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L’Eco delle Valli Valdesi - La Luce — n. 50 — 14 dicembre 1979
Evangelizzare è il
mestiere della Chiesa
1979: il tema dell’anno per le Chiese valdesi e metodiste è
l’evangelizzazione. È presente in un rinnovato impegno in alcune
chiese, se ne discute in convegni e incontri, è al centro del confronto con i Battisti, è oggetto del dibattito centrale del 1“ Sinodo unito che sollecita le chiese all’azione e in vista dell’elaborazione di una strategia comune, è l’argomento di una ipotesi
operativa proposta dalla Tavola valdese ai circuiti e chiese. Oggi
in molte chiese è in corso una ricerca in questa direzione. Per
facilitarla la redazione dell’Eco-Luce ha ritenuto utile raccogliere in forma di inserto, per intero o per stralci, i documenti più
significativi prodotti quest’anno fornendo così un aiuto per i
gruppi e le chiese che già lavorano a questo tema e uno stimolo
per indurre altri ad unirsi alla ricerca e all’impegno comuni.
Essere protestanti oggi
in Italia: perché e come
Ci sentiamo chiamati ad essere protestanti, oggi come ieri,
ma gli sbocchi concreti sembrano oggi meno evidenti
Disorientamento
Si ha l’impressione che esista oggi nelle nostre chiese un certo disorientamento riguardo al senso della loro presenza,
ai contenuti della loro testimonianza e
alle forme della loro missione. Anche se
in esse apparentemente tutto continua
più o meno come prima o come sempre,
c’è chi pensa che ci troviamo a una svolta — solo che non si vede bene dove essa ci possa o debba portare.
Non siamo protestanti per caso e il
fatto di esserlo non ci mette a disagio.
Non subiamo il fascino del cattolicesimo
romano né intendiamo arrenderci alla
sottile seduzione del secolarismo. Non
siamo dunque disorientati perché siamo
protestanti. Vorremmo però capire meglio in vista di che cosa lo siamo. Ci sentiamo chiamati a essere protestanti, oggi non meno di ieri, ma gli sbocchi concreti del protestantesimo in Italia sembrano oggi meno evidenti di un tempo.
A questo relativo disorientamento fanno riscontro due fatti che si condizionano a vicenda e che non possono essere
ignorati: il primo è la quasi totale scomparsa (almeno nelle chiese metodiste e
valdesi) della « evangelizzazione » di tipo
tradizionale e la sua sostituzione con forme di testimonianza certamente significative e valide ma che non sembrano
tradursi in nuove adesioni alle nostre
comunità; il secondo fatto (documentato
da Giorgio Girardet su « Gioventù Evangelica » n. 52-53) è un calo netto del 9
per cento del numero dei membri comunicanti delle chiese valdesi nel decennio
1967-1977 (1,4% alle Valli valdesi e 17
per cento fuori delle Valli). Questo fenomeno di contrazione numerica si riscontra anche, e più o meno nelle stesse proporzioni, nelle altre chiese protestanti
stonche.
Le ragioni di questo disorientamento o
annebbiamento di prospettive sono di
vario ordine. C’è una ragione ecumenica
(come dev’essere oggi un rapporto evan
gelicamente corretto con il cattolicesimo romano?). C’è una ragione politica
(l’odierna destabilizzazione dei sistemi
ideologici e dei modelli politici facilita o
complica l’impegno politico dei cristiani?). C’è una ragione teologica (come evitare che il carattere problematico della
fede si risolva in una formulazione più
interrogativa che affermativa del Credo
cristiano e in un’etica « a pezzi »?). C’è
una ragione ecclesiale (perché le nostre
chiese non sono poli di attrazione per
nessuno, o quasi?).
Cattolicesimo
Per le nostre chiese è senza dubbio
urgente ridefinire i loro rapporti con il
cattolicesimo romano. Non che le nostre
chiese esistano in funzione del cattolicesimo ma, tanto più nell’era dell’ecumenismo, non possono prescinderne. Il Concilio Vaticano II ha detto quel che pensa di noi: siamo — come le altre chiese
della Riforma — delle « comunità ecclesiali », non delle vere e proprie chiese.
Per noi, che cos’è la chiesa cattolica? Una
chiesa? Una « comunità ecclesiale »? Un
organismo religioso fornito di « vestigia
ecclesiae», di tracce superstiti di come
era la chiesa antica? eppure riteniamo
che non sia nostro compito pronunciarci
al riguardo? Sempre in questa linea ci
dobbiamo chiedere: riteniamo giusto oppure non giusto continuare a non avere
rapporti ufficiali (attualmente inesistenti a livello di organi rappresentativi)
con la chiesa cattolica italiana?
Il cattolicesimo italiano è estremamente diversificato e le nostre chiese possono, secondo il contesto in cui vivono, fare
esperienze molto diverse, addirittura opposte. In Italia abbiamo il Vaticano con
tutto il suo peso negativo in campo politico, economico, culturale e morale; abbiamo un episcopato complessivamente
conservatore; abbiamo una istituzione ecclesiastica saldamente ancorata alle sue
posizioni di privilegio e di potere; d’altra
parte ci sono gruppi, movimenti, comunità che sono « di base » ma anche interne all’istituzione, che lavorano seriamente per una riqualificazione in senso
evangelico (almeno come orientamento)
del cattolicesimo romano. Certamente
il cattolicesimo è sempre meno monolitico pur continuando a essere sostanzialmente unitario. Che fare in questa situazione parzialmente nuova?
È noto a tutti che il protestantesimo
italiano si è molto nutrito di polemica
(e altrettanto si deve dire del cattolicesimo nei nostri confronti, almeno fino al
Vaticano II). Ma il protestante è solo
un non-cattolico? Evidentemente no.
Eppure non è tanto chiaro, nella sensibilità corrente nelle nostre chiese, fino a
che punto il protestantesimo nasca dalla
negazione del cattolicesimo e fino a che
punto invece la negazione del cattolicesimo nasca dall’affermazione protestante.
Comunque un supplemento di riflessione
sul ruolo della polemica nella nostra
realtà non solo di ieri ma di oggi, non
appare fuori luogo. C’è chi sostiene che
la polemica è inutile e addirittura controproducente: ottiene l’effetto contrario.
Sempre? LTEvangelo è solo « si » oppure
«sì» e «no»? Come formulare oggi i nostri « si » e i nostri « no » nei confronti
del cattolicesimo romano? Oppure i nostri « no » li dobbiamo, per così dire, occultare nei « sì », cioè cercare di trasmetterli in forma positiva anziché negativa? Che l’ecumenismo sia oggi ima reale
occasione di evangelizzazione, è indubbio. Ma oltre al rischio che Tecumenismo favorisca una ulteriore ghettizzazione ecclesiastica dell’Evangelo, c’è l’altro
rischio che l’ecumenismo si risolva in
un accettarsi reciproco anziché in un accettare insieme l’Evangelo. Secondo Sergio Ribet dobbiamo « imparare a coniugare ecumenismo e polemica ». È questa
la linea che vogliamo seguire?
È forse giunto il momento di fare un
primo bilancio dei nostri rapporti con
il « cattolicesimo di base » e movimenti
affini, cercando di precisare che cosa ci
divide e che cosa ci unisce a loro. Alla
luce delle esperienze fatte, si potrebbe
tentare di rispondere almeno a questi due
interrogativi: a) Sarebbe pensabile, dopo
attenta riflessione, proporre al « cattolicesimo di base» una specie di patto di
fraternità con le chiese evangeliche? Come motivare e formulare questo eventuale patto? b) È giusto privilegiare il
« cattolicesimo di base » rispetto al cattolicesimo istituzionale nei nostri rapporti ecumenici?
Le chiese evangeliche costituiscono, di
fatto, in Italia, pur nella loro esiguità
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numerica, una chiesa cristiana alternativa
alla chiesa cattolica. Siamo tutti convinti che cosi dev’essere? Oppure c’è chi
pensa che potremmo anche diventare, in
im prossimo futuro, non per necessità ma
per scelta deliberata, la componente radical-evangelica di un cattolicesimo pluralista? Se invece riteniamo di dover
essere una chiesa alternativa, e non soltanto un movimento di opinione protestante o un centro di cultura biblica ed
evangelica, perché ci preoccupiamo così
poco delia consistenza anche numerica
delle nostre comunità?
Fede e politica
L’aspra discussione avvenuta nelie nostre chiese, specialmente dal ’68 in poi,
sui rapporti tra fede e poiitica ha indubbiamente creato in molti evangelici una
consapevolezza nuova sia del ruolo politico (attivo o passivo) della chiesa sia
della responsabilità politica dei cristiani.
Una parte della leadership laica e pastorale della chiesa si è spostata (un po’
o molto) « a sinistra », ed ha scoperto
che una parte almeno della « base » a sinistra c’era già. D’aitra parte ia nascita
di un movimento come la TEV rivela
resistenza di un dissenso irrisolto, che
può essere spiegato e valutato in moiti
modi ma che comunque va preso in considerazione. È chiaro che ia chiesa non
è im partito e che im certo pluralismo
politico al suo interno è non solo inevitabile ma va salvaguardato. Ma questa
constatazione, per quanto importante,
non è risolutiva.
