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5 febbraio 1988
questione meridionale
Noi non siamo cristiani, — dicono i contadini — Cristo si è fermato a Eboli.
Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio,
uomo: e la frase proverbiale che ho
sentito tante volte ripetere, nelle loro
bocche non è forse nulla più che l’espressione
di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi
non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie
da soma, e ancora meno che le bestie, perché
noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Cristo si è davvero
fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si
addentrano nelle desolate terre di Lucania, Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il
tempo, né l’anima individuale, né la speranza,
né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non
erano arrivati i romani, né i greci. Nessuno
ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo:
nessun messaggio umano o divino si è rivolto
a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si
è fermato a Eboli. Carlo Levi
CONVEGNO DELLA FEDERAZIONE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA
EBOLI ED OLTRE
La militanza evangelica a confronto sulla questione meridionale che
è politica, economica, sociale, religiosa: una questione nazionale
Aprendo il convegno "Eboli ed oltre" ’, il presidente
della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, pastore Aurelio Sbaffi, ha detto
che lo scopo dell’incontro
era affrv lare il tema della
"milita-r, cristiana” nel concreto ' ' problematiche po
ste i-'.'/’t società. Militanza:
una : : vola importante, cara
a generazioni di credenti
ritolto diverse nel loro rapporto con la società, con le
forme della politica, ma tutte convirtle che sia la caratteristica principale della vita
dei credenti.
Cosa significa "militare"
evangelicamente nel Mezzogiorno dell'Italia? O più in
generale, nell’Italia che sta
N fHijsr r,i
•LI m oi>ei&
Sì ascoltano le relazioni.
vivendo il riemergere di grandi fratture storiche, mai sanate nella storia di questi
150 anni?
A questa domanda il convegno ha cominciato a dare
delle risposte. Innanzitutto
il mezzogiorno è uno spazio
aperto per la testimonianza
cristiana. Per questo è necessario conoscerlo, studiare la
sua storia, la sua politica, la
sua economia, la sua antro
La residenza: Luciano Cirica, Salvatore Ricciardi, Paolo Spanu.
pologia, la sua religiosità.
Per sviluppare questa conoscenza ci servono gli strumenti dell’analisi culturale
più attenta a cogliere le linee
di tendenza storica dell’evolversi della questione meridionale, ci serve il rapporto
con i soggetti sociali che
stanno agendo per trasformare e per liberare l’uomo
da tutti i condizionamenti.
Ci serve anche un’azione
che tenda a unificare una diaspora, dispersa e divisa denominazionalmente, a darle entusiasmo, ad essere consapevole della propria storia e
del proprio ruolo.
Ed è sicuramente difficile
ricercare oggi i soggetti della
trasformazione. La società
meridionale è disgregata,
percorsa da forme di criminalità che costituiscono veri
e propri poteri contrapposti
a quelli legali. Esistono, e
non solo al sud, intere zone a
legalità sospesa. C’è una crisi della stessa democrazia.
La situazione del mezzogiorno non è però dissimile,
almeno per quanto riguarda
la politica (e la questione
meridionale è questione politica ) a quella del resto dell’Italia. Gli appalti e le tangenti sono un problema di
Torino come di Palermo, la
speculazione edilizia è que
stione a Milano come a Napoli.
Dal Mezzogiorno ci viene
una domanda di una nuova
etica (ma c’è anche chi dice
che basterebbe quella vecchia tradizionale dell’« onestà ») e la richiesta di non
cercare soluzioni troppo
semplicistiche, come in fondo è stata l’invio dei prefetti
piemontesi all’indomani dell’unità. I problemi complessi
non hanno spiegazioni semplici. Ci viene la richiesta di
analizzare i nostri comportamenti — al Nord come al
Sud — di assumere un impegno per cambiare le nostre
mentalità, di bloccare l’espandersi di nuove forme di
razzismo antimeridionale.
Una militanza è un compito che non si limita a un
giorno di convegno, ma che
ha bisogno di energie, di
fatica quotidiana. Ma noi
sappiamo che questo non basta. Siamo testimoni non di
noi stessi, ma di una Parola
libera che libera innanzitutto anche noi stessi, e che costruisce una identità evangelica rinnovata, che conosce
la propria storia senza farne
un feticcio.
In questo senso il Mezzogiorno è uno spazio vocazionale che si apre davanti alle
nostre chiese, uno spazio per
l’evangelizzazione. Il convegno ci mette davanti a questa responsabilità.
