGINI DEI « POVERI LOMBARDI »
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vita apostolica costituisca il caposaldo di tutto il movimento e come i Valdesi si facessero chiamare « apostolorum successores » (1) e anche « apostoli » (2) e perfino « i dodici apostoli » (3), si è indotti a pensare che, dopo la morte di Giovanni da Ronco, il governo della società valdese lombarda venisse organizzato sul tipo del Collegio apostolico (4).
Dalla vivace ed aspra polemica, che verso la metà del secolo xm ferveva tra Poveri Lombardi e cattolici, nessun documento d’origine valdese è pervenuto sino a noi. Possiamo tuttavia ricostruirne alcuni tratti, attraverso i trattati polemici dei cattolici, e specialmente quelli di Salve Burce e del domenicano cremonese Monéta.
Riguardo all’antica accusa, rivolta contro Valdo il quale aveva preteso predicare senza la tnissio (5), nè quella divina da nessun miracolo garantita, nè quella ecclesiastica, esclusa dalla condanna papale, un « povero lombardo », il dodo? perversus Thomas (ty, aveva avanzata una sua teoria secondo la quale Valdo sarebbe stato investito dai poteri sacerdotali dalla universalità dei suoi fratelli e seguaci. Ogni membro della congregazione valdese, avendo rinunziato al diritto di reggere se stesso in favore di Valdo, questi aveva potuto essere creato pontefice di tutta la congregazione (7).
Si spargeva intanto la leggenda, raccolta e confermata dallo stesso Moneta, secondo la quale Valdo avrebbe ricevuto direttamente dal papa la facoltà di predicare, dietro esplicito impegno di seguire gli insegnamenti di alcuni padri e dottori della Chiesa (8). Infine, nel secolo xiv, quando già la comunità valdese dal suo
(1) » Dicentes illos tantum esse apostolorum successores » Acta Inq. Care. Döllinger, II, 13. «dicunt se esse apostolorum successores et habere auctoritatem apostolicam et claves ligandi atque solvendi » David d’Aug., Preger, Der Tractat, 27.
(2) « Praedicti nominantur inter se apostoli,- magistri et fratres ». Doc. Vald. pubblicato dal Friess, Oesterr. Vierteljahrsschrift für kath. Theol. X, x (1872), 257. Questo stesso documento contiene una lista di ix nomi di artigiani, i quali « reperti sunt rectores pro tunc sectae Waldehsium ». Il documento è però del see. xiv.
(3) « Die sich dìe zwelfbotten nennen » Doc. cit. dal Müller, 108.
(4) Dopo la morte di Valdo, la communità dei Poveri di Lione è governata da 2 « rectores » che durano in carica un anno. Alla conferenza di Bergamo, nel 1218, intervengono « Petrus de Relana » e « Bercngarius de Aquaviva », « qui ambo tunc temporis ac-cionem ultramontanorum iuxta suam consuetudinem procurabant ». Rescriptunif n. 15.
(5) Cfr. specialmente il trattato C. Waldenses di Alan, de Ins. Migne, P. L., CCX, 377 ss. Moneta Cremon., Adv. Catharos et Valdenses, ed. Ricchini, Roma, 1752, p. 441-2.
(6) Su questo Tommaso e i suoi contrasti con i Poveri di Lione, cfr. Rescriptum, numeri xo e 13. e. • . \ •
(7) « Quidam dicunt quod Valdesius ordinem habuit ab universitate fratrum suo-rum. Eorum autem, qui hoc dixerunt, principalis auetor fuit quidam heresiarcha pau-perum Lumbardorum, doctor perversus Thomas. Hoc autem probare taliter visus est: Quilibet de illa congregatione potuit dare Valdesio ius suum scilicet regere seipsum et sic tota congregatio illa potuit conferre et eontulit Valdesio regimen omnium, et sic creaverunt ilium omnium Pontificem et Praelatum ». Moneta, 403.
(8) « Vos venistis a Valdesio, dicatis unde ipse venit, constat quod non nisi a Papa Romanae Ecclesiae; ergo Papa est solus haeres Ecclesiae primitivae. Si autem dicat, quod non sit a Papa; ad quid ergo venit ad Papam, et promisit servare quatuor Doctores scilicet Ambrosium, Augustinìim, Gregorium et Hieronymum, et sic accepit a Papa predicationis officium, cujus rei testimonium facile potest invenire » Moneta, 402.
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primitivo carattere di confraternita laica si era evoluta verso uno stato di organizzazione, disciplina e gerarchia ecclesiastica, si volle giustificare e comprovare la validità delle ordinazioni sacre, impartite dai ministri valdesi, affermando che ’ Valdo e il suo socio Giovanni avevano licevuto la pienezza dell’ordinazione sacerdotale da un cardinale, amico dei Valdesi, per cui essi ed i loro successóri potevano imporre validamente le mani (i).
Un punto caratteristico della polemica accesasi verso la metà del secolo xm tra i Poveri Lombardi e i cattolici è quello che si riferisce alle origini della setta. I poveri pretendevano di costituire la sola vera Chiesa di Cristo. I cattolici opponevano l’origine, recente della setta e la sua derivazione dalla Chiesa Romana (2).
'Affermavano i Poveri che la primitiva Chiesa era venuta meno quando papa Silvestro aveva rinunciato alla povertà evangelica, accettando da Costantino le ricchezze, le prerogative e gli onori della potestà imperiale (3). Onde i papi erano aivenuti i successori non più di Pietro (4), ma di Costantino e degli imperatori, facendosi complici della violenza e della frode con cui questi avevano conquistato il potere (5). I « Poveri » avevano restaurata la Chiesa che si era corrotta al tempo
(1) «Et licet Petrus dictus Waldensis non accepisset quod absit, fatemi) r enim eum sfuise presbyterum sacris ordinibus sacratum cum Johanne suo socio sive con-fratre ejusdem ordinis, et postmodum ab ilio Cardinali, de quo audistis favente eidem confirmatum, non dubitamus tarnen multi et innumerabiles sacerdotes, qui hanc vitam et fìdem secati sunt, nonne fratribus imponete manibus potuerunt ». Ép. Fratrum de Italia, 1398, Döllinger, II, 359. Su questo Giovanni, ibid. p. 257: « Petrus de Walle et ejus socius Johannes Ludinensis a Ludono civitate dictus," quem nostri aemuli falsis opinionibus dicunt fuisse dclirum ». Cfr. Petrus PilichdoRf, C. haeres. Waldensium tractates, PP. Max. Bibi. . Lugd., XXV, 278.
(2) ■ Non enim multum temporis est quod esse coeperunt, quoniam sicut patet a ’ Valdesio cive Lugdunensi exordium acceperunt, qui hanc viam incepit non sunt plures quam octuaginta anni, vel si plures aut pauciores parum plures vel pauciores existunt; ergo non sunt successores Ecclesiae primitivae; ergo non sunt ecclesia Dei. Si autem dicunt, quod sua via ante Valdensem ostendant hoc aliquo testimonio, quod minime lacere possunt». Moneta, 402. Cfr., ibid., p. 405.
(3) «Primo dicunt, quod Romana ecclesia non sit Ecclesia Jesu Christi; sed sit Ecclesia Malignantium, et quod defecerit sub Silvestro, quando venenum temporalium infusum est in Ecclesiam » Anon. Pass. Max Bibi. PP. Lugd. XXV, 266. ■
(4) In realtà i Poveri negavano la venuta di S. Pietro in Roma ed esprimevano forti dubbi sull’autenticità delle ossa venerate come quelle dell’Apostolo: • Praeterea dicunt, Petrum nunquam fuisse Romae, unde arguunt nos de inquisitone ossjum ejus Romac, cum in Novo Testanento, nullum testimonium habeatur, quod Petrus fuerit Romae. Arguuntetiam Ecclesiam Romanam de ossibuS illis dicentes Ecclesiam nescirc an ejus ossa fuerint vel alterius hominis mortui, forte Pagani, quod ipsi credunt, et ab ilio mortuo dicunt Ecclesiam Romanam sumpsisse exordium, non a Christo, vol Petro et in mortuis hominibus, falso tarnen earn fore contendimi ». Moneta, 4x0-411.
(5) « Adhuc etiam haeretici agitati veneno perfidiae nituntur probare, quod Romani Pontifices, et qui eis adhaercnt, non sunt successores Petri, sed Constantini, nec a Petro incepisse Ecclesiam, sed a Constantino, vel a Silvestro. Dicunt enim, quod cum Paulus venisset Romam, Sancii, qui tunc Romae erant, quia ab Imperatoribus Romanorum capiebantur, deridebantur, carcerabantur, et contradicebatur eis ab omnibus, et occi-debantur. Tunc autem Roma imperium mundi tenebat. Illud autem imperium tenuit Roma usque ad tempus Constantini, qui in codem imperio superbe successit, et sicut
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DELLE ORIGINI DEI « POVERI LOMBARDI »
di Silvestro (i) considerato da alcuni come l’Anticiisto, se pure questi non personificava allora tutta la Chiesa Romana (2). Onde poteva ben dirsi chela loro setta durava sin dal tempo del papa Silvestro (3).
^Questa leggenda delle origini, che costituisce una delle tradizioni più caratteristiche del valdismo lombardo-tedesco, continua ad essere largamente sfuttata negli scritti polemici del secolo xiv. Quasi tutti i documenti di quest'epoca, infatti, vi accennano. La leggenda si arricchisce di nuovi elementi drammatizzandosi sempre più. Nello stesso tempo si illustra sempre meglio il concetto dell’Apostolicità della setta vàldese, congiungendo questa con la Chiesa primitiva attraverso una serie ininterrotta di umili e sinceri cristiani 'e in particolare con quegli uomini apostolici che s’erano rifiutati di seguire papa Silvestro nella via della perdizione (4).
habebat tradidit Silvestro qui fecit hujus Romanae Ecclesiae, et omnia insignia imperii illi tradidit scilicet coronam imperialem, chlamydem coccineam, Palatium Lateranense, et potestatem atque dominium mundi, sicut ipse habebat, sed ipse habebat hoc -per vio-lentiam, et rapinam, sicut Julius Caesar, et ahi praedecessores sui; ergo Silvester, qui illa accepit injuste et per rapinam illa possedit; Similiter et omnes alii qui a Silvestro per successione!» acceperunt; non dicant ergo Romani Pontificis se esse successores Petri sed Constantini », Moneta», 409-410.
(1) « Item dicunt quod Ecclesia Christi permansit in episcopis et aliis praelatis usque ad b. Silvestrum, et ab eo deficit quousque ipsi earn restaura veruni ». Rain. Sacc. Martene, V, 1775. ' •
(2) « Quidam autem haeretici ausi sunt diccre, quod Silvester fuerit AntiChristus, et de Silvestro volunt intelligere2 Tess. 23. Sunt autem quidam dicere ausi: quod Antichristus non sit unus homo sed coetus Ecclesiae Romanae; super quo potest eodem objici quod mendacium est». Moneta, 264.
(3) « Dicentes, sectam eorum durasse a temporibus Sylvestri Papae, quando videlicet Ecclesia incepit habere proprias possessioncs ». Anon Pass, (pseudo-Rain). Max lìibl. PP. Lugd. XXV, 370. •
(4) « Haec autem sancta ecclesia a tempore apostolorum in ordine sancto per orbem terrarum in multis minibus escrevit et per multa tempora in virtute sanctae religionis permansit et rectores ecclesiae fere perCCC annos usque ad Constantini Caesaris imperium. Autem Constantino leproso, rector erat in ecclesia quidam qui vocabatur Silvester Romanus. Hic in monte Sirachiae juxta Romani vifam pauperem cum suis, ut legitur, causa persecutions agebat. Constantinus autem, ut refertur, viso accepto in sonniis, accersivit ad Silvestrum, etbaptizatus ab eo in Christi nomine, mundatur a lepra.«Videns Constantinus se a tam miserabili infirmitate in Christi nomine sanatum, cogitaverat honorare qui se mundaverat, et coronam imperii et dignitatem tradidit ei. Ille vero accepit. Socius autem ejus, ut enarrare audivit, ab eo rccessit, et his non consensit, sed viam paupertatis tenuit. Constantinus autem ad partes transmarinas cum moltitudine Romanorum recessit, et ibi, ut dicunt Constantinopolim aedificavit et earn suo nomine appellavi. Ab ilio ergo tempore haeresiarca in honores et dignitates ascendit et moltiplicata-sunt mala super terram. Nec omnino credimus quod ecclesia statini totaliter a via veritatis recesserit. Sed pars quaedam cecidit et pro maiori parte, sicut est consuetude, ad malum tenuit, pars autem, ut credendum est, longiori tempore in illa quam acceperat, veritate permansit. Et sic paulatim sanctitas ecclesiae quievit et ini-quitas crevit ». Cod. Klosternenburg, Döllinger, II, 352, « Quod autem ordo iste derivetur ab apostolis. notate quod tempore Constantini M. cum Silvester Papa thesau-rum reciperet, socii Silvestri renuerint, dicentes: hoc praeceptum a domino habemus, ut nulla terrena possideamus... Silvester vero dicit: nisi mecum manseritis, ego terram vobis prohibebo. Illi autem laetantes dixerunt: de hoc Deo gratias agimus, quia si ob observantiam mandatorum ejus nobis terram prohibes, coelum nobis merito exhibebis, Christo dicente: Amen dico vobis quia vos consecuti estis me, etc. Istis vero altercanti-
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Cadeva così l’obbiezione sollevata dai cattolici secondo la quale Valdo non avrebbe potuto ricevere l’ordinazione sacerdotale se il sacerdozio nella Chiesa era venuto come al tempo di Silvestro (i).
Si formava intanto l’opinione, non del tutto ancora abbandonata, di un’origine del valdismo anteriore allo stesso Valdo.
Antonino De Stefano.
(Pubblicheremo nel prossimo fascicolo la seconda parte in cui l’A. parla di altri gruppi Valdesi, gitali gli Speronisi», i Rancarti c i Tot totani). Red.
bus cum Silvestro, eadem nocte seguenti audita est vox de coelo dicens: hodie diffusum est venenum in ecclesia Dei, quam vocem Christi pauperes audientes audacius coopta perficiunt, et sic extra Synagogam facti sunt, et impletum verbum Domini dicentis loh. 16. Et sic per orbern dispersi sunt dicentes Silvestro suisque sequentibus: terram vobis relinquimus, nos vero coelum appetimus. Silvester autem dimisit eos abire, ipsi vero abeuntes, viam paupertatis exercentes, multiplicati sunt valde per multa durantes tempora: Ep. fratrum de Italia. Döllinger, II, 356.
(1) < Resjjondcas ergo Waldensis haeretice, si saceidotium apostolicum ablatum est tempore Papae Silvestri, sicut mentitur tibi iniquitas tua; quis ergo ordinavit pri-mum Valdensem in sacerdotem, cum nullum fuerit aliud sacerdotium in mundo verum, nisi illud Christi secundum ordinem Melchisedech ? Vel ergo dices, quod te ordinavit sacerdos Judaeus, vel Paganus, vel Christianus, vel Deus, si Judaeus vel Pagan us, unde tibi ergo nomen Christiani, cum nemo nihil det quod non habet? Si Christianus, et quis potuit fuisse, cum tu mentiaris sublatum fuisse sacerdotium? Si Deus: ostende per signa: Sed non credis hodie in Ecclesia fieri signa... Relinquitur ergo quod sit ordinatus et missus a diabulo? Petr. Pilichd., Max. Bibi. PP. Lugd. xxv, 279.
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LAMENNAIS E MAZZINI
(Continuazione. Vedi Bilyckmi, 'asticelo di luglio, pag. 44)
II.
Lamennais.
Lamennais - Anima tormentata dal tedio - L’Oceano - Principii assoluti dello scrittore nelle diverse fasi del suo pensiero - < On m’accuse d’avoir changé! Je me suis continué, voilà tout » - Educazione - Idealismo - Dubbi - Ribellione e difficoltà nell’accettare il sacerdozio - « Vittima attaccata alla colonna del sacrificio » - Im-ferativo categorico della coscienza - Voci interiori, come Mazzini - « Essai sur indifférence en matière de religion s-Le dottrine - Polemiche - Evoluzione del pensiero-< Giovane Italia» ed «Avenir»- Influenza del giornale cattolico liberale in Europa-Amore al -popolo - Aneliti nuovi - Repubblicanesimo - L’A venir cessa di essere pubblicato -« Les paroles d’un croyant •- Renan, suo giudizio -Manzini e le « Paroles d’un croyant » - Importanza di questo libro - Pensiero in continua elaborazione di Lamennais - Democrazia - Ribellione alla Santa Sede -Dramma del suo animo - Prigione - Sacrifici - Fede ardente in Dio.
una lettera diretta a M. Querret (del 20 ottobre 1816) Lamennais scriveva; « Pour moi, comme l’homme de la fable, laissant le plus empressé courir après l’ennui,'je l’attend paisiblement au coin de mon feu, dans ma petite chambre.et souvent je ne le trouve encore que trop exact au rendez-vous» (1). Pochi uomini dell’altro secolo hanno sentito il tedio, il vuoto dell’anima, la noia — nel senso profondo con cui la definivano gli antichi e Pascal — come l’abate francese. La sua vita, al pari di quella del Leopardi, fu velata dall’invincibile melanconia, che* dà al genio un’impronta speciale, ed al carattere una spiccata tendenza al pessimismo. Figlio dell’Oceano brettone, Lamennais ha sempre conservata intiera l’impronta della sua origine (2). Renan dice di lui che poche nature furono dominate come la sua da un principio assoluto e meno suscettibile a modificarsi: « Par là il fut ce qu’il fut: un ressort terrible, un arc tendu et toujours prêt à lancer le trait.
(1) A. Roussel, Lamennais d’après des documents inédits (citato). Chateaubriand diceva: « Je crois que je me suis ennuyé dès le ventre de ma mère »; Spuller, Lamennais (citato); Lamennais, Le Prêtre et l'Ami, Lettres inédites de Lamennais à la baronne Cottu (1818), publiées avec une introduction et des notes par le comte d’Haussonville, Paris, Perrin, 1910; A. Feugère, Lamennais avant l’a Essai sur ¡¿indifférence • d'après des documents inédits (1782-1817), Paris, 1906.
(2) Lamennais, Oeuvres complètes, 1836-37. 1844 (10 vol.); Oeuvres posthumes, publiées par E. De Fourgues, 1855-58 (5 vol.).
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La flamme vive et passagère de la passion méridionale n’a rien de commun avec ce feu ardent et sombre, avec cette colère profonde et obstinée qui ne veut pas être adoucie. Il n’y a pas de plus mauvaise disposition pour un philosophe et un critique; il y en a pas de meilleure pour un artiste et un poète » (1).
Poche settimane prima di morire Lamennais discorreva col signor Rigault, e, dimostrando come lo spirito francese si sia sviluppato lungo i secoli, seguendo le sue prime direttive, i suoi postulati fondamentali, anche quando sembrava immobile q contrastato da influenze straniere; dopo aver detto che non si può resistere alla logica degli avvenimenti, nè a quella dei principi, per uria spontanea associazione d’idee, paragonò la sua vita a quella della sua patria e concluse: « On m’accuse d’avoir changé! Je me suis continué, voilà tout! » (2).
La sua educazione, fatta a sbalzi, l’erudizione sovente pesante, la scienza composta più di parole che di concetti, lasciano indovinare delle profonde lacune nelle nozioni acquisite, ed altresì le pericolose direzioni intellettuali, a cui si diede in balia nei primi anni giovanili. Il suo spirito era dei più potenti, ma la sua immaginazione era più attiva e più forte delio spirito; essa lo trasportava nel mondo dei sogni, al di là della realtà della vita e della storia, così da poter definire il filosofo abate un idealista nel pieno senso della parola, che ragionava coi suoi sogni, e dava loro, in grazia del suo genio letterario, una forma ed una vita particolare.
Il dubbio presto assalse il suo spirito, facendogli scrutare con una specie di morbosa agitazione le più profonde verità religiose e non permettendogli di prendere l’Eucarestià che a ventidue anni. Così, quando fu spinto dal fratello Giovanni, già prete, a vestire l’abito sacerdotale, la sua anima passò attraverso alle prove più Crudèli;
Accettare irrevocabilmente uno stato di vita era un pensiero che lo spaventava addirittura. Tutto il suo essere si rivoltava alla prospettiva di quelle catene, in cui lo si voleva avvolgere, fossero pure delle catene d‘amore. Senza dubbio egli desiderava di dedicare a Dio scienza, genio, esistenza, ma stringere un legame infrangibile, addossarsi un sacrificio di tutti i giorni, di tutte le ore, questo gli pareva superiore alle sue forze. Però il fratello e gli amici, ripetendogli sovente che i suoi scrupoli, i suoi timori, sarebbero spariti, cojne dei vani spettri, appena vestito l’abito sacerdotale, finì per decidersi, ma fattosi sottodiacono i fantasmi dolorosi l’assediarono più terribili che mai, egli si considerò come votato alla sventura, ’ e, secondo la sua espressione: « una vittima attaccata alla colonna del sacrifizio • (3).
Prete per volontà altrui, non potè mai piegarsi all’intransigenza del Vaticano e, nel suo amore all’umanità, nel suo idealismo, con quella sua immaginazione
(1) E. Renan, M. De Lamennais in Revue des Deux Mondes (1857) 15 août, pag. 766-767; L. Bin aut, Joseph De Maistre et Lamennais, Les tendances communes et les résultats définitifs de leur philosophie in Revue des Deux Mondes, 1861 (x«r février).
(2) A. Roussel, opéra citata, I vol.; Spuller, Lamennais, cit.; P. Lazerges, Lamennais, essai sur l’unité de sa pensée ( Mon tau ha n, 1895).
(3) F. Lamennais, Oeuvres inédites, publiées par A. Blaize, Tom. I.
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(1917-IX]
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senza freno, con quella volontà alle volte inflessibile e talvolta stranamente debole, con una natura malaticcia, irritabile e biliosa in continuo contrasto con un cuore essenzialmente tenero e caritatevole, gli era impossibile accettare la barriera imposta al pensiero dal dogma, e l'intransigenza invece del libero esame. Amò con ardore e si ribellò con foga straordinaria, obbedendo ai suoi intimi impulsi ed alla voce interna che lo guidava nel suo faticoso lavoro.
Mazzini in esilio a Londra, accasciato dal dolore per la morte di due diletti congiunti, si sentiva attirato in Italia dal richiamo accorato, dalla supplica ardente di sua madre. Il grido di dolore e di amore gli trapassava l'anima, ma non riesciva a smuoverlo. « Avrei ceduto a quello se avessi potuto », scriveva ad una persona carissima, ma non poteva, non voleva. La vita di chi assume le parti d'emancipatore deve risplendere esempio agli altri. L'idea morale non basta predicarla, bisogna viverla. Così Lamennais in una sua lettera afferma: « Depuis cinquante ans que je suis en ce monde, mon pauvre ami, ma vie n’a pas été assez douce pour que je tienne beaucoup à ce qu'elle se prolonge. Je l’accepte telle que Dieu me l’a faite, c’est tout ce que je puis. Il est vrai que je travaille sans relâche. Je vais peu dans le monde, je ne me promène jamais. Pauvre comme je suis, quelle distraction serait à ma portée? D’ailleurs il faut un aliment à mon activité interne; il y a en moi une puissance qui me pousse; j’ai une tache à remplir. Sans cela, sans l'invincible sentiment d’un devoir qui m’est imposé, je serais incapable d’écrire une ligne. Il y a comme une voix qui me parle toujours, et dont je ne suis qu’un faible eco; qu'elle se taise, rendu à moi-même, à moi-seul, il ne me restera plus que le silence ».
Corne a Socrate od ai profeti biblici, una voce interiore parlava ai novelli apostoli dell’altro secolo, ed obbedendo a quell’ignoto ed intimo comando essi andavano incontro alla prigione, all’esilio, pur di far trionfare la verità, che splendeva al loro intelletto.
Fattosi sacerdote, Lamennais si diede subito con tutto lo slancio della sua mente esaltata e del suo genio a difendere il papato. Scrisse alcuni volumetti polemici e compose il famoso, libro: « L’essai sur l'indifférence en matière de religion », in cui pose il papa come il cardine della società. L’indifferenza religiosa, secondo il Lamennais, è la dottrina di quelli che, pur avendo una credenza, sono indifferenti a proposito delle verità religiose e dei dogmi essenziali della religione, dando luogo ad una tolleranza o ad -una libertà di fede, che l’autore francese non poteva ammettere (1).
Egli affermava che la Chiesa cattolica è depositaria ed interprete della legge suprema. La Chiesa sussiste pel suo capo, risiede nel capo; il potere della Chiesa*
(1) Lamennais, Essai sur l’indifférence en matière de religion. Oeuvres complètes, Paris, 1817-1823 (4 vol.); F. Brunetière, Lamennais, in Revue des Deux Mondes, 1893, Ier février; E. Faguet, Politiques et moralistes du XIX.me siècle 1891-1899, 2* sérié; C. Abbé Boutard, Lamennais, sa vie et ses doctrines, tre vol., (vol. I): La renaissance et rultramontanisme (1782-1828), Paris, 1905 (citato); Spuller, Lamennais, opéra citata; P. Mercier, Lamennais d'après sa correspondance et les travaux les plus recents, Paris, 1895; P. Janet, La philosophie de Lamennais, Paris, ed. Alcan, 1890; Sainte-Beuve, Portraits contemporaines, tome Ier, n. 20.580; E. Lacordaire, Oeuvres complètes, Paris.
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il potere spirituale è nel pontefice. Il papa è l’organo della legge delle leggi, è l’autorità per eccellènza — è Dio sulla terra.
Dunque ogni uomo, ogni setta che s’allontani dalla Chiesa cattolica e dal Santo Padre — ogni Chiesa particolare che derivi i propri diritti d’altronde che dalla Chiesa romana, è ribelle, com’era ribelle, prima del Cristianesimo, chi difendeva una potestà non derivata dall’universale.
Questi concetti destarono delle violenti polemiche, specialmente nel campo gallicano: e si può affermare che il primo assertore dell'infallibilità papale, chi rese facile l’ammetterla fra i francesi, fu Lamennais con le sue appassionate pagine.
Ma il papa per essere padre dell’umanità, ma i re per essere veramente degni del loro mandato, dovevano comprendere i bisogni del popolo, elevarlo, toglierlo dalla miseria materiale ed intellettuale in cui giaceva. Ed allora Lamennais ha capito che all’autorità papale si contrapponeva naturalmente un’altra forza, quella dell’autorità popolare. Il pontefice non corrispose alle sue aspirazioni, eppure egli, ardente di fede e di speranze, eccitato dai moti francesi del 1830, commosso per lo stato del clero, «guardò (secondo quanto scrive Mazzini nelle sue pagine: « Intorno all’enciclica di Gregorio XVI papa ») alla parola che fiammeggiava sulla bandiera del popolo, scrisse Dio e la libertà sulla propria; e quasi volendo persuadere al popolo che quella parola gli era stata spirata tacitamente dal capo della Chiesa, offrì al vecchio papa quella bandiera, perch’ei la levasse in alto, come pegno di lunga riconciliazione».
Mentre Mazzini stava pensando alla formazione delia « Giovine Italia », Lamennais fondava in Francia il giornale L’Avenir.
II giornalismo aveva sempre attratto lo scrittore francese. Sotto la Restaurazione era stato collaboratore della Quotidienne, del Conservate™ e del Drapeau Blanc, giornali ultra-realisti; dopo la rivoluzione di lùglio, convertendosi alla fede democratica, era naturale che nessun mezzo migliore gli si presentasse per spargere le sue idee, che una gazzetta fatta con amore, con arte, con fede invitta.