È facile fare una politica conformista
(basta « non fare politica »), è difficile
fare ima politica cristiana non-conformista o di opposizione. Il rischio per una
chiesa che prenda sui serio la sua responsabilità politica di essere poco più che
ima brutta copia di questo o quel partito,
esiste. D’altra parte la necessità di un
impegno politico perseverante e anche
compromettente da parte della comunità
cristiana appare a molti fuori discussione. Ammesso che c’è una vera e una falsa politicizzazione della chiesa (così Gollwitzer), ci si può ancora chiedere quale
sia la vera. Ci si può anche chiedere se
nella linea della politicizzazione siamo
già andati troppo avanti o non siamo
invece rimasti troppo indietro. Anche qui
occorre fare il punto della situazione,
esaminando criticamente il nostro passato remoto e recente, in vista delle responsabilità dell’ora presente. Occorrerebbe, tra l’altro, poter valutare serenamente l’esperienza di centri come Agape, Cinisello, Riesi, la « linea FGEI » e,
in generale, la coscienza o incoscienza
politica delle nostre chiese.
Non pochi evangelici italiani hanno lavorato e lavorano, politicamente, in vista
di ima « società socialista » prossima
ventura. Una parte della gioventù e anche della chiesa adulta si è riconosciuta
nel detto; « ci dichiariamo marxisti e ci
confessiamo cristiani». D’altro lato, le
divisioni e i conflitti recenti, anche armati, tra paesi che si richiamano al socialismo costituisce per molti un brusco
e amaro risveglio e una delusione storica
che non può lasciare indifferenti. È reale
il rischio di un ritorno al moderatismo o
ad atteggiamenti rinunciatari oppure alla fuga nel privato o — perché no? —
nell’ecclesiastico o, genericamente, nel
religioso. D’altra parte è inevitabile chiedersi se questa crisi che può vanificare
tante speranze vada imputata a errori
degli uomini o non riveli invece i limiti
delle ideologie. Comunque sia: qual è il
ruolo dei cristiani in questo frangente
storico? Dobbiamo pensare che il loro
impegno politico, benché irrinunciabile,
non sia così facile da realizzare come si
pensava alcuni anni or sono?
Crisi deila teologia
Il protestantesimo ha sempre demoiito le sicurezze razionali, morali o istituzionali fornite dalla chiesa, sostituendole con la certezza della sola fede. Il
« principio protestante » è per eccelienza
un principio critico e iconoclasta, demolitore di idoli. Questo va bene finché la
fede è salda e Gesù Cristo è una reaità
viva e significativa per noi. Ma se la fede diventa incerta, più che inquieta (cfr.
Giacomo 1: 6) e se Cristo diventa un
semplice « punto di riferimento » o addirittura un enigma non decifrato, allora è inevitabile che dalla « teologia deila
crisi » si passi alla crisi della teologia o
addirittura a una crisi senza teoiogia.
Il disorientamento presente potrebbe essere dovuto al fatto che la fede non ha
più un centro sicuro e concordemente
riconosciuto?
È forse velleitario, oggi, o addirittura fuori luogo ostinarsi a porre il problema del « centro dell’Evangelo » o, come si diceva un tempo, della « essenza
del cristianesimo ». Può darsi che nella
nostra epoca e per un tipo di fede come
il nostro di « protestanti storici », Dio
si sottragga talmente alla nostra esperienza che questo «centro» (che è Lui)
sfugga a ogni tentativo — anche bene
intenzionato — di elaborazione. Per cui
dovremmo accettare di fare una teologia
più negativa che positiva. Ma sappiamo
anche che questo può essere un aiibi
per la nostra incredulità o una sottile
giustificazione del nostro rifiuto di ascoltare con semplicità e umiltà la Parola
di Dio. Comunque sia dovremmo, con
molta onestà intellettuale ma anche con
vivo senso di responsabilità, interrogarci su questa questione cruciale.
Un discorso analogo va fatto per l’etica cristiana. Non bisogna confondere la
crisi della morale borghese (nella quale
peraltro siamo anche stati educati) con
la crisi dell’etica cristiana. Ma appunto:
come districare l’una dall’altra? È un
fatto d’altra parte che un tempo i protestanti si caratterizzavano per un certo rigore morale (comunque lo si voglia
valutare). Questo « rigore protestante »
era legato a un’epoca o a una fede? Sappiamo (e ripetiamo) che l’Evangelo non
è una legge e neppure una « nuova legge ».
Ma Barth diceva che la legge è la forma
dell’Evangelo e l’Evangelo è il contenuto
della legge, cioè, tutto sommato, istituiva un rapporto abbastanza stretto tra
Evangelo e legge. Questo rapporto non si
è forse alquanto allentato? Si è parlato,
in passato, di un’etica di contestazione.
Ma la si è sviluppata? In ambito ecumenico s’è parlato di un «nuovo stile di
vita ». Ma qual è? Come si dovrebbe articolare, oggi, in concreto, i’unica legge
cristianamente proponibile, cioè la « legge
della libertà» (Giac. 1: 25)? I nostri sìnodi hanno occasionaimente fornito delle
indicazioni su questo o quel tema particolare. Ma manca un discorso organico,
manca, in fondo, una linea. Occorre passare dalla fase di un’etica « a pezzi » alla fase di un’etica « in ricostruzione ».
Strutture
poco missionarie
Varrà la pena di interrogarsi sulle probabili ragioni strutturali del carattere
scarsamente o per nulla missionario deile nostre chiese. Mancano infatti in esse
quelli che si potrebbero chiamare «ministeri di movimento » o di tipo propriamente « apostolico » — ministeri cioè non
sedentari e voiti alla fondazione di nuove
chiese. Praticamente tutti i ministeri
(stipendiati e non) operanti nelle nostre
chiese, sono in funzione della chiesa che
già esiste, non in funzione di nuove chiese da creare. Pur essendo una chiesa a
regime sinodaie, pratichiamo, neU’organizzazione e utilizzazione dei ministeri, una
concezione più « episcopale » che « apostolica »; « episcopale » nel senso che la
struttura ministeriale ha il suo perno
operativo in un ministero « centrale »
(quello pastorale), sedentario e vincolato a una chiesa costituita. Ora è vero
che i’evangelizzazione deve tendere primariamente a diffondere dovunque e comunque la buona novella del Regno e
solo secondariamente a creare delle comunità evangeiiche. Ma questo aspetto,
benché secondario, non può essere trascurato. A meno che non lo si voglia risolvere rinviando alla chiesa cattolica
romana quanti si aprono all’annuncio
evangelico. Per quanto poi concerne la
responsabilità della missione (o evangelizzazione che dir si vogiia), sappiamo
bene che essa compete a tutti e a ciascun
membro di chiesa: è il famoso « sacerdozio universale dei credenti ». Ma nella
realtà questo « sacerdozio » funziona più
come antidoto alla clericajizzazione (sempre in agguato) della chiesa e dei ministeri che come movente missionario.
La frantumazione del protestantesimo,
anche di quello italiano (a dispetto della
sua esiguità numerica), è una triste realtà, cui neppure la Federazione ha potuto o saputo porre rimedio. Almeno tra
battisti e valdo-metodistì (che insieme
costituiscono il protestantesimo riformato o di tradizione riformata) occorrerebbe giungere ai più presto a quella
che si potrebbe chiamare una « comunione operativa », di cui esistono già le
premesse fondamentali. Certo, ci sono
tra noi delle differenze che nessuno intende ignorare o sottovalutare. Ma che
queste differenze continuino a essere
motivo di divisione tra noi, è un capriccio e un lusso che non ci possiamo permettere.
Più complesso, come tutti sanno, è ii
rapporto tra il «protestantesimo riformato » (battisti, metodisti e valdesi) e il
protestantesimo « carismatico » e/o « fondamentalista » (pentecostali, assemblee
dei fratelli, ecc.). Le difficoltà sono note
ma non dovrebbero paralizzare nessuno.
Una domanda almeno dobbiamo porcela:
tra le nostre chiese e questo settore
dell’evangelismo italiano (tra l’altro assai differenziato al suo interno), momenti di incontro, solidarietà e fraternità
sono proprio impossibili o semplicemente non sono neppure tentati? È possibile
che nel nostro paese la fraternità evangelica debba continuare a « morire di
congregazionalismo » esasperato e di denomìnazionalismo?
Paolo Ricca
(Eco-Luce n. 25, 22 giugno ’79).
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DALLA PREDICAZIONE DI APERTURA DEL SINODO
Non c'è vera liberazione
senza l'Evangelo
Non è possibile la libertà dalle catene della miseria se non si persegue contemporaneamente la libertà dalle catene culturali e religiose
Cristo ci ha affrancati perché fossimo liberi; state dunque
saldi, e non vi lasciate di nuovo porre sotto il giogo della
schiavitù! (Galati 5: 1)
(...) Non c’è assemblea di chiesa o di circuito, non c’è conferenza distrettuale o Convegno,
in cui non si parli delle nostre
comunità, della loro pochezza,
dei loro legami con la cultura
borghese, della loro teologia da
tale cultura inscindibile; e quindi della loro incapacità di dare
risposte adeguate alle questioni
della fede e della predicazione
oggi.