Giorgio Gardiol
‘ Il convegno « Eboli ed oltre » è
stato organizzato dal Servizio di Azione Sociale della EGEI e si è svolto
a Monteforte Irpino (Av) dal 5 all'8
dicembre '87. Questo inserto presenta una sintesi (non rivista dagli autori) deHe principali relazioni ed alcune integrazioni redazionali sul temi
delia « questione meridionale ». Del
convegno sono in corso di pubblicazione gli atti a cui rimandiamo per I necessari approfondimenti.
SERVIZIO DI AZIONE SOCIALE
Le linee di lavoro
A cinque anni dalia sua
costituzione ( nel novembre
1982) e a 7 anni dal terremoto
che ha devastato l’Irpinia, il
Servizio di Azione Sociale
(SAS) della Federazione delie
Chiese Evangeliche in Italia
(FCEI) constata una svolta
importante nei suo lavoro. Il
SAS ha coordinato ie attività
sostanziaimente in quattro iocalità: Napoli (quartiere Ponticelli), Monteforte Irpino, Senerchia e Ruvo del Monte.
Superata l’emergenza del
terremoto e l’opera di ricostruzione, il SAS ha concentrato la sua azione in alcune
località e con modalità di lavoro specifiche. Si è partiti
dal principio che bisognava
operare là dove era possibile
un’azione di sostegno alle popolazioni che andasse al di là
dell’emergenza immediata e
assicurasse una continuità di
lavoro, consentendo un reale
radicamento della presenza
evangelica e il graduale inserimento delle forze locali. Oggi le i>ersone che sono impegnate nelle varie attività sono
tutte locali (evangelici e non),
oppure persone che, venendo
da fuori, hanno scelto di trasferirsi in modo sostanzialmente definitivo, accettando
di condividere pienamente la
realtà della zona. Attualmente
lavorano nei servizi promossi
dal SAS dieci persone. A queste vanno aggiunti numerosi
volontari del posto ed alcuni
dei membri del gruppo dirigente del SAS, che assicurano una presenza ad intervalli
regolari nella zona. Collaboratori locali contribuiscono anche all’analisi e alla programmazione delle iniziative e dei
1985 sul tema « Dalla ricostruzione aUa trasformazione: il
ruolo del villaggio nel futuro
dell’avellmese », è venuta l’indicazione a uscire dalla realtà
un po’ ghettizzante del villaggio per muoversi nel mondo
della cultura avellinese alternativa al potere dominante e
in quello della ricerca biblicoteologica indipendente. Esponenti di questo mondo collaborano oggd a tutto il lavoro
socio-culturale dei SAS, che
implica una delicata mediazione e un coordinamento tra
le diverse spinte cittadine,
senza perdere mai di vista la
realtà quotidiana delta popolazione, di cui fanno parte le
famiglie residenti nel villaggio.
Ponticelli. Nel quartiere
opera un Centro Sociale situato nel villaggio Caracciolo
(60 case, 300 abitanti). II centro gestisce un doposcuolaanimazione per circa 25 bambini; un corso di tagUo e cucito gestito da una delle donne
del villaggio; un’attività sportiva per i ragazzi; un consultorio medico, affiancato da
incontri di educazione sanitaria; un cinefonim; un gruppo
ambiente; un servizio di assistenza sociale.
A Ruvo del Monte opera la
cooperativa « La Montana »,
con una stalla di circa 30 capi. E’ stato acquistato dalla
FCEI un terreno di dieci ettari per il foraggiamento. Si
prevede la possibilità di
espandere l’attività della cooperativa in altri settori (raccolta e/o trasformazione del
latte, cooperativa di servizi,
ecc.) per migliorare le basi
contatti con le autorità locali legati allo sviluppo del
lavoro.
I responsabili del SAS valutano positivamente la testimonianza evangelica implicita resa dalle varie attività, pur ponendosi il problema di passare a una testimonianza più
esplicita della fede evangelica.
Cessato da tempo l’elemento
unificatore costituito dalla ricostruzione, nella prima fase,
i vari centri del SAS hanno
assunto caratteristiche diversificate.
La loro azione si va sempre
più caratterizzando come intervento sociale nel Mezzogiorno, orientato secondo i
casi anche nel settore culturale o economico.