Distaccarsi dai vecchi partiti, separarsi dallo Stato e ricuperare la sua indipendenza, questa non è che un’attività, diremo così negativa, del cattolicesimo. Per riprendere la sua legittima influenza sulle nazioni moderne bisogna che la Chiesa si getti arditamente nella grande corrente democratica, bisogna che da tutte le parti ad un tempo, per mezzo dei suoi preti, dei suoi fedeli, delle sue opere, penetri fra le profonde masse del popolo, per dirigerlo, per toglierlo ai settari ed alle male passioni.
La carità che si manifesta coll’elemosina è un grande sollievo alle miserie umane, ma essa non basta; è necessario che la Chiesa combatta per far regnare sulla terra la giustizia sociale. Come vinse la schiavitù antica, così essa sola è capace d’ottenere e di stabilire, in una misura che rispetterà tutti i diritti e tutti gl’interessi, l’equilibrio da lungo ed invano auspicato, fra il salario, le forze ed il lavoro dell’operaio.
Questa verità che il mondo sembrava aver dimenticata, V Avenir fu il primo a ridirla nel suo secolo, prevenendo ed inaugurando quel che oggi si definisce: il socialismo cristiano. Una triplice coalizione di gallicani, di realisti e di rivoluzionari
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in lotta acerrima contro il focoso polemista, non riuscì che a raddoppiare la sua incredibile fecondità; il suo genio sembrava ravvivarsi in mezzo alle fiamme dell’incendio che portava in tutti i campi, contemporaneamente.
Il clero una volta alla testa dei credenti, si trovava ora alla loro coda: la religione considerata per tanti secoli come la sintesi della civiltà, ne ridiventava un frammento.
Bisognava risalire, rifare una poesia, ricomprendere tutte le scienze, raggiungere l'idealismo germanico, supremo sforzo del pensiero umano nell r storia.
Roma ricusò affermandosi maggiore del mondo. Essa che aveva 'tanto mutato e camminato, non volle più nè rinnovarsi nè muoversi, e dando alla propria estrema interpretazione cristiana la divina inflessibilità del testo, pretese nelle forme monarchiche della propria gerarchia tutta la verità della sua istituzione religiosa. Allora la battaglia si riaccese. E, come ben disse Alfredo Orfani in Don Giovanni Verità, nel volume « Fino a Dogali », « mentre gli ultimi increduli, scienziati e filosofi, accusavano il cristianesimo di decrepitezza, gli ultimi eretici gli ridonavano, nell’entusiasmo di una fede piena di dottrina e di poesia, un’altra gioventù ».
Quelli furono i giorni migliori per lo scrittore e l'apostolo. L’Avenir fu il giornale in cui ogni sopruso veniva combattuto, in cui tutte le ingiustizie trovavano un difensore, la religione i suoi adepti più fieri, più puri e pronti al sacrifìcio per il suo trionfo. La libertà di stampa, d’insegnamento, d’associazione; la libertà della Chiesa, l’unione del popolo per la conquista dei suoi sacri diritti, la lotta contro ogni inganno, tutto fu motivo di bellissimi, profondi, ardenti articoli sul simpatico giornale demo-cristiano (1).
I biografi di Lamennais, fra i quali eccelle io Spuller, scrissero che egli fu un riformatore. In poche pagine, nelle « Reflexions sur l’état de l’Eglise», aveva tracciato tutto un piano, quello che ai nostri tempi si chiama la rinascenza cattolica. Uscì dalla Chiesa e la Chiesa l'ha trattato con gran rigore, ma .condannandolo non ha obliato i suoi consigli, essa ha conservato le sue idee, anzi ha fatto di meglio, le ha poste alla prova. La libertà politica e le sue istituzioni, le opere pie, le congregazioni, le assemblee annuali dei cattolici laici, il parlamento e la stampa, il pergamo e la predicazione sono tutte emanazioni dell’insegnamento dell’abate francese, ma specialmente si deve a lui la riforma nella vita intima della Chiesa e nelle sue istituzioni.
Il modernismo, coi suoi aneliti ad un connubio fra. la scienza e la fede; l’istruzione ampliata fra il clero, come la suggerì Romolo Murri nelle Battaglie d’oggi; il giornalismo cattolico-liberale o demo-cristiano, come in Italia L’Azione di Cesena, ' erano già in embrione negli articoli delì’Avenir, ed ogni scritto di Lamennais su quel giornale, sembrava una fanfara che chiamasse a raccolta tutte le migliori energie del' clero, del cattolicismo, di quanti amavano Dio e la libertà in Francia.
(1) L’Avenir, Raccolta dei migliori articoli in 7 volumi, pubblicati nel Belgio, a Louvain, nel 1830-31: H. Harispe, Lamennais et Gerbet, tom. I, Lettres inédites de Lamennais et de Lacordaire, Paris, 1909; Luisa Giulio Benso, Enrico Lacordaire ed i suoi tempi, cap. V Avenir, in Rassegna Nazionale, Firenze, 1914.
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Le tendenze repubblicane di Lamennais cominciarono chiaramente a manifestarsi nei suoi articoli, ed il partito repubblicano comprese d’aver nel celebre prete un amico ed un sostenitore. Uno dei migliori articoli del direttore dell'Avenir fu certamente quello intitolato: « De la séparation de l'Eglise et de l’Etat » (18 Ottobre 1830, A venir):
...« Soumis comme tous les Français aux lois politiques et civiles du pays, autant qu’elle ne blesseront pas les droits sacres de la conscience, nous ne reconnaissons point votre autorité en tout ce qui concerne la religion, notre culte, notre discipline, notre enseignement. Dans cet ordre purement spirituel, nous sommes libres en vertu de la loi; nous ne devons obéissance qu’au Chef spirituel que Jésus-Christ nous a donné: lui seul doit régler nos croyances, diriger, surveiller notre administration, pourvoir à la perpétuité du ministère céleste. Et ne pensez pas que cette résolution irrévocable de notre parte, nous soit inspirée par aucune vue, aucun sentiment d’opposition contre vous: tout au contraire, elle n’a pour motif qu’un désir ardent dè fair disparaître dés causes déplorables de division, de terminer une lütte contre nature dont les suites sont incalculables, d'opérer, en ce qui dépend de nous, la réconciliation des partis et l’union des Français, qui seule affermira l’ordre; elle nous est inspirée enfin par le devoir rigoureux de sauver le christianisme en l’élevant au-dessus des passions humaines et des tempêtes de la politique.
« Ministres de celui qui naquit dans une crèche et mourut sur une croix, remontez à votre origine; retrempez-vous volontairement dans la pauvreté, dans la souffrance, et la parole de Dieu souffrant et pauvre reprendra sur vos lèvres son efficace première. Sans aucun autre appui que cette divine parole, descendez comme les douze pêcheurs, au milieu des peuples, et recommencez la conquête du monde. Une nouvelle ère de triomphe et de gloire se prépare pour le christianisme. Voyez à l’horizon les signes précurseurs du lever de l’astre, et messagers de l’espérance, entonnez sur les ruines des empires, sur les débris de tout ce qui passe, le cantique de vie ».
Queste idee ammirate da una gran parte del giovine clero, misero in fermento il Vaticano fomentando quelle rappresaglie, che crebbero col tempo ed irritarono l’animo suscettibile di Lamennais. L'A venir dovette cessare le sue pubblicazioni; si sciolsero le associazioni istituite dai bollenti redattori del giornale, e nel viaggio a Roma fatto da Lamennais, Lacordaire e Montalembert, per avere un responso dal papa, un consiglio, un aiuto, ebbero principio le delusioni amarissime ed i dolori che condussero l'abate filosofo alla ribellione contro la Santa Sede. Un libro che sarà sempre letto con vivo interesse, da quanti vorranno comprendere la triste odissea di Lamennais in quei penosi giorni, è « Les affaires de Rome ». In esso vi sono pagine di descrizione inarrivabili, ed il grande scrittore mostra le piaghe della Chiesa con più forza di Towianski, con più. profonda angoscia di Rosmini (1).
(1) Lamennais, Les affaires de Rome, Oeuvres complètes, ed. cit.
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Da quei lunghi e tristi mesi, mai dimenticati, ebbe principio un lento e continuo lavorio nel suo animo. Pensando che la Chiesa dovesse porsi alla testa dei popoli e dirigerli nell'evoluzione sociale, che andava accentuandosi, vedendola invece chiudersi nel silenzio, e credendola asservita alla monarchia del suo paese, Lamennais cessò di aver fede nella sua missione provvidenziale, e cercò una nuova alba all'orizzonte.
Nel 1834 uscì un libro che commosse tutta l’Europa, che entusiasmò Mazzini ed i suoi amici e parve la voce del popolo trasfusa in un profeta. Renan così definisce le « Paroles d’un croyant »: « Ce fût au printemps du 1833 que, retiré dans sa solitude de La Chenaie, Lamennais écrivit ce livre étrange, qu’il faut louer sans réserve, à la condition qu’il soit bien entendu que personne ne songera à l’imiter. Tout ce qu’il y avait dans son âme de passion concentrée, d'orages longtemps maîtrisés, de tendresse et de' piété, lui monta au cerveau comme une ivresse, et s’exhala en une apocalypse sublime, véritable sabbat de colère et d’amour. Les deux qualités essentielles de Lamennais, la simplicité et la grandeur, se déploient tout à leur aise dans ces petits poèmes où un sentiment exquis et vrai remplit avec une parfaite proportion un cadre achevé » (1).
La corrispondenza epistolare di Mazzini con l'abate francese cominciò in quéi giorni, e diversi capitoli nelle « Paroles d’un croyant » furono tradotti dai mazziniani e sparsi in Italia, per entusiasmare il popolo alle idee del nuovo apostolo. Dopo tanti anni da che il volumetto è composto mentre altre lotte terribili ci commuovono ed altri gravissimi problemi c’incombono, rileggendo il vecchio libro ci sentiamo affascinati da quelle immagini stupende, da quell’amore per il popolo, da quelle speranze immortali. Il tono biblico dà una maestà speciale allo stile; si direbbe che i fulmini del Sinai e la dolcezza del Nazzareno si sono fusi con potente armonia in quelle pagine. La nota catastrofica, propria agli scritti di Lamennais, ha nel libretto delle risonanze speciali, ed avvicendandosi a soavi
(1) Lamennais, Les paroles d'un croyant, Oeuvres complètes; Renan, M. de Lamennais, opera citata; Sainte-Beuve, Nouveaux Lundi, vol. I, n. XI; Spuller, Lamennais, op. cit.; Roussel, Lamennais, op. cit.; Marquis de Coriolis, Lettres à Lamennais (1818-1837), Paris. 1912; Abbé Ch. Boutard, Lamennais, vol. II: Le Catholicisme libéral, 1828-1834, Paris, 1908; Mgr. Ricard, Lamennais, Plon, Paris.
Ün po’ di tempo prima che le Paroles d’un croyant uscissero Lamennais scriveva alla signora de Sentit: «L’auteur a vu les larmes qui coulent des yeux des peuples, il a entendu leurs cris de souffrances, et il a senti en lui-même un grand désir de les consoler. Il croit qu’un ordre nouveau se prépare, et que le salut, l’unique salut est désormais dans l’union intime de la Justice et de la Liberté; ses paroles sont âpres; il ne les croit pas injustes. Cependant elles blesseront, elles doivent blesser; il le sent à regret »
Lamennais aveva dato a Sainte-Beuve il manoscritto del famoso libretto, affinchè lo correggesse a suo talento e cercasse un editore. Il celebre critico comprese subito l’importanza di quel poema in prosa, ed un giorno, riportando le bozze in tipografia, trovò il tipografo, sig. Plassan, che gli disse: « Voi siete incaricato della pubblicazione d’.un libro del signor de Lamennais, che farà molto rumore; i miei operai non possono comporlo senza sentirsi commossi e pieni d’entusiasmo; la stamperia è tutta in subbuglio. Io sono amico del governo e non posso segnare col mio nome questo volume; ma siccome l'affare è combinato, non rifiuto di stamparlo ».
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immagini di pace e d’amore, prende un’impronta originalissima, come se l’Apo-calisse fosse seguita, capitolo per capitolo, dalle pagine più suggestive del Vangelo.
« Lorsqu’un arbre est seul, il est battu des vents et dépouillé de ses feuilles; et ses branches, au lieu de s'élever, s’abaissent comme si elles cherchaient la terre.
« Lorsqu’une plante est seule, ne trouvant point d’abri contre l’ardeur du soleil, elle languit et se dessèche,, et meurt.
« Lorsque l’homme est seul, le vent de la puissance le courbe vers la terre, et l’ardeur de la convoitise des grands de ce monde absorbe la sève qui le nourrit.
«Ne soyez donc pas comme la plante et comme l’arbre qui sont seuls: mais unissez-vous le uns aux autres, et appuyez-vous, et abritez-vous mutuellement » (cap. VII).
Cap. VIII: «...Quand les animaux souffrent, quand ils craignent, ou quand ils ont faim, ils poussent des cris plaintifs. Ces cris sont la prière qu’ils adressent à Dieu, et Dieu l’écoute. L’homme serait-il donc dans la création le seul être dont la voix ne dût jamais monter à l’oreille du Créateur?
« II passe quelquefois sur les campagnes un vent qui dessèche les plantes, et alors on voit leurs tiges flétries pencher vers la terre; mais humectées par la rosée, elles reprennent leur fraîcheur, et relèvent leur tète languissante.
«Il y a toujours des vents brûlants, qui passent sur l’âme de-l’homme, et la dessèchent. La prière est la rosée qui la rafraîchit ».
Cap. XXIV: « ...Tout ce qui arrive dans le monde a son signe qui le précédé.
« Lorsque le soleil est près de se lever, l’horizon se colore de mille nuances, et l’orient paraît tout en feu.
« Lorsque la tempête vient, on entend sur le rivage un sourd bruissement, et lès flots s’agitent fiorame d'eux mêmes.
« Les innombrables pensées diverses qui se croisent et se mêlent à l'horizon du monde spirituel, sont le signe qui annonce le lever du soleil des intelligences.
« Le murmure confus et le mouvement intérieur des peuples en émoi sont le signe précurseur de la tempête qui passera bientôt sur les nations tremblantes.
« Tenez-vous prêts, car les temps approchent ».
Fra tutti gli scritti riformatori, socialisti, profetici usciti in quegli anni di tensione all’infinito; fra quelle' innumerevoli pagine ardenti di fede, dei mistici, melanconiche dei poeti, romantiche^ dei letterati; fi a i nuovi vangeli predicati da Saint-Simon, Leroux, Blanc e gl’irruenti articoli di Louis Veuillot, « Les paroles d’un croyant » tengono il primo posto. Altri prima di Lamennais erano passati dalla causa dell'autorità a quella della rivoluzione; altri erano stati ora sedotti dal prestigio d’un passato tradizionale pieno di grandezza e di maestà, ed ora trascinati dalla forza inebbriante d’una novella fede e d’una libertà illimitata, ma ordinariamente queste lotte non toccavano, che la superficie dell’anima. Anche Lamartine e Chateaubriand furono attratti nelle nuove orbite, ma essi non erano preti, apostoli, profeti nel senso biblico di Lamennais, nessuno di loro aveva parteggiato con tanta violènza ed esaltazione in favore delle dottrine del passato. Ed è per questo che la vita di Lamennais è un dramma, in cui si concentra tutto un secolo. Cóme nelle tragedie l’interesse, per essere drammatico, deve concentrarsi
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in un’azione unica; così la lotta del secolo fra il passato e l’avvenire, per mostrarsi in tutta la sua grandiosità, ha dovuto condensarsi in una sola anima ed in un unico momento.
♦ • ♦
In una lettera del 16 agosto 1845. diretta al signor Marion, Lamennais scrive: «J’ai pour maxime de regarder toujours en avant. Le passé est triste comme la réalité; l’avenir est beau comme l’espérance, ou, si vous Je .voulez, comme l’illusion; la différence, s’il y en a, n’est pas grande».
E davvero Lamennais avanzò sempre nella sua via. Alle « Paroles d’un croyant », fecero seguito altri libri, fra cui « Le livre du peuple », ed un opuscolo pubblicato nel 1840, dal titolo: « Le pays et le Gouvernement », per cui fu condannato ad un anno di prigione, scontato a S. Pelagia, ed a due mila lire d’ammenda (1).'
Il dolore non affievolì lo slancio del suo apostolato; l’amore al popolo si fece in lui sempre più intenso; la fede in Dio sempre più elevata, come appare dalla sua opera principale 1’« Esquisse d’une philosophie » (2). Ma dell’antica fede dogmatica ben poco restava in Lamennais; ed in una sua traduzione degli Evangeli, fatta negli ultimi anni di vita, si legge: « Jésus-Christ, selon ma conviction la plus profonde, non seulement n’a lié la loi qu’il annonçait à aucune conception dogmatique, mais il a voulu très expressément qu’elle n’y fût pas liée; et c’est à mon gré, ce que l’Evangile a de plus divinement beau, parce que les conceptions dogmatiques, dépendantes de mille choses qui changent, changent elles-mêmes avec le temps, et que la loi est immuable et doit rester telle à jamais ».
Anche in questo modo d’interpretare la parola di Gesù, il grande francese precorse i tempi; e gli studiosi di religioni, gli esegeti, gli apologisti ed i teologi della nuova scuola non ci seppero ancora parlare di Dio con la solennità di Lamennais, nè interpretare le parole del Cristo con animo più sereno.
Le sue lettere sono una testimonianza stupenda della sua sincerità, della costanza nei suoi affetti e della sua fede (3). Nel 1840, quando la Chiesa lo combat(i) Lamennais, Oeuvres complètes.
(2) Paul Janet, La philosophie de Lamennais, op. cit.
(3) E. D. Forgues, Correspondance, etc., op. cit.; A. Laveille, Un Lamennais inconnu (Lettres inédites de Lamennais à Benoit d’Azy), Paris, 1899; Arthur du Bois de La Villerabel, Confidences de La Mennais, op. cit.; A. Blaize, Oeuvres inédites de Lamennais, qp. cit.; Cabanès, Le prologue d'un coup d’Etat, correspondance inédite de Lamennais, Paris; E. D. Forgues, Notes et souvenirs, en tête de la Correspondance de Lamennais, Paris, Didien, 1863 (2a ediz.).
Per dimostrare l’evolversi del pensiero di Lamennais è interessante leggere questa lettera, diretta da La Cheriaie, il io aprile 1835, al barone de Vitrolles (Correspondances, par E. Forgues): « Vous m’avez fait sourire, mon bon ami, avec votre comparaison du Juif errant. Mais trouveriez vous donc si désagréable de savoir tout ce qu’a dû apprendre cet illustre personnage, dans ses longues et continuelles pérégrinations ? Et pensez-vous qu’après avoir vu les siècles et les empires passer devant lui, il dû voir
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teva con più acrimonia, egli scrìveva al barone de Vitrolles: « L’avenir est beau et doux, parce qu’on voit Dieu au fond ». Ed a dispetto di tutte le traversie che sofferse, della povertà, delle lotte subdole e palesi che dovette sopportare, al disopra del suo pessimismo, gli rimasero sempre belli, grandi, nobilissimi, due affetti nel cuore: quello dell’umanità che voleva rinnovare e l’adorazione illimitata al suo Creatore.
(Continua) Luisa Giulio Senso;
*1 : .,s*
et juger les choses comme nous les voyons et les jugeons? Eh bien, nous sommes tous plus on moins le Juif errant et vous aussi vous Fêtes; et toute la différence, c’est que nous marchons depuis une cinquantaine d’années seulement, tandis qu'il marche, lui, depuis l’an 33 de notre ère. Si vous pouviez vous représenter les innombrables modifications que l’expérience et le cours des choses ont fait subir a votre esprit, à vos idées, à vos opinions, vous en seriez surpris, et cependant rien de plus naturel. Ce n’est pas là varier, c’est croître, c’est vieillir même, si vous voulez; mais vous n’êtes Bs plus maître de pouvoir arrêter en un point quelconque de sa durée votre intel-ence que votre corps. Et ce qui est vrai pour vous comme pour les autres hommes, est vrai aussi des peuples, est vrai du genre humain tout entier... ».
CHIESA E QUESTIONE SOCIALE.
..... E poi niente riavvicina, niente affratella come /’azione sociale. Sarà su questo terreno pratico, tracciando faticosamente nel campo dell'umanità dei solchi convergenti, che s'incontreranno, coll'anima tesa verso lo stesso Bene, i cristiani dalla volontà buona venuti dai quattro punti dell'orizzonte. Allora essi valuteranno tutta la relatività e tutta la contingenza di- ciò che li avrà per troppo tempo divisi. Allora i loro occhi, aperti dall'azione per l'elevamento del popolo, vedranno quanto poco importa di pensare e di credere diversamente quando insieme si soffre e si serve. Allora la loro mente, illuminata dalla medesima fede nel trionfo della Giustizia, intuirà quanto poco importa di professare dottrine diverse, di chiamarsi protestanti 0 cattolici, quando si vive lo stesso cristianesimo, quando si è tutti allo stesso modo. Cristiani. Allora cesseranno, finalmente, le discussioni acerbe e le reciproche scomuniche basate sulla pretesa di possedere ciascuno la verità, poiché la verità essenziale — semplice ed eterna — dell’Evangelo si sarà rivelala a tutti quale essa è: sacrificio di noi stessi per il bene degli altri.
Al di sopra delle Chiese c'è il Cristianesimo e del 'Cristianesimo siamo appena agli inizi. Comincia appena a sciogliersi dagl'innumerevoli nodi onde l'avvinsero, a trarsi fuori dagli ingombri d'ogni maniera onde l’oppressero. E del suo avvenire ci è arra sicura la incomparabile liberalità della sua dottrina, la quale è così fatta, se altri non la violenti e snaturi, da potere indefinitamente accompagnare la irrefre nobile evoluzione dello spirito e della vita. Poiché essa è amore e poiché sempre
s’aperse in novi amor l’eterno Amore.
Giovanni E. Meille.
(Dal volume La Chiesa e i uuovi tempi).
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LA FEDE E L’IMMORTALITÀ
NEL “ MORS ET VITA ” DI ALFREDO LOISY *
(Continuazione e fine. Vedi Bilychnis, fase. di luglio 1917, pag. 34).
A lotta fra « morte » e « vita » prende ancora altre forme.
Dopo il romanziere, è il nazionalista integrale, l’intimo alleato ideila monarchia e del Cattolicismo, in persona dell’autóre di « Le voyage du Centurion » un pronipote di Ernesto Rénan, Che accampa le sue pretese di monopolizzare la testimonianza dell’abnegazione e dell'eroismo. « Il Cristo evangelico, sì in differente a tutte le cose di questo mondo, disdegnoso della forza materiale, sì completamente estraneo alle nostre idée
di patria e di nazionalità, questo Cristo il cui solo principio è che non bisogna essere attaccati a nulla nell’ordine presente, e bisogna abbandonare beni e famiglia e fin la propria vita ai persecutori, sagrifìcar tutto, in una parola, alla speranza del prossimo regno di Dio in cui si ritroverà centuplicato tuttociò che si sarà per duto, questo Cristo d’un ideale più che pacifista, diviene una divinità sanguinaria e sterminatrice, un duce celeste delle armate nazionali, un Gesù Sabaoth. La mitologia antica non ha conosciuto metamorfosi più straordinaria di questa, per cui il Vangelo diviene un vero manuale del patriota e del soldato ».
L’esegeta e lo storico fa giustizia della pretesa del « nazionalista » di presentarci un Gesù di maniera che canonizza nel Centurione di-Cafarnao i militari e il militarismo, « con una esegesi militaristica che si sarebbe portati a trattare da ridicola puerilità se non fosse la sincerità del sentimento che l’ispira».
E dobbiamo esser grati al Loisy di avere, con pochi tratti maestri, fatta ragione di tutti i tentativi, e non solo di scrittori francesi, di deformare la figura di Gesù e fare anche di lui, come del « vecchio Dio », un alleato di ciascuno dei belligeranti.
« Che si lasci — egli dice — il Vangelo essere ciò che è: un ideale di pace nella carità. E non vi si vadano a cercare delle lezioni formali riguardanti la guerra: colui che ve le trova, è segno che ha cominciato dal mettervele, cavandole dal proprio cervello. Concepito al di fuori di tutte le realtà della vita sociale, politica, nazionale e internazionale, l’ideale evangelico non può affatto essere direttamente applicato ad esse, .ed è solo per mezzo di artifici d'interpretazione, che dai discorsi attribuiti al Cristo si può estrarre un regolamento o anche principi speciali di direzione per la condotta dell’uomo e del cittadino nella società contemporanea.
* Il volumetto è’in vendita piesso là Libreria Bilychnis al prezzo di L. 2.
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La sola cosa ragionevolmente possibile è ispirarsi al soffio di giustizia e carità che li domina; ma quanto alle sottigliezze esegetiche, esse non servono a niente in questa utilizzazione morale del Vangelo, anzi non giovano ad altro che a comprometterlo con l’incoerenza arbitraria delle loro deduzioni. Quanto ad attingere nel Vangelo una filosofia delia guerra, della necessità e legittimità di questa, delle sue condizioni normali, del mestiere militare e dei suoi rapporti con la religione, ecco ciò a cui non si dovrà mai sognare, se non si voglia cadere nelle più inverosimili fantasticherie. Altrettanto varrebbe domandare a Buddha quali siano le sue idee riguardo a questo soggetto. Solo Maometto ne avrebbe, ma non è utile importarle fra noi... ».
Lasciamo il parallelismo, capolavoro di finezza e di buon senso, fra Renan e il suo pronipote — parallelismo non certo favorevole a quest’ultimo — il cui interesse maggiore andrebbe perso per lettori italiani; e utilizziamo una scena del quadro della « conversione » di quest’uomo, educato nell’anticlericalismo e divenuto per reazione... nazionalista.
«...È certo che, anche prescindendo dal miraggio nazionalista... un numero assai grande di giovani, non meno ignoranti che Ernesto Psichari del Cattolicismo teologico e dottrinale, si attaccano alla Chiesa per l’orrore del vuoto morale di cui ad essi sembra che soffra la nostra società laica. Essi non trovano altro che nella Chiesa quel genere di appoggio e quell’atmosfera mistica di cui abbisognano per la pace della loro coscienza e la gioia della loro anima. La dottrina della Chiesa li sconcerterebbe se essi la rimirassero da vicino: la politica della Chiosa li scandalizzerebbe se essi non ne distornassero la loro attenzione; alcuni atti ufficiali della Chiesa li turbano, ma essi si affrettano a dimenticarli, poiché la Chiesa soltanto ha loro offerto la norma di vita di cui si sentivano mancanti, la casa di raccoglimento, di emozioni dolci e di fratellanza in cui il loro cuore provava soddisfazione, in cui la loro anima ora si ritrova a suo agio, in cui il loro essere può distendersi e migliorarsi. Al di là, essi non vedono, e forse non piace loro di vedere, altro che interessi cozzanti, passioni che s’agitano, odi e rivalità, disordini senza freno. L’anticlericalismo fanatico, fatto tutto di negazioni e d’intolleranza, non ispira loro che disgusto, ed essi confondono con questo, nella loro riprovazione, il distacco dalle vecchie credenze fatto per amore della verità... Ernesto Psichari, ed altri con lui, hanno conosciuto il nostro secolo da impressionisti e per mezzo del sentimento; soffrendovi moralmente, si sono rivolti alla Chiesa dove si trovano meglio, senza averla sperimentata altrimenti che in questa soddisfazione intima... Un malessere interno, il bisogno vivamente sentito d'una regola e d’un’assistenza morale e d’una communione spirituale, 10 sospingono Verso la Chiesa, e la sua fantasia sovreccitata trova ancora nel misticismo cattolico, l’alimento che a lui conviene... Egli confessa di credere in Dio, solo perchè crede in Gesù, e senza dubbio, non crede in Gesù che per mezzo del senso mistico della comunione cristiana. Tutto ciò appartiene alla fede, alla vera fede; ma, giusto cielo, non è certo questa la teologia cattolica, nè questa conversione è secondo la sua formola...