L’ossessione
della chiesa
È un discorso, per molti aspetti, corretto. Ma alle volte riflette
una ossessione che ormai circola anche nei nostri ambienti;
l’ossessione della chiesa, da cui
lo sforzo, che sflora il parossismo, di costruire una « chiesa
che conti » (quasi che sia la chiesa a costituire il Cristo, e non
esattamente l’opposto; e quasi
che la chiesa sia tanto più fedele quanto più è gloriosa).
Una ossessione che alla flne si
ricollega alla tendenza a porre
al centro noi stessi e le nostre
opere, a fare di noi stessi, delle
nostre opere, delle nostre organizzazioni, il criterio con il quale
misurare la testimonianza, e valutarne l’utilità e l’incidenza sulle situazioni in cui si vive; questa è utile e valida se chi la dà
è « forte » e conta.
La conclusione inevitabile è
che, non trovando, a vista umana, in noi e nelle nostre comunità ’alcuna « forza » degna di questo nome, non si possa fare nulla di valido e di utile e che tutto,
ivi compresa l’evangelizzazione,
debba essere rinviato ad un momento migliore, preoccupandoci,
per il momento, della nostra spiritualità e della nostra pietà, o
dissolvendoci nelle lotte per la
giustizia e la pace, condotte da
altri.
Sembra una conclusione logica, aderente al vero, ed invece
è úna mistificazione della nostra
realtà. Con la libertà che ci è donata noi riceviamo anche la possibilità di non dirigere più la
nostra attenzione in primo luogo
verso noi stessi, verso le illusio
ni di una nostra santità e perfezione, ma di dirigerla in primo
luogo verso Dio e verso ciò che
egli fa per noi; verso la nostra
liberazione, il nostro passaggio,
in Cristo, dalla condizione di
schiavi a quella di Agli.
Con questo non vogliamo affatto proporre una nuova mitologia; la fuga in una condizione
di vita che non trova riscontro
nella realtà giornaliera. Non vogliamo negare né abbiamo la pretesa di annullare la nostra umanità; questa resta in tutto il suo
spessore di miseria, di debolezza
e di morte.
La nostra giustizia e la nostra
libertà, che pure sono reali, noi
non le possediamo in proprio; esse sono nostre solo nella Parola
del Signore e nel suo ascolto. La
nostra vita, individuale e comunitaria, presa in sé, è davvero
sconsolante e stretta dentro strazianti impossibilità. Ma Dio (e
questa è l’altra faccia della nostra realtà che non va mai dimenticata) compie la sua forza
proprio in questa nostra abissale miseria e debolezza.
La parola biblica ci dice che
Dio opera sempre con materiale
scarso, di poco o alcim valore,
per cui la giustificazione è in
ultima analisi una sorta di creazione dal nulla, è sempre giustificazione di chi in sé non ha nulla per cui essere giustificato. La
parola biblica ci dice dunque
che l’azione di Dio ha sempre di
mira ciò che non vale, che Dio
sceglie le cose pazze del mondo,
le cose ignobili, le cose sprezzate, anzi le cose che non sono
(I Cor. 1; 27-28).
Ed allora, l’altra faccia della
nostra realtà, direi quella « strutturale », è che siamo uomini e
donne che, come dice il salmista,
Dio tiene « per la mano destra »
(Sai. 73); uomini, donne, comunità che, nella interezza della loro condizione di miseria, di pochezza, di cadute, di sfiducia, di
dubbi e di sconfitte, nel loro essere cose sprezzate, deboli, ignobili, che addirittura non sono,
appartengono a Dio. E questo è
certo, è vero, anche se lo è solo
nell’ambito della fede; anche se
è solo nella fede che noi apprendiamo di non doverci più tor
mentare sulla strada che ha per
traguardo obbligatorio l’acquisto
dell’approvazione di Dio; anche
se è solo nella fede che noi siamo raggiunti dal gioioso annuncio che Dio ci ama senza pretendere di trovare in noi un qualche aggancio per il suo amore.
Un discorso
astratto?
A questo punto, però, qualcuno può dire (e forse è anche tra
noi) che questo discorso sulla
libertà dalla tirannia del peccato, della legge e della morte, nonostante tutto, rimane astratto;
potrebbe essere al massimo una
predica consolatoria per borghesi satolli che, avendo già tante libertà materiali, possono interessarsi di quelle cosiddette
spirituali. Viceversa questo discorso non avrebbe alcun senso;
— per quei nostri concittadini, per quei nostri amici e quei
nostri fratelli che sono liberi soltanto di abbandonare i lóro luoghi di origine, di emigrare nelle
periferie delle grandi città o in
paesi stranieri; oppure di alzarsi la mattina all’alba, quando è
ancora buio, per raggiungere il
posto di lavoro, spesso in zone
lontane, e per tornare, la sera,
tardi, sfiniti, desiderosi solo di
andare a dormire, e ricominciare il giorno dopò, in attesa del
sabato e della domenica in cui
a molti di essi è data finalmente
la libertà di riposarsi lavorando
nel campi o occupandosi del bestiame;
— per quei giovani (il cui numero cresce di anno in anno) ai
quali è offerta in pratica la bellissima libertà di vivere nell’ozio,
di stordirsi con le varie droghe,
di riempirsi di disperazione e di
odio, aspettando un primo impiego, che resta però costantemente all’orizzonte delle loro
giornate sempre uguali;
— per quelle tante donne, casalinghe e non che ricevono anch’esse la meravigliosa libertà di
realizzare finalmente se stesse
nello sfruttamento del lavoro riero, necessario per contribuire a
mandare avanti la famiglia...
Ed è vero; di fronte a queste
sc’^iavitù così terribilmente visibili, può sembrare astratto, oppiante, parlare di libertà dalla
tirannia del peccato, della legge
e della morte; l’eterna proposta
di risolvere tutto nell’esperienza
di una libertà puramente interiore, distogliendo così gli uornini
dai loro compiti fondamentali, e
cioè dalla lotta per la loro liberazione daH’ingius tizia e dall’oppressione; l’eterna proposta
di rimandare la libertà esteriore
ad una vita al di là di quella di
oggi, la cui realizzazione è sempre cosa di domani o dopodomani.
La mia esperienza
mi dice...
L’obiezione appare conclusiva.
E tuttavia, la mia esperienza, ormai trentennale, di partecipazione alle battaglie per la soluzione
dei dolorosi e drammatici problemi cui si è appena fatto cenno, mi dice che la contrapposizione tra libertà spirituali e libertà materiali, tra libertà interiore e libertà esteriore, tra privilegiare runa o l’altra, è falsa e,
in definitiva, funzionale alla volontà di non mutare nulla; in
particolare nella nostra situazione, in cui è mancata una rivoluzione spirituale (o se si vuole
culturale), non è possibile la libertà dalle catene della disoccupazione, della miseria, dello
sfruttamento, se non si persegue
contemporaneamente la libertà
dalle catene culturali e religiose,
dunque la libertà delle coscienze.
Mi dice, la mia esperienza, che
la predicazione della libertà dalla tirannia del peccato, della legge e della morte, non solo non è
in contrasto con l’impegno per
la rimozione dei nostri tanti
squilibri sociali, economici e
flnanco territoriali (si può benissimo credere in questa tirannia
e nell’azione di Dio che ce ne libera, e nello stesso tempo lottare per trasformare e rinnovare
nel profondo questa nostra società), ma anche che è fondamentale proprio in vista della liberazione da quegli squilibri e
da quelle schiavitù. (...)
Un nodo
da sciogliere
(...) Che la nostra attuale situazione sia caratterizzata da ima
profonda crisi materiale e spirituale è da tutti riconosciuto,
anche dagli ottimisti di mestiere.
Ma le analisi (quelle serie) che
vengono condotte per individuare le cause di questa crisi, e le
soluzioni (quelle serie) che vengono elaborate, rischiano di battere l’aria, di essere pura esercitazione teorica, se prescindono
dalla necessità e daU’urgenza di
costruire « uomini nuovi » (italiani nuovi), capaci di vivere veramente in modo nuovo.
La costruzione di questi « uomini nuovi » (di questi italiani
nuovi), nella nostra situazione, è
possibile solo nell’esperienza della libertà dalla tirarmia del peccato, della legge e della morte; ogni altra via, per lo me-
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Il pastore Sergio Aquilante all’uscita del tempio di Torre Pellice
in cui si è tenuto il culto di apertura del Sinodo.
no fino ad oggi, si è rivelata
fallimentare. Annunciare questa
libertà e chiamare gli uomini ad
accettarla, non è allora un discorso colmo di noiosi ed inutili
teologumeni.
A questo proposito torna a
noi, in tutta la sua attualità, in
tutta la sua freschezza, un insegnamento che ci ha lasciato Giovanni Miegge, proprio nel suo
Commentario all’Epistola ai Calati ;
« l’uomo che ha gustato sul
piano della fede... la sua nuova
dignità di figlio, di fratello, di
eguale, di libero sarà necessariamente tale in tutti i suoi rapporti della sua esistenza attiva,
e non potrà eludere il dovere di
orientare la società civile, di cui
è membro responsabile, nella direzione e secondo l’analogia di
quei valori ».