A Monteforte, nel villaggio
« 23 novembre » comprendente 30 case che sorgono su un
terreno di proprietà della
FCEI, funziona una scuola
materna con due maestre e
25 bambini provenienti dal villaggio stesso o dalla campagna circostante. Si è sviluppato il lavoro del Centro Incontri che, oltre ad accogliere
gruppi evangelici del napoletano, organizza un programma di campi estivi. Dai convegno organizzato nei marzo
finanziarie della cooperativa
stessa. Tecnici ag^ronomi e
obiettori di coscienza hanno
seguito per ben Ire anni, con
una presenza fissa, la cooperativa. Da più di due anni la
presenza esterna è solo saltuaria e la gestione quotidiana è passata alla gente del
posto.
A Senerchia la locale cooperativa, che è stata gestita fin
dall’inizio in collalDorazione
con la Lega delle cooperative
della Campania, ha realizzato
il raddoppio delia stalla iniziale, che dovrebbe contenere
circa cento capi, con conseguente ampliamento del silos
del fienile e della sala mungitura. Pur sostenuta dalla
FCEI, l’iniziativa della cooperativa è ampiamente nelle mani della gente dei luogo.
La presenza del pastore
evangelico battista Giuseppe
Tuccitto, che cura il gruppo
degli evangelici senerchiesi,
permette di promuovere i rapporti umani tra i soci della
cooperativa, mantenendo vivo
lo spirito combattivo e unitario di quanti sono coinvolti in
questa impresa. Un rustico è
stato trasformato in una sala
funzionale per le attività sociali e i culti.
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2 — questione meridionale
5 febbraio 1988
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La prima chiave di lettura che
vorrei introdurre per analizzare
il Mezzogiorno degli anni '80 è
il concetto di emergenza.
Perché uso 1’« emergenza » come concetto forte, uno di quelli
che caratterizzano la nostra storia recente?
Pèrché il ripetuto, martellante
ricorso a questo termine da parte della classe politica, il fatto
che venga ripreso e fatto proprio dai mass media, lo ha reso
cosi diffuso nella coscienza collettiva da trasformarlo in im
espediente narcotizzante, che nasconde i termini reali dei problemi, annacquando le responsabilità nel sottinteso ricorso ad
una sp»ecie di fatalità, di disgrazia. Da fenomeno endogeno, a
fatto che dipende da forze esogene, incontrollabili. Da dato
strutturale, a dato congiunturale. Non si può non sottolineare
la pericolosità dell’operazione, e
la sua strumentalità.
Hanno rappresentato di volta
in volta « emergenze » le catastrofi cosiddette « naturali », la
criminalità organizzata, la disoccup>azione. Forse i tre temi maggiori della storia di questi anni.
E potremmo fare anche esempi
piccoli: la mancanza di aule, ad
ogni inizio di anno scolastico,
è un’emergenza; rallagamento di
interi quartieri, ad ogni goccia
di pioggia, è un’emergenza... a
Catania siamo arrivati a definire
emergenza l'inverno, quando fa
freddo e non funziona il riscaldamento nelle scuole e negli osp)edali.
Il secondo asse è il modo in
cui la stessa « questione » si sta
configurando come questione democratica, della democrazia del
paese tout court.
« Mezzogiorno infelice. Mezzogiorno ingiusto », ha scritto
Oraziani. Qui sono in crisi tutti
i diritti della cittadinanza. E’ in
forse qualunque regola del gic>
co democratico. Un deficit istituzionale, non solo economico.
Una miseria civile, oltre che sociale.
Dice Mauro Calise: « Nel 1945’75 (il trentennio democristiano)
il Sud sperimenta il passaggio
da formazione sociale a sistema
pìolitico. Vengon messe in discussione le vecchie radici sociali
del potere, la vecchia organizzazione della produzione, circolazione, redistribuzione incentrata
su gerarchie ereditarie: notabilari, feudali, familiari.
E viene introdotto un nuovo
meccanismo di allocazione delle
risorse, una nuova autorità: un
meccanismo fatto di politica moderna che poggia su due strutture: il nuovo Stato repubblicano e il nuovo partito democristiano, con strutture sipresso parallele, a volte integrate al punto da far parlare di una politica meridionale come politica
del partito-Stato democristiano.
In termini di costituzione materiale, il Mezzogiorno entra a
far parte dell’Italia moderna in
questa forma del sistema prolitico ».