Renan aveva sperimentato la Chiesa sopratutto intellettualmente: trovandosi nell’impossibilità di vivervi, si formò una nuova esperienza, che continuata da altrii non cessa di dare i medesimi risultati..., mostrando così come la Chiesa non
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sia la sorgente unica e indispensabile di valori spirituali, e come questi vantaggi siano'compromessi dalle difficoltà crescenti, e dall’impossibilità della fede per un numero grandissimo di uomini. La questione che si pone è quindi se il centro tradizionale della nostra vita morale non tenda a spostarsi, e se una patria delle anime non sia in via di ricostituirsi non già in opposizione alle antiche confessioni religiose, ma indipendentemente da esse, e specialmente dalla Chiesa Cattolica ».
La questione che il Loisy pone in queste ultime parole, è la questione che si pongono, nelle nazioni latine, quanti riguardano con preoccupazione il fatto, che i tesori accumulati da secoli di esperienze spirituali, morali, religiose corrono l'enorme rischio di non poter essere più trasmessi alle generazioni venture, perchè, mentre i vecchi canali cattolici sono ostruiti per la mentalità e coscienza moderna, altre organizzazioni disposte a ricevere l’eredità e capaci di compiere una funzione educativa morale e religiosa non esistono, e forse — data la mancanza d'individualismo religioso — non potranno esistere. Nelle nazioni anglo-sassoni il problema posto dal Loisy, pur agitando, e proprio in questo momento con raddoppiata intensità, le anime religiose, non è senza una probabile risposta, suggerita dalla induzione storica: chè, ad es., gl’inglesi, non hanno abbandonato il vetusto Cattoli-cismo che per rifugiarsi sotto le tende della « English Church »: e quando ancora queste sono divenute troppo anguste e opprimenti, sono sortiti all’aperto, e sia all’ombra, dei boschetti della valle, sia in. cima ad elevate colline, sia sulla vetta di arditi picchi isolati, han trovato un nido per le loro anime, han costruito tanti sobborghi della invisibile città di Dio, — che dovrà forse somigliare ben più ad una libera campagna popolata di villaggi, che ad una mastodontica città recinta da mura e baluardi. Anche in avvenire probabilmente, nelle nazioni nordiche, quegli spiriti che, pur sentendosi soffocare nelle strettezze di Chiese e di sette, e d’altra parte rifuggendo dall’isolamento morale e dal vuoto, andranno in cerca « di una patria delle anime », non dovranno affaticarsi molto a trovarla: essi ricorderanno, come i loro antenati per piti secoli, che « il Regno di Dio è fra noi », e che « dove due o tre sono associati nel nome di Dio, egli è in mezzo a loro », e là dove incontreranno altri pellegrini tendenti alla stessa meta, si uniranno ad essi, formeranno carovana, e ripeteranno ancora una volta il « Procedamus in pace in nomine Christi ».
In queste nazioni, «il centro tradizionale della vita morale» si sposta infatti continuamente, e « la patria delle anime in via di ricostituirsi non già contro le antiche confessioni religiose ma indipendentemente da esse », è raggiunta e costituita sia per via di una costante evoluzione, sia per lo sbocciare di nuovi e sempre più arditi rampolli dal vetusto tronco vitale.
Nelle nazioni latine invece, dopo il fallimento del modernismo in quanto tentativo di dilatare le tende del Cattolicismo e di farne la gran patria delle anime, la questione rimane aperta.
«... Il Modernismo, che in fondo non è stato l’insegnamento di alcuna dottrina particolare, che non voleva imporre alla Chiesa alcun domma, e perciò non era un’eresia, avrebbe voluto solamente che ¡1 Cattolicismo si ammorbidisse in umanità. Il sogno è stato prontamente dissipato: il Cattolicismo riguarda come suoi nemici quelli che nutrono una tale speranza... Ma non è necessario esser profeti
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per annunziare che l’avvenire appartiene alla nuova fede:... si può anzi dire che nell’ordine del pensiero... tutti i ponti fra la società contemporanea e la Chiesa Cattolica sono tagliati. Le illusioni della fede, l’abilità degli apologisti, le compiacenze della politica non vi possono far nulla». E se nell’ordine del sentimento e dell’azione le comunicazioni non sono interrotte, « perchè la massa dei credenti non ha rapporto con la Chiesa che per mezzo dei sentimenti, di cui la società non può fare a meno perchè ne vive...», però i migliori credenti fra i cattolici dei nostri giorni, non sono tali in conformità al programma della religione che professano. Quello a cui essi restano attaccati è la comunione spirituale, la vita interiore, lo spirito della fratellanza umana... Renan ha scritto: « Noi viviamo dell’ombra d’un’ombra: di che cosa vivranno dopo di noi? ». Il suo pronipote si fa cattolico, se si pùò dire, malgrado Dio, il Vangelo e il domma, sedotto da un ideale mistico d’umanità divina, ideale che egli incarna in Gesù... Il suo Gesù non è veramente che un’ombra, ombra del Gesù storico, ombra del Cristo teologico, ombra sopratutto dell’umanità. Ma l’umanità non è un’ombra...: «e attraverso questa ombra, è sempre l’umanità che cerca se stessa, e si riconosce nella sua propria immagine idealmente trasfigurata ». Il Gesù del « Centurione », come il «Cattolicismo » di Psichari, non è che un grande ideale umano oggettivato in una figura e in una istituzione.
« Le anime abbisognano di ben altri focolari che la scienza: ...abbisognano di vita morale e di fratellanza... E il Cattolicismo, nonostante il suo insegnamento antiquato, la sua pesante gerarchia, il suo misticismo spesso puerile, è ancora in Francia, sembra, il meglio organizzato di questi focolari, è quello che dà ancora a molti fra noi, almeno in certi momenti, l'impressione d'umanità più calda e migliore. Epperciò finché non si sarà costituito fra noi un focolare visibile che offra gli stessi vantaggi spirituali senza avere gli stessi inconvenienti,... altri " Centurioni ” potranno fare lo stesso viaggio, chiudendo gli occhi su quello che nel Cattolicismo romano riesce loro antipatico, per poter usare di ciò che loro conviene, di cui non possono fare a meno... e che non trovano altrove... ».
Ma anche « il meglio organizzato dei focolari » è ben lungi dal presentare i caratteri d’una « home » stabile e serena. « Dopo essersi convertiti a un ideale e aver creduto di trovarlo realizzato nella Chiesa romana, si deve constatare che la lontananza fra questo ideale e il Cattolicismo è ben grande, ovvero è la Chiesa stessa che s’incarica di far sentire duramente al neofìto che ciò che egli crede essa non lo professa e che è suo dovere di pensare come lei: il che talvolta è assai difficile. E la Chiesa stessa comincia a disgregarsi. È sempre facile amare un grande ideale: ma non è piccolo imbarazzo quello di riconoscere che questo ideale non è quello della società religiosa in cui voi eravate entrato per meglio compierlo... ».
Il duello fra « mors et vita » nel mondo delle esigenze religiose e morali, sembrerebbe così esaurirsi in un « deadlock ». Eppure l’A. proclama coraggiosamente, forte della sua fede nell’umanità, che « sarebbe temerità contestare che sia possibile organizzare una tale comunione degli spiriti all’infuori di chiese nominatamente cristiane,...» e addita in quella «Chiesa (la Patria) a cui tutti siamo, cosciamente o incosciamente, più uniti nel fondo della nostra anima che ad ogni denominazione confessionale,... non soltanto un ricovero sotto il quale si può comodamente collocare la vita domestica, gli affari, gl’interessi, perfino le discordie politiche e le rivalità
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religiose, ma la madre di tutte le famiglie, la comunità di tutti gl’interessi, l’arbitro che è al disopra di tutti i partiti, l'ideale augusto e caro che non si discute, e per il quale si muore. Questa patria non è solo quella dei corpi: essa è altresì e veramente quella delle anime: e lo è oggi più di ieri... e perchè non lo sarebbe domani più ancora di oggi, risultando essa da tutti i nostri dolori, essendo costruita con le anime di tutti i nostri morti e sorreggendo le nostre migliori speranze? ». Per una inversione della visione di Ezechiello, l’A. sente « la voce dei nostri morti risuonare lungamente nel più intimo del nostro cuore, ottenendo che noi realizziamo qualche cosa di ciò che essi hanno voluto ». Egli sa bene che « tutte le mancanze, tutte le miserie, tutte le stoltezze, tutte le follie, tutti i delitti si trovano nella natura umana»; ma sa,ancora .che questa povera umanità «sta compiendo ogni sforzo, ogni atto nobile, ogni verità, ogni generosità, ogni perfetto sagri tìzio ».
E qui la veduta del Loisy s’innalza a quella concezione etica della vita, che nel suo dinamismo finalistico solleva il filosofo che la contempla e chiunque la pratichi coscientemente nella sua propria condotta, fin sulle soglie della intuizione religiosa: e di cui ha detto il Paulhan: « Ogni morale cosciente è religione ».
La pagina che segue e che segna l’epilogo di « Mors et Vita », costituisce forse il preambolo del testamento filosofico-religioso del Loisy: (i) e chi ha famigliarità con le pagine della « Evolution créatrice » del suo collega nel « Collège de France » Henry Bergson, non potrà non segnalare l’affinità delle conclusioni a cui giungono i due scienziati, pur partendo da premesse e battendo vie sì diverse.
« La scienza e la vita sono distinte. Di già la vita naturale supera la scienza nel senso proprio e stretto della parola. A più forte ragione, la vita morale sorpassa i quadri delle esperienze e delle definizioni scientifiche. Questa vita può essere materia d’osservazione; ma l’osservazione non può lusingarsi di penetrarne la secreta energia nè le indefinite possibilità; e sopratutto la teoria non ne alimenta punto la virtù. È un'onda che sale, venendo non si sa da dove, su dalle sacre profondità dell’essere; ma queste profondità sfuggono ad ogni conoscenza, ed i filosofi hanno tutta l’aria di parlarne solo per congettura. Questo flutto sale dal fondo stesso del nostro essere e ci solleva; la vita sociale lo alimenta, ma dire che essa lo crea sarebbe un .equivocar di parole, visto che è appunto questo movimento ascendente della vita morale che crea la vita sociale, in quanto che questa si differisce dall’esistenza gregaria. Caratteristica di questo movimento è di non essere già orientato verso un limite fisso, ma verso un ideale, i cui contorni si vanno allargando ed elevando a proporzione che si tende ad avvicinar visi. Il sentimento di questo ideale, !aspirazione che va verso di esso, la soddisfazione che si prova a servirlo sono, in senso proprio, l’essenza della religione, ciò per cui le religioni servono al progresso umano in ciò che esso ha di più nobile e di più vero, lo spirito di giustizia e di fratellanza». Non ci soffermiamo a segnalare le implicazioni filosofico-religiose dei passi che abbiamo sottolineato e sui quali ritorneremo più sotto. Le parole che seguono specificano ancora e rafforzano la portata trascendentale del principio
(1) Ci siamo apposti giustamente. Del volume posteriore La Religion (Paris. Emile Nourry, 1917) di A. Loisy ci occuperemo brevemente in un prossimo numero.
(Noia del!A.)
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morale. « ... L’elemento che tutto vivifica è imponderabile e illimitato; è il sentimento del bene, il senso dell’umanità; ed è appunto questo sentimento che si tratta di evocare, sviluppare, applicare... Questo sentimento che si è conservato nelle religioni, che si è manifestato in esse e che esse hanno formato, non sussisterà e non s’ingrandirà che in condizioni e con sussidi analoghi a quelli che l'hanno aiutato a nascere ed a perpetuarsi a dispetto di tutte le illusioni, di tutti gli errori, di tutti gl’insuccèssi di cui vediamo smaltata la sua storia; cioè, esso si manterrà, si affermerà ed agirà per mezzo di concezioni, non geometriche ma mistiche, nozioni emotive, auguste e sacre, di famiglia, di società, di patria, di umanità... La formazione e la direzione dell’umanità avranno sempre un certo carattere mistico, senza del quale nessun vero progresso sarebbe possibile... Se non possiamo fare a meno di trovare che le religioni ci hanno tramandato-piuttosto il mito che il senso della vita e della morte, noi non rinunziamo tuttavia ad ogni considerazione morale dell'una e dell’altra, ma crediamo al contrario di discernere e penetrare più intimamente il suo significato e valore morale... e di ritenere ciò che vi era di realmente vivente e forte nella fede antica. Anche noi... come i credenti dei vecchi simboli: abbiamo una fede, non meno rispettabile della loro, perchè non meno di essa alta e sincera... ».
* * *
« Mors et.Vita» ci si rivela, specie nelle ultime pagine, più che un appendice di «Choses Passées »,* forse il frontespizio di un nuovo volume, o l’introduzione ad un nuovo capitolo, del pensiero di Loisy.
Essa segna di già un passo in avanti, in confronto al « Guerre et Religion » dell’anno precedente.
Ricordiamo la finale di quest’ultimo lavoro, in cui non si esce ancora dal fatto della solidarietà umana — proclamata augusta e di valore mistico e religioso, è vero, ma non ancora emanazione dell’essenza profonda dell’essere morale, e della sua costituzione religiosa. Sé « Guerre et réligion » proclama il carattere inorale della società umana, è « Mors et Vita » che consacra il carattere religioso della morale.
«... Il dono di se stesso non è fatto direttamente all’umanità; anzi, nei tempi normali, per 'la maggior parte, neppure direttamente alla patria, eccetto in una misura molto limitata... Tuttavia, tutti, nella sfera piti umile o più elevata, lavorano all’opera nazionale, e per mezzo di essa all’opera dell’umanità. La nozione morale dell’umanità e della solidarietà umana dà così all’esistenza umana un significato, la cui grandezza non potrebbe essere troppo esaltata. Questa nozione attinta al cuore stesso dell’umanità, al cuore dell’umanità quale essa attualmente appare, ha, per conseguenza, un valore profondo, un valore di realtà, e nello stesso tempo un valore mistico e religioso. Si tratta di una vera fede; è, in un certo senso, la fede dei secoli passati come quella dei secoli presenti, e quale sarà quella dei secoli avvenire fino a che una umanità ragionevole vivrà sulla terra... Il puro amore di Dio su cui hanno altra volta speculato i mistici cristiani è precisamente questo sagrifizio completo di se stessi all’ideale intravisto: e se questo ideale è meno astratto, meno metafisico, meno trascendente di quello degli antichi mistici, non è davvero per questo meno efficace: la prova ne è data dalla quantità innumerevole dei suoi martiri ».
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Lo sguardo di « Mors et Vita » persegue ancora più a fondo la genesi di questo ideale morale: se la sua scaturigine intima è ignota; se «il flutto sale non si sa da dove..., da profondità che sfuggono ad ogni conoscenza, anche filosófica », la scaturigine stessa è riposta « nelle profondità dell’essere, nel fondo di noi stessi ». E questo « movimento, ascendente della moralità che ci solleva, e che crea la vita sociale» — e di cui, ben più a ragione che dell’« eterno femminino », si. può dire che «zieht uns hinan » — «ha per caratteristica di non essere orientato verso un limite fisso, ma verso un ideale i cui contorni si vanno allargando ed elevando, a proporzione che si tende ad approssimarglisi ».
Leuba aveva già detto, che « la finalità della religióne non è Dio, ma la vita, una vita più intensa, vasta, ricca, esauriente», e che «l’amore della vita, ad ogni livello di sviluppo, è un impulso religioso»: e Loisy qui proclama, che «l’essenza della religione consiste propriamente nel sentimento dell’ideale morale, nell’aspirazione che ad esso tende; nella soddisfazione che si prova a servirlo ». Sé si ammetta che è nella dilatazione morale del nostro essere, quale si ottiene nel vivere per .un ideale umano, che l’individuo discopre il valore della vita, le due definizioni del Leuba e del Loisy coincidono, senza contradire, anzi spontaneamente intrecciandosi, a quello che Marcel Hebert assegnava come probabile senso della religione dell’avvenire, cioè che «l’individuo non si spiega esclusivamente con la sua origine e la sua finalità sociale », e che « la socializzazione universale troverà nell’individualismo religioso come il necessario e benefico contrappeso ». Un ideale di vita superiore che ha le sue propagini nel profondo di ogni individuo, e spinge i suoi rami vèrso ogni altro individuo, formando ¡’«ognuno per tutti e tutti per ognuno» dell’organismo sociale: ideale che si presenta come la realizzazione indefinitamente approssim abile e mai esauribile di un tipo superiore dell'umanità; ideale che è realtà costitutiva prima di essere impulso, e che si offre quale meta perchè è al principio... non ha esso tutte le caratteristiche del Dio di Pascal, che «non cercheremmo se già non lo possedessimo », e tutti gli attributi deb’ Dio delle Religioni e filosofie superiori, quali sono rivissute in menti spoglie di antropomorfismi, e lontane dagli estremi sia del soggettivismo che dell’oggettivismo assoluto?
Solo un’osservazione sale spontaneamente al pensiero di chi esamini la posizione raggiunta dal Loisy con queste conclusioni: ed è che la sua filosofia eticoreligiosa sia più ricca di quanto egli stesso non si avveda.
Quando si è penetrata tutta la portata del monismo etico-sociale e se ne è estratta, sia pure in termini vaghi, una concezione che si ha il diritto di considerare come metafisica, non è più possibile poi fare come un taglio trasversale nel-'indiv ¡duo vivente, e chiedere alla sezione così artificialmente ottenuta di esaurire essa tutta la descrizione della realtà. In altri termini, quando per mezzo del dinamismo e solidarismo etico sociale si è riconosciuto che l’individuo umano non trova in sè stesso la ragione sufficiente della sua esistenza fisica e morale; che esso è un « ad alios »: che tutto in lui proclama un piano indefinito di evoluzione che lo preforma, e muove, e per mezzo di esso si attua eternamente, la quest ione, dell a « sopravvivenza dell’individuo dopo morte » non si può più porre nei termini tradizionali, nei quali soltanto il Loisy sembra circoscriverla: anzi cessa di porsi come una questione del tipo « ut rum », per ridursi ad un corollario del tipo « quomodo ».
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La biologia non si pone certamente il problema, se la cellula che viene eliminata da un organismo vivente sopravviva alla sua decomposizione ovvero muoia: nè esso sarebbe concepibile, da quanto la citologia ha ripudiato il concetto che il vivente sia un’associazione di cellule, e adottato la teoria che alla cellula attribuisce solo un valore e un’individualità funzionale, quale prodotto dell’organismo vivente stesso che, nel suo sviluppo, si differenzia in organi e cellule. La cellula eliminata non muore nè sopravvive, in quantochè non era essa che, propriamente, viveva nell'organismo, ma era l’organismo che viveva in essa e che continua a vivere. In tale teoria, ciò che è eliminato e muore non è la.cellula in quanto organismo, ma in quanto materia: ciò che si riduce a dire, che fra l’ambiente o fase fisica che fórma come la zona eccentrica dell’organismo vivente che in essa si continua, ed il vivente stesso, avvengono degli scambi continui, degli avanzamenti e arretramenti oscillanti dell’apparente setto divisionale: che, insomma nel monismo scientifico la stessa divisione fra natura vivente e non vivente appare come distinzione di aspetti e di attribuzioni di un’unica realtà.
Molto più le scienze fisiche e chimiche non si pongono più certamente il problema se la molecola o l’atomo o l’elettrone che sia, e comunque la materia, possa distruggersi: e ciò non già perchè l’esperimento giunga a perseguire attraverso tutte le sue trasformazioni ed equivalenti ogni manifestazione della natura fisica, ma perchè da quando l'individualità dei corpi materiali si è risolta nel dinamismo universale, ed ogni particella di materia specifica è apparsa come il punto d'incontro e d’intersezione d’innumerevoli energie fisiche e chimiche il cui soggetto ultimo è l’Universo intiero (esempio più ovvio: l’energia di attrazione universale, che anziché superare la divisione artificiale dei corpi la nega addirittura), si è riconosciuto che qualunque azione e reazione reciproca di elementi, parti, aspetti diversi della materia, era funzione di tutto l’universo materiale: e che la realtà ultima non era là molecola specifica, caratterizzata da tali o tali altre reazioni fisiche o chimiche, bensì Vunità materiale nel diverso fenomenico e funzionale. Il processo fìsico o chimico che apparentemente uccide l’individuo, non è che una forma e un momento della vita universale, che nella sua differenziazione perenne via a ulteriori integrazioni si rifrange e frammenta.
Sia dunque nel mondo fisico che in quello organico, il problema della sopravvivenza degli individui è superato dalla constatazione, che gl’individui non sono realtà per sè stanti e che abbiano nella loro natura individua la spiegazione ed il piano esauriente della loro esistenza, ma sono realtà funzionali, mediazioni operose dell’universa realtà: e di questa unità di natura e di piano là dimostrazione è data dalla necessità in cui si trovano gl’individui di agire e reagire fra loro, di inserirsi e addentellarsi l’uno nell’altro, dalla rivelazione — più evidente negli organismi viventi, — che ogni individuo possiede il piano di tutto l’organismo al vantaggio del quale proporziona il suo contributo, e che il centro e l’anima del tutto vivente è in ogni suo elemento, appunto perchè ogni elemento vive nel lutto.
Ora l'unità del mondo fisico e dell'essere vivente, benché professata oggidì come una delle conquiste inalienabili della scienza, è ben pallida e povera cosa di fronte all’unità del genere umano, quale appare a chi abbia approfondito e vissuto il fatto augusto e misterioso della simpatia e della solidarietà umana; a
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chi riconosca che l’individuo umano non può allignare che sull'Awmws rappresentato dall’umanità che lo ha preceduto e che costituisce il suo ambiente sociale, e che esso è più o meno uomo, a proporzione che realizza in sè la pienezza della vita universale; a Chi professi che l’ideale della vita individuale coincide con l’ideale della vita sociale.
Se non bastasse l'esame fisiologico e psicologico dell’individuo che, in tutte le fasi della vita, testimonia nel modo più eloquente la sua incapacità a spiegare da solo, prescindendo dalla sua destinazione alla convivenza e coordinazione con altri individui'umani, i suoi bisogni, le sue aspirazioni, la sua stessa costituzione organica e psicologica, basterebbe certo il fenomeno etico-sociale sì efficacemente interpretato dal Loisy, a far realizzare la unità costituzionale della specie umana, e il carattere che i suoi individui hanno, di mediazioni operose a finalità immanenti « nelle profondità dell’essere ».
Se la voce di questa unità costituzionale ha parlato al Loisy — e parla a tanti, oggi per la prima volta, — per mezzo della manifestazione spasmòdica nazionale, altri pensatori la han col ta nel fenomeno normale e’fondamentale di tutta resistenza sociale, studiato da Adam Smith e poi da Schopenhauer e da altri, dal punto di vista dell’etica della simpatia.
Senza addentrarci nell'analisi di questo dalum primordiale della vita morale-sociale, la quale sarebbe impossibile se gl’individui umani non fossero costituiti fondamentalmente in modo da dover sentire, più o meno, come bene o male proprio quello che è bene o male altrui, mi limiterò a citare da Schopenhauer, e in particolare dall’ultimo capitolo della sua opera su « Le basi della moralità », intitolato « I fondamenti metafisici » della simpatia, alcune osservazioni generali, che corroborano la stessa conclusione metafisica.
« Il mio vero e più profondo *' io ” sussiste in ogni essere vivente, non meno veramente e realmente di quello che appare con evidenza a me solo nella mia prò pria coscienza... Ogni appello alla bontà e alla compassione... è in realtà uno sforzo per ricordare al nostro prossimo, che noi tutti siamo una sola ed unica entità: e l’emozione e la gioia che sperimentiamo quando... compiamo una nobile azione, trovano la spiegazione fondamentale nel senso di certezza, che al di là di ogni pluralità e distinzione di individui... giace una unità non solo realmente esistente, ma di fatto accessibile a noi, e a noi presente in forma tangibile... Come è possibile assegnare altro che una spiegazione metafisica, anche della più piccola elemosina data con la pura intenzione di alleviare le miserie del nostro prossimo? Un tale atto si può solo concepire ed è solo possibile, in quanto il donatore sa che è il suo stesso io che si trova dinanzi a lui..., e.in quanto riconosce sotto una forma non sua, l’elemento essenziale del suo stesso essere...
Colui che per la sua patria va incontro alla morte, si è certo, liberato dalla illusione che limita ¡’esistenza di un uomo alla sua sola persona: ha spezzato i ceppi del principio d’individuazione. Nella sua natura dilatata e illuminata, egli abbraccia tutti i suoi concittadini e continua a vivere in essi. Più ancora, egli raggiunge fino le generazioni non ancora nate, per le quali egli opera, e sì immerge in esse; e riguarda la morte come un battere di ciglio talmente rapido, che non interrompe punto la vista... Con la morte esso perde soltanto una piccola parte di se stesso.
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Mettendo da lato le anguste limitazioni dell'individuo, egli trapassa nella vita più vasta di tutta l’umanità, nella quale egli aveva sempre riconosciuto, e riconoscendolo amato, il suo proprio io: e l’illusione del Tempo e dello Spazio che separava la sua dàlie coscienze altrui svanisce».
In tale concezione che, ripetiamo, non è che la formulazione esplicita della metafisica implicita in ogni etica cosciente, il problema della sopravvivenza del-V individuo rimane non solo superato ma sopprèsso: nel modo stesso con cui è soppresso il problema della sorte di una sorgente di acqua che più non affiori dal sottosuolo, quando sia nota l’esistenza di un fiume sotterraneo che la alimentava; e come non si pone il problema della sorte delle ónde del mare, quando in esse si riconosca l'effimera espressione della dinamica delle sue acque in un dato istante. .
Non è certo nella recensione di un volume, per quanto dell’importanza fondamentale di « Mors et Vita » che è possibile sviluppare la concezione della vita eterna che viene così a sostituirsi a quella della sopravvivenza individuale. Basti aver notato, che fra la fede nell'immortalità individuale, quale è professata nelle forme arcaiche ripudiate dall’A., e là descrizione puramente psicologica dei motivi attuali che forniscono la spiegazione prossima delle forme superiori della vita morale e sociale (amore, sagrifizio, altruismo, rinunzia alla vita stessa per il trionfo d’ideali sociali e nazionali), esiste la posizione alternativa di chi, pur ammettendo che. la causalità immediata del mondo morale e sociale è da ricercarsi in motivi prossimi sentimentali anziché in fedi trascendentali, non rinunzia però a estrarre da questo dato morale e sociali il suo presupposto metafisico-religioso, de]]’unità fondamentale e costituzionale dell'umanità nella quale « viviamo, ci muoviamo e siamo », e della eternità della vita, la quale non è dell’individuo jiè della nazione nè dell’umanità stessa, ma di Dio. di cui e per cui tutti vivono, secondo il detto attribuito a Gesù: « riavrei yàp àvr<3 £wg'.v ».