Credere non significa fermarsi
ad una contemplazione estetica
di Dio e della sua azione; la nostra salvezza non è cosa che una
volta creduta va da sé: noi dobbiamo perseverare in essa e conservarla contro le insidie del pasi sato, che non riusciamo a tener
fuori né dall’ambito della nostra
vita personale, né da quello della vita comunitaria, ma, anzi è
sempre in agguato, e, diremmo,
« gira attorno a guisa di leon
ruggente » (I Pt. 5: 8).
Credere non significa starsene
con le mani in mano: tutti noi
siamo impegnati a lottare giornalmente per restare nella libertà ehe. ci è donata, perché forte
è il fascino delle pignatte di carne nel tempo della servitù.
Lottare non esclusivamente nel
campo della interiorità, con l’obiettivo di assaggiare di nascosto,. per non condividerla con gli
altri, l’opera di amore, di libertà,
di verità e di pace, cui in Cristo
‘ abbiamo parte; né esclusivamente all’interno di ima comunità
con l’obiettivo di fame una
« oasi », distaccata dalla realtà,
nella illusione di realizzarvi una
vita che non sia quella di fuori,
queila delle tristezze e delle lacrime.
No, ai discepoli non fu permesso di alzare delle tende per
continuare a vivere egoisticamente l’esperienza della trasfigurazione nella solitudine della cima dell’alto monte.
Là dove la fede non è vissuta
come « estasi », o come una vicenda puramente interiore; là
dove la fede (e qui siamo pienamente dentro la nostra situazione italiana) non è più una abitudine, una adesione a delle norme e una partecipazione a dei
riti ma diventa una convinzione
profonda e viene vissuta come
fiducia totale in Dio, in un rapporto diretto con lui, e nella consapevolezza di appartenergli, si
produce la libertà della coscienza, quindi un suo risveglio, e in
conseguenza un risveglio della
responsabilità, che non può non
tradursi anche in responsabilità
civile, e l’uomo diventa, come si
usa dire, un soggetto attivo di
storia.
La libertà
delia coscienza
L’uomo che vive nella fede la
sua libertà dalla tirannia del peccato, della legge e della morte,
non può non manifestarla nelle
situazioni reali in cui egli è. E
questa libertà:
— è la libertà dalla maledizione sotto la quale inevitabilmente
cadiamo (queste cose le dobbiamo dire), sia per la nostra ribellione e disubbidienza, sia per la
decisione di Dio di scartare ogni
pretesa di giustificazione mediante le opere; è conseguentemente la libertà:
— da una esistenza che pone
se stessa come unica divinità da
adorare, e che, pertanto, staccata da Dio e dalla vita, si conclude inevitabilmente nella morte;
— dalla volontà di vivere esclusivamente per se stessi, di essere
i soli padroni e i costruttori autonomi del proprio presente e
del proprio avvenire.
Dunque, in questa libertà sperimentata nella fede, l’uomo scopre — come già ho avuto modo
di dire in altra occasione — di
non essere e di non poter essere
un piccolo mondo autosufficiente, in una posizione perennemente antitetica o al massimo neutrale nei confronti degli altri,
considerati anch’essi come piccoli mondi a sé stanti nemici o
estranei, da ricambiare con
eguale inimicizia o indifferenza.
Matura, quest’uomo che viene
aggredito dalla libertà per la
quale Cristo libera, la consapevolezza di stare assieme all’altro,
di realizzare la sua umanità solo
aprendosi all’altro in un rapporto di fraternità; esce fuori dalla
paura per se stesso, dalla cura
esclusiva dei suoi propri interessi: acquisisce la piena disponibilità per le relazioni attive
con gli altri, la capacità di lottare per la libertà degli altri, di costruire e trasformare a livello
non solo dei rapporti interpersonali, ma delle formé stesse della
vita associata, senza lasciarsi
inebriare dal successo quando
capita di raggiungerlo, né piegare dall’insuccesso con il quale
più frequentemente ci si imbatte.
Libertà per
servire il prossimo
Insomma, questa libertà che
Dio dona nel suo Evangelo, che
si gusta nella fede, è la libertà
per la quale l’intenzione dell’uomo — scrive Lutero — è diretta
« soltanto a servire e ad essere
utile agli altri... Paolo ha chiaramente posto la vita cristiana in
questo; che tutte le opere siano
rivolte al bene del prossimo, poiché ognuno ha a sufficienza per
se stesso nella fede, e gli restano
tutte le opere e la vita per servire con esse, per libero amore, il
suo prossimo » (La libertà del
cristiano); per creare, diremmo
noi, le condizioni per le quali
questo amore non sia semplicemente un sentimento, sia pure
nobile, né semplicemente una dichiarazione, sia pure entusiasmante, ma venga manifestato
in segni concreti.
Emerge allora dalla nostra situazione, la quale — ripeto —
resta sostanzialmente religiosa,
un chiaro dato di fatto: e cioè
che non sembra probabile costruire un italiano nuovo, capace di un nuovo modo di vivere,
se non lo si libera anche da una
certa idea di Dio, nella cui soggezione egli viene tenuto, quella
idea impastata con i valori di autorità, di gerarchia, di mediazione; se non lo si porta ad un rapporto diverso con Dio, fondato
sulla grazia soltanto, vissuto in
un libero atto di ubbidienza e in
un amore libero.
Non so se negli alti luoghi della religione egemone (nella silenziosa contemplazione all’interno
del chiostro, o nella riflessione
delle severe aule accademiche) si
sia ipotizzato e magari anche realizzato un aggiornamento o un
mutamento nella concezione del
l’azione di Dio, della vita della
chiesa, ecc., cui è stato abituato,
nel corso dei secoli, il nostro popolo. Né so se in certi luoghi
(quelli chiamati «laici») della
classe dominante, questa religiosità sia stata veramente rifiutata
in blocco, preferendole, secondo
i risultati di certe analisi, la cosiddetta secolarizzazione. Non lo
so perché in quei luoghi non sono di casa, né ci tengo ad esserlo. Sono però di casa presso la
« povera gente », e conosco abbastanza i sentimenti religiosi e
la visione di Dio e della fede che
vivono in larghi strati popolari,
anche quando si dichiarano indifferenti o increduli. (...)
(...) Noi perciò poniamo senza indugi l’essenzialità del nostro
ruolo per la edificazione di una
Italia diversa dall’attuale, perché, sia pure nei nostri limiti e
nella relatività di ogni azione
umana, noi, per reiezione di
Dio, e per il fatto di essere storicamente il luogo della giustificazione per la sola grazia mediante la fede, della Sola Scriptura e del sacerdozio universale, siamo i portatori di una possibilità concreta di trasformazione nel profondo per il rinnovamento comune.
Non certo la possibilità di
condurre e vincere, secondo
una nostra ricetta, le battaglie
politiche e quelle per un nuovo
meccanismo di produzione (ciò
non è di nostra competenza né
rientra nei compiti delle chiese
di Gesù); neanche la possibilità
di fare la « rivoluzione » (la
« teologia della rivoluzione »
può essere tutt’al più uno stimolo, mai un programma o uno
strumento di analisi e di lotta),
ma la possibilità di cambiare
realmente modo di vivere.
Il cammino
della vita nuova
E non certo attraverso una riproposizione meccanica della Riforma del ’500 (chi pensa che
sia questo ciò che vogliamo non
ha proprio capito come ragioniamo noi protestanti), ma attraverso una rigorosa predicazione dell’Evangelo, nel quadro
della linea riscoperta dalla Riforma, cui comunque restiamo
strettamente collegati.
Proprio nella nostra situazione in cui si muovono con una
certa forza tendenze vecchie ma
di cui non è ancora possibile definire con precisione il vestito
che indossano oggi (penso per
esempio alla vena -di « radicalismo », o alla chiusura nel « privato » con l’inevitabile sfiducia
verso il « politico », o al tentativo di corporativizzare il movimento operaio: a questo mi
sembra che porti alla fine la linea di « autonomia », ecc. ecc.);
in una situazione in cui (come
s’è detto) è difficile per tutti
proiettare i problemi reali in
uno schema di sviluppo diverso
e inqlividuare soluzioni abbastanza chiare per ottenere un
reale mutamento a livello poli-
5
tico (l’esperienza di questi ultimi anni, e di questi ultimissimi
giorni lo dimostra ampiamente);
proprio in questa situazione
noi diciamo con estrema chiarezza che solo nell’accettazione
dell’Evangelo della libertà, solo
in un sincero ravvedimento, è
possibile imboccare il cammino
della novità di vita, di un nuovo modo di essere, di morire al
vecchio e nascere al nuovo, per
tentare con serietà la costruzione di una Italia,
dove Dio sia finalmente adorato in spirito e verità, e sia rispettato il diritto « dell’orfano
e della vedova »;
dove siano lasciati liberi gli
oppressi e sia infranto ogni sorta di giogo, e ciascuno divida il
suo pane con chi ha fame, e non
si nasconda a colui che è carne
della sua carne;
dove non vi sia più bimbo
nato per pochi giorni né vecchio
che non compia con serenità il
numero dei suoi anni;
dove si costruiscano case e
le si abiti, si piantino vigne e
se ne mangi il frutto, e nessuno
costruisca perché un altro abiti, o pianti perché un altro mangi;
dove non ci si affatichi invano e non si abbiano più figliuoli per vederli morire ad un
tratto; (dai capitoli 58 e 65 di
Isaia).