UNA SFIDA PER IL FUTURO
Il Mezzogiorno
degli anni ’80
L’espediente dell’« emergenza » - La crisi dei diritti della cittadinanza
- La via dello sviluppo ostacolata dai poteri illecitamente unificati
che puntualmente vengono sfornati. Eppure le analisi sono sprezzettate, disarticolano la « que^
stione » in mille rivoli, che con
la scusa della « complessità » (altra parola abusata, di cui ormai
è lecito diffidare) ci privano della chiarezza. Senza chiarezza, non
c’è progetto.
Tutto sommato, mentre la sensazione dello sfascio è fisicamente avvertibile, alla ragione e alla denuncia sembrano ancora invisibili le macchine politiche, invisibili i ceti emergenti, invisibili i poteri sommersi, invisibili
i meccanismi dello scambio e
quelli deH’accumulazione.
Preme la domanda, che ha formulato lucidamente Pino Arlacchi: « Come mai questo sistema
— declinante in altre culture in
parallelo ai processi di crescita
economica — non è stato sostituito nel Mezzogiorno d’Italia da
forme di lealtà e solidarietà civile? Come mai il processo di
integrazione po-litddoterritoriale
dell’Italia del Sud nello Stato
nazionale non è proseguito fino
alTeliminazione del clientelismo,
delle macchine politiche e dei
raket mafiosi, ma si è interrotto
agli inizi degli anni ’70, dando
vita addirittura ad un percorso
alla rovescia? ».
di programmazione e di razionalità; si arresta soprattutto lo sviluppo civile, e il sistema delle
relazioni illecite diventa la norma anche culturale.
L’illegalità si diffonde, cadono
le distinzioni, si fa confusa la
soglia tra lecito e illecito. Sono
fenomeni p>ericolosissimi per la
tenuta del sistema democratico,
molto difficili da recuperare.
Ad essi si aggiunga un altro
dato altrettanto i^rverso, e ormai altrettanto diffuso: Tillegittimità morale della politica, la
sua delegittimazione nella coscienza della gente. Lo scambio
pKjlitico comincia a diventare l’unico sistema di rapporto praticato, non solo perché è il più
« redditizio », ma perché si è
smesso di concepirne altri.
La crisi specifica delle istituzioni locali nel Mezzogiorno è
assai profonda e diffusa. Ha indotto negli atteggiamenti collettivi elementi di doppiezza e di
oscillazione. Tutti riconoscono,
« di principio », la centralità delle istituzioni elettive; ma nei fatti sono presscinti le richieste di
dero^e e sostituzioni, al punto
che parti decisive del governo
della società meridionale sono
oggi sottoposte a veri e propri
regimi commissariali.
Di tutto questo, ropinione pubblica nazionale ha scarsi sentori: poco se ne occupa anche la
stampa di sinistra.
Eppure si tratta di un tema
essenziale, se è vero che le istituzioni locali costituiscono l’anello forte della vita democratica. Sarà questo il futuro delle
grandi metropoli del Sud? O il
« governo forte » o l’ingovemabilità?
Enzo Mingione ha parlato dì
una « storia intrecciata » del welfare e del Mezzogiorno.
« Le città dove si vive meglio,
le città dove si vive peggio ».
Inutile ripetere dove sia e quale sia il divario.
Gli indicatori della qualità della vita: ecco un’altra questione
che si comporta come un fiume
carsico. Emerge, toma nell’ombra, riesplode in occasione del
periodico esplodere di varie contraddizioni: la mancanza d’acqua,
lo sfascio della sanità, la distruzione dell’ambiente... quanto po
Arlacchi fornisce due risposte
a questa domanda, che a me pare un po’ il succo della « questione democratica »: innanzitutto la debolezza del capitalismo
italiano, l’assenza di un policentrismo del potere economico, la
commistione generalizzata di politica ed economia. Poi la mercificazione dell’attività politica, e
la nascita di agenzie di unificazione illecita dei poteri (lobbies
politiche - economiche - giudiziarie)
che vanifica il principio cardine
dello Stato democratico, la divisione dei poteri, e annulla i controlli.
Si arresta così — sostiene Arlacchi — lo sviluppo economico,
con l’impulso aU’inefficienza e allo spreco, e con l’impossibilità
La piazza di Comiso.
SCHEDA
Il Mezzogiorno secondo lo Stato
Le macchine politicoelientelari si sono installate in tutti i più
importanti crocevia della vita associata. I partiti minori, alleati
della DC nel governo locale, ne
hanno ricalcato il modello. Un
modello che produce voti e consensi. ma svuota di significate
le istituzioni, e con esse i diritti
fondamentali dei cittadini.