Se tosse permesso di sostituire all’ideale Paolino del Cristo, quello affine della Patria e dell'umanità quale appare in «Mors et Vita», potremmo parafrasare il noto passo di Paolo, così: «Tutti i doni della vita son vostri: ma voi appartenete alla patria e all’umanità, e questa appartiene a Dio ».
Il nostro « Credo », se non sì monoideico come 1'« Ev zac wav » del Panteismo ellenico, non sarà meno completo, e sarà certo più cristiano, se all’articolo « Credo in Dio Padre », espressione esso stesso della fede nella « una, cattolica umanità aspirante ad un ideale di bontà e di amore », aggiungeremo il corollario consolante:
Credo nella vita eterna.
G. Pioli.
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IL PROFILO INTELLETTUALE DI S. AGOSTINO
uando l’alba del 25 agosto 387 rompeva le tenebre di Milano, la basilica maggiore della città era ancor pièna di suggestione e di mistero: nel profondo della notte, il retore Aurelio Agostino era sceso nella piscina, e, dàlie mani di Ambrogio, aveva ricevuto sul capo l’onda rigeneratrice del battesimo.
Il fatto — per l’importanza del personaggio che ne fu protagonista e per le conseguenze che ne scaturirono —
trascende i cancelli della biografia, valica le consuete altitudini agiografiche e descrive un orizzonte storico, nel quale, come in un immenso anfiteatro, si raccoglie e si matura la comunità cristiana dei secoli di mezzo, ed anche, in grandissima parte, dell’età nostra.
Studiare questo grande fenomeno psicologico in se stesso e nelle sue ripercussioni storiche: ricercare, cioè, i coefficienti che manudusse.ro il retore numida dall’aristocratica concezione del dualismo manicheo al cristianesimo romano, e seguire la traiettoria intellettuale del neofita convertito, per vedere com’egli abbia improntata di sè la dottrina che lo vinse e lo soggiogò — tale la tesi, alla quale, Ernesto Buonaiuti, professore di storia del cristianesimo nell’ Università di Roma, ha consacrato un volumetto, nella nota collezione dei Profili del Formfggini (1).
Nel suo libro, il Buonaiuti, rompendo gli schemi dell’agiografia corrente nel campo degli studiosi cattolici, ha liberato l’iinagine del pensatore africano da quelle incrostazioni di barocco, nelle quali il teologismo curiale l’aveva inquadrata e svisata. Non è darsi aria di profeti prevedere che il libro sarà oggetto di discussioni e di polemiche, e che potrà, anche, indurre il Santo Ufficio a far funzionare la ghigliottina. Perchè il Buonaiuti —- non ostante la competenza che gli è riconosciuta nel campo degli studi storico-critici dell’antichità cristiana, non ostante la serietà e l'onestà, d’intenti che egli porta ne’ suoi lavori — dal suo libro.
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(i) Ernesto Buon aiuti. Sani' Agostino, 1917. Prezzo. L. 1.50
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di fronte ai teologi della Curia, può emergere reo di aver presentato al pubblico un Sant’Agostino naturalizzalo, e di aver messo in circolazione delle idee che scandalizzeranno i piagnoni della tradizione e i lacchè della scienza comandata.
/ Data l’importanza della tesi sostenuta dal Buonaiuti, non crediamo discaro ai lettori della rivista un riassunto del profilo, al quale, per conto nostro, faremo seguire qualche osservazione.
♦ * »
Quali cause determinarono la profonda rivoluzióne psicologica di Agostino? Sant’Agostino, diciassett’anni più tardi, nel 383, descrivendo ex professo il suo fenomeno interiore, ne ripete la causa esclusivamente dall’assistenza divina. E su questa falsariga viene studiata e narrata la conversione agostiniana dagli scrittori cattolici, i quali, attingendo esclusivamente alle Confessioni, sono ben lungi dal sospettare di fare dell’ascetismo e della teologia njistica, anziché della storia e della scienza.
Se ai diari intimi noi possiamo accordare — come a veri sismografi dello spirito — il più ampio valore documentario, contro le autobiografie, fino a prova in contrario, dobbiamo elevare la pregiudiziale dello thesis defendeuda, la quale ne infirma o annulla l’efficacia probativa. Nel caso specifico, poi, sappiamo che l’inintèrrotto appello all'intervento divino è il canovaccio sul quale fu ricamato il racconto delle Confessioni, per evocare, con l'argomento della propria esperienza personale, una dimostrazióne tipica del governo di Dio nell'educazione degli eletti.
Poiché la testimonianza delle Confessioni non è una fonte storica propriamente detta, ma il riflesso d’una dottrina, l’esemplificazione personale della teologia della grazia — l’esame oggettivo dei fini che disciplinarono l'evoluzione spirituale di Agostino va portato altrove. Indicazioni pressoché sincrone ci son date nel De Ordine, nel De beata vita, nel Contra Académicos, di Cassiciaco. Or bene, ‘ spogliata del suo carattere mistico, la conversione di Agostino si presenta, allo studioso dei fenomeni dello spirito e della storia, come un fatto esclusivamente intellettuale, come l’evoluzione di una crisi di pensiero, superata in un determinato ambiente e in virtù di esso. Il racconto delle Confessioni, nel turbine che aveva travolto l’esuberante giovinezza di Agostino, non sente che una raffica di sensualità e di bagordi. Ma, nel confronto dell’autobiografia con le notizie biografiche di Cassiciaco, il battito perenne del mea culpa si risolve in un raffinato rettoricismo e in una insignificante esplosione teologica.
Intorno ai diciannove anni. Agostino aveva letto YOrtensio di Cicerone, e, nella lettura di quel libro, si era sentito invasare da una febbre speculativa, da una infatuazione di metafisica deistica, dalla quale si riprometteva la spiegazione totale dell’enigma cosmico, al di fuori d’ogni addentellato eterogeneo e d'ogni concatenamento soprannaturale. In questo spasimo intellettuale — acuito dalla mentalità africana, prona a scivolare e adagiarsi in un teismo antropomorfico — la feconda cosmologia manichea, che, sur un tenue fondo di empirismo, drammatizzava le due opposte energie che si contendono il dominio e il governo dell’universo, si rivelava una soluzione seducente.
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L’entusiasmo dell’ebbrezza teistica — di fronte alle insanabili contraddizioni che viziano ogni dualismo, e nelle delusioni provate al contatto dei più insigni manichei, impotenti a turar le crepe che la critica del giovane acuto apriva nel sistema — si era andato smorzando, col progredir degli anni, in uno spontaneo rilassamento dialettico, di modo che, sullo scorcio del 383, Agostino, quando si imbarcava per Ostia, era già in un crepuscolo di agnosticismo — il salvataggio d’ogni anima che vede spezzati i suoi pontili, e la suprema rassegnazione d’ogni filosofia che ha assistito alla rovina de’ suoi ingegnosi castelli.
L’aquilotto aveva lasciato il suo nido torrido, per librarsi su! cielo della capitale, nell’avida ricerca del sole e della gloria. Ma le delusioni uccisero tosto le più radiose speranze, e il giovane africano, dopo un anno, passò a Milano, a insegnar retorica dalla cattedra governativa, vinta a concorso.
Il soggiorno romano fu, peraltro, un momento psicologico di grandissima importanza nel processo ascensionale di Agostino. Dal suo agnosticismo crepuscolare, scivolando1 sulle orme degli accademici, e, via via, sfaldando, attraverso il dubbio metodico, ogni saldezza metafisica. Agostino era prossimo a cadere in uno scetticismo universale, che culminava attorno l’intima costituzione del principio dell’essere e la sostanza del male. Mentre però lo spirito vaniva verso il vuoto desolante e il freddo nulla, il cristianesimo romano, nella esuberante intensità della sua vita, s’opponeva a quella vaporizzazione, gettandovi nei nembi il primo germe dell'orientazione storica verso il cattolicismo ufficiale.
L’anima di Agostino era allora preparata e pronta a qualunque seminagione avesse potuto, germogliando, arrestarne la corsa verso il nulla.. Egli aveva l’età in cui si maturano le grandi crisi risolutive dell’esistenza, e/ digradata dai precoci ardori della giovinezza, quella temperatezza di sensi che non impedisce le palingenesi e le elevazioni spirituali. D’altra parte, il cristianesimo della capitale era tale da produrre certamente un'enorme impressione, in una psicologia così temprata e protesa verso un nuovo orizzonte mentale.
Nella vecchia Roma, circolava allora un’intensa e frizzante vita spirituale. La politica dell’impero culminava in quel programma di rinnovamento cristiano iniziato da Costantino, e la legislazione,, in quell’atmoslera politica, assumeva un tono e un orientamento di vera e propria intransigenza cattolioa. Ma il fatto che, nel campo della politica interna, sgominò le residue file del paganesimo e diede ai cristiani la lucida percezione del loro pieno successo fu la soppressione (384) dell’ara della Vittoria, l’ultimo simbolo ancor vivente del paganesimo ufficiale. Il decesso del culto tradizionale — per le drammatiche circostanze nelle quali era avvenuto, per ¡’importanza del dibattito che l’aveva preceduto e provocato, per la notorietà degli uomini che in quel dibattito erano stati protagonisti — determinò certo un senso di sbigottimento anche nella comunità manichea del Celio, ove Agostino contava amicizie e aderenze. Gli uomini, poi, più rappresentativi nel governo della comunità cristiana del tempo non erano tali da rinunciare a spremere, dalla situazione politica e dal momento storico, eccezionalmente favorevole, tutto intero il successo.
Oltre che nel suo fattore politico, la vita spirituale di Roma doveva aprirsi.
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nelle meditazioni di Agostino, anche ne’suoi altri molteplici elementi: nelle condizioni della sua fiorente cultura pubblica; nelle correnti di pensiero che, quella cultura, determinava e delle quali, a sua volta, si alimentava; nei diffusi fervori dell’ascetismo, rinfocolati dalla presenza del monaco Girolamo; nelle polemiche, infine, che, a quei giorni, la fosca religione dell’ascesi vi suscitava.
Ma il germe di Roma doveva maturare nella fase risolutiva di Milano. Qui la lettura degli scritti di Plotino, nella versione latina di Mario Vittorino, fissò un polo nell’anima di Agostino, il quale ritrovò l’energia dialettica, per liberarsi dalle dande del dubbio accademico, per rizzarsi in un concetto adeguato delle realtà spirituali, per superare il dualismo di Mani e l’antropomorfismo della speculazione africana.
Ma due coefficienti più forti e più profondi contribuirono, nel soggiorno di Milano, a rassodare quell’elaborazione spirituale: la suggestione di Monica e il contatto di Ambrogio. Quella traeva a galla, con quell’arte e con quel tatto che son propri di una madre, i filoni della primissima educazione, sommersi nell’alluvione manichea; questi, con l'esegesi profonda del senso scritturale e con l’esemplificazione vivente e tangibile della (olla credente nel Cristo, fugava là ritrosia dell'esteta, scandalizzato dalla povertà delle forme, e rompeva l’antagonismo del filosofo, corrucciato per la puerilità dei particolari e per la banalità dei simboli.
Frattanto, mentre nel misticismo neoplatònico. Agostino s’era rifatta una impalcatura ideologica, aveva, insieme, preso coscienza che quell’impalcatura, in qualche lato, era debole e cedevole. Il giorno in cui s’accorse che il rinforzo ideologico non poteva esser dato ehe dall’inserzione del fattore cristiano della redenzione, partecipabile nella società visibile dei fedeli — quel giorno; nell'animo suo, Agostino divenne cristiano.
Avuta questa coscienza, scese nella vasca, e, uscendone, portava con sè il senso della sua nuova missione.
* * * ■
Temperamento vulcanico, naturalmente ed essenzialmente rivolto all’aziphe, anziché alla quiete dei ceselli dottrinali. Agostino iniziò la sua produzione intellettuale investendo in pieno petto i suoi ex-correligionari, i manichei. Gli scritti antimanichei di Agostino si susseguono ininterrottamente, per tre lustri, e mostrano luminosamente che, nell’ànima del convertito, la tavola dei valori, capovoltasi, porrà nettamente incise le affermazioni della libertà umana e delia non esistenza del male.
Ma questa evoluzione ideale non fu sempre rettilinea, e il pessimismo mani-cheista, sommerso nel convertito, affiorò più tardi, nell’anima del vescovo che veniva elaborando la cruda e desolante dottrina della predestinazione. Giuliano di Eclano, dopo il 420, chiamava Agostino manicheo, e stabiliva un irreducibile dissidio fra le opere del neofita e gli scritti dei vescovo.
V hiatus di questa involuzione intellettuale fu la lettura, fra il 396 e il 397, di S. Paolo, nel commento dell’Ambrosiasto. Mentre, anteriormente a questo incontro intellettuale. Agostino, saturo di reminiscenze neoplatoniche e di esegesi
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ambrosiana, ammetteva che noi portiamo in noi stessi il destino della nostra tomba — perchè una colpa non personale è incapace di condannare un essere, altrimenti innocente, al supplizio eterno, e le nostre facoltà spirituali non sono state sostanzialmente pervertite dalla colpa d’origine — dopo il 397, pencola, sempre più, verso un desolante pessimismo circa la natura umana e i suoi poteri etici, e si polarizza nei due concetti cardinali, sui quali impostò, poi, la sua lotta antipelagiana : il concetto, cioè, di uri’ umanità dannata e. corrosa nelle sue viscere dal cancro della colpa originale, e della completa gratuità dell’impulso iniziale, con Cui Dio solleva tale umanità allo Stato di grazia.
Di questi principi embrionali. Agostino, nella sua ventennale polemica col naturalismo pelagiano, iniziata all’addensarsi del temporale gotico, sviluppò tutte le conseguenze fino al paradosso, fino al più feroce pessimismo spirituale. Annientando, contro il superbo moralismo di Pelagio, la personalità etica dell’individuo, egli rinforzò l’ecclesiologia già preformata combattendo contro i donatisti, e, nel solco dell’esagerazione ecclesiastica, buttò palesemente il seme, teorico dell’inquisizione.
Mentre lottava contro i pelagiani e contro i donatisti. Agostino, fra il 412 e il 426, nell’ incubazione degli eventi politici, scriveva i ventidue libri del De cimiate Dei, l'opera che, con le Confessioni, legò il nome dell’autore alla celebrità.
L’opera immortale del grande apologeta africano non è imperniata sull'accezione volgare, secondo la quale Agostino avrebbe concepita la chiesa come la città di Dio, e il mondo, con tutte le sue istituzioni, come la città del demonio. Fra la chiesa e la società di Dio non vi sono confini di tempo e di spazio. Le due città non sono contraddistinte, quaggiù, da simboli esteriori: mescolate fino dagli inizi del genere umano, corrono, mescolate, verso la foce dei tempi. Il titolo della cittadinanza è scolpito nel cuore di ogni cittadino, e la scultura è il bassorilievo della prosa quotidiana : Lnlerrogel ergo se quisque quid amet, et inveniet unde sii. La tessera di riconoscimento è tutta qui: in altre parole, la distinzione del genere umano è mistica : la società degli idealisti e la società degli egoisti. La città dell’idealismo è la città di Dio, la quale ha la sua più intensa fiammata, il suo lievito più potente nel patrimonio etico e sociale del cristianesimo, ch’è essenzialmente religione di amore e di altruismo.
* * *
Pienamente d’accordo sulla prospettiva del Buonaiuti, facciamo seguire al riassunto del profilo qualche lieve appunto.
A noi sembra che l’analisi dei coefficienti dai quali maturò la conversione di Agostino, in qualche punto, non sia sufficientemente determinata. Un esame più minuto delle condizioni culturali di Roma, sul cadere del iv secolo, e un più vivo riverbero delle correnti di pensiero che alimentavano la vita dell’urbe avrebbero rafforzata l’argomentazióne, predisponendo maggiormente alla conclusione chi fu abituato a considerare il fenomeno della conversione agostiniana nella sua visione esclusivamente mistica.
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Anche le trasparenze manicheiste nella controversia pelagiana avrebbero dovuto esser poste in maggior rilievo. E, poiché l’occasione cadeva in acconcio, il sistema di Pelagio si prestava a evocare il ritorno delle identiche concezioni sul peccato e sulla grazia.
Le lodi attribuite a Sant'Agostino per la sua robusta concezione ecclesiologica, e per la f unzione storica che quella ecclesiologia esercitò nel corso dei secoli, non ci sembrano circoscritte nei debiti limiti. La chiesa di Sant’Agostino conduce, è vero, all’unità organica, ma mena insieme all’Inquisizione e ai famosi Consigli di Vigilanza,, di troppo recente memoria. Il cristianesimo, come le religioni dei misteri, è una religione prevalentemente popolare, e come tale ha bisogno di una dommatica, di un culto, di una gerarchia, di una disciplina. Ma è, insieme, anche una religione idealistica, che, nel ripensamento delle sue formule storiche e nella rielaborazione perenne de' suoi elementi vitali, può ¿sere vissuta anche dalle anime più schizzinose e più aristocratiche. Or, queste anime, nell’ecclesiologia agostiniana, non possono avere cittadinanza.
Piccoli nei, questi, e qualche altro che potremmo rilevare — per es. il non aver fatto risaltare una certa contraddizione fra l'ecclesiologia uscita dalla polemica e l’ecclesiologia più larga e più comprensiva del De civifale Dei — i quali nulla tolgono al valore del volumetto, raccomandabile, non solo per la tesi svolta, ma anche nell’ interessò degli studi religiosi che, pur dal loro severo recinto scientifico, descrivono una larga sfera di idealismo intenso e di elevata educazione spirituale.
Róma.
Ferruccio Muttineixi.
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PERbG/DVRA DELL'ÀNIMA
EFFETTI DEL DOLORE
L’ora della storia in cui viviamo è un’ora di dolore. Perchè gli uomini ànno preferito le tenebre alla luce, la diplomazia dissimulatrice alla verità, la politica del Ìiù forte e del più abile alla giustizia, egoismo alla solidarietà e alla fraternità, l’oro di questa terra ai tesori del cielo e la lotta fratricida al lavoro pacifico, oggi tutta quanta l’umanità geme ed è come in doglie di parto.
Diciannove secoli fa un uomo, l’uomo santo parlò, lottò, soffrì e morì su una croce infamante per offrire all’umanità la redenzione. Ma fino ad oggi gli uomini non l’ànno voluta; e perciò l’ora della storia in cui viviamo è un’ora di dolore. E a questo dolore anche ciascuno di noi prende parte, perchè nessuno può sottrarsi al a legge di solidarietà inevitabile, fatale, che incatena tutti gli uomini.
Io v’invito perciò, fratelli, ad entrare con lo spirito, per alcuni momenti, in un luogo santissimo dove à la sua dimora il dolore. Entratevi con animo semplice come quello di un fanciullo e stateci con raccoglimento ad ascoltare, a pensare, a cercare, xe parliamo: non di dogmi e senza formule, non di teorie e senza disquisizioni; ma parliamo di esperienze, di vita.
In questo santuario ci sono molti veli di mistèro. Iddio voglia che qualcuno di questi veli cada e possiamo vedervi invece delle lampade accese.
È stato buono per me che io sono stato afflitto.
Salmo, cxix, 71.
• • •
Una voce umana parla al nostro cuore e lo vuole aprire come un solco per farvi cadere un seme fecondo d’esperienza personale. È una voce delicata, commossa che sale dal profondo d’un cuore d’uomo che à sofferto. Non è un grido, non è un lamento, è piuttosto una parola di gioia calma e velata di mistero: < È staio buono per me che io sono sialo afflitto ». Essa afferma la bontà del dolore, l’effetto buono che il dolore inevitabile puif avere sull’anima, sulla personalità di chi sa soffrire, di chi sa imparare dalla sofferenza e trarre da essa il bene — come l’ostrica sa trarre la perla dal granello di sabbia che l’acqua del mare à portato, a farla soffrire, nel suo guscio.
Cerchiamo ora — coll’aiuto dell’intuito che Dio ci à dato e dell’altrui e della nostra personale esperienza — di scorgere e capire le principali ragioni che ànno potuto far dire tale parola.
La prima di queste ragioni mi sembra essere la seguente: il dolore fa diventare umili.
Mai come nel dolore si sente la verità di questa parola di Pascal: « L’uomo non è che una canna, la più debole della natura’«, e ci si convince della debolezza, della fragilità di questo vaso d’argilla che è il nostro corpo, che una goccia basta per uccidere; e della delicatezza,
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della sensibilità del nostro cuore, che un nulla può far vibrare, fremere e turbare, come due dita finissime le corde di un’arpa.
Anche più che in mezzo ad un oceano o nella contemplazione del cielo stellato o dinanzi a delle catene di monti maestosi, nel dolore l’uomo sente la sua piccolezza, la sua nullità. E si rende conto di quanto la sua mente sia limitata di fronte al mistero, che da tutte le parti lo avvolge. Egli vorrebbe scrutarlo e comprenderlo; ma non può: interroga e si domanda dei perché, ma non à risposta. Neppure Gesù ebbe risposta a uno di questi perchè angosciosi, che in un istante d’abbattimento lanciò verso Dio.
E nel dolore l’uomo sente l’impotenza della sua volontà. Vorrebbe levarsi dal letto di sofferenza su cui è inchiodato: vorrebbe .impedire quell’ingiustizia, quel delitto: vorrebbe guarire, soccorrere, consolare: vorrebbe non far spegnere quella vita, far rivivere quell’essere amato che i suoi sguardi non possono più accarezzare; ma non può, non può perchè nell’universo sono altre volontà più potenti della sua, tutte sottomesse alIa'Volontà suprema.
Così, nel dolore, l’uomo acquista naturalmente una rara quanto squisita virtù: l’umiltà — necessaria per ben conoscere so stessi, la natura, gli altri e Dio: necessaria per cercare c domandare l’aiuto e la forza divina c per comprendere ed amare il Maestro «umile di cuore> (i).
Una seconda ragione è questa: il dolore rende sensibili; voglio dire che sviluppa, affina la sensibilità.
Soltanto dopo che à sofferto il delinquente si rallegra del sorriso che vede spuntare per lui sopra un labbro umano o d’una buona parola che gli vien detta o d’una dimostrazione di fiducia; soltanto dòpo che à sofferto può piangere amaramente sulla propria colpa e trasformarsi in uomo onesto, operoso, degno di stima e d’onore e può leggere con gioia il Vangelo di Gesù .quando all’alba si desta in fondo all’orrenda prigione e lì può arrivare a scrivere dei libri come il De Profundis di Oscar Wilde, che Vandervelde à detto « il libro più cristiano, forse, che sia stato scritto nel secolo xix » (2).
(1) Matteo, XI, 29.
(2) Vandervei.de, Conferenza sul Belgio in Foi et Vie, X916.
Tutti abbiamo udito ripetere da certuni, se non l'abbiamo detto noi stessi, in momenti di pessimismo, che molto meglio sarebbe non sentire. Ma è chiaro che se non sentissimo non potremmo neppur conoscere la gioia; è chiaro che chi è più sensibile più sente e gode la natura, infinitamente varia e ricca di forme, di linee, di colori, di vita; più sente e gode l’arte, l’arte vera che commuove ed eleva; più sente e gode i forti e dolci affetti umani e può meglio sentire tutto il bello ed il buono ch’è nell’Evangelo e meglio sentire ed amare Gesù e sempre più avvicinarsi all’iddio vivente di santità e d’amore.
Benedetto dunque il dolore che ci rende così sensibili.
E quando siamo così, la più piccola delicatezza rivolta a noi 'la sentiamo, ci commuove, ci fa bene. E quando vediamo altri soffrire non possiamo restare indifferenti, ci ricordiamo i nostri momenti di sofferenza, i nostri bisogni in quei momenti, sentiamo una fraterna simpatia per quei nostri simili, li comprendiamo e li amiamo. Dolore e amore sono inseparabili; sono il segreto della vita, sono all’origine e alla fine della vita. Ma l’amore è una forza attiva; e perciò noi — amando i nostri simili che soffrono — siamo portati ad agire per loro, a far per loro qualche cosa che li sollevi, che li liberi dalla sofferenza che li travaglia.
Benedetto il dolore che ci fa giungere ad amare il nostro prossimo come noi stessi.
Un’altra ragione che ci fa riconoscere vera la parola del salmista è che anche nel dolore possiamo fare il bene. Possiamo fare il bene colla luce che splende nei nostri occhi, colla parola calda che dica le nostre salutari esperienze nella prova e con la preghiera che, quando è fatta con tutte le energie dell’essere spirituale, è anche essa un’azione.
È stato detto che il celebre predicatore Adolfo Monod, colle brevi meditazioni (1) che preparava durante le sue acute e lunghe sofferenze ed esponeva una volta la settimana ai numerosi amici che si raccoglievano intorno al suo letto, fece più bene che con tutti i suoi sermoni. Adele
(x) Le dipartenze di A. Monod. Traduzione di Stanislao Bianciatdi.
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Kamm — la santa protestante ormai famosa (1) — negli anni in cui il morbo fatale la tenne immobile nel suo letto, fece tanto bene, colle sue geniali trovate, agli altri malati come lei, ai prigionieri lontani e sofferenti anch’essi nelle loro celle e a tutti quelli che la poterono avvicinare, sì che come un astro d’amore à lasciato un eterno fascio luminoso nel 'cupo cielo del dolore che à sì fugacemente solcato. E Miss Cavell, colle parole di luce e d’amore che disse negli ultimi momenti di sofferenza cui la costrinsero i suoi assassini, non à forse fatto almeno tanto bene quanto ne fece prima lenendo e fasciando le piaghe de’ suoi feriti?
« L'anno 1840 — narra la Cronaca ài Liniburgo — ognuno suonava e cantava le canzoni più graziose e dilettevoli che s’erano udite fino allora nelle terre tedesche; e tutti, giovani e vecchi e special-mente le donne ne impazzivano quasi, in guisa che se ne udiva la melodia dal mattino alia sera». La Cronaca aggiunge che l’autore di quei canti, era un giovane scritturale tormentato dalla lebbra, che • viveva da sè in un luogo nascosto a tutti. Tutti sanno quale terribile malattia fosse nel Medio Evo la lebbra e come quei poveri disgraziati, che ne erano colti venissero banditi da ogni convegno e non fosse loro permesso d’avvicinarsi ad alcuno. Attraversavano le vie come cadaveri vivi, ermeticamente imbacuccati dalla testa ai piedi, con la faccia coperta dal cappuccio e portando in mano un sonaglio detto dei lebbrosi, col quale notificavano il loro arrivo; affinchè ognuno potesse in tempo sfuggirli. Il povero scritturale, la cui fama fu tanto decantata dalla Cronaca di Limburgo, era per l’appunto uno di questi lebbrosi e viveva desolato nella cupa solitudine della sua disgrazia, mentre tutta la Germania, allegra e melodiosa, cantava e zufolava le sue canzoni... (2).
Poiché dunque lo possiamo, invece di lamentarci inutilmente della nostra sorte — quando ci troviamo nella sofferenza — facciamo anche noi un po’ di bene.
Altra ragione: il dolore è una rivelazione; fa conoscere e intendere cose che prima non si erano ancora conosciute
(x) Vedi Bilychnis, 19x3, p. 332.
(2) Ultime paróle di A. Heine per la stampa.
nè intese e che tutta la scienza e tutta la filosofia non potrebbero rivelarci in alcun modo; e fa vedere la storia da un punto di vista diverso.
Meglio che in ogni altro momento, in quelli del dolore l’uomo può scanda-Eliare il fondo del suo essere e vedervi il rutto ed il nero che fa orrore e va buttato via ed anche trovarvi le perle di gran prezzo che una mano divina vi à gettate e che bisogna mettere fuori per far fruttare.