Tutto questo lo diciamo nel
pieno rispetto delle elaborazioni e delle posizioni altrui: al di
fuori di ogni tentazione « integrista », di ogni volontà di imporre una « etichetta cristiana »
a tutta la realtà, o di proporre,
come l’unica valida, una soluzione « cristiana » della crisi nel
suo spessore economico e politico (le superiori citazioni di
Isàia sono solo «descrittive»).
Ma lo diciamo, e lo ripetiamò
senza stancarci, lo predichiamo
sui tetti, a tempo e fuori di tempo: oggi più che mai è necessario e urgente che si cambi il
nostro modo di vivere.
Non vogliamo che ci si dica
domani: « avevate ragione ». Vogliamo che ci si ascolti oggi, prima che sia troppo tardi, prima
che succeda l’irreparabile.
Il compito
delle nostre chiese
Si predica che oggi c’è un ritorno al « religioso »: noi diciamo che oggi si deve piuttosto
tornare a Dio e alla fedeltà al
suo patto di grazia e di amore.
Oggi si parla e si scrive fin
troppo di Gesù: noi diciamo che
oggi si lasci piuttosto parlare
Gesù, ci si metta davanti al suo
Evangelo e lo si ascolti seriamente, senza idee preconcette,
così da sottoporsi all’azione dello Spirito, e accedere alla libertà dei figli di Dio.
Dio vuole riportare il nostro
popolo a questa libertà. Non è
possibile che il sangue dei martiri della fede che ha bagnato le
terre della nostra penisola, quello che con tanta abbondanza è
stato sparso in queste vallate,
sia stato invano, per un capriccio della storia. Riesco a vederlo
solo in un disegno di liberazione
del nostro popolo dalle infedeltà
a Dio, dalla schiavitù delle opere.
delle mediazioni, dei riti, sotto
cui lo si è portato.
È il disegno nel quale rientrano, a mio avviso, anche gli avvenimenti che hanno portato alfa nascita delle nostre chiese:
Dio si sceglie degli uomini e delle donne, i nostri padri e noi,
per annunciare al nostro popolo,
in parole e fatti, quella libertà
che, secondo Lutero, « fa libero
il cuore da tutti i peccati, le leggi, i comandamenti ».
È qui il nostro compito storico, ed è qui che trova il suo senso ultimo anche l’integrazione
delle chiese valdesi e metodiste
di cui celebriamo il primo Sinodo unico.
Ringraziato sia il nostro Dio e
Padre che, con il dono di questo
compito, strappa ancora una
volta la nostra vita dalla vanità
e dalla tristezza del nostro mondo: Egli è colui che ci riempie di
coraggio, dando forza all’anima
nostra (Salmo 138), e a lui solo
siano l’onore e la gloria. Ameni
Sergio Aquilante
(Eco-Luce n. 31, 3 agosto ’79).
INTRODUZIONE AL DIBATTITO SINODALE SULL’EVANGELIZZAZIONE
Evangelizzare è il
mestiere della chiesa
Evangelizzare è ìi mer
stiere della chiesa. La chiesa è veramente se stessa
solo se e in quanto evangelizza.
Una chiesa che non evangelizza
si condanna a una specie di non
esistenza.
Il libro degli Atti, che è per eccellenza il libro della chiesa, non
è altro, a ben guardare, che
una raccolta di resoconti missionari.. Molte assemblee di
chiesa e anche assemblee cultuali riferite negli Atti non sono
altro che incontri in cui si riferisce su missioni compiute o
progettate. I culti dovrebbero
anche oggi essere il momento
della vita della chiesa in cui la
comunità cristiana ode dai suoi
membri e dai suoi ministri i resoconti della loro attività missionaria. Così la missione diventa parte integrante del culto cristiano, l’azione diventa preghiera, l’evangelizzazione diventa
edificazione. Che evangelizzare
sia il mestiere della chiesa è —
ne sono certo — una convinzione diffusa e condivisa tra di noi,
per cui è inutile spendere tempo e parole per confermarla
nella nostra coscienza. Basta
leggere le belle pagine del rapporto della Tavola al Sinodo dedicate alla evangelizzazione per
avere il quadro teologico in cui
si colloca la nostra riflessione.
Anche la predicazione nel culto
di apertura di questo Sinodo
era un appello alle chièse aflìnché si rendano ben conto che
senza un Evangelo annunciato,
creduto e vissuto, non è possibile ricostruire il nostro paese,
fare una Italia nuova. In questa
nota introduttiva mi limiterò
quindi ad alcune osservazioni integrative a quanto abbiamo letto nel rapporto della Tavola e
udito nella predicazione di domenica.
Terra di missióne
La prima osservazione molto
generale ma fondamentale per
ogni ulteriore discorso sull’evangelizzazione, è che l’Italia globalmente considerata, è, oggi
non meno di ieri, terra di missione. Non diciamo questo con
l’animo di chi si propone di colonizzare una popolazione giudicata religiosamente primitiva
o sottosviluppata. Neppure l’ombra di questi sentimenti alberga nel nostro animo. Didiamo
che l’Italia è terra di missione
nel senso che stiamo 'passando
da una fase storica durata*,più
di un millennio che potremmo
qualificare di « cristianizzazione
dall’alto», a un’altra fase storica, appena iniziata, che potremmo qualiflcare di « evangeliaoa
zione dal basso». Non dobbiamo
dimenticare il fatto che nel nostro paese il cristianesimo è ancora in larga misura ima religione indotta, per non dire imposta o quanto meno sovrapposta. Abbondano nel nostro paese come del resto in tanti altri
quelli che Barth chiama « cristiani non cristiani », persone
cioè che, col battesimo, sono uf
flcialmente diventate cristiane
prima di sapere che cosa ciò volesse dire. Gli esiti di questa
« cristianizzazione dall’alto » non
sono confortanti. È questa una
condizione generale dei paesi di
antica tradizione cristiana, qualunque sia la loro caratterizzazione confessionale. Senza volerci ergere a giudici di nessuno non possiamo però fare a
meno di constatare che nel nostro paese il cristianesimo è in
larga misura poco conosciuto, o
male conosciuto, o semplicemente sconosciuto. E senza pretendere, come chiese evangeliche, nessun monopolio nel campo dell’evangelizzazione, c’è senza alcun dubbio un immenso
compito da svolgere, che è proprio il compito elementare di
una evangelizzazione di base.
Non so se le nostre chiese hanno tutte la sufficiente consape
L'alternativa di fondo
Il Sinodo, preoccupato della crisi sempre crescente che travaglia II
nostro paese, ritiene indispensabile e urgente annunziare ai nostri connazionali, come alternativa di fondo, la via del radicale rinnovamento
che, è neH’Evangelo, nella convinzione che solo uomini resi liberi dalla
PartHa di Dio possono spezzare le catene che li tengono prigionieri.
Rallegrandosi per i segni di ritrovato impegno di evangelizzazione
che si sono manifestati in diversi modi ed occasioni, invita tutte le
Chiese a mobilitarsi in questa direzione, liberandosi da eccessive preoccupazioni di carattere interno, assumendo come propri i problemi degli uontìni fra cui vivono, e ponendo a confronto le diverse esperienze e situazioni.
Il Sinodo invita la Tavola a fornire alle Chiese tutti gli strumenti
necessari ad assolvere a questo impegno (documenti di studio, materiale di evangelizzazione rispondente alle esigenze che si vanno riscontrando nel concreto ecc.), nonché a tener conto di questa esigenza nella
conduzione amministrativa della Chiesa.
^ Il Sinodo ritornerà nella prossima sessione sul problema dell’evange) lizzàzione per valutare le es|rérienze condotte e là riflessioni maturate e
ricercare le linee di una comune strategia di testimonianza. (29/SI/79).
6
volezza di questo compito. Certamente è indispensabile che
l’acquisiscano. Esse devono sapere che la loro testimonianza
non è come pioggia che cade su
terra bagnata ma come pioggia
che cade su terra asciutta. Qui
non si tratta di arricchire il cristianesimo italiano con una variante in più (che sarebbe quasi
un lusso con i tempi che corrono), ma si tratta di ricostruire
dal basso una comunità cristiana degna di questo nome.