Generano condizioni di stagnazione cronica, manovrando in
proprio le delicate leve del rapporto tra Stato erogatore di sussidi e Mezzogiorno dipendente;
producono ceti parassitari, alfieri del modello sociale diffuso
della mediazione.
Questo è a tutti chiaro, emerge da mille episodi, si legge in
controluce nelle migliaia di dati statistici sul divario Nord-Sud,
Il Mezzogiorno, che ba una superficie pari a circa il 41% del territorio
nazionale e una popolazione del 35%
nel 1981, giunse all’unificazione dell'Italia in una situazione di generale
arretratezza rispetto alle regioni del
centro-nord.
Questo carattere ha determinato il
sorgere della cosiddetta « questione
meridionale », una questione che riguarda sia problemi di carattere economlco-sociale, sia quelli di carattere
storico, politico, istituzionale, geografico, sociologico, antropologico. Un'importante fonte di conoscenza è anche
costituita dalle numerose opere letterarie, teatrali, cinematografiche (si
pensi ad autori come G. Verga, f. De
Roberto, M. Serao, G. Deledda. C.
Alvaro, C. Levi, R. Scotellaro, L. Visconti, L. Sciascia, G. Gangale, E.
De Martino e tanti altri) in cui sono
rappresentati vividamente fenomeni
scomparsi (o attenuati) solo di recente come II latifondo, la mancanza di
risorse idriche, la malaria, l’emigrazione (4 milioni di persone tra la fine
deirOttocento e la prima guerra mondiale; 4 milioni nel secondo dopoguerra) ecc.
Il problema del Mezzogiorno nei suoi
vari aspetti è al centro di un dibattito
che dura da oltre un secolo. Tra gli
studiosi di diversa formazione e di diverso ambito di competenza che vi
hanno partecipato, vanno ricordati almeno P. Villari, L. Franchetti, S.
Sennino, G. Fortunato, U. Zanotti-Bianco, A. De Viti De Marco, N. ColajannI,
F.S. Nitti, M. Pantaleone, L. Sturzo, G.
Salvemini, G. Dorso, A. Gramsci, T.
Fiore, A. Serpieri, fino a M. Rossi Doria e P. Saraceno. Per sottoiineare
l'importanza del problema e la vastità della letteratura è da aggiungere
che anche molti stranieri, fra i quaii
H.B. Chenery, V. Lutz, P.N. Rosenstein-Rodan, Vochting, hanno fornito
contributi di grande interesse.
Un primo approccio ai la « questione »
è anche ii iibro di Paolo Naso « La
questione ricorrente » (ed. Claudiana
1987, L. 13.000).
Il Mezzogiorno è stato oggetto nel
dopoguerra di diverse politiche di
intervento straordinario statale e di
agevolazioni di carattere fiscaie.
Oggi lo Stato definisce come facenti
parte del Mezzogiorno I seguenti Comuni:
Provincia di Grosseto: Isola del Giglio.
Provincia di Livorno: Campo nell'Elba, Capoliveri, Capraia Isola, Marciana, Marciana Marina, Porto Azzurro,
Portoferralo, Rio Marina, Rio nell'Elba.
Provincia di Ascoli Piceno: Acquasanta Terme, Acquaviva Picena, Appignano dei Tronto, Ascoli Piceno, Arquata del Tronto, Castel di Lama, Castignano, Castorano, Coiii dei Tronto, Comunanza, Folignano, Force, Grottammare, Maitignano, Monsampoio del
T., Montegallo, Monteprandone, Offida,
Palmiano, Ripatransone, Roccafluvione. Rotella, San Benedetto del T.,
Spinetoli, Venarotta.
Provincia di Rieli: Accumoli, Amatrice, Antrodoco, Borbona. Borgo Velino, Borgorose, Cantalice, Castel Sant'Angelo, Cittaducale, Cittareale, Fiamignano. Leonessa, Micigliano, Pescorocchiano, Petrella Salto, Posta, Rieti (in
parte).
Provincia di Roma: Albano Laziale
(in parte), Anzio, Ardea, Ariccia, Artena, Colleferro, Gavignano, Ganzano (in
parte). Gorga, Labico, Lanuvio, Montelanico, Nettuno, Pomezia, Roma (in
parte). Segni, Valmontone, Veiietri (in
parte).
Provincia di Prosinone: Tutti I Co
muni.
Provincia di Latina: Tutti I Comuni.