Chi fa l’esperienza del dolore sente la vanità e la fugacità di tante cose terrene e sente il bisogno di attaccarsi a quelle certe, stabili, eterne e farsi dei 'tesori là «dove là tignuola non guasta e i ladri non rubano » (1); e vede splendere verità che prima non scorgeva neppure e sente tutta la realtà di potenze divine alle quali non credeva affatto.
Come è necessario che il sole tramonti perchè possiamo vedere le meraviglie della vòlta stellata, così è necessario che il sole della felicità tramonti qualche volta, perchè possiamo conoscere certe meraviglie dello spirito di Dio.
Fu dopo la campagna di Russia, quando le ombre scendevano numerose sulla sua fortuna, che Napoleone sentì la limitatezza della forza di fronte alla giustizia, l’insufficiènza della materia di fronte allo spirito e nel giardino di Fontaincbleau disse a Fontanes: « Sapete che cosa ammiro maggiormente nel mondo? è l’impotenza della forza materiale; alla lunga, la spada è vinta dall’idea » (2).
« Colui che non mangiò mai il suo pane nel dolore, — che non passò mai le ore notturne ad attendere, piangendo, il mattino che tarda, — colui non vi conosce, o potenze celesti ». Questa parola di Goethe — che la Regina di Prussia, vinta da Napoleone, ripeteva nella sua umiliazione e nel suo esilio; che Carlyle aveva tradotto e scritto sul suo libro favorito; citata nel De Profundis di' O. Wilde; ricordata ultimamente da Vandervelde nella su citata conferenza, per alludere alle « potenze celesti » che il Belgio eroico, à conosciuto nel suo martirio — è profondamente vera.
Inoltre, il dolore fa conoscere la realtà. In esso tante illusioni cadono, e svaniscono
(x) Luca, XII, 33.
(2) Discorso del presidente Deschanel alla Camera francese (13 gennàio 1916).
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tanti sogni c ci si viene a convincere che la vita è una realtà fatta di bello e di tragico e che la più certa, la più grande, l’immutabile realtà è Dio. E l’uomo, a faccia a faccia con questa realtà, nel silenzio e nella solitudine che attorno a lui fa il dolore, si raccoglie, apre il cuore e — come Samuele nel solenne silenzio notturno del tempio — domanda a Dio di fargli sentire la sua voce. E Iddio parla.
L’uomo si raccoglie, apre il cuore per ascoltare e lo apre anche per pregare. Prega perchè à bisogno di luce — e la preghiera è un fascio di luce — e Eerchè sente il bisogno di parlare col suo
■io. Quanti giovani durante questa guerra si son riavvicinati al loro Dio, che una gretta scienza o una moda stupida e rovinosa avea nascosto agli occhi loro; quanti ànno riaperto alla preghiera il cuore, che una mano matrigna aveva chiuso quand’eràno ancora fanciulli!
E ricordate Gesù nella tenebrosa agonia del Getsemani. Le ombre della sera come palpebre stanche calano sulla terra; ed egli — uscito dalle mura di Gerusalemme e traversato il modesto torrente dalle acque nere — entra co’ suoi discepoli in quell’orto melanconico. Prevede il tradimento, l'arresto, l’abbandono dei suoi, i processi iniqui, i motteggi, gli scherni, le ingiurie, gli oltraggi, il rinnegamento d’uno de’ suoi pili intimi, prevede gli strazi atroci e i dolori ineffabili della croce e comincia a dar segni di spavento e d’angoscia; presto l’anima sua è « op-E ressa da tristezza mortale ». E che fa esù? Si getta in ginocchio, con la faccia in terra e prega. Poi torna a vedere i discepoli; crede di trovarli a vegliare e a pregare — come à loro raccomandato; li trova invece a dormire. Si sente ancora £iù solo e più triste. E che fa? Prega. Per t seconda volta ripete la medesima preghiera, tanto intensamente che dalla fronte gli cade il sudore simile a grosse gocce di sangue. Poi torna ancora ai discepoli e li trova anche questa volta addormentati. Alla sua preghiera solo un'eco di mistero à risposto e la notte d’angoscia, ch’è calata sulla sua anima, diviene ancor più cupa e pesante. E che fa Gesù? Prega. Per la terza volta ripete la filiale preghiera: « Padre mio, ogni cosa ti è possibile. Oh volessi tu allontanare dà me questo calice! Ma pure, non quello che voglio io, ma quello che tu vuoi ». E
dopo aver così pregato, si leva col cuore inondato di luce e ricco di forza e torna ai discepoli: «Dormite pure, oramai — dice loro — e riposatevi! Ecco, l’ora è giunta... Levatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce è vicino » (i). E come un grande vincitore — sereno e calmo e sempre buono — se ne va incontro alla morte; no, alla morte, incontro alla vita ed alla gloria eterna.
E quante volte anche noi, nei momenti di dolore non abbiamo saputo far di meglio che lasciar erompere dal nostro cuore una preghiera e poi ci siam sentiti-sollevati, più fiduciosi e più forti?
Benedetto dunque il dolore che fa pregare.
Ancora: il dolore educa, tempra il carattere, insegna la pazienza, la costanza, l’ubbidienza, il rinunziamento; avvicina alla perfezione. I caratteri più forti, i cuori più buoni, le anime più elevate ànno conosciuto il dolore, anzi in esso son divenuti tali. Gesù fu reso « perfetto per via di patimenti • (2) e alla corona, all’onore, alla gloria eterni giunse per il tramite delle sofferenze e la sua morte dolorosa l’à fatto essere il Salvatore del mondo. E tutte le grandi opere, le grandi conquiste di libertà e di diritti umani, le grandi scoperte ed invenzioni, i grandi movimenti e rinnovamenti sociali, la poesia Iiù bella e che non muore e la grande arte nno avuto una gestazione di dolore.
* * *
Se, dunque, tanto buono può essere nei suoi effetti il dolore, quando ci assale e ci avvolge e nessuna volontà umana può qualcosa contro di esso, invece d’ascoltare la malvagia suggestione della moglie di Giobbe, che ci soffia all’orecchio: « Maledici Iddio e poi muori » (3), invece di far uscire dalle nostre labbra un’onda di parole amare, accettiamolo con filiale sottomissione, sì da poter giungere a far la reale esperienza espressa in queste parole d’uno scultore: « Spesso, quando scolpisco un blocco e lo faccio saltare in ¡schegge attorno a me, compiango il pòvero marmo e per consolarlo gli dico: — Va, io ti ferisco e t’infrango; ma lo fo
(1) Marco, XIV, 36, 41» 4«.
(2) Ebrei, 2, io.
<3> Giobbe, 2, 9.
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PER LA CULTURA ,DELL'ANIMA IÓ5
per provarmi di renderti eterno di bellezza. — Orbene, c’è un altro scultore, migliore di me, di Michelangelo c di Fidia: è Dio. Il marmo suo è l’uomo. Il doloie è il suo scalpello. E quando soffro e sento volare c cadere pezzi interi di me medesimo mi dico: — Ecco, Dio lavora all’anima mia e si degna farla più grande e migliore. Grazie, o Dio mio! — » (i).
Ora usciamo dal santuario nel quale abbiamo intimamente parlato. E, uscendo, che cosa troviamo noi? Troviamo ancora il dolore, dappertutto il dolore.
In questi tempi si fa specialmente sentire quello ch’è conseguenza della guerra, della terribile guerra. La terra è solcata da lampi di vendetta-e di tradimento; le fiamme dell’odio ardono e distruggono; gli strumenti della morte sono all’opera; i cuori palpitano e tremano; il pianto scorre; persino le acque limpide e le nevi immacolate sono macelliate di giovine sangue; e l’Europa sta per divenire un immenso cimitero. E forse ancora per molto tempo l’umanità si dibatterà nelle viscere di questa notte di dolore. Ma verrà pure il giorno in cui ne uscirà. E noi speriamo eh’essa ne esca migliorata; e per questo preghiamo e lottiamo.
Perchè sia così, però, è necessario che si umilii, che l’umanità superiore attuale riconosca d’essere schiava, schiava del denaro bugiardo, d’una falsa civiltà, d’una pomposa e arida cultura, della scienza asservita, d’una stampa merce
naria, anzi meretrice e d’una politica vigliacca; riconosca la sua schiavitù e si umilii e aspiri alla luce e allalibertà e torni al suo Dio, come il figliuol prodigo Eentito e si decida finalmente a volere
risto per suo unico re. Le Chiese — che in tutti i paesi non àn saputo far nulla E>er impedire l’immane conflitto — si umi-ino anch’esse e divengano viventi, attive, sì da contare molto di più nei destini sociali. I popoli — che dormono ancora, che subiscono passivamente pochi dispotici voleri — si sy eglino e divengano coscienti della loro forza e dei loro diritti, come dei loro doveri. E anche le donne — dopo questa guerra — non si limitino più a piangere e piangere pei loro figli e mariti e fratelli e fidanzati; ma siano una forza contro il male che vuol distruggere i loro cari; e le madri educhino veramente i loro figli secondo i principii del Vangelo, se non vogliono trionfi di militarismi.
Oh! spunti presto il giorno della pace, vera profonda e duratura, basata sulla Siustizia e regolata col diritto, « il giorno i pace e lavoro » (i) sognato da poeti, pensato dà filosofi, visto nel futuro da profeti, programma di giuristi e di statisti, pel quale tanti ànno lottato e sofferto, che i buoni ànno sempre agognato e che i nostri cuori sospirano giorno e notte. Venga quel giorno senza tramonto e le generazioni future benediranno con noi il dolore che ora fa sanguinare.
Vincenzo Cavalleria.
(x) Adite. Kamm di Paul Sbippel.
(x) Pascoli.
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IL DOPPIO SIGNIFICATO
DELLA “ RIVOLTA FEMMINILE ”
L’articolo del prof. Lanzillo, L’ideologia dell’ottimismo, pubblicato nel numero di marzo della rivista Bylichnis, conteneva un paragrafò sulla questióne femminile, anzi sulla « rivolta femminile » che fece insorgere il noto « Farmacista » del Giornale d’Italia.
E quando certe difese vengono da un uomo, il loro valore è indiscutibile. Quelle parole che riferiamo nella loro integrità (i) dovrebbero con ancor più ragione far insorgere molte coscienze femminili se, basandosi sulla conoscenza unilaterale di questa « rivolta », non avessero in sè una certa giustificazione.
Ma, a breve distanza, e per una coincidenza che mi piace chiamare provvidenti) «L’età nostra ha dovuto anche essere agitata da una « rivolta femminile ».
« Qui è la situazione fondamentale della vita storica è minacciata: la famiglia. Sessantanni or sono, Pietro Giuseppe Proudhon, il gigante plebeo, risolveva in un terribile dilemma il problema della donna : courtisane ou minagire. Oggi l’estremo dilemma può accettarsi ancora come vero, il problema della donna, cioè il problema dei rapporti sessuali e dell’influenza femminile, è, e meglio, era, di una importanza veramente capitale, per la vita contemporanea. Può dirsi senz’altro che, studiare sotto quest’aspetto la questione della donna, significa studiare l’influenza della donna sulla civiltà attuale. Questione etico-politica c psicologica, complicata da tutta una serie di problemi morali e sociali.
< Non è senza importanza il constatare come proprio nel secolo nostro il movimento per l’emancipazione della donna e per tutte le altre conquiste
ziale, ecco un libro che, tradotto dall’inglese, si presenta arditamente al pubblico italiano (i), forte delle battaglie vittoriosamente combattute sul fronte morale e sociale del femminismo inglese. Esso, seguito da parecchi altri, ebbe i suoi giorni di prova, ed ispirato da un’alta visione trovò eco, prima che non pensasse, nel campo della pratica realtà.
In brevi pagine sono condensati molti problemi femminili: i problemi di scopo e quelli di mezzo; le idealità da conquistare, i metodi transitori coi loro eccessi e con le loro manchevolezze, la stretta relazione tra le questioni morali, sociali ed economiche, il vero equilibrio tra diritto e dovere sentito sempre e soprattutto attraverso la legge suprema del sacrificio. In una parola, queste pagine non considerano mai le esigenze della donna sola, ma sempre quelle della società intera che per questa via dovrebbe trovare la sua generale elevazione.
Ma precisiamo.
Il prof. Lanzillo parla della «rivolta femminile « con le sue disastrose conseguenze e ragionando dal suo punto di vista gli diamo perfettamente ragione.
che dovrebbero condurci, secondo gli scrittori democratici, al regno ideale dell’amore libero, abbia assunto uno sviluppo sconosciuto affatto nei secoli precedenti. Gli è che la concezione materialistica della vita determina necessariamente come primo c comprensibile effetto logico il rilassamento dei costumi o la corruzione dei rapporti sociali. L’influenza femminile s’accresce proporzionalmente al-l’allentarsi del costume.
• Ed ecco la rivolta femminile ».
(i) Lucv Re-Bartlett, Il regno che viene. Libreria della Voce, Fiienze.
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NOTE E COMMENTI
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Egli, scrivendo, pensava certamente a quel falso movimento femminista che ha portato più danno alla giusta causa della stessa opposizione retrograda; a quelle donne che mirano all'indipendenza economica e politica come a scopo e non come a mezzo; che lottano per la libertà dei sensi e non per quella dello spirito, che credono progredire scimmiottando l’uomo e non elevando la donna raggiungendo l’integrità della propria natura.
Ma tra le donne or ora liberate nessuno sembri condannare questa falsa « rivolta femminile » più di Lucy Re-Bartlett quando scrive nel cap. VI a pag. 58:
« Se è sacro quest’ insorgere delle donne in nome della libertà e della giustizia, non sono punto sacre quelle voci che vanno gridando qua e là il diritto alla licenza — esse invece rappresentano quell’aberrazione che, attraverso tutta la storia, troviamo accompagnare ogni movimento sociale, morale, spirituale o politico che sia. Srecisamente come nel carattere indivi-uale, troviamo ogni virtù accompagnata dal corrispondente difetto. Nel caso del movimento femminile, quest’aberrazione è particolarmente grave, perchè tende alla dègenerazionè di tutti, proprio come il vero movimento tende all’elevazione di tutti. Se la donna ha diritto alla sua libertà, questo diritto ha la sua maggiore ragion d’essere nel bene generale che tale liberazione può portare.
<Come può essa avere il «diritto» di promuovere l’abbassamento della società, o aspettarsi che il legislatore aumenti i suoi poteri per servire a tal fine? Finché vi sia al mondo un numero considerevole di donne che professano quest’eresia — il diritto d’essere impure perchè l’uomo lo è —- come si può aspettare che gli uomini giudichino l'altro sesso soltanto dalle sue rappresentanti migliori?».
La «santa rivolta» che l’A. propugna è contro quella spesso inconscia ma pur tremenda prepotenza che vorrebbe foggiata la donna secondo l’impronta dell’uomo e non secondo quella di Dio, contro il pregiudizio di una doppia morale, per l’uomo e per la donna, contro l’opinione che la virtù massima della donna è quella di tollerare, di mettere il sigillo della sua falsa pazienza sui vizi dell’uomo. Rivolta santa, perchè aspira a cambiare dalla radice le relazioni tra gli uomini e le donne, per cui la donna dovrebbe farsi, con sempre
rinnovata fatica, conquistare, e non passivamente comprare.
Così intesa la « rivolta femminile », come possiamo ancora affermare che la «istituzione fondamentale della vita storica, la famiglia, è minacciata ? ».
O non si lotta piuttosto per dare alla famiglia una più solida base, e la sua più alta espressione?
Ma per avere la possibilità di farsi conquistare in questa alta forma morale, la sola che può rinnovellare ed innalzare ogni giorno la vita del matrimonio, una donna non deve transigere con tutto ciò che abbasserebbe il livello morale della famiglia, e per non transigere, deve rassegnarsi anche a volte a rimaner sola; ma se per molte il rimaner sole può significare morir di fame, è logica la necessità dell’indipendenza economica.
Indipendenza che ha valore di mezzo e non di fine, poiché siamo le prime a riconoscere che il posto d'onore della donna è in famiglia, ma posto di «regina e non di schiava» se vuole adempiere in pieno la missione affidatale.
Questo carattere transitorio di certe rivendicazioni è stato perfettamente capito dalla Re-Bartlett quando afferma a pag. 87: « Può sembrar male, e lo è certo, che in attesa della libertà femminile, il focolare domestico sia spesso disertato, i bimbi allevati negli asili e negli istituti, le madri costrette a lavorare nelle fabbriche e negli uffici invece che nelle loro famiglie. E’ certamente un male, ma è un male altrettanto terribile di quello che vorremmo cambiare? Che cioè annualmente migliaia di creature malsane vengano al mondo, che la funzione creativa sia in ogni classe abbassata al livello di passatempo, o tutto al più considerata come un diritto personale dell’amore egoistico, indipendentemente dal grande scopo al quale fu destinata? Se le donne, attraverso la maternità, sono le più atte a comprendere le norme più alte che dovrebbero regolare questa parte della vita, e se per poterle applicare hanno bisogno di libertà, possiamo rimpiangere il prezzo — qualunque esso sia—ch’esse devono temporaneamente pagare per la conquista di tale libertà? Meraviglia sarebbe se il prezzo fosse lieve, data la forza del male da combattere. E, davvero, come abbiamo detto, per molte donne deve toccare il martirio: ma le lagrime sparse saranno lagrime di redenzione, e non per la donna soltanto, ma per la razza intera».
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BILYCHNIS
Considerato il movimento femminile sotto questa nuova luce e con questa fiamma Ser la razza, per base, ci verrà fatto, non i approvare forse, ma però d’indulgere a molti eccessi, anche quelli a cui specialmente il movimento militante inglese si è abbandonato in questi ultimi anni.
Se disapproviamo tali mezzi, dobbiamo pensare ch'essi sono stati spesso i mezzi della disperazione per giungere ad uno scopo altissimo, e se questo movimento ha trovato dei difensori e dei simpatizzanti sui pulpiti delle varie confessioni, dobbiamo credere che molti hanno capito come attraverso il disordine miri ad un più alto ordine morale e sociale.
L’autrice, non appartenendo essa stessa alle file militanti, ci fa capire l’atteggiamento di molti inglesi verso questa schiera di ribelli ed argutamente osserva : « Come la donna ha avuto pazienza con l’uomo per tanti secoli, cerchi l'uomo di trovarne pure un poco oggi per lei»; e ripete che ■ l’occasionale asprezza della sua espressione odierna deve intendersi come puramente temporanea».
Ma per Proudhon, la donna non ha che due vie : « courtisane ou ménagère ». E sta bene... cioè sta malissimo, poiché, se è indispensabile che la donna sia buona« ménagère», non è indispensabile che lo sia unicamente, e d’altra parte, soprattutto in questi due anni di maggiore attività esteriore, ha dimostrato di potere uscire dalle sacre pareti domèstiche senza essere « courtisane ».
La casa dev'essere certamente ben tenuta ma ciò non implica che la padrona stia tutto il giorno tra le pentole e le scope e' non trovi il tempo e la libertà per creare anche un buon ambiente spirituale. I bambini devono essere accuditi, ma ciò non vuol dire che la madre debba passare tutto il giorno a lavarli ed a pesarli, dimenticando le più alte funzioni della maternità spirituale.
Se essa infatti rimane estranea ad ogni, manifestazione di vita sociale ed intellettuale quale compagna sarà per ir marito, quale influenza avrà sui figli ?
Questo inculca l’A. scrivendo a pagina 100:
« Ma pensano queste donne alla qualità dell’incessante cura che dànno ai loro figli ? Possono sperare di allevare dei giovani è delle fanciulle di alto sentire, vibranti a tutti i migliori interessi sociali, se esse medesime vi sono rimaste sorde ? Non sa
rebbe preferibile che le cure materiali fossero anche un po’ meno perfette, pur di dare almeno gualche ora ogni giorno ad interessi superiori, che le aiuterebbero ad allargare" l’animo dei figli? ».
Se la donna fuori della famiglia ha spesso dato cattiva prova di sè, è perchè vi ha Storiato la sua leggerezza e npn la sua pro-ondità, o perchè nell’ebbrezza di una nuova conquista si è presentata al pubblico come concorrente dell’ uomo. Questo suo atteggiamento ha dato sospetto al-l’uomo che non ha voluto riconoscere alla donna il diritto ed il dovere di lavorare al suo fianco, portando un contributo fém-minile, contributo, soprattutto, di intuizione e di cuore.
Su questo concetto, l’A. appoggia con tutto il calore della sua convinzione, poiché le forze maschili e femminili, nel campo dello spirito come in quello della natura, sono fatte per completarsi e non per ostacolarsi.
Come nella vita pubblica la nota femminile porterà una maggior perfezione nell’armonia, cosi sarà della nota maschile nella famiglia, a torto considerata campo esclusivo della donna.
Ma, continua il Lanzillo, « l’inflenza femminile s’accresce proporzionalmente all*allentarsi del costume».
Leggiamo invece nelle Memorie poetiche del Tommaseo (i):
« Ma trovando scritto in più libri che la importanza morale e sociale data al sesso Eiù debole e più delicato è prova non dub-ia della civiltà ed anco della costumatezza di un popolo, écc. ».
Come mai sì stridente contrasto?
Ma, come a proposito della rivolta femminile si tratta solo di distinguere per riflettere che il contrasto è formale e non sostanziale.
Evidentemente il Lanzillo scrive pensando alla nefasta influenza esercitata da certe donne che, sia nella vita pubblica come nella privata, sarebbero sempre state nefaste perchè volgari; méntre il Tommaseo pensava a tutte quelle donne che, nell’ombra o nella luce esteriore, ma sempre in un'alta luce spirituale, ispirano l'uomo nelle vie miglior». E con questo, il rude e focoso dalmata rendeva un particolare
(z) Edizione curata da Giulio S al v adori, pagina 372.
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NOTE E COMMENTI
omaggio alla pia e ardente fanciulla (i) che l’aveva ispirato ad alti pensieri ed a operosa carità, cui, pei riverenza, non aveva mai osato dire una profana parola d’amore.
Lucy Re-Bartlett ha troppo a cuore la distinzione tra questi due concetti per non metterli frequentemente in luce nei vari saggi.
« Quella speciale sensibilità, che è inseparabile dal loro sesso, sarà sicuramente o la loro salvezza o la loro perdizione, a seconda dell’ uso che ne faranno » — e non teme di affermare che nel secondo caso la liberazione della donna sarà: « una schiavitù non certo minore di quella da cui vogliono liberarsi ».
Perciò essa, prima di decantare le delizie della liberazione esteriore chiede alla donna il sacrificio della sua ambizione, della sensualità, della vanità, affinchè, liberata da tali ceppi, possa liberare anche gli altri.
La donna, liberata da se stessa, potrà realmente ispirare, purché abbia svilup-E»ato contemporaneamente le due grandi orze di elevazione e di intensità: la spiritualità e la passione. Sì, la passione è la forza motrice dell’ umanità: qual cosa grande, difatti, è stata compiuta nel mondo, senza la spinta della passione? Solo x una falsa intei prefazione di questa parola ' può averla messa in antagonismo con la spiritualità.
Ricordi la donna. ■ che della passione pura non può fare a meno, e che, sopprimendola, diventerebbe un essere incompleto e sènza valore».
E ancora: -la passione svilupperà ogni sua facoltà più alta, purché essa sappia solo rivolgerla in tutte le direzioni, unendo le passioni della mente a quelle del cuore, gl'ideali agli affetti ».
Ma, vana sarà l’opera e la liberazione della donna se essa non incontrerà sul suo cammino « 1’ uomo nuovo », e tratteggiando l’avvento, forse ancor lontano, di questo no? vello Adamo, l'autrice termina il volume. .
Soltanto quest’uomo più spiritualmente libero potrà essere il degno compagno della donna che ora si rivolta per una causa ideale, della • donna che quest'epoca sta foggiando attraverso le leggi dell'evoluzione e della rivoluzione.
Solo nell’unione tra l’uomo e la donna dello «stesso tipo» vi sarà comprensione,
(i) Si allude a Margherita Giuseppina Rosmini sorella del filosofo Roveretano che si consacrò al bene, tra le Canossianc di Verona.
perciò armonia, quando non lavoreranno tanto l’uno per l’altro quanto tutti e due insieme per una comune idealità religiosa, sociale, famigliare. Opera divina, poiché, come scrive l’autrice: « l'uomo nuovo è creatura di; Dio, non meno dèlia donna nuova — entrambi sono frutto dello spirito vivo — escono dal crogiolo di lunghi secoli, dove molte follie, molti fallimenti, molte conquiste li hanno lentamente .plasmati ».
Qualche scettico, forse molti, potranno dire: qui si vola lontano, sulle ali d'oro della fantasia: ma gli uomini sono spesso scettici sulle idealità altrui perchè non vogliono rinunziare alla loro vita viziosa, e per non voler vivere secondo la luce, la negano e preferiscono rimanere nelle loro tenebre.
La mèta, per quanto lontana, non cessa per questo d’essere la mèta, ed è imperioso dovere, per chi la vede, di additarla e di mostrare la via che ad essa conduce. Questo fa indeffessamente Lucy Re-Bart-lett con serena coscienza, con fiducioso coraggio e con calore «di fiamma viva».
Sì. la mèta è ancora lontana, ma non per questo dobbiamo fermarci all’ombra del « dilettoso colle ». ma Spronarci e spronare. come Virgilio il suo discepolo penitente: • perchè ristai ? ».
Più la mèta è lontana, più dobbiamo aguzzare l’occhio per scorgerla, affrettare il passo, e raccogliere le forze per raggiungerla.
Così, soltanto vinceremo quel primo istante di scoraggiamento e di stordimento che ci prende quando, scendendo dalle pure altezze morali ci ritroviamo a contatto con la volgarità della vita abituale, non dolendoci del sogno poiché: «la fanciulla che sogna il bello diventa spesso la donna che lo esige, e la donna che così esige è la sola che possa elevare ».
Carla Cadorna.
Su « LA NUOVA COSCIENZA RELIGIOSA IN ITALIA» di Paolo Orano
I.
Non senza accorgimento, ritengo, è stata sollevata in Bilychnis una questione che non potrà non interessare chi non ai ri-sultamenti materiali e immediati soltanto, ma anche e più pon mente a quei fattori psicologici che, in rapporto •'Ilo stato sociale post bellum, concorrerà™ ’ a formazione di una nuova coscienza nazionale.
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BILYCHNIS
Certamente tal processo costitutivo non può essere a noi noto se non pei gli elementi che di esso conosciamo; e fissando appunto tali elementi, P. Orano ha, con lo studio che è obbietto di queste mie brevi considerazioni, segnato, per così dire, l'aspetto che la nostra coscienza, esteriorizzandosi, ha assunto nella società, per sè prima e di fronte al cattolicesimo vaticano, poi. Questa reazione del nostro spirito alla tendenza monopolizzatricc delle. anime che la nostra Chiesa va manifestando, l’Orano ha specificamente delineata concludendo, con un dilemma, che il risveglio della coscienza religiosa, se c’è, è .sfavorevole nel cattolicesimo alla Chiesa.
M’è parsa necessaria questa premessa per osservare come l'illustre psicologo eccede quando sostiene, e vorrebbe dimostrare, che nell’attuale guerra l'anima umana, elevandosi col sacrificio, afferma che la coscienza del divino è matura nel-1'Umanità, prova cioè la presenza dei Dio interiore che fa luce e conduce.