Evangelizzazione
ed ecumenismo
La seconda osservazione riguarda i rapporti tra evangelizzazione e ecumenismo. I rapporti tra evangelizzazione e polemica ci sono più familiari e quindi
anche più chiari. Quelli tra evangelizzazione ed ecumenismo sono ancora da sperimentare e
persino da impostare. Si tratta
dunque di un terreno praticamente inesplorato. Mi limiterò
quindi a im paio di rilievi.
a) Chi ha fatto qualche esperienza ecumenica nel nostro
paese sa che esistono nella Chiesa cattolica italiana delle energie cristiane sostanzialmente
evangeliche con le quali sono
possibili sin d’ora momenti di
reale comunione in Cristo. Qui,
evidentemente, non si tratta di
evangelizzare, ma di scoprire come l’Evangelo opera senza di
noi e renderne lode a Dio. Si
tratta certo di un’esperienza circoscritta ma non per questo meno significativa. Può anche succedere, in certi incontri non solo di non dover evangelizzare
ma di essere evangelizzati. Sono quelli che potremmo chiamare « cattolici evangelici ».
b) Vi sono poi, in Italia, aree
cattoliche più o meno vaste,
orientate eciunenicamente che
vogliono strappare la loro chiesa al suo isolamento confessionale, quindi cercano il confronto e il dialogo con noi in vista
di ima cristianità ecumenica
purificata dalle parzialità di
gruppo o di confessione. Qui la
evangelizzazione, nella forma
dell’annuncio evangelico puro é
semplice, comprese le sottolineature tipiche della Riforma, è
non solo possibile ma auspicata. È un terreno in cui è possibile im’ampia seminagione della parola evangelica, i cm frutti saranno raccolti da mietitori
futuri. Queste aree sono anch’esse largamente minoritarie
ma non per questo da ignorare
o snobbare tanto più che esse
tendono sempre più a coincidere con i nuclei più coscienti delle comunità. Lì troviamo quelli
che possiamo chiamare i_ « cattolici ecumenici parrocchiali ».
c) Vi è in terzo luogo la gran
massa dei cattolici la cui religiosità, quando non è del tutto
sbiadita, è fatta sostanzialmente di ubbidienza alla chiesa, di
devozione papale, di senso del
miracolo, non soltanto quelli
della Madonna, ma anche quello della transustanziazione. So
no quelli che potremmo chiamare i « cattolici thdentini » che
nel nostro paese rappresentano
ancora una realtà molto consistente e resistente. La religiosità tridentina o post-tridentina,
se così la vogliamo chiamare, è
ancora molto diffusa. Qui l’evangelizzazione non potrà consistere che in una proposta di
rifondazione della fede che sia
veramente fondata in Cristo e
non in qualche suo surrogato
ecclesiale. È il problema della
religiosità popolare, che forse
abbiamo studiato troppo poco.
Qui credo che il messaggio della libertà del cristiano dovrebbe essere sparso a piene mani,
come veniva detto nella predicazione di domenica.
d) Infine la gran massa degli
italiani che è cattolica culturalmente e sociologicamente, anche se ha un rapporto molto tenue o addirittura inesistente
con la chiesa. Sono quelli che
potremmo chiamare i « cattolici
secolarizzati » rispetto ai quali
l’evangelizzazione non può consistere che nel tentativo di
aprirli a una prospettiva di fede, speranza e amore, praticamente per la prima volta nella
loro vita.
In conclusione i rapporti tra
evangelizzazione e ecumenisnio
sono complessi e articolati: in
certe situazioni l’ecumenismo è
il contesto, il quadro dell’evangelizzazione; in altre l’evange
lizzazione è il contesto per un
discorso ecumenico che seguirà. Siamo convinti che la vera
evangelizzazione è ecumenica e
che il vero ecumenismo è evangelizzatore. Il proselitismo è, secondo noi, un falso problema.
Evangelizzazione
e ateismo
Un terzo ordine di problemi
riguarda i rapporti tra evangelizzazione e ateismo. Il nostro
secolo è stato chiamato il « secolo senza Dio » e in un certo
senso è così. Hromadka, il teologo cecoslovacco, scrisse un importante libro; «L’Evangelo per
gli atei». In Occidente è stato
scritto un libro dal titolo; « L’Evangelo e l’ateo ». In questa piccola variante nel titolo si celano non pochi significati. Ora,
nella nostra piccola chiesa si è
fatto non poco cammino, non
poche esperienze, anche di frontiera. Pensiamo in particolare
alla linea di riflessione e di azione percorsa dalla Fgei. Ma è
mancato un momento di raccolta con cui mettere insienie
quanto è stato già vissuto in
questo campo, in modo che vada a profitto di tutti. In questo quadro avremmo bisogno di
un buon libro sulla conversione
(non nel XVIII o XIX secolo ma
nel XX secolo).
Spunti pratici
Alcune osservazioni conclusive:
a) L’Evangelizzazione non può
che essere estremamente varia
e articolata, servendosi di strumenti diversissimi, dal libro al
volantino, dal manifesto allo
spettacolo teatrale, dal discorso in piazza allo studio biblico
in casa, dalla filmina biblica o
di altro genere al gruppo corale.
b) La paralisi evangelistica
verrà rotta dall’azione, non dalla riflessione. Viene il momento
ih cui solo l’azione libera. Il
problema della evangelizzazione
non si risolve discutendone ma
facendola. Viene il momento in
cui chi non fa, non è. Chi non
fa, non pensa. Gli stessi contenuti del messaggio si chiariscono nell’azione.
c) Non si può offrire quello
che non si ha. L’Evangelo deve
essere qualcosa di vitale per chi
lo propone. Certo, lo sappiamo,
noi non abbiamo nulla — se non
nella fede. Ma solo se l’Evangelo è qualcosa di vitale per noi,
possiamo presentarlo come vitale per gli altri. E inversamente si può anche dire che nella
misura in cui comprendiamo
quanto l’Evangelo sia vitale per
gli altri, lo diventa anche per
noi.
Paolo Ricca
(Eco-Luce n. 32, 10 agosto ’79).
DAL DOCUMENTO DELLA TAVOLA VALDESE
L’evangelizzazione: ipotesi
un programma|operativo
Premesse generali
1. Il Sinodo ha indicato giustamente nell’evangelizzazione il
problema di fondo dell’esistenza
stessa delle chiese valdesi e metodiste. La Tavola pertanto ha
studiato già nella sua prima seduta il modo di tradurre in pratica tale indicazione sinodale.
Non sono infatti le en^ciazioni di principio suggestive o le
tradizioni gloriose che ci mancano: i valdesi amano ripetere
la parola d’ordine di Beckwith
« sarete evangelizzatori o non sarete » e i metodisti il motto cfi
Wesley « la 'mia parrocchia è il
mondo »: gran parte delle comunità valdesi e metodiste è
frutto della evangelizzazione.
V’è però una coerenza solo assai parziale tra le enunciazioni
di principio e la prassi quotidiana, o fra le tradizioni del passato e la realtà presente. La Tavola quindi ritiene suo dovere
di fare presenti ai Distretti, ai
Circuiti e alle chiese le seguenti
considerazioni e indicazioni operative.
2. Deve essere chiaro a noi tutti che l’obiettivo (U fondo dell’evangelizzazione è l’annuncio
deU’Evangelo di Cristo. Deve esser chiaro cioè che spiegare al
pubblico « chi sono gli evangelici » o polemizzare con talune
dottrine del cattolicesimo po®;
sono essere solo degli obiettivi
secondari, discendenti dall’obiettivo primario, ma non ad esso antecedenti in alcun modo.
Ci si deve dunque guardare dall’errore di capovolgere la prospettiva, cioè di parlare prima
di evangelici, di valdesi o di polemica e solo dopo della Salvezza che è in Cristo.
3. La svalutazione o il diniego
addirittura del « proselitismo »
non ha senso. L’evangelizzazione
non è diffusione generica di idee,
magari molto belle e rispettabili. È ricerca della conversione il
cui corollario necessario è l’ampliamento o la costituzione ex-novo della comunità dei credenti
con i ministeri relativi del pastore, dell’anziano, del diacono
ecc. Nella realtà presente delle
nostre comunità, spesso sclero
tizzate a guisa di associazioni
di culto chiuse su se stesse, può
risultare diffìcile l’immissione di
nuovi convertiti. Non si deve
avere paura della nascita eventuale di nuclei nuovi, a fianco
della vecchia comunità, purché
anch’essi siano in grado senza
indugio di esprimere dal loro
seno i ministeri. Va evitato invece il rìschio di gruppi attaccati
al collo di un pastore-balia ed
incapaci di camminare da sé. Il
modello della « classe » metodista, col suo leader laico e con
il ministero itinerante del « pastore ordinato » può essere ancora oggi un modello utile, ancorché non unico né obbligatorio.
4. La Scrittura parla di Evangelo predicato « ai poveri ». Evidentemente, nella società attuale,
non si tratta solo dei poveri in
fatto di mezzi finanziari: si tratta anche di coloro che sono poveri di affetti, di speranze, di
gratificazione nella propria esistenza. L’Evangelo ha un messaggio concreto per le donne, i
giovani, gli emigrati, gli anziani.
7
gli ammalati, ì lavoratori della
fabbrica, i pendolari, gli emarginati. Si tratta dunque di rendere chiaro questo messaggio, in
cui ogni persona può trovare la
risposta al suo specifico problema. Le parabole di Gesù sono
un modello di linguaggio a tutti
comprensibile, con i loro riferimenti all’esperienza quotidiana.
Per annunziare l’Evangelo « ai
poveri » non si deve avere timore di usare « un linguaggio da
scuola domenicale », troppo poco raffinato culturalmente, o di
fare riferimento non solo alla
storia ma alla cronaca stessa.
5. L’Evangelo non significa
« religione », né evasione dalla
realtà con i suoi problemi e le
sue lotte, a cominciare dalle lotte sociali. La predicazione della
« metànoia » è rivolta non solo
agli individui, secondo la tradizione pietista e risvegliata, ma
altresì alla società e alla nazione. Attualmente, solo una volta
all’anno, in occasione del Sinodo, si ascoltano talora degli ¡appelli alla nostra nazione o meglio « alla nobiltà e ai magistrati della nazione » italiana, cioè
alla nostra classe politica. L’appello « alla nobiltà e ai magistrati della nazione » italiana deve
risuonare anche negli intervalli
tra un Sinodo e l’altro, con tutta
la forza e al bisogno la coraggiosa chiarezza, indispensabili.
6. D’altra parte, non è compi
to della Chiesa riecheggiare i
messaggi altrui, sia pure molto
nobili e umanamente rispettabili. Serve a poco fare constatare
come anche noi evangelici ci
schieriamo su posizioni « progressiste ». È urgente e indispensabile portare agli italiani quel
messaggio dell’Evangelo come
salvezza per sola Grazia, che nessuno porta, né porterà loro. Anzi, è indispensabile chiarire che
l’Evangelo è davvero « totalmente altro » dalle religioni (comprese le religioni atee) e le moralità del secolo presente. È urgente e indispensabile annunziare che « la scure è posta alla radice degli alberi », compresi gli
alberelli cfte sono più cari, umanamente, al nostro cuore, e che
anche le più belle posizioni progressiste sono « splendidi vizi »
all’infuori della parola di Dio,
che è la roccia dei secoli.
7. È inutile che continuiamo a
pascerci di belle parole sull’evangelizzazione, se poi nei fatti le
forze, le risorse materiali ed umane, il tempo degli operai, in
ciascuna nostra comunità sono
spesi piuttosto per la conservazione di quel poco che esiste, anziché per l’evangelizzazione. Occorre un serio e radicale ripensamento delle nostre priorità
reali in materia di vita ecclesiastica. Solo « chi perde la propria
vita la ritroverà »: solo la comunità che saprà subordinare la
propria vita interna aile esigenze prioritarie dell’evangelizzazione, riceverà benedizioni abbondanti. In questo, ovviamente,
una responsabilità tutta particolare spetta ai ministri della Parola.
8. Dobbiamo confessare, infatti, che — laddove non manchiamo di esperienze nel campo della
diaconia e di uomini con spiccata consacrazione in tale campo
— siamo abbastanza carenti di
operai che siano avanti tutto
degli evangelizzatori, come siamo carenti di esperienze molto
recenti in fatto dì evangelizzazione, analoghe a quelle (Colleferro
e Ferentino, S. Giovanni Lipioni ecc.) di alcuni anni or sono.
Abbiamo urgenza di una sorta
di « riqualificazione » dei nostri
operai. E dobbiamo restituire il
posto che gli è dovuto secondo
la Scrittura al ministero dell’apostolo, dell’evangelista, che non
necessariamente hanno da coincidere con quelli del presbitero
e del diacono. Tanto meno è
scritto nel Nuovo Testamento
che questo ministero debba coincidere sempre con un diploma
della Facoltà di teologia. Se lo
« apostolo » ha anche un titolo
accademico tanto meglio. Ma
può essere molto bene anche un
uomo con queireccellente laurea che è l’esperienza del lavoro
in fabbrica, nel partito, nel sindacato, oppure ima donna con
quell’altra ottima laurea che è
l’esperienza profonda dei doni e
dei problemi, delle benedizioni e
delle lotte della condizione femminile. Dobbiamo inoltre avere
chiaro che l’opera di evangelizzazione può ma non deve necessariamente coincidere con la cura d’anime di una diaspora. Anzi, si dovrebbe tendere piuttosto a destinare una persona alla cura della diaspora e un’altra
alla evangelizzazione.
9. Su un programma di ripresa dell’opera evangelistica si può
e di deve ricercare la più ampia
gamma di alleanze e di collaborazioni che sia possibile, al livello nazionale, come al livello
dei distretti e soprattutto dei
circuiti. A livello nazionale, la
Tavola farà ogni sforzo per giungere ad accordi e forme di collaborazione con gli organismi
interdenominazionali (PCEI e
PGEI) e con la direzione di opere evangeliche, con particolare
riguardo all’Unione Battista e
alla Comunione delle Chiese Cristiane Libere. A livello dei circuiti vanno ricercati « patti di
unità di azione » con tutte le comunità evangeliche locali, che
accettino di collaborare ad un
comime sforzo evangelistico, e
possibilmente anche con le « comimità di base ».
(dal documento distribuito alle
chiese valdesi e metodiste, 9’79).
Primo documento per una riflessione
comune sulla situazione delle chiese
battiste, metodiste e valdesi in Italia
2. Valutazione
della situazione
Parola che si verifica, l’evangelizzazione non ha luogo.
2.1 — Si giunge così al nostro
presente. Da quanto si è cercato
li mettere in luce, emergono al:une linee indicative, da porre
in evidenza.
2.1.1 — La messa a punto e la
utilizzazione degli strumenti per
una nuova evangelizzazione deve
essere in stretto rapporto col
contenuto del messaggio oggetto dell’evangelizzazione stessa.
Ma ciò non basta, poiché occorre una chiara percezione ed una
adeguata enunciazione dei temi
da trattare nell’azione evangelistica.
2.1.3 — Compito dei nostri organi responsabili è dunque quello di cogliere i segni del tempo,
sollecitare le assemblee ecclesiastiche, precisare i contenuti del
messaggio da offrire al popolo,
promuovere la preparazione dei
credenti, favorirne l’azione nella
società.
2.1.2 — Il contenuto dell’evangelizzazione infatti è costituito
dalla Parola di Dio per la salvezza del mondo; ma la determinazione dell’annuncio si configura
in relazione al tempo in cui esso
si produce. Se non c’è corrispondenza tra l’azione evangelistica
che si compie e i’evento della
2.1.4 — La strategia della missione a ranghi separati può essere considerata come esaurita.
Le nostre singole denominazioni
si trovano oggi di fronte ad una
scelta angosciosa: o concentrare
tutte le forze per curare i membri delle nostre chiese colpiti dal
fenomeno della secolarizzazione,
e di conseguenza trascurare ogni
vera iniziativa di testimonianza
e di evangelizzazione sistematica; oppure concentrare energie
su iniziative di testimonianza e
di evangelizzazione, lasciando le
chiese in preda ad un rapido processo di logoramento e deterioramento.
Occorre trovare la via per assicurare sia una seria cura delle
chiese esistenti, sia un’iniziativa
evangelistica qualificata; quindi
si impone l’elaborazione di una
strategia predisposta insieme
per i fini comuni.
2.1.5 — Riteniamo che rincontro diretto delle chiese al fine di
conoscersi concretamente sia un
passo obbligato per l’elaborazione di una strategia evangelistica comune. Questo passo è necessario anche perché si attraversa una fase in cui si devono
riorganizzare e mettere a punto,
i mezzi per una nuova partenza.
Non bisogna però attardarsi nei
preparativi, ma osare subito correndo i rischi del caso.
Si deve agire da protestanti a
cui è imposta la necessità della
missione evangelistica e che non
possono altrimenti.
2.2 — Le prospettive dell'evangelizzazione.
2.1.6 — Oggi vengono offerte
due alternative ad un rilancio
evangelistico: risolversi nella cristianità italiana presentandosi
come lievito del cattolicesimo;
oppure dissolversi nei movimenti di base sociale e politici visti
come portatori di novità. La nostra vocazione però è un'altra.
2.2.1 — Se il senso dell’esistenza delle chiese protestanti in Italia consiste nel predicare l’Evangelo nella società, allora esse debbono a tal fine impegnarsi a rivalutare i credenti che formano
il popolo evangelico e riqualificarli in senso biblico e teologico.
2.2.2 — Se è corretta l’analisi
che vede in atto un riflusso moderato, cui corrisponde un ritorno alla valorizzazione del privato, allora dobbiamo rispondere
che le istanze del privato si risolvono nella società in cui siamo
chiamati a vivere. Per questo è
necessario rilanciare, non una
religiosità fra le altre, ma un
forte appello a cambiare mentalità e vita; reinventare la capacità di dare la « buona notizia »
alla gente; recuperare quegli
8
strumenti che si rivelano utili
nel quadro della strategia generale; ed adeguare .sia la vita personale, sia il costume di vita
ecclesiastico all’impegno che ci
incombe.
2.2.3 — In questo quadro occupa un posto fondamentale il problema dell’etica. Riteniamo che
l’etica protestante sia una seria
proposta di vita per i nostri contemporanei, perché è critica e
problematica. Noi siamo infatti
convinti che i fondamenti di
un’etica si possono trovare solo
nel rapporto con Dio vissuto sulla base dell’Evangelo. Questo significa che l’etica può essere veramente trasformata solo riformandone i presupposti religiosi,
contro tutte le illusioni di far
nascere un’etica laica, razionalistica e autosufficiente. Il nostro
discorso si potrebbe articolare
in alcuni punti fondamentali tra
i quali segnaliamo i seguenti;
2.2.3.1 — La responsabilità. Acquistare responsabilità di vita
significa ascoltare Gesù Cristo e
cioè: assumersi in proprio il peso degli atti che si debbono compiere nel contesto sociale in cui
si vive, in un tentativo sempre
rinnovato perché sempre mancato, nell’aperto riconoscimento
degli errori compiuti.