Egli assume che come non si può importare un’anima, così non possono indursi i sentimenti che debbono essere, invece, elementi indigeni del paese dove i loro arbusti sono diventati foresta; ammessa la intrapianta-bilità di un sentimento, si desume che, laddove esso esiste.si svilupperà eassumeràde-terminate formesecondo il valore delle cause che tale sviluppo originano. Ed è incontrovertibile tale assunto; ma, in particolare, perchè, con la guerra, si è restaurato il senso religioso? e che cosa è esso? Il senso seligioso, dice ¡'Orano, sorge per la coatta, istintiva subordinazione al terribile; il senso religioso altro non è, cioè, in quel momento, che un sentimento di timore. Possiamo noi, in tale stato psicologico, concepire Dio — come ritiene l’Orano -— identificando così senso religioso e coscienza di Dio? Osservo, anzitutto, che il senso religioso è possibile in tutti, anche nell’àteo a detto Harnack; non in tutti, 6er contrapposto, esiste la coscienza di
•io — Scienza e Coscienza a un tempo, — una concezione scientifica cioè che, come tale, muoye e procede dalla ragione e non dal sentimento. L'Orano ha voluto trascurare tale distinzione, informandosi a una valutazione indeterministica dell’attività umana; infatti Egli afferma che quando l’uomo raggiunge la razionalità e l’ordina-rietà dell’eroismo, quando, in altri termini, opera in vista di un interesse del solo valore, prescindendo totalmente dal costo
personale e materiale, allora la fisiologia e l’economia non vigono più con le loro leggi. È indifferente l’assumere e il dimostrare se l’uomo possa o non possa operare in vista di un interesse del solo valore, essendo bastevole pel nostro argomento soffermarci sulla presunta razionalità e or-dinarietà dell’eroismo. Può l’eroismo, pertanto, essere un fatto razionale e ordinario ? Per avere tal duplice carattere esso dovrebbe, in prima, essere un fatto normale. ciò che non è; la razionalità dell’eroismo, poi, non altro sarebbe che la precisa, completa valutazione del sacrificio della propria vita, « l'incamminamelito cosciente verso la fine quasi certa» (i), la presenza, il dominio assoluto e costante dell’io, nel compimento dell'atto che, perciò, chiamiamo eroico.
Ma intanto è possibile la valutazione razionale di un fatto in quanto tutti gli elementi di tal fatto, ordinario, sono a noi integralmente noti; ora, conosciamo noi l’atto eroico, exira ordinar ittm. in tutte le sue determinanti psicologiche?
Possiamo razionalmente valutare queirincognita che ci sovrasta e ci opprime e che. al momento del cimento, incoscientemente ci lancia in un crogiuolo ove la vista del sangue abbrutisce, ove lo spettacolo della morte rende, per istinto, egoisti, ove trionfa la barbarie più crudele ed orrenda?
Pervenire razionalmente all’eroismo significa, ancora, giustificare l’influenza di fattori annullanti il nostro vero, immutabile patrimonio spirituale; significa ricacciare nelle profonde latebre della coscienza i nostri migliori sentimenti, significa infine valorizzare e giustificare atti che, determinati dall’istinto, si esplicano in un ambito ove ragione non. ha. nè può avere imperio.
II.
Esiste, pertanto, l’atto eroico? Abbiam visto che l’Orano fa risalire tale atto a determinate causali logiche: il Gemelli (2) invece lo nega assolutamente e, osservando come sia illogica la pretesa di poter precisare quale sia il meccanismo dell’atto di valore, lo fa consistere nella inibizione
(1) Enrico San Martino, Guerra e Religione, in Nuova Antologia, fase. 1092, pag. 171.
(2) A. Gemelli, Considerasioni sulla .psicologia dell’alto di coraggio, in Rivista di psicologia, n. 5-6, anno 1915.
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NOTE E COMMENTI
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dell’istinto di conservazione; vi sarebbe così in ogni soldato una personalità psichica propria e una estraneità del proprio Io. Panni, però, che neppure l'opinione del Gemelli possa accogliersi, in tal caso, perchè nè processo di disintegrazione, nè processo di sdoppiamento si determinano nella personalità psichica del soldato in guerra; qualunque sia il grado, qualunque sia la forza dell’istinto di conservazione e qualunque sia l’energia di resistenza del soggetto, avremo, sempre e soltanto, un graduale, inavvertito passaggio dallo stato di ragione allo stato di reazione incosciente e brutale: insomma l’atto di valore si determinerà solo e in quanto si annullerà la personalità psichica del soggetto (soldato).
Concludendo, l’eroismo è possibile ed esiste. Ma non l'atto eroico o il sacrificio o il pericolo, non la guerra con le monte-Flici sue conseguenze psico-biologiche, non avvicinarsi della morte potranno indurre in noi Dio. Potremo, in tali casi, avere una restaurazione del senso religioso, ma non una rinascita e restaurazione della coscienza di Dio; giacché la coscienza della certezza di Dio trascende le contingenze della vita, anche la morte, come la scienza trascende con le sue leggi immutabili i variabili fatti ed avvenimenti umani.
Pel moribondo, pel naufrago della vita, per la vittima, pel debole, esseri tutti che trovansi in uno stato fisiologicamente anormale e, quindi, in uno stato psicologicamente morboso, sarà l'Infinito, variamente simboleggiato, che apporterà tranquillità e lenimento a quelle anime travagliate dal dolore e dalle passioni umane ancora.
Come la nostra psiche si evolve elaborando gli elementi assimilati e su’ quali, inizialmente, si è modellata, così l’idea di uno Spirito animatore (che non è Infinito], la concezione di un Essere superiore a noi Esistenti soltanto, o si evolverà a grado a grado, immutabilmente fissandosi come in un archetipo nella nostra coscienza, o susciterà un coacervo di esitazioni e di dubbi che culmineranno, razionalmente, in quella forma di Scetticismo umano che si chiama Ateismo.
Ma l'Ateo non avrà, non potrà avere, come sostiene il San Martino, la fede di Dio, se tale fede non ebbe mai; avrà o potrà, invece, avere un serico religioso che, sorto istintivamente, cesserà col cessare della sua causa determinante; vicino alla morte, dovunque ed in qualunque modo, uomo che sente ed ama ancora, uomo che
palpita e rimpiange, che commuove ed è commosso, con tutte le passioni, con tutti gli affetti, con tutti i dolori umani, l’ateo ritornerà fanciullo, e sarà religioso, come Suesti, ma non credente; uomo come noi, ¡staccandosi per sempre da noi, sentirà il bisogno di qualche cosa che gli faccia-obliare quelle .passioni, quegli affetti, quei dolori. Sarà Dio o un dio?
P. de Gennaro.
PRO ISRAELE
Fra i problemi che questa conflagrazione mondiale sta maturando, trova un posto non trascurabile il problema ebraico. Ch’esso. venga discusso in modo che possa soddisfare le più legittime aspirazioni d’Israele, allorché passando dalla guerra alla pace si cercherà di gettare le basi d’un nuovo riassetto generale, forma la mira dell’Ebraismo cosciente del mondo intero, nè può lasciare indifferente chi tiene. ? cuore il trionfo d’un regime di giustizia per tutti i popoli o gruppi finora oppressi. E anzi, poiché l’appoggio dei disinteressati serve di credito indiscutibile a chiunque difenda una causa propria, sorse l’idea d’un movimento di non-ebrei in favore delle rivendicazioni ebraiche, dando luogo all’« Associazione non israelitica per la difesa dei diritti ebraici nel riassetto europeo » dal nome riassuntivo «Pro Israele», di cui il primo giuppo fu costituito or è circa un anno a Milano sotto la presidenza del prof. Pietro Bon-fante e retto da un Consiglio di cui fan parte gli onorevoli Agnelli, Cappa e Ga-sparotto, la sig. Ersilia Maino Bronzini, il prof. Ettore Fabietti, Rosalia Gwis Adami, Ada Negri, il professor Bicchieri, ecc. Tenendosi in vivo contatto col movimento ebraico stesso nelle sue varie manifestazioni in Italia e nei paesi dell’Intesa e neutri, e seguendo le fasi dello svolgimento politico, l’Associazione si propone di venire ad una formulazione sempre più precisa dei postulati da presentare nel momento decisivo e di ottenere a loro difesa il largo consenso del pubblico. Nel suo programma direttivo già tracciò i contorni generali di quei postulati, basati sui due cardini del problema: equiparazione giuridica e sociale nei paesi che ancora non la concessero e riacquisto d’un proprio centro in Palestina. E per 3nel che 1 ¡guarda la maggiore estensione eli’opera, il Comitato milanese si è fatto
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BILYCHNIS
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promotore d’un gruppo romano, ora in via di costituzione, e sta incamminandosi verso l'organizzazione (l’un simile movimento in Isvizzera e in Inghilterra. In Suesti giorni con la larga diramazione ’una circolare la « Pro Israele » intende radunare numerose firme che servano ad appoggiare le sue richieste nel momento opportuno.
Ma l’opera dell’Associazione non si svolge senza incontrare gravi ostacoli. Essi son dati da un lato dall’ignoranza se non dall’indifferenza e persino dall’antipatia che regna un po’ da per tutto rispetto a ciò che riguarda l’Ebraismo, dall’altro da obiezioni, frutto degli avvenimenti attuali. Ciò che dovrebbe servire come sprone e incoraggiamento, diventa minaccia di paralizzazione: le riforme russe e le operazioni nell’Asia Minore. Ma le argomentazioni dedotte da questi fatti per combattere la necessità d’un movimento in favore degli Ebrei spesso non son altro che una scusa ben accetta per disfarsi da un dovere incomodo. Ma più che mai l’esperienza avrebbe do-x vuto servire d’insegnamento come siano malfidi i periodi simili a quello che sta attraversando la nostra umanità, ove il passaggio repentino 'da un ordine di cose all’altro, opposti fra di loro, unito alla bramosia di nuovi poteri, dà origine a indietreggiamenti e deviazioni. Non basta che la Russia in questo suo stadio transitorio abbia concesso equiparazione e libertà a tutti i gruppi etnici che la compongono — bisogna ch’essa rimanga salda in questi suoi propositi, che' mantenga ogni sua promessa riguardante il libero sviluppo di vita propria delle masse ebraiche e che il suo esempio sia seguito da altri paesi in cui ancora regna un regime d'oppressione. Nè basta che l’Inghilterra si renda padróna della Palestina, ma occorre, che il suo Governo dia ascolto alle correnti’favorevoli ad un’autonomia ebraica in quella terra sotto il protettorato delle potenze. Rimane quindi necessaria l’opera vigile che cerchi di salvare l’integrità della mèta.
E questo il nuovo carattere che assume l’opera della « Pro Israele » nel momento attuale. E tutti coloro che sentono il dovere di schierarsi dalla parte della Siustizia non dovrebbero disinteressarsi ’un movimento diretto a rivendicare i diritti d’un popolo che per i grandi servizi resi all’umano progresso certo
non meno di altri merita d’essere considerato in ciò che si attende dalla soluzione di questa crisi mondiale. Elga Ohlsen
PRO VERITATE Newman e l’inquisizione
Nel volume testé pubblicato: La Chiesa e i nuovi tempi, l’autore dell’ultimo capitolo : « Chiesa e Morale », in una nota (a pag- 300) incorre in una inesattezza che mi par doveroso rettificare.
A proposito del diritto di punire con la morte i ribelli, che i teologi continuano a rivendicare alla Chiesa, la nota dice: « Vedi, ad esempio, il Cardinale Newman che, nel-Z’Apologia prò vita sua, asserisce che salvare un eretico è pietà falsa e dannosa; è far danno a migliaia di persone e non è neppure caritatevole verso l'eretico stesso ».
Il passo intero del Newman è questo: « In conseguenza di alcune parole da rie scritte nella mia Storia degli Ariani, un’au- -torità del Nord mi criticò, accusandomi di far voti per il ritorno al sangue e alle torture dell’inquisizione. Nel combattere eretici ed eresiarchi, avevo detto: a questi ultimi non si avrebbe da usar pietà : essi fanno le veci del tentatore; perciò, a misura della gravità dei loro errori, le autorità competenti dovrebbero intervenire c trattarli non altrimenti si tratterebbe l’incarnazione del male. Pietà falsa e dannosa è risparmiarli, come quella che mette in pericolo l’anima di migliaia di persone, e riesce a loro stessi nefasta ».
Come si vede, le espressioni del Newman erano molto indeterminate, non si trattava nè di torture, nè di sangue. Il Newman stesso le fa seguire da questa osservazione : « Non posso negare che si tratti qui di parole assai gravi : però si noti che Ario non fu brucialo, ma cacciato soltanto in esilio». Equivale a dire: Io trattavo d’Ariani e di Ario loro capo ; nel mio pensiero, vagheggiando io in quel momento che si ripristinassero, contro i dissidenti dall'ortodossia quale si fosse, le misure repressive una volta adoperate contro di loro, non potevo oltrepassare i limiti delle pene inflitte, ad Ario; ora. Ario eresiarca lo vedevo non altro che cacciato in esilio.
Ma poi il Newman soggiunge immediatamente, come a fare ammenda di quello che aveva scritto tanti anni prima:
• Quanto a me — e cioè, nelle mie disposizioni presenti posso asserire che neanche allora, in quegli anni della mia vita che segnano il periodo dei miei sentimenti più
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NOTE E COMMENTI
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intransigenti, avrei avuto il coraggio di tagliar un orecchio a un Puritano, anzi ritengo che solo il presenziare un auto-da-fè della Spagna mi avrebbe ucciso».
In sostanza: il Newman scrittore del-V Apologia prò vita sua, e cioè del 1864-65, confessa i suoi sentimenti passati, li limita, secondo gli risultano da un sottile esame di coscienza, opponendo la verità alle accuse avventategli contro, e, ove occorra, li ripudia. Non si può dunque citare un passo della vecchia Storia degli Ariani, uscita nel 1830, e nemmeno parole, frasi, sentenze, pubblicate dal Newman nei Tracts for thè Times (1833-35), come tali che rappresentino il Newman definitivo e che nella sua definitiva posizione scrive, per esempio, FApologia prò vita sua.
Questo Newman definitivo ammetteva sì alcune pene ecclesiastiche, ma quale differenza fra l’Anglicano intransigente e sdegnoso del 1830 e il Cattolico del 1865! Dalle vedute repressive e punitive di ordine materiale e poliziesco, egli ascende a vedute semplicemente spirituali.
Rileggiamo insieme, se non altro, queste parole dell’ultimo capitolo (ilV) dell’Apologia : « Finalmente là Chiesa ha il diritto di infliggere castighi spirituali, di sottrarre
dalla corrente vitale divina, di scomunicare quanti rifiutano di sottomettersi alle sue perentorie decisioni ».
E noi diciamo: Newman definitivo; ma, in primo luogo, sappiamo noi come nella larga mente di quell’uomo mirabile si limitassero, almeno per quel che devono servire in pratica e nella loro applicazione, queste pene spirituali ? E, in secondo luogo, in quella coscienza che più progrediva, più -diveniva misericordiosa e bu ìna, possiamo asserire che la professione cattolica del 1865 non subisse delle evoluzioni, massime trattandosi, non già di un punto assolutamente dogmatico, ma più che altro so-' cíale e disciplinare?
Non può essere stato dunque sé non per una svista, certo occorsa per fretta, che il dottor Taglialatela ha citato le viete e ripudiate parole del Newman, quasi appartenessero al Newman « nella gloria del possesso », come il N. medesimo chiamava l’ùltimo periodo della sua vita. Svista tanto più grave, in quanto il dott. Taglialatela mette alla pari due nomi: Newman e Le-picier, non badando che, se il secondo significa ottusaggine e miseria, il primo, è sinonimo di libertà, di larghezza, di serietà e. di luce. Qui quondam.
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RASSEGNA DI FILOSOFIA RELIGIOSA
XVIII.
LA SUBCOSCIENZA
Le parole subconscio e inconscio hanno da tempo diritto di città in filosofìa e in psicologia. E. v. Hartmann pubblicava nel 1869 sua Filosofia dell'inconscio, miscuglio non sempre coerente di scienza naturale, di psicologia induttiva e di metafìsica. L’Inconscio di Hartmann, che l’Hòffding definisce effetto di una reazione neo-romantica contro il realismo della scienza naturale, è un principio spirituale che agisce universalmente nella natura, una finalità latente, che si rivela come istinto nella vita animale, e nella psiche umana coordina, per vie occulte, i movimenti dell’organismo e le sensazioni alla volontà cosciente. Una più alta funzione ha l’inconscio nella vita morale e sociale: esso diventa la intuizione mistica, la fede. « La ragione cosciente non fa che criticare, controllare, correggere, misurare...: ma essa non crea, non scùopre; in ciò l’uomo dipende : n tieramente dall'inconscio, e quando egli perde la facoltà di intendere le ispirazioni dell’incosciente, perde le sorgenti della sua vita, senza la quale trascinerà resistenza uniforme nell’arido schematismo del generale e del particolare. Perciò l’inconscio gli è indispensabile, e guai all’epoca che, per una eccessiva estimazione del cosciente-ragionevole, lo sopprime e lo elimina, per lasciare a quest'ultimo l’assoluto dominio ».
Dopo lo Hartmann, e fino alla Évo-lution creatrice di Bergson, l’inconscio.
una specie di sintesi, positiva più eh dialettica, di natura-spirito, ha avuto molta parte in tutti i sistemi anti-intel-lettuali e prammatistici, ha dato spunti e motivi alle filosofie dell’irrazionale e della volontà.
In psicologia, intanto, e più particolarmente negli studii di psicopatologia, specie con le mirabili ricerche dello Janet, l’inconscio si è venuto conquistando un posto certo e universalmente riconosciuto, e costituisce il capitolo più interessante e . più praticamente utile delle ricerche psichiche sperimentali. I fatti accertati, le ipotesi più o meno verosimili alle quali essi hanno dato luogo, le indagini avanzate sin nel più intimo della costituzione della personalità umana, costituiscono un ampio materiale, sufficientemente vagliato, di cui il filosofo della volontà dovrà tenere il debito conto, anche se esso ò indifferente per la pura speculazione sui concetti e per l’idealismo assoluto. Un volume espositivo di psicologia dell’inconscio, nel quale sono messi largamente a contributo gli studii precedenti, e che insieme è frutto di molteplici e sistematici esperimenti, chiaro, ordinato, senza pretese metafisiche, è quello del medico americano Morton Brince: L’inconscio. I fondamenti della personalità umana normale e anormale (New Jork, Macmillan, 1914). Ci sembra utile dare brevemente il contenuto sostanziale del libro e le conclusioni del P., in un argomento che ha così immediata attinenza con lo studio della personalità morale ed i processi della volontà da non poter più essere trascurato da chiunque si
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occupi di etica, di religione, di pedagogia. Il nesso fra questo ramo della psicologia sperimentale e la metafisica fu già notato da Bergson nella prefazione alla settima edizione del suo Studiò: Matière et »¡¿moire: « Senza contestare alla psicologia nè alla metafisica il diritto di erigersi in scienze indipendenti, noi crediamo che ciascuna di queste due scienze deve porre dei problemi all’altra e può, in certa misura, aiutarla a risolverli. Nè potrebbe essere altrimenti, se la psicologia ha per oggetto lo studio dello spirito umano in quanto funziona utilmente per la pratica, e la metafìsica - non è che questo stesso spirito umano che si sforza a liberarsi dalle condizioni dell’azione utile ed a cogliersi come pura energia creatrice ».
IL SUBCONSCIO
Nello spirito còlto come pura attualità o simultaneità, noi non noteremmo se non ciò che è nel piano e nel foco della coscienza; in esso consapevolezza ed essere coincidono: essere è esser conscio. Ma lo spirito non è solo 'simultaneità; è insieme, e specialmente, durata, attività che si svolge; e due fonti assidue di mutamento sono il diverso rapporto còl mondo esteriore e il variare e succedersi degli stati di coscienza. L’uno e l’altro, in quanto hanno riguardo alla vita soggettiva, sono soprattutto un giuoco di memoria. La percezione non ha che lo sopo di eccitare il ricordo, il quale, permettendoci di giovarci delle esperienze accumulate, è più utile all’azione. Rappresentazioni e idee, nel loro significato attuale per noi, sono in gran parte costituite da ricordi, sono come le sintesi di lina famiglia di immagini, delle quali taluna presente e nuova, altre prese dal ricco magazzino del passato. .
La coscienza ci avverte che molto del nostro passato rimane in noi in forma di ricordo; che cioè noi abbiamo a nostra disposizione un grande numero di immagini e impressioni, che ci è possibile rievocare, ricondurre nel piano della coscienza attuale. L’introspezione e l’indagine di gabinétto vanno assai più oltre. Esse hanno osservato che, nella memoria considerata come un processo, non stanno soltanto le immagini e i ricordi che possono essere consciamente rievocati. Molte cose noi crediamo di non ricordare e non possiamo rievocare che invece sono, in qualche modo, registrate e conservate in noi e che, mediante pro
cessi speciali, spontanei, come il sogno, lo sdoppiamento di personalità, l’allucinazione visiva o uditiva, o artificiosi, come la scrittura automatica, l’astrazione, gli stati ipnotici, possono essere richiamate alla superficie. Il fondo dei nostri ricordi è enormemente più ricco — se anche non si può dire che tutte le esperienze della vita sono registrate — di quel che la volontà ci permetta di consapevolmente richiamare. Questo fondò di memoria inconscia ha, come vedremo, una sua vita curiosa. Elaborazioni inconscie avvengono di esse; calcoli matematici, trascrizione di esperienze in simboli e in rappresentazioni criptiche, che poi appariscono nel sogno, associazioni inconsapevoli di gruppi di immagini, che possono essere riprodotte per suggestione esteriore, nell’ipnosi, amnesie di vario genere riguardanti o un dato periodo della vita, o un gruppo di esperienze determinato, distaccato dalle concomitanti; distacco dalla personalità cosciente di famiglie di immagini e di emozioni, le quali possono talora costituirsi in personalità laterale o secondaria, che si alterna con la personalità consapevole.
Un esame più accurato ci mostra che l’antitesi da noi posta fra coscienza e inconscio non è poi così netta. Gli esperimenti ipnotici mostrano che la percezione attuale si estende ad oggetti che non entrano nel foco della coscienza, ma ne costituiscono la frangia o il margine. Noi non abbiamo coscienza di avere visto e sentito, oltre quel che chiaramente percepimmo; e pure mediante la suggestione ipnotica siamo messi in grado di descrivere dettagliatamente quello che non ci eravamo accorti di aver visto o udito. Così, parimenti, nelle nostre percezioni, accanto a quello che è nettamente consaputo, noi possiamo ritrovare tracce accumulate e sistemate di innumerevoli esperienze precedenti, le quali non appariscono e pure son lì a dare alle nostre rappresentazioni il loro E reciso significato soggettivo ed alla vo>ntà l’indirizzo pratico dell’azione.
Il Prince è stato così indotto ad una distinzione dell'inconscio la quale ha nel suo sistema una importanza notevole. Subconscio è tutto quello che, pur avendo rapporto a processi di coscienza, è fuori della chiara consapevolezza; ma di esso una parte è ancora fatto di coscienza, più tenue e quasi concomitante, nei processi psichici, percezioni ed immagini consciamente avvertite; è come se occupasse
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un posto secondario e subordinato nel campo della coscienza, alla frangia e al margine, ovvero ad un piano interiore di questa; oppure è come se, ad es., nei processi ipnotici e nelle personalità secondarie, l’autocoscienza si velasse per lasciar posto a fatti psichici grezzi. Questo subconscio, che è nella coscienza e ne fa Sarte attuale o potenziale, il P. propone
i chiamare conconscio. L’appellativo di •, non-conscio (inconscio) sarebbe invece riserbato a favi e processi puramente fisiologici, alla Ux scrizione meccanica ed automatica dell’« perienza revocabile.
NEUROGRAMMI
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È questo un punto di molta importanza in cui la psicologia si incontra con la riie-tafisica. La questione è, in fatti, di spiegare la realtà di quel mondo fìsico e psichico che costituisce il passalo della coscienza umana; un passato non intieramente sommerso, ma che fa parte implicitamente e inconsciamente della attualità, nella misura in cui l’esperienza precedente è conglutinata nella conoscenza attuale o nell'azione riflessa o giace dormente a disposizione del ricordo quando questo lo indaghi e lo susciti. Le ipotesi, invero, addotte a spiegare questa potenzialità concreta dei ricordi, sconfinano nella metafisica. Il P., al quale pure ripugna la confusione fra psicologia e metafisica, non può non ricordarne alcune; come la mente subliminale di W. H. IL Meyers, una specie di coscienza totale profonda di cui solo una fi azione ci e presente e quasi si illumina a ciascun momento e che costituisce come il substrato della realtà spi-chica; o ressero psichico indifferenziato di altri, una specie di anima plastica, mal distinta dal pan psichico, in cui la personalità consapevole, pur distinguendosi come attualità concreta, affonderebbe le radici.
Il P., medico, preferisce una spiegazione più semplice: una memoria puramente fisiologica, una trascrizione dei ricordi e delle esperienze passate nell’organismo/ e più specialmente nella materia cerebrale: un residuo, insomma, di carattere fisico, spiegabile con ragioni chimiche o meccaniche. E il P. cita alcune ingegnose ipotesi di Roberto», Rignanoed altri. A questi residui fisici del ricordo, o neuroni cerebrali sensibilizzati, egli propone di dare il nome di neurogrammi; limitandosi a spieerc la fondatezza di questa ipotesi psicotica, senza entrare in discussioni metafisiche. Nè la posizione è insostenibile, anche da un punto di vista idealistico, che ripudii cioè il parallelismo psico-fìsico. Qualunque opinione, infatti, si sostenga sulla natura della materia e dello spirito e del loro insieme, certo è che i fatti psichici hanno un equivalente meccanico e che c’è in essi una gradazione, secondochè dal primo apparire della sensazione e della coscienza ci eleviamo alle più alte e pure forme di speculazione trascendentale. Dire adunque clic taluni fatti elementari e fondamentali della vita psichica, come è questa congerie di esperienze passate, consérvate quali ricordi possibili, ci appariscono solo come precedenti e condizioni fisiologiche aventi essere nell'organismo, capaci di tradursi di nuovo in un processo cosciente, è presumere non una dottrina dualistica, ma solo la complessità di un organismo e di un processo che ci si rivela a un tempo, c in diversi aspetti, come natura c come spirito.
•Così il Bergson, che pure sostiene sulla memoria e sui suoi rapporti con là materia una teoria che si oppone risolutamente alla tesi del P., qùaloia a questa si volesse dare un qualsiasi significato metafisico, sostiene tuttavia che il ricordo è bensì pura attività spirituale ma si giova del cervello come di uno strumento di azione, per trasmettere e distribuire i movimenti ai quali mira l’intenzione pratica evocatrice del ricordo stesso: e che quindi l’azione del passato si può immagazzinare nell’organismo sotto foima di dispositivi motori(1).
Anche Th. Ribot, in un lavoro pubblicato contemporaneamente a quello del P.: i.a vie inconsciente et les mouvements (Paris, Alean, 1914), giunge alla conclusione che « il fondo, la natura intima dell'inconscio non debbono esser dedotti dalla coscienza — che non può spiegarli — ma vanno cercati nell’attività motrice, attuale o conservata allo stato latente ».
In queste disposizioni di neuroni acquisite od innate, di qualsiasi natura esse siano e qualsiasi il loro rapporto con l’atto spirituale del ricordare, noi abbiamo una concezione dell’inconscio certamente par(x) Del Bergson, oltre il celebre scritto: Matiire et' Mémoire, si può anche vedere la conferenza: «L’âme et le corps, nel volume: Le matérialisme actuel, Paris, Flammarion, 19x3.