2.2.3.2. — Il principio di contraddizione. Bisogna vivere nella
storia in modo dialettico, cioè capire che l’Evangelo ci rivela
quanto siamo perduti, e allo
stesso tempo ci annunzia la salvezza. Rispetto a questa contraddizione fondamentale tutte le altre che la società ci fa sperimentare si trovano dalla parte della
perdizione e non possono intaccare la speranza cristiana.
2.2.3.3 — Fare nella società le
cose che siamo capaci di fare. E
cioè agire nella consapevolezza
della nostra autentica identità
protestante. La nostra azione può
essere svolta in vari settori, ad
esempio: l’educazione, i problemi di costume, la questione femminile, l’obiezione di coscienza,
le relazioni con lo Stato, ecc.
2.2.3.4 — Attuare uno stile di
vita che sia una testimonianza.
Senza coerenza nella vita personale, familiaTe ed ecclesiastica
non c’è azione valida nella società.
2.2.3.5 — Il linguaggio. Dobbiamo far uso di un linguaggio che
sia espressione di identità e non
strumento di prevaricazione sull’altro; rifuggendo dalla verbosità, dall’ambiguità, dalla retorica,
dagli slogans. Il nostro modo di
comunicare deve ispirarsi alla
parola biblica, essere corretto e
sobrio.
2.2.4 — Altro settore in cui si
ritiene che si debba esplicitare
la nostra azione è quello del confrónto col cattolicesimo. A tal
proposito ci pare utile informare tutte le chiese sulla ricerca
che i metodisti hanno da tempo
profilato in tema di « cultura cattolica ». L’evangelizzazione non
può prescindere dal fatto che tale cultura condiziona pesantemente la vita pubblica e privata
degli italiani. Quest’operazione
critica deve mettere in evidenza
le contraddizioni insite nella vita italiana a causa della cultura
cattolica a cui dobbiamo contrapporre l’Evangelo.
2.2.5 — In tema di rapporti con
i cattolici dobbiamo sviluppare
un’azione tesa a rivalutare i fermenti dell’Evangelo che sussistono fra loro, così che essi siano incoraggiati a vivere in modo
autonomo la loro vocazione cristiana. Ciò presuppone la sconfitta della ipoteca sacerdotale e
clericale che attualmente si riscontra anche in settori avanzati e di ricerca.
2.2.6 — A questo punto vanno
considerati gli strumenti da impiegare. Ribadiamo che questo
problema non è trascurabile, nel
quadro di una strategia unitaria.
2.2.6.1 — Riteniamo che si debba rivedere il senso e il modo
della nostra presenza alla radio e
alla televisione. Bisogna caratterizzare il nostro messaggio in
senso evangelico, senza timore
di polemiche e distinguendo nettamente i tipi di pubblico a cui
ci rivolgiamo. In prima linea verrà il pubblico a cui ci indirizziamo a scopi evàngelistici; quindi
gli evangelici che hanno bisogno
di formazione e di informazione;
infine l’opinione pubblica alla
quale porgiamo un discorso culturale. Ciò vale anche per le nostre presenze nelle radio e televisioni private. £ necessario che
gli ascoltatori ed i telespettatori si facciano un’idea chiara, sia
formalmente che sostanzialmente, del nostro modo di vìvere
l’Evangelo. ^
2.2. Ó.2 — La nostra editoria dovrebbe rientrare nella strategia
dell’evangelizzazione. Essa deve
rispecchiare l’essenza della nostra predicazione, chiarire quali
sono e che senso hanno le nostre dottrine fondamentali, informare sulla storia e sulla realtà delle nostre chiese, illustrare
che cosa pensiamo sui temi di
attualità, per presentare non noi
stessi, ma la Parola evangelica
come noi la ascoltiamo in rapporto a quei temi.
2.2.6.3 — Il colportaggio, inteso come strumento di diffusione
della conoscenza biblica, deve essere ripreso e organizzato a nuovo. Evidentemente bisogna ripensare al contenuto delle cose
che si diffondono, ma anche alla
preparazione dei cplportori, che
non devono essere abbandonati
a se stessi.
2.2. Ó.4 — Uno strumento da rivalutare, per accedere al bisogno di qualificazione di tutti gli
appartenenti alle nostre chiese
come anche di quelli che ad esse
intendono associarsi, è quello dei
corsi per corrispondenza. Essi
dovrebbero indirizzarsi a diversi livelli culturali e caratterizzarsi in senso biblico, diffondendo
una vera cultura biblica e teologica.
2.2.6.5 — Qccorrerebbe ripristinare ed organizzare adeguatamente Io svolgimento del ministero itinerante; quel servizio
cioè di catechesi domiciliare che
fu nel tempo uno dei più proficui strumenti per la diffusione
e lo sviluppo deU’azione evangelisfica. Il colloquio diretto da
persona a persona avvalorato dall’ausilio di opuscoli ed altri brevi stampati da lasciare a mani
deH’interlocutore, può essere ancor oggi considerato uno dei mezzi più efficaci di penetrazione nei
più diversi ambienti.
2.2.Ó.6 — Occorre ricostruire
una mentalità operativa in senso evangelistico in modo che le
chiese locali si convincano della
necessità di riattivare l’evangelizzazione. Un esperimento da
tentare potrebbe essere quello di
svolgere una evangelizzazione a
tappeto in una zona circoscritta, insistendo per un certo periodo di tempo e al caso costituire chiese nuove, ove quelle già
esistenti in sito non si presentassero come centri validi per
la raccolta dei risultati della
campagna evangelistica.
2.2.7 — A conclusione di questa
seconda parte ci preme sottolineare che una visione globale
del nostro rilancio evangelistico
presuppone:
a) una chiara volontà operativa a tutti i livelli delle nostre
denominazioni, per favorire una
opera capillare di diffusione sia
della conoscenza reciproca sia
delle prospettive di evangelizzazione;
b) lo sviluppo di un’intesa
tra le tre denominazioni interessate per la coordinazione dei piani e la conduzione delle azioni
evangelistiche nelle diverse località;
c) la consapevolezza di dover rendere disponibile il personale specializzato da destinare ai
vari compiti che la strategia richiede in relazione alle operazioni evangelistiche.
3. Problemi aperti
offerti alla riflessione
delle chiese locali
3.1 —La presentazione storica
fatta nel presente documento non
vuole essere completa; con essa
si è soltanto voluto stimolare
una corretta valutazione dei fatti del hostro passato per rispondere tutti insieme alle istanze
evangelistiche dell’oggi che abbiamo cercato di individuare.
Allo scopo di ricercare una comune strategia evangelistica,
chiediamo alle chiese locali di
farci avere tutte le loro proposte e inoltre di rispondere alle
seguenti domande:
3.2 — Si sostiene che il richiamo ai valori della Riforma sbocchi in una pura e semplice « pre
senza evangelica » e che la ripresa dell’azione evangelistica può
nascere soltanto sotto la spinta
di tipo revivalistico. È possibile
la convivenza tra i valori della
Riforma e quelli del Risveglio e
tra la presenza nella società e
l’azione evangelistica?
3.3 — Il rilancio evangelistico
deve essere lasciato interamente
all’iniziativa delle chiese locali?
Ritenete opportuna una strategia evangelistica coordinata
fra le tre denominazioni a livello regionale e nazionale?
3-4 — Quali mutamenti interni
sono necessari nelle nostre chiese per quanto riguarda chiarezza
teologica, risveglio interno e capacità di accoglienza in vista della ripresa evangelistica?
3.5—- Quali tipi di persone e
di ministeri devono essere stimolati per un’azione evangelistica
nelle piazze o comunque fuori
dai templi?
Conclusione
Noi riteniamo che le parole
« evangelizzazione » g « testimonianza » abbiano oggi perduto
gran parte di quel significato
pregnante che esse avevano per
le generazioni che ci hanno preòeduto. Esse non costituiscono
più l’elemento dinamico e propulsivo nella vita delle nostre
chiese locali. Tali termini, negli
ambienti dove dovrebbero esplicare la loro portata ed i loro effetti, risultano sbiaditi e non incoraggiano più in vista di una
azione da svolgere. Pensiamo
quindi che si debba tentare di
formulare a nuovo la loro portata perché riacquistino significato e vengano raccolti e rilanciati dagli uomini del nostro
tempo, siano essi operatori, siano i destinatari di quanto queste parole esprimono in ordine
all’Evangelo di Cristo.
Per queste ragioni anziché dire « evangelizzare » vorremmo
poter esser compresi dicendo:
« annunciare l’Evangelo, la buona notizia che Gesù ci ha recata, nella società civile e politica,
per la conversione dei nostri contemporanei a Gesù Cristo, affinché non abbiano a perdersi, ma
sì salvino ».
Parimenti riteniamo che il senso proprio della « testimonianza » venga reso oggi soprattutto
dall’esempio dato dal credente e
dalla vita della comunità.
Ih definitiva quanto esposto in
questa prima parte del nostro
documento si può condensare
nella seguente ricerca; quali sono i temi insorgenti dalla Scrittura che si stima possano maggiormente rispondere alle attese
di oggi ed essere presentati da
persone che si sforzano di esporli in coerenza di vita e di comportamento.
(dal documento distribuito
alle chiese battiste, metodiste e valdesi, giugno ’79)