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zial© e bisognosa di una ulteriore interpretazione filosofica, ma definita e precisa,. Quantunque la funzione teleologica principale dell’inconsció, così inteso, per quel che riguarda le disposizioni acquisite, è di provveder materiale per la memoria c per processi coscienti, perchè l’uomo possa consapevolmente condursi, nelle sue reazioni, con l’esperienza, tuttavia, in certe condizioni, i ncurogrammi possono funzionare come un processo subconscio, che può anche essere inconscio, cioè non accompagnato da equivalenti conscii. E il P. mostra che probabilmente ogni neuro-gramma deposto dalla esperienza della vita può, dati certi altri fattori, funzionare subconsciamente, o autonomo o come parte di un largo meccanismo che abbraccia insieme elementi conscii ed inconscii.
CONCONSCIO
L’importanza di questa zona ultramarginale o sub-liminare della coscienza apparisce più manifesta quando la si metta m rapporto con la zona marginale di' essa e, quindi, per gradi insensibili, con la coscienza centrale medesima. Questa importanza è tanto più grande se, come noi riteniamo, contro il P., la differenza fra le varie forme di memoria non è di natura ma semplicemente di gradò. La vita dello spirito ed il costituirsi della personalità umana, estendendosi, oltre il campo della coscienza esplicita, ad una vasta zona di penombra e di ombra, ci si rivelano assai più ricchi e complessi; e molti fatti, si spiegano che la sola dialettica del conscio non riusciva a spiegare; ad es., l’influenza di disposizioni ereditarie nello sviluppo della personalità; la« forza, talora occulta, del passato nel creare in noi abitudini e nel decidere della nostra condotta, i contrasti vivaci fra diversi o quasi opposti gruppi di rappresentazioni, di interessi e di emozioni, certi rivolgimenti all’apparenza improvvisi, come ad es.» le conversioni religiose, taluni metodi di ascesi mistica e tutti i fenomeni morbosi dell'isterismo e di varie forme di psicosi. La psicogenia di idee e di azioni e di gruppi di idèe o sistemi di azione è spesso assai facilmente scoperta mediante questa indagine nel margine ed oltre il margine della coscienza.
Lo studio delift psicosi getta una viva luce sui procedimenti della cosciènza normale. Esso' permette di cogliere nel vivo questi processi conconscii, isolandoli e re
gistrandoli. Come avviene per i processi inconscii, ogni esperienza conservata della vita, sotto certe condizioni e dati certi altri fattori, può funzionare in forma conconscia, specialmente se organizzata e messa in moto da una disposizione emozionale innata. Questi processi conconscii, i quali includono vere percezioni, memorie; pensieri, volizioni, immagini, ecc., con o senza equivalenti conscii, rivelano spesso ed implicano un alto uso dell’intelligenza.
Il P. mostra, con larga esemplificazione, come una idea conservata può subire una subconscia incubazione ed elaborazione; e come spesso processi subconsci possono acquistare un grado spiccato di autonomia, determinare o inibire processi conscii di pensiero, risolvere problemi, entrare in conflitti e in vario modo produrre ogni sorta di fenomeni psicologici: allucinazioni, fatti impulsivi, abulia, amnesia, dissociazione di personalità, ecc.
Le esperienze della vita è le disposizioni acquisite tendono ad organizzarsi in gruppi quasi per preparare economia di sforzi nella rievocazione che se ne fa per intenti pratici. Questi gruppi acquistano infatti una unità funzionale; e possono organizzarsi in gruppi sempre più vasti. Essi divengono parte della personalità ed hanno una funzione notevole' nello sviluppo di questa, favorendo od ostacolando le direttive volontarie dell’azione. Quando tali complessi si sono organizzati intorno a forti toni emozionali essi possono provocare conflitti che conducono alla inibizione di sentimenti antagonistici e talvolta alla contrazione od anche alla scissione della personalità. E notevole è anche che tali complessi possono essere artificialmente creati o modificati mediante l’ipnosi e divenire così un mezzo terapeutico. Associazioni e dissociazioni di complessi psichici, prodotte durante l’ipnosi e quindi senza coscienza dèi soggetto, continuano la loro azione subconscia anche quando questo è tornato alla coscienza normale; e modificano così abitudini, carattere e condotta, mettendo quasi a nudo il meccanismo di una personalità e l’automatismo che si accompagna ai processi coscienti e volontarii.
IDEE ED EMOZIONI
Introdotto così questo largo margine di coscienza diminuita e latente nella vita dell’io empirico, stabilita l’esistenza di correnti sotterranee di attività psichica.
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di gruppi e complessi, spesso vastissimi, di rappresentazioni e di sentimenti che talora si sottraggono più o meno, anche nelle persone normali, alle direzioni dell'io etico e sorgono anche alla consistenza di una personalità secondaria, è necessario vedere quali forze muovano questa molteplice attività interiore, intorno a quali nuclei si organizzino questi complessi subconsci! e con quale processo normalmente li accolga in sé la vita cosciente e se ne giovi per l’azione.
Alla luce di questa psicologia induttiva, gli elementi della rappresentazione e della conoscenza, quale che sia il loro contenuto metafisico, appariscono come scopi, acquistano un significato e un valore pratico. L’io si taglia, diremmo quasi artificialmente, nel mondo esteriore, inteso come possibilità di sensazioni o sómma di immagini, una sua sfera, che è quella che lo interessa praticamente; un lavoro assiduo e spontaneo, nella vita normale, tende a lasciare od a rigettare nell’ignoto, ad obliterare, a non avvertire quello che non giova agli scopi dell’azione ed offrirebbe a questa una moltiplicità confusa e incoerente. Anche dal punto di vista psico-fisiologico l’io organizza e costruisce il suo móndo, che risulta in gran parte dall’esperienza trascritta, accumulata, dall’inserzione del passato nel presente, dalla previsione che è memoria, dal collocamento delle singole rappresentazioni ed idee in un complesso psichico nel quale soltanto esse acquistano il loro concreto e definito valore di espressione.
.Ciò che dirige questa attività, dello spirito, nei varii gradi che precedono l’esercizio della libertà e lo rendono pratica-mente possibile, sono le emozioni; stati affettivi discendenti talora da disposizioni innate e che agiscono come istinti, talora sviluppatisi come forme concrete dell’attività volitiva contingente. Sulle emozioni, abitualmente distinte in primarie e secondarie, il P. ci dà pagine di psicologia molto suggestive. Egli ci mostra il processo delle emozioni fondamentali, che si innestano sull’istinto e provvedono la forza impulsiva che reagisce allo stimolo e prepara la risposta ad esso, nell’azione. Queste, emozioni associano e vincolano a sé talune rappresentazioni ed idee; il'sentimento è una idea con la quale una o più emozioni sono organizzate. L’attività mentale è uno dei decorsi, e talora il più importante, dell’impulso di una emozione; e solo per la
forza di questo lo spirito agisce pratica-mente. « Togliete — scrive il P., citando un altro psicologo, il Me. Dougall —- queste disposizioni istintive, con i loro potenti impulsi, e l’organismo diverrebbe incapace di qualsiasi sorta di attività; esso starebbe muto e senza moto come un magnifico meccanismo di orologeria a! quale fosse stata tolta la molla 0 una macchina a vapore col fuoco spento. Questi impulsi sono le forze mentali che mantengono e foggiano tutta la vita degli individui e delle società e con esse noi siamo dinanzi al mistero centrale della mente e della volontà ».
L’organizzazione di emozioni con idee Per farne dei sentimenti è essenziale per autocontrollo .e per la regolarità della condotta. <« Senza 1 sentimenti, la nostra vita emotiva sarebbe un caos, senza ordine, consistenza o continuità di sorta... Solo mediante l’organamento sistematico delle emozioni in sentimenti è reso possibile il controllo della volontà sugli impulsi immediati delle emozioni. Anche i nostri giudizi di valore e di merito sono regolati dai sentimenti, e i principi morali hanno la stessa origine ».
• Si può dunque dire che.una delle principali funzioni della emozione è di provvedere la forza di conato la quale permetta alle idee di verificarsi come scopi e la principale funzione dei sentimenti è quella di controllare e regolare le emozioni.
Non possiamo seguire il P. nello studio che gli permette di confermare con l’esperienza questi principii; e specialmente nell’esame pratico dei conflitti di emozióni, i quali sono l’origine di tutta là patologia delle personalità.
Ognuno vede la fecondità di questi principi applicati allo studio della vita morale; essi ci permettono, ad es., di distinguere le dottrine astratte, le teorie e i sistemi, dalle emozioni e dai sentimenti che sono la base vera della vita religiosa; e di meglio precisare la natura della fede, associazione di idee con emozioni nel sentimento religioso.
LA PERSONALITÀ
Da questo esame della funzione dell’inconscio nella vita psichica il P. si ritiene autorizzato a dedurre che la personalità è una faccenda complessa, nel cui costituirsi entrano molti fattori, alcuni acquisiti ed altri innati. Ciascuno di essi è capace di maggiore o minore autonomia
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e dalla loro armonica cooperazione dipende il più ©«meno felice adattamento di una personalità al suo mondo ambiente. Quando questi fattori lavorano a propositi con-tradittorii la personalità si disgrega.
Il P. conclude: « La coscienza non è una unità se non nel banale significato empirico di questa frase. La "unità di coscienza ” è una espressione vuota di senso, !>ronunciata prima da qualche ingenuo fissolo e ripetuta di generazione in generazione come un articolo di fede, senza alcun tentativo di darle un preciso significato riferendosi ai fatti. Questo riferimento non suffraga l’unità della coscienza. La mente è piuttosto un aggregato di attività potenziali o funzionanti, alcune delle quali possono combinarsi in processi funzionali associati a un certo tempo ed altre in altro tempo; mentre invece queste differenti attività possono anche disgregarsi, risultandone una contrazione della personalità ovvero una molteplicità di tendenze e processi volitivi in conflitto gli uni con gli altri.
«L’inconscio, rappresentando tutta la esperienza passata della vita che è stata conservata, non si limita ad alcun tipo particolare di esperienza; nè i processi subconscii e conscii ai quali esso dà luogo sono determinati solo da alcuni particolari antecedenti, ad es., come alcuni sogliono sostenere, dall’infanzia. Nè sono motivati da alcuna particolare classe di istinti (ad es. come vogliono il Freud e la sua scuola, dall’istinto sessuale), ma da tutti gli interessi della vita. Gli istinti ed altre disposizioni innate fondamentali sono multiformi, e ciascuna di esse può fornire la forza impellente che mette in azione processi conscii o subconscii. Spinti da una delle combinazioni di un gruppo di questi istinti, complessi inconscii possono subire inconscie elaborazioni e nello sforzò di darsi una espressione -lavorare per l’armonia o per la discordia della personalità ».
In queste conclusioni noi dobbiamo vedere il fisiologo piuttosto che lo psicologo. L’unità della coscienza non è oggetto di constatazione empirica e non può essere fohdata che trascendentalmente. L’indagine psicologica non vede che la molteplicità ed uno sforzo verso l’unità, con le sue vittorie e le sue sconfitte. L’unità non è nella coscienza, intesa come congerie di immagini e di disposizioni motive, ma nell’io, impulso vitale svolgentesi nell’uomo verso la creazione di una personalità mo
rale, che dei dati della coscienza e dell’apparato motore si serve per Vazione, legge suprema della vita normale. Bergson ha dimostrato questo magnificamente nel lavoro citato.
La psicologia non è chiamata a risolvere problemi metafisici se pure, come ho detto, li rasenta e ne chiarisce taluni dati. E a ragione M. P. protesta sdegnosamente contro l’abitudine non vinta di farne (come è, ad es., nei nostri programmi di filosofia Ecr il liceo) un ramo o una parte della losofìa. Dichiarandosi incapace di raggiungere l’unità della coscienza essa non fa che fissare i limiti del suo metodo.
INCONSCIO E SPIRITISMO
A proposito di inconscio segnaliamo un interessante studio del prof. È. Morselli in Luce ed Ombra, gennaio-febbraio 1917, « sulla origine subcosciente delle cosidette personalità spiritiche ». Il M., con molta conoscenza di fatti medianici, dimostra facilmente, polemizzando con lo spiritista E. Carreras, come le pretese evocazioni di spiriti negli esperimenti medianici non sieno che una speciale forma di suggestione ipnotica operata sul medium e sugli assistenti e lavorante con elementi subconscii, dei quali son fatte queste pseudo-personalità.
R. OTTOLENGH1
Dobbiamo ricordare qui questa singolare figura di studioso e di fervido sostenitore dell’ebraismo, che, in seguito a nevrastenia, si è tolta recentemente la vita, in Acqui, sua patria. Spirito inquieto, roso da una sottile febbre di ideale, 1'0. esaltò in numerosi scritti, fra i quali più notevoli i tre volumi delle Voci di Oriente, l’ebraismo, come egli lo intendeva, altissima teocrazia di un Dio di giustizia, su di una società di uomini asceticamente devoti alla santità, tenaci assertori di ogni giustizia contro l’iniquità umana, individuale e sociale. E la religione più pura egli vide nell’anima orientale, mistica e contemplativa, che accetta la vita come un servizio durò per il regno, ma si raccoglie e si isola e si espande nelle tacite unioni con Dio.
Critico implacabile del cristianesimo, nel quale vide una degenerazione dello ebraismo, compiuta in special modo da Paolo e dai suoi seguaci, nell’adattamento che vollero farne all’attivismo irrequieto, essenzialmente naturalistico e mondano.
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della società occidentale, egli non intese e non volle intendere questa anima occidentale; e non vide come questo conflitto fra attività e ascesi, fra esilio e patriottismo, fra cielo e terra, era il segreto stesso della storia, così come fu il segreto del suo stesso spirito e lo spinse a tentare mille vie. ed a lasciarle disgustato e lo dilacerò e finì con lo spezzarlo.
A lui parve, in qualche modo, di riconoscere il suo messianismo nel socialismo più dommatico; ed a questo diede il suo nome e contributo di scritti e di denaro, sino all’ultimo. Fu contro la guerra c forse le sue simpatie andavano piuttosto verso la Germania; certo . non apprezzò lo spirito dell’Intesa e la sincerità della Srofessione degli ideali per i quali questa ¡chiara di combattere. Non sappiamo se la rivoluzione russa, il più grande evento, da secoli, nella storia della dispersione
ebraica, abbia in parte modificato le sue vedute a questo proposito.
L'ultimo volume di lui pubblicato si intitola: Farisei antichi e moderni (Firenze, Ass. dei LL. Credenti, Viale Amedeo, 42). Esso c scritto con grande abbondanza di erudizione e di eloquio, con calda passione, in uno stile nervoso e spezzato, talora enfatico, ma senza molto metodo; come per bisogno di uno sfogo personale, più che per un abilmente congegnato programma di studio e di dimostrazione. Ha anche esso vedute originali e paradossali e pagine bellissime. È lavoro di un emotivo, coltissimo ed acuto, più che di uno studioso.
Rimpiangiamo vivamente l’anima nobilissima e lamentiamo l’amara perdita, tanto più dolorosa dato lo strettissimo numero di italiani che sono animò, e anime religiose.
m.
LETTERATURA DI GUERRA
LA GUERRA E LA VITA RELIGIOSA
Jamòs Moffatt ' riferisce sull’JwmcaM Journal of Theology alcune impressioni sull’influenza esercitata dalla guerra sulla vita religiosa della Gran Bretagna.
Riconosce fin dal principio che questa influenza non è stata così potente come un osservatore profano potrebbe supporre, c prevede come probabile che essa’ non lascerà dietro a sè notevoli cambiamenti, paragonabili anche da lontano a quelle previsioni di rivoluzioni, che gli osservatori politici presagirono almeno in due delle nazioni combattenti. « Finora si sono adempite le parole della Profezia di Daniele. « Molti saranno purificati e raffinati...: ma i cattivi agiranno malamente, e nessuno di essi comprenderà... ». La guerra non aumenta il nùmero dei buoni: e se rende migliori quelli già buoni e stringe più strettamente i loro legami con l’invisibile, intensifica anche la frivolezza e l'egoismo degli altri come ha fatto sempre. Quelli che spingono lo sguardo
innanzi in cerca di un risveglio religioso restano delusi: ed è bene che lo siano. È vero che le Chiese sono frequentate forse come prima, e in pochi casi anche di più, ma non vi è alcun sintomo esterno che indichi lo stringersi alle Chiese di quelli che prima aderivano, ad esse solo debolmente, ó che non vi aderivano affatto... E forse possiamo congratularcene. Si sarebbe potuto avere un ritorno al Signore Dio degli eserciti ed uno sfruttamento del Cristianesimo negli 'interessi di un patriottismo di bassa, lega-. Noi invece non abbiamo cantato inni di odio: i duci responsabili del pensiero religioso hanno evitato accuratamente la tentazione di fare un feticcio della frequenza alla Chiesa. Nessun espediente etico o revulsivo è stato adottato per affollare le chiese. I servizi religiosi sono condotti con più o meno la stessa cura e intensità come per ¡’innanzi: e ciò è una prova che la guerra non ha prodotto, come facilmente avrebbe potuto, un tipo sensazionale ed entusiasta di religiosità che sarebbe altrettanto demoralizzante quanto lo sono
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alcuni di quei risvegli manifatturàti in tempo di pace da missionari di professione ».
Lo scrittore esamina quindi l’aumento di efficacia delle idee cristiane di preghiera, espiazione, immortalità, prodotto dalla guerra
Vi è stato nell’insieme un-aumento di sano interesse nella preghiera: non come un mezzo superstizioso di attirare i divini favori, o un grido involontario strappato dal panico, ma quale sottomissione e* umiltà morale.
Il concetto di espiazione è emesso nella mente del popolo sotto la luce del sagri-fizio. La guerra ha mostrato esservi delle cose che possono solo ottenersi, non con pii discorsi, ma con l’effusione del sangue.
Cappellani sul fronte riferiscono spesso che 1 soldati ritornano con ardore alla idea dell’amore redimente di Cristo, e quelli che non vanno a combattere riconoscono nel sagrifizio che soldati e marinai fanno di sè stessi, quello che questi sarebbero gli ultimi a pensare, cioè una illustrazione di quell’amore che dà la sua vita per gli altri. Anche più vitale è stato il richiamo . all’idea d'* immortalità. Migliaia di persone hanno acquistato un interesse affatto nuovo per il mondo di là. È vero che esso ha anche prodotto un risveglio di forme superstiziose, ed ha in alcuni circoli giovato allo spiritismo: ma a parte questo, anche l’inteiesse cristiano ne è stato ravvivato.
Non è possibile di illudersi sopra un desiderio crescente, di un vangelo che abbia qualche messaggio definitivo da dare sulla vita dopo morte, benché non sia ancora Eossibile prevederne il risultato teologico, he una nuova ricostruzione teologica avverrà è più che probabile, ma al presente l’unica cosa possibile è di sentile alcuni degli impulsi e delle inconsapevoli tendenze... Un altro punto l'A. crede degno di nota, cioè la modificazione dei rapporti fra lo Stato e le Chiese libere cristiane, le quali « hanno meglio aperto gli occhi e riconosciuto la funzione dello Stato quale entità morale non meno che materiale, mentre la loro coscienza è assorta alla percezione della verità, che nessuno può vivere a sè, neppure una Chiesa ». Dello sforzo capitanato dal leader battista G. H. Shakespeare Cer una cooperazione fra le diverse «Chiese ibere» inglesi, l’A. si rallegra e scrive: « Se una cosa è certa, essa è che i nostri uomini torneranno dal fronte impazienti di tutte le piccole e grette divisioni reli
giose domestiche, con un disprezzo per l’attrito e-lo spreco causato dalle tradizionali sottodivisioni del Cristianesimo ecclesiastico ed esigeranno che siano gl’interessi centrali a dominare ogni cosa: non più interessi secondari, ma valori per cui valga la pena di vivere e di morire ».
E soggiunge: « Su larga scala, si può dire che le Chiese sono riuscite a concentrare la loro attenzione sul bisogno di mantenere un costante spirito di resistenza,' d’impedire scoppi insensati di odio, e di farsi interpreti dei doveri di sacrifizio, unità, economia ».
« In tempo di pace, il tono dei servizi religiosi è atto a suggerire piuttosto una diminuzione di vitalità: il Cristianesimo è spesso presentato in modo da far domandare agli uditori se esso possa avere alcun rapporto vitale con le responsabilità del loro tempo. La guerra ha eliminato dal culto questa sorta di spirito debole e languido: e si può dire chele Chiese si sono levate all’altezza delle circostanze... Molti dei nostri migliori fedeli, pur non dubitando del bisogno di un trionfo schiacciante negli interessi della civiltà, si domandano se essi ne sono meritevoli; si domandano se nulla vi sia nella loro vita, che impedisca il trionfo di Dio, e se possa la vittoria essere affidata alle loro navi...: essi pregano perchè la nazione acquisti una tale tempra di spirito da potersi fare incontro all’esito della guerra e all’assestamento finale con fermezza morale e con un senso più profondo delle proprie responsabilità verso Dio.
La guerra ha spinto molte persone a pensare, e spesso in modo confusionario; agli ultimi problemi della giustizia di Dio, delle sofferenze umane, dei rapporti fra Cristo e il Cristianesimo organizzato. Si è inteso spesso risuonare il grido che il, Cristianesimo ha fatto fallimento: benché, debbo confessarlo, in bocca a persone che, di regola, sembravano avere investito ben piccolo capitale negli interessi cristiani prima della guerra.
Credo invece più onesto il dubbio, se gli interessi nazionali e militari possano conciliarsi in alcun modo con gl’insegnamenti di Gesù; c questo ha dato occasione di mostrare che il Cristianesimo non è la riproduzione di regole e regolamenti adatti ad una setta priva di responsabilità politiche, qual’era il Cristianesimo del primo secolo, ma che esso ha avuto una storia, in cui Dio ha continuato a vivere e insegnare...
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Walt Whitman, al termine delle sue note sulla guerra civile americana, scrisse che la vera guerra, con il suo inferno e il suo sfondo diabolico, non avrebbe mai potuto esser fissata su di un libro. Ciò non è men vero del luminoso spirito religioso che risplende attraverso le ombre, c di cui solo alcuni raggi possono giungere ai posteri... Credo che un critico imparziale ammetterebbe, che uno dei lineamenti più promettenti della situazione, dal punto di vista religioso, è questo: che noi siamo riusciti ad evitare lo spirito di odio come non vi riuscimmo durante le guerre napoleoniche, quando per molti l’odio di Napoleone soppiantò l’amore di Dio... Io so di persone che si sono lamentate quando i loro ministri omettevano nelle pubbliche preghiere quella per i nemici, ed una delle più frequenti invocazioni nei servizi religiosi è stata che noi « ricordiamo sempre il bene degli altri ed il male che è in noi ».
In ultimo è notevole aggiungere che la guerra non ha quasi avuto effetto tangibile sull’opera delle missioni estere..., e il soccorso finanziario ha affluito senza diminuzione, non ostante tanti altri appelli alla borsa dei fedeli. Si riconosce ancora che le missioni sono pel Cristianesimo d’importanza strategica suprema....
CHE AVVERRÀ DOPO LA GUERRA?
Charles Robinson, in un articolo sulla Construclive Quarterly, trae interessanti e confortanti induzioni dalla storia delle grandi crisi nazionali. • Noi non possiamo prevedere l’avvenire —- egli dice — nè tentare di profetizzare in modo definito ciò che avverrà, ma vi è fondamento di sperare che il termine della presente guerra segnerà l’ingresso di una nuova èra, in cui i principi cristiani saranno riconosciuti ed ammessi nelle nostre nazioni e propagati in altre terre per mezzo dèlie Missioni Cristiane ». La storia del passato ci ha ripetutamente mostrato che la guerra... è stata precorritrice di grandi sbalzi innanzi, del progresso morale e spirituale della vita delle nazioni.
Il giorno in cui scoppiòla presente guerra, (i° agosto) gl’israeliti commemoravano il duemila e cinqueccntesimo anniversario della distruzione del loro primo Tempio. Ora fu questa distruzione che spianò la via alla diffusione del Giudaismo fuori della Palestina e aprì ai profeti d’Israele la visione della vocazione missionaria della loro
nazione... In un periodo posteriore, dopo la guerra che terminò con la distruzione del loro ultimo Tempio e con la loro più completa dispersione, le visioni dei loro profeti cominciarono ad adempiersi... e la dispersione degli Israeliti rese possibile la trasformazione della loro teocrazia nella Chiesa Cristiana universale.
Nei tempi più recenti possiamo pure constatare un rapporto tra la guerra e lo sviluppo di uno spirito di sagrifizio, che trovò la sua via in uno sforzo rinnovato per promuovere lo stabilimento del regno di Dio sulla terra. La prima società missionaria sorta in Inghilterra, intitolata: « La Società Ser la propagazione del Vangelo nella uova Inghilterra », fu fondata nel 1649, al termine della Guerra Civile, per opera del Parlamento inglese dietro suggerimento di Oliver Cromwell, e tutt’ora continua la sua opera salutare tra gli Indiani nel Canadà. La «Società per la propagazione del Vangelo nei paesi esteri • fu fondata nei 1701, in un intervallo fra due lunghe ed esaurienti guerre in cui l’Inghilterra fu immischiata. Tra il 1792 e il 1804, durante l’infierire delle guerre napoleoniche, furono fondate non meno di cinque società inglesi a scopi missionari. Le circostanze in cui fu fondata, nel 1804, la «Società Bibblica Britannica ed Estera » (British and Fo-reign Bible Society) così furono descritte da uno dei suoi segretari: « Fu il dì 7 marzo dell’anno 1804, mentre Napoleone stava spiando l’opportunità di avere le sue sei ore di sopravvento nel Canale della Manica, che 1 nostri antenati scelsero per fondare quella che è ora la grande « British and Foreign Bible Society ».
« Erano quelli giorni quasi di panico; la nostra muraglia di legno era screditata; il nostro Consolidato era Sceso al 54 una pagnotta di quattro libbre (meno di due chili) costava quasi due lire; la neve in alcune parti dell’Inghilterra era alta circa tre metri, e le sofferenze dei poveri erano indescrivibili. Il Governo aveva già emanato un decreto per la conservazione dell’ordine pubblico nel caso di un’invasione. I cavalli stavano pronti coi finimenti indosso, per trafugare via da un momento all’altro il tesoro della Banca d’Inghilterra e nasconderlo nella cripta della Cattedrale di Worcester; tutta Londra era un campo armato. Eppure fu iù questi giorni di prove, di ansietà e di guai, di cui era impossibile prevedere la fine, che nella casa di un buon commerciante di Londra per nome Hardcastle,
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in una stanzetta che guardava sul Tamigi... si adunarono alcune pie persone, e fondarono una Società che avesse per scopo il progresso e il miglioramento di tutte le nazioni ».
Venendo a tempi anche più vicini a noi, troviamo che gli anni che seguirono immediatamente la guerra civile americana furono contrassegnati da una ondata di entusiasmo missionario senza riscontro nella storia dell’America. E nel periodo che seguì immediatamente la guerra franco-tedesca, non ostante la terribile penuria finanziaria in cui versava la Francia, vi fu un’espansione senza precedenti di Missioni Cattoliche sorrette dai Francesi, insieme ad una corrispondente espansione di Missioni Protestanti in Francia... Non abbiamo noi, per cui la diffusione della fede di Cristo fornisce la sola speranza di stabilire la pace e il buon volere fra tutte le nazioni della terra, motivo di sperare che ciò che avvenne 100 anni fa in Inghilterra, 50 anni fa in America c 40 anni fa in Francia, avverrà di nuovo nella nostra Europa?...
Intanto possiamo attingere conforto nella notizia, che in Germania il vincolo di unione che stringe quelli che sono stati sostenitori delle Missioni Estere a quelli che in altre nazioni lavorano allo stesso obbiettivo è rimasto saldo ed integro. Il dottor Mott (presidente del « Movimento Cristiano degli Studenti ») il quale, dopo lo scoppio della guerra passò unTiotevole tempo in Germania, cosi scrive in una rivista americana: a ...Il movimento missionario e il « Movimento Cristiano degli Studenti » sono i soli movimenti che abbiano preservato la loro solidarietà... Un momento dopo che l’incubo di questa guerra sarà passato, essi procederanno innanzi insieme nella opera comune di costruzione del mondo. Io sono stato spettatore del più grande miracolo che il mondo abbia mai visto: quello stesso che nei primi giorni del Cristianesimo faceva esclamare ai nemici di esso: « Come questi Cristiani si amano l’un l’altro! ». Non si tratta solo di qualche individuo sporadico, ma di centinaia di persone, che... da ambo le sponde di questa tragica fiumana mostrano con le loro preghiere, con le loro opere e con il loro silenzio il loro amore l’uno per l’altro. In quante adunanze di preghiera ho io sentito, nei mesi scorsi. Inglési e Scozzesi pregare per i Tedeschi, e Tedeschi effondere il loro cuore verso i loro fratelli nell’opera delle Missioni e nel « Movimento degli Studenti »!
Se altre prove non mi soccorressero del valore del Cristianesimo, negli ultimi mesi ne ho avute di mia esperien/a delle nuove a sufficienza per convincermi che Gesù Cristo non solo fu, ma è tutt’ora il Salvatore del mondo. Egli non solo comanda di amare i nemici, ma lo rende pratica-mente possibile».
Se, come è nostra ardente preghiera, vi è speranza che Inglesi e Tedeschi giungano a comprendersi e stimarsi a vicenda, questo non sarà il risultato di vincoli più stretti d’industria o di commercio, ma della unione dei cittadini delle due nazioni nel servizio di un comune .Signore.
Il seguente incidente può illustrare il mio pensiero. Esso viene riferito sulla IVestmin-sterGazelteàz un soldato al fronte, membro della « Armata di Salvezza »: « ... Noi ci lanciammo allo scoperto e ci scagliammo all’assalto, accolti da una vera grandine di proiettili... Al nostro ritorno alle trincee, io vidi un povero soldato tedesco che si sforzava di afferrare la sua borraccia. Mi inginocchiai al suo fianco, e trovando che la sua borraccia era vuota gli offersi dell’acqua della mia borraccia. Rianimato alquanto, egli api! gli occhi e vide il mio distintivo deH’“Armata di Salvezza”. II suo volto ormai irrigidito s’illuminò di un sor? riso, ed egli bisbigliò in un inglese interrotto: "Armata di Salvezza? Ma anch’io sono un soldato dell’Armata di Salvezza”... Spargemmo insieme alcune lacrime... e quindi io raccolsi il suo povero corpo frantumato, e con tutta la tenerezza possibile lo trasportai all’ambulanza. Ma le sue condizioni sfidavano ogni soccorso umano. Quando io lo adagiai nel carrozzone, egli diede gentilmente una tirata alla mia giacca. M’inchinai su di lui per sentire ciò che volesse dirmi, ed egli bisbigliò le parole dell’inno :« — Gesù, salvo con Gesù »....
L’opera delle Missioni tende a creare simpatia non solo verso coloro a beneficio dei quali essa è volta, ma anche tra quelli dai quali essa è intrapresa, ed è questa riflessione che ci stimola a credere che le persone dotate di spirito missionario nella Gran Bretagna e in Germania porteranno un importante contributo verso la creazione di buoni rapporti fra le due nazioni. ... Forse, quando questa guerra verrà a termine, i missionari tedeschi e i sostenitori delle Missioni tedesche contribuiranno a riconciliare i loro coi nostri concittadini nella cooperazione alla propagazione del Regno di Dio.
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L’EDUCAZIONE NAZIONALE COME EQUIVALENTE MORALE DELLA GUERRA
« L’educazione può solo sviluppare e guidare i germi esistenti nel carattere individuale sì da fargli raggiungere i più alti ideali nazionali » scrive Harola Begbiè sull7/:ft-berl Journal di Gennaio: « Io scopo quindi dell’educazione nazionale deve essere di fornire allo Stato cittadini sani, intelligenti, e morali. Lo Stato non può esigere che 1 suoi cittadini professino una religione domma-tica o che appartengano ad una scuola filosofica o che entrino in una particolare industria o professione: il periodo di educazione nazionale è sì breve, che lo Stato deve concentrare tutta la sua attenzione su quei tre punti... Sono i parenti che debbono provvedere a procurare al fanciullo; se essi vogliono, una speciale istruzione domma- / tica: non lo Stato che non ha diritto di punire un agnostico o un ateo, nè abbisogna di religione dommatica; al quale occorre lo spirito del Cristianesimo, non i suoi dommi; anzi una morale più che un? religione; e che non può accedere alla richiesta di un insegnamento Cattolico, Wesleiano o Salvazionista, più che a Ìuello ateo o vegetariano. I ministri delle ¡verse confessioni religiose hanno il vasto compito di preparare la vita pubblica della nazione per ricevere questi fanciulli alla loro uscita dal periodo di educazione di Stato e di creare una coscienza sociale nella comunità degli adulti; ed è mio parere che se tutte le Chiese si unissero a purificare la nostra vita nazionale di tutto quello che la disonora e degrada, e ad associare più strettameiHe lo spirito del Cristianesimo con l’evoluzione politica della nazione, esse si renderebbero certo più benemerite della religione e dello Stato in una sola generazione, di quello che lo siano state in tutte le generazioni con la loro istruzione a tipo dommatico. Comunque, il campo di lavoro dei ministri di religioni non è nella scuola, ma all’uscita dalla scuola ».
• « Compitò del maestro di scuola sarà di sviluppare le qualità fondamentali dello spirito inglese: senso di giustizia, indivi-d ualismo insradicabile, ostinato buon senso, coraggio invincibile, liberalità istintiva, fiducia piena in se stesso. Egli deve avere innanzi agli occhi il tipo dell’inglese perfetto, e mai perdere di vista questo ideale, e far sentire ai suoi alunni che essi sono educati all’alto scopo di realizzare questo ideale.
Se il Nazionalismo non è la meta ultima dell’educazione, un giusto patriottismo è lo scopo essenziale dell'educazione nazionale; ed io sono affatto certo, che un fanciullo il quale non veneri i tipi più alti della sua propria razza, non proverà mai alcun interesse ai tipi superiori d’un’altra razza, e che il più appassionato e focoso patriottismo, purché intelligente, è la più bella preparazione durante la fanciullezza, per uno spirito internazionale nell’età adulta* Il comprendere l’incanto e il romanticismo della nostra storia nazionale ci renderà curiosi di conoscere la storia delle altre nazioni e in che cosa esse differiscono da noi...
Per entrare in qualche dettaglio delle riforme dell’educazione che invoco, dirò che qualunque sistema ragionevole di educazione dovrebbe evitare la rigidezza, e tener conto con occhio vigilante delle attitudini individuali. Dovrebbe essere piuttosto un laboratorio di esperimenti spirituali che una serra per tutti indistintamente. Il primo stadio dell’istruzione, che riguarda il leggere, lo scrivere e il far di conto, dovrebbe essere comune a tutti.
Nel secondo stadio, le tre materie principali dovrebbero essere la storia la più importante delle materie scolastiche, che dovrebbe comprendere la letteratura, la morale e la geografia —; la storia naturale assai atta ad appagare l'istinto di curiosità insito in ogni fanciullo, e a suscitare in lui alcune delle più nobili qualità dello spirito; e una lingua moderna, ma in maniera affatto pratica, e sènza alcun insegnamento di grammatica ancora. Anche in questo secondo stadio non s’impone ancora la discriminazione tra fanciulli, ma solo una speciale cura dei più lenti e deficienti.
Nel terzo stadio invece... dovrebbe aver luogo-la selezione e l’insegnamento specializzato e tecnico. Gran cura dovrebbe ivi aversi dell’insegnamento c della pratica dell’igiene e dovrebbe essere grandemente incoraggiata ogni disposizione per qualche mestiere particolare: e se lo Stato dovrebbe con tutta la cura favorire chi mostrasse speciali attitudini per le arti liberali o per le scienze, dovrebbe egualmente con tutta la cura ostacolare coloro che non mostrano di possedere per ciò talenti speciali, e che solo sprecherebbero il loro tempo.
Il Begbie prosegue a completare il suo piano di educazione nazionale, propugnando un vasto programma di istruzione
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superiore posto alla portata di tutte le classi ed età. • Bisogna che l’istruzione sia sentita dall’anima del popolo come una delle supreme gioie della vita, uno dei piaceri dell’esistenza più ricchi di soddisfazione. E non bisogna solo facilitare, ma rendere attraente questo accesso alle fonti della coltura.
Al presente, all’operaio che rincasa dopo il suo lavoro faticoso, noi non sappiamo offrire per diversivo che la bettola ed il cinematografo: nell’avvenire, esso dovrà avere la comodità di poter sentire della buona musica, assistere ai migliori spettacoli teatrali, e ascoltare conferenze di carattere suggestionante e che allarghino le sue idee. In una parola, lo Stato non deve mai abbandonare lo spirito della democrazia alla sorte della lotta per l’esistenza. Noi non possiamo più affidarci ad una aristocrazia dell’intelligenza. Il nostro destino c il nostro carattere sono nelle mani della democrazia ».
LA LETTERATURA FRANCESE DURANTE LA GUERRA
In Francia, come in Inghilterra e in Germania, lo scoppio della'guerra impose silenzio all’« arte di abbellire la vita », ed impose agli scrittori, come ad ogni altra classe di cittadini, di tendere tutte le loro energie verso la salvezza della patria. Ma anche gli sforzi più violenti e spasmodici possono passare in abiti: e pochi mesi dopo, gli scrittori, senza abbandonare la spada, raccolsero la penna, e si avvidero che anche quella era un’arma, e più ancora lino strumento per alimentare la fede, la speranza, e l’ardore nel loro popolo. Così sorse la letteratura di guerra, e con tale ricchezza di produzione, che già, dopo appena due anni di guerra, all’esposizione di Lione, più di mille opere testimoniavano della vitalità della sola Francia: ed una colle-, zione edita dalla Libreria Larousse ha di già pubblicato parecchi volumi in cui sono raccolte pagine scelte dei più grandi scrittori francesi durante la guerra.
Il Calvet, professore al Collegio « Stali islas » di Parigi, tratta dell’argomento in un suo studio sulla « Construclive Quarterly », dal quale riproduciamo alcune notizie e giudizi, limitandoci al gruppo dei lavori abbozzati appena o postumi di scrittori caduti stringendo ancora la penna; al genere « raccolta »
di esperienze e impressioni di vita di guerra, di • ricordi » di prigionieri, infermiere, ecc. e di « diari » di quelli che rimasero in casa; e ad un accenno su qualcuno dei romanzi e dei poemi suggeriti e alimentati dalle nuove ispirazioni di chi muore e di chi resta. Il Calvet premette una breve rassegna delle due correnti letterarie del Simbolismo e del Realismo della precedente generazione, superate e sintetizzate dalla nuova scuola del « Realismo mistico », rappresentata Socialmente dal Claudel, Jammes, Péguy, ichari: da giovani « ardenti; generosi, e riccamente dotati, che... seppero vedere la vita con precisione, ed insieme riconoscere il suo significato, e come essa si prolunghi con bellezza e, ricchezza suprema verso l’infinito, e sostennero che questo prolungamento soprannaturale della vita spirituale appartiene al dominio dell’arte e ne è la sostanza più scelta e pura. Benché nessuno di questi giovani scrittori varcasse le soglie del santuario come credente, chè si appagarono di ammirare, col loro maestro Barrès, lo slancio dalle guglie verso’ il Cielo in una terra purificata dall’elemento spirituale, o, ancor meno positivi, si rifugiarono in una sorte di panteismo naturalistico, essi tutti affermarono il mistero, ebbero fede nella vita e nell’azione disciplinata e in un armonico avvenire».
Sorpresi dalla guerra nell’atto di tradurre in forma letteraria il loro. amore per l’azione e per la disciplina e la loro fede in una vita infinita, essi trovarono nel sagrifìzio supremo la « chance » di mostrare alla prova il valore dei loro atteggiamenti spirituali.
« Quello che essi scrissero, faccia a faccia col nemico, nelle trincee, é consacrato da una bellezza duratura e dalla maestà della morte. Appunti, lettere, meditazioni, poemi abbozzati nell’intervallo fra due battaglie... non ci resta di tutto quésto altro che frammenti... Gli autori sono morti, la loro opera rimane incompleta, ma trasfigurata subitamente dal loro sagrifìzio. Pel momento, noi altro non vediamo che la luce che la morte getta sulle pagine dei loro libri o sulle foglie, dei loro manoscritti.
... Al pensiero di Péguy, di Clermont, e di tutti gli altri — più di un centinaio — i cui ultimi frammenti sono spruzzati di sangue, un loro giovane ammiratore scriveva in una lettera che la morte gli
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impedì di terminare: • Questi scrittori avevan creduto di porre il meglio di sè nelle loro opere, ma s’ingannarono gloriosamente, mostrando con la loro morte che essi avevan riservato per la loro patria qualche- cosa di più puro ancora ».
L’autore si trattiene su due opere postume «di due morti eroi; opere che essi ebbero l’agio di completare », cioè il « Conquistatore » di Emilio Nolly, ed il • Viaggio del Centurione » di Ernesto Psichari, del quale ultimo formula il giudizio: « Questo libro è il più completo di tutti quelli prodotti dal Realismo mistico... e non mi maraviglierei nel vedere una generazione di scrittori riguardare a quest’opera come ad una sorgente d’ispirazione, e trarre da essa lezioni per l’arte e per la vita ».
Di esso abbiam fatto cenno nella recensione al « Mors et Vita » del Loisy che ne critica la concezione pseudo-cattolica: e osserviamo di passaggio che il Calvet non fa nella sua recensione il dovuto posto al « Guerre et Religion » ed al « Mors et Vita » del Loisy stesso, nè rende giustizia — a giudicarne anche dal risultato del referendum aperto dalla « Révue Mensuelle » di Ginevra, del quale parliamo altrove, — all’opera di Romain Rolland, che critica con asprezza e acerbità, fino a vedere in essa il prodotto di una fredda intelligenza e di un cuore insensibile.
Tra le impressioni di combattenti, « rivelazioni dell’anima dell’armata, del suo coraggio, del suo spirito..., gettate su carta in modo occasionale secondo l’azzardo delle circostanze c delle disposizioni d’animo, scelte senza riflessione e senza ritegni, e destinate ad essere sostituite dall'opera riflessa dei combattenti attuali rientrati nel silenzio e nella meditazione e in condizioni da poter rivivere la violenta epica », l’A. s’intrattiene sui « Récits de Combattants » del barone Bassin,, sul giornale di Enrico d’Estre « D’Oran à Arras », sugli « Etapes et Combats » di Cristiano Malet, — tutti d'interesse piuttosto militare ed artistico, — e passa a raccolte di « carattere affatto diverso, che ci pongono in presenza di soldati dominati da un ideale spirituale..., che adoprano il moschetto ed uccidono perchè così devono, ma pongono sopra il macello della battaglia la carità che salva e conforta », quali le « Impressions de guerre de prêtres soldats » di Leonzio de Grandmaison; le « Lettresde prétres aux armées » di Vittore Bucaille; il « En Campagne » di Marcello Dupont, e le « Méditations dans la tranchée » del luogotenente R. Le due prime, « semplici e commoventi racconti, senza pietesa di esserlo, che parlano del ministero di preti, più che delle imprese di soldati, di preti-soldati, mettono in evidenza le caratteristiche più notevoli di questa guerra, che è insieme la più barbara che il mondo abbia mai visto, e in un certo senso la più spirituale, dacché non vi è mai stata per l’innanzi tale esaltazione di anime, tale realizzazione di sagrifìzio e del suo significato religioso, e tale accettazione della morte in difesa della giustizia ».
. Le pagine dell’« En Campagne » del Dupont, in cui «questo scrittore... tenero insieme e gaio, senza vano sentimentalismo e senza vanterie... ci presenta Suor Gabriella, così tenera con i soldati affamati e assonnati..., e ci descrive una vigilia di Natale nelle trincee, gl’inni religiosi cantati dai tedeschi nei loro nascondigli mentre i nostri soldati ascoltano pensosamente in una specie di tregua sacra, sopravviveranno quali capolavori d’incanto e di emozione ». Invece il luogotenente R. « parla poco: egli medita. Gli han detto che questa guerra dovrà liberare la sua patria, ma egli è di parere che essa debba servire come mezzo per sollevare la propria personalità —: e come potrebbe un’azione essere sublime se essa non sia la sorgente di un progresso morale? E perciò, nelle trincee egli sogna, egli coltiva il suo proprio io..., con un’assoluta sincerità, faccia, a faccia con se stesso, con la vita e con la morte... Poco egli parla, ma pensa e stimola a pensare ».
Anche nella lunga prigionia in terra nemica, scrittori dotati dello spirito di •osservazione e di riflessione scrivono e versano il loro cuore, sanguinante. Già alcuni privilegiati — feriti gravi, infermieri, ecc. —- sono stati restituiti alla loro patria ed hanno consegnato alle stampe le loro memorie. Tali il « Ma captività en Allemagne » del Rev. Aubry; il « Prisoñnier de guerre » di Andrea Warnod, e più ancóra, il « Journal d’un simple soldat », un « libro magistrale che incatena l’attenzione e che è destinato a sopravvivere », di Gastone Riou. Di quest’ultimo faremo un cenno separato.
I testimoni della guerra, giovani donne e vècchi tutt’ora intellettualmente validi.
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sono stati anch’essi tentati di fissare il ricordo di avvenimenti epici, di ore di agonia da essi vissute, di gioie, di doloii e di speranze che hanno scosso tutte le fibre del loro essere...: e ne sono sorti il « Journal d’une famille • pendant la guerre » del d’Areuibert: il ■ Journal d’une mère pendant la guerre » di Madame Drumont; e con carattere più significativo e interesse più vasto, il « Journal d’un Curò de Campagne pendant la guerre», di Giovanni Quercy, nel quale ci si discopre in un racconto impressionante per la sua semplicità e sincerità la parte 'esercitata dal parroco nella mobilitazione delle forze morali della nazione, e ci si rivela là vita delle famiglie campagnole durante la guerra e le energie morali che le sorreggono.
Alcuni di questi spettatori sono stati anche attori: e nelle corsie doloranti degli ospedali o nelle ambulanze, hanno raccolto visioni ed esperienze, che hanno tramandato delle loro « Notes d’une in-firmière », nel «Guerre vue d’une ambulane», ecc. Nella prima la signoia Dé-mians descrive con arte e con emozione rattenuta un nuovo sentimento prodotto dalla gucria, cioè quella maternità spirituale che si sviluppa nel cuore della donna al capezzale dei feriti, per cui essa diviene per loro il vero simbolo della madre patria, e il sostituto della vera madre lontana. Nella seconda, il. Rev. Felice Klein, ben noto per il suo liberalismo religioso e le sue opere sull’America dice con la rara distinzione di stile e l’arte squisita che lo distingue, ciò che ha visto nella sua funzione di cappellano dell’Ambulanza Americana stabilita a Neuilly.
Sorvolando sui cronisti ordinari dei grandi giornali parigini, e sui volumi in cui han raccolto i loro articoli, specchio e interpretazione degli eventi ormai Sì lontani nella vita che incalza, — una posizione particolare va però fatta a Maurice Barrès, di cui l’A. Conclude: » Se M. Barrès non fosse qui, ci sarebbe men facile vedere che i nostri soldati combattono per l’umanità e per là bellezza» — l’A. fa menzione degli storici, e passa ai romanzieri. Della loro copiosa opera, su quattro romanzi vien richiamata la nostra attenzione:- • La Veillée des Armes » di Marcello Tynayre: « l’Adjutant Benoit • di Marcello Prévost; « Gaspard » di Renato Benjamin: a Le sens de la Mort » di Paolo Bourget. Di quest'ultimo, in
cui’il contrasto fra la concezione materialistica e quella religiosa della vita e della morte è personificato in due rivali in amore, il famoso chirurgo Ortègue e l’ufficiale brettone LeGallic, abbiamo seguita altrove la critica dovuta alla penna di A. Loisy.
La poesia è anche passata in rassegna, con speciale attenzione ai due poemi epici: «Divine Tragèdie» di Enrico Ba-taille, e « Témoin » di Giovanni Aicard. Diamo di quest’ultimo un breve riassunto. E in un’ora angosciosa di dubbio solenne, che il poeta della gentilezza e dell’umanità, scosso dalla orribile realtà, incontra una sera, su una collina prospettante il mare, un vegliardo stanco che sembra sorgere dalla profondità dei secoli. Il poeta narra al misterioso viaggiatore tutta la sua amarezza e disperazione, tutta la sua disillusione: chè egli aveva creduto alle parole di Gesù, che al mondo aveva promesso un regno di pace ed amore.. Il viaggiatore disvela il suo essere: egli è colui che si burlò di Gesù caduto sulla via verso il Calvario, e che fu condannato ad errare e a testimoniare lungo i secoli l’opera della Redenzione. Venti secoli di esperienza della storia umana lo autorizzano a farlo: ed egli lo fa:
« Io cammino senza tregua, per essere il Testimonio... Una Speranza giovanile s'avanza col mio lento passo ; Per il mondo e per me, che cosa «J mai due mila anni? Io ho due mila anni; io ho visto Lutczia o le due Rome, E gli uomini morire, ma vivere e grandeggiare l'Uomo. Poiché dell'uomo é la durata, ma ciascuno non ha che un [giorno.
Lo generazioni fanno ciascuna, alla sua volta.
Il loro cammino verso l'abisso, gridando verso il ciclo... Ora ogni mortale, non possedendo che il proprio infimo (minuto, Chiama i suoi minimi mali il colmo delle sciagure, E non si accorge se i tempi sono migliori;
Ma io che ho misurato gli orrori della vita
Sulla via della tomba per venti secoli ininterrotti. Io che mi burlai di Gesù caduto sul suo cammino. Io sento il mio cuore dilatarsi, c l’uomo divenuto più umano ».
Unica nella sua barbarie — prosegue il Testimonio — questa guerra è anche unica nel suo splendore morale; essa ha stimolato l’eroismo piti assoluto e la gentilezza più tenera. Scopo vero di questa guerra è di difendere la bontà, l'amore, la legge stabilita da Gesù. È il regno di .Dìo che si approssima: e questa è la suà Guerra Santa.
Il Calvet termina la sua rassegna con uno sguardo generale sulla portata della letteratura francese di guerra. «... Non
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vi è pur uno dei nostri scrittori che non senta e non proclami che noi lottiamo per difendere tutto ciò che è bello. Essi mirano in volto la realtà che è orribile, riconoscono le vittorie limitate e passeggere della forza bruta, ma non temono che in ultimo essa abbia a prevalere. Anzi essi neppure si prendono il fastidio di lanciare contro essa la loro maledizione: sono invece sicuri che essa sarà vinta. ¡>erchè deve esserlo, perchè la giustizia, a bellezza, il diritto non possono perire. Una letteratura che in mezzo al più orribile dei conflitti riesce ad esaltarsi verso queste idee serene, è una dimostrazione magnifica della vitalità dello spirito latino, e merita il rispetto del mondo ».
L’A. ne trae auspici per la letteratura del dopo guerra. ■ Realistica e mistica, ringiovanita da una linfa vivificatrice, quella letteratura sarà forse la sorgente di una primavera intellettuale, di un nuovo Illuminismo. Essa insegnerà ai popoli... che è necessario porre.l’umanità e la bellezza sopra ogni cosa, e circondarle con un baluardo proteggitore, ai coperto da folli imprese, perchè possano continuare a fiorire anche se il capriccio sospinga nella lizza due popoli a contendersi l’avvenire ».
I POETI E LA GUERRA
•... Poeti animati da un ideale altrettanto elevato e spesso molto più sincero di quello di molti preti, non hanno ottenuto » — scrive René Arcos sul Coeno-bium di febbraio, — « neppure quel rispetto limitato accordato a questi ultimi. Molti di essi avevano tutto sacrificato al loro ideale, accettando una vita di privazioni e di rinunzie incredibili per rimanere dei puri'poeti... Quanti di essi, ora in preda a una disperazione senza limiti, mirano piangendo le proprie mani che han versato sangue umano: e quanti altri, dopo aver partecipato del furore Sonerale dei primi giorni, hanno ora avuto tempo di ritrovare se stessi... —Che cosa facciamo noi in questa guerra? — mi diceva uno dei miei più cari amici, ora caduto.—<hi mai ci domanderà di morire
per tutto ciò che noi amiamo? Noi non abbiamo che due nemici — giornalieri, eterni, invincibili: la stupidità e la malignità universale ».
Quanti ne son caduti fra i miei conoscènti! Luigi Pergaud dal voltò impregnato di una sì buona tenerezza umana, che io vidi singhiozzare in preda alla disperazione sul feretro del poeta Leone Dcubel che si suicidò prima della guerra, e del quale oggi potremmo invidiare la sorte. E tu Giovanni Florence, così facondo e affettuoso che ti eri prefisso di farci conóscere la letteratura inglese più recente; tu Andrea Spire, i cui poemi sociali cantavano il più puro ideale della umanità: tu Oliviero Hourcade, Carlo Dumas, Mario Meunier, e tanti altri: e tu. mio caro Drouard, dal cuore si caritatevole: e tu mio tenero amico Enrico Doucet, pittore, ma altresì poeta, nella tua arte: tutti..., anche quelli che non mi conoscevano e anche quelli che non mi amavano. E quelli ancora pei quali tremo sempre ogni giorno: Chennevière, il poeta geniale della • Primavera » già ferito ed ora a Verdun; Carlo Voldrac, il gran poeta del « Livre d’Amour »: Duhamel. che scrisse giorno per giorno, al capezzale dei feriti e degli agonizzanti, « La vita dei Martiri »: Riccardo Bloch, ferito già due volte ed ora di nuovo a combattere, e il mio vecchio amico Bazalgette, il traduttore di Walt Whitman...: tutti io li unisco nello stesso dolore per quelli che più non sono, nella stessa apprensione per quelli che sono ancora immersi nel dramma. Io penso un po’ più ad essi che agli altri... e non va troppo bene, lo so, ma noi eravamo un po’ come della stessa famiglia...,, e ci eravamo appassionati alle medesime cose...
Ma noi non dobbiamo perderci di fiducia nè di coraggio. Sarà nostro compito di restaurare l’ideale devastato e di ricondurre nel cuore degli uomini l’amore. E gli uomini che avranno provato la comunione delle medesime sofferenze ci comprenderanno... La nostra fede è più forte degli eventi fugaci... ».
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La generazione dell'uomo
La benedizione
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Charitas
.V? fiumi nè mare H umani tas !
Oremus
La cortina
Le mani alzale
Svegliamo l'aurora
La tortoteli a
Occhi di frate Francesco
Nequitia
Il tradimento
L'orobanche
Dolor Mal...
Il rotolo continua
Ora cade il mondo
La via del dolore
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