REGIONI
Abruzzo - Molise - Campania - Puglia - Basilicata - Calabria - Sicilia ■
Sardegna: Tutti I Comuni.
Irebbe essere lungo l’elenco? Si
torna per tutte le vie ai temi
dei diritti traditi, della cittadinanza sociale proclamata e mai
attuata.
Un circolo vizioso, con la pervasività del clientelismo, col sovraccarico delle domande, con la
complementarità perversa di
pubblico e privato.
Non c’entra la quantità delle
risorse investite, non c’entra la
povertà economica.
In realtà, il cemento che tierie
insieme tutto questo sta proprio
nei congegni dello Stato del benessere, così come sono stati piegati a scopi di parte.
Quella del Sud è povertà, ma
povertà relativa. Riassumo i punti fondamentali del Rapporto Svimez:
— la distanza socio-economica tra le due grandi sezioni del
paese si è accentuata;
— i parametri di questa distinzione sono divenuti più complessi;
— la politica speciale ha ormai dato tutto quello che poteva dare;
— in confronto all’esiguità
dei risultati, la spesa pubblica
è stata enorme;
— ciò che impedisce lo sviluppo non è la mancanza di risorse, ma il disordine ambientale e amministrativo, la povertà
civile, la disgregazione sociale.
Se la classe dirigente nazionale è « disattenta », dice Ruffolo,
la classe dirigente locale è inadeguata. Intermedia, non dirige.
Si è rinunciato alla capacità politica di individuare gli obiettivi
a cui finalizzare l’intervento, e ci
si è limitati ad un confronto
« tecnico », sulla quantità dei finanziamenti, e i tempi e le forme della loro erogazione. Così
si riproduce la dipendenza assistita, e gli stessi strumenti del
suo governo continuano ad essere puri oggetti di contesa fra
gruppi sociali per la ripartizione delle risorse.
Di ben altro avrebbe bisogno
il Sud: di un ripensamento dell’intera politica economica del
paese.
Anche sotto questo profilo, la
questione meridionale è « questione nazionale ». Sembra così
facile da dire, è così disperatamente difficile farlo comprendere.
Tutta l’Italia è messa al corrente delle sole cifre — potenzialmente esplosive, dicono tutti, ma niente esplode mai — dell’ultima delle « emergenze » che
voglio evocare qui: la disoccupazione. Il carattere di massa
che assume. Il dramma di intere generazioni, « senza speranza
di futuro ».
Nella Campania i senza lavoro
rappresentano ormai il 22% delle forze disponibili, mentre nelle aree del Centro-Nord siamo
al 7%; la media nazionale è del
12%.
Solo alcuni commentatori più
avvertiti danno conto deH’enormità del problema, che non è
solo quantitativo: il fatto che il
fenomeno riguardi in modo così generalizzato intere fasce generazionali, e in particolare l’intera offerta di lavoro femminile, imporrebbe una vera e propria « rivoluzione ». Non si tratta tanto (non solo) di creare posti di lavoro aggiuntivi, in una
oiperazione infinita di rincorsa tra
l’offerta e la domanda, ma di
riconsiderare tutto l’universo del
lavoro, il suo senso, i suoi tempi e la sua distribuzione rispetto alla vita individuale e rispetto a quella collettiva. Un ripensamento in grande, un cnoime
sforzo non solo di riflessione ma
di fantasia, di creatività.
E’ la sfida del meridionalismo
per gli anni a venire. Ma non è
una sfida per addetti ai lavori:
ci riguarda tutti. Se non si spezzerà la spirale che mi sono sforzata di descr’vere fin qui; se il
circuito non verrà rotto da battaglie politiche, 'oattaglie civili,
battaglie culturali, rischieremo
di trovarci di nuovo qui, nel 1990,
a raccontare ancora le nostre
cronache, a commentare ancora
i dati del divario, magari accresciuti. Non è una gran bella prospettiva.
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Graziella PriuUa
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5 febbraio 1988
questione meridionale — 3
Il popolo siciliano non è immorale, né
pervertito.
Il popolo siciliano è nella sua grandissima maggioranza cavalleresco e buono.
Tenace negli affetti, si sacriñca per l’amico; affronta per la famiglia le fatiche
e i rischi dell’emigrazione, vivendo miseramente in paese straniero, pur di risparmiare qualche gruzzolo da inviare ai
suoi. Mantiene la parola data. Facilmente
si accende per le nobili idee e, sapientemente condotto, diventa eroe.
E’ appassionato ed impetuoso: ma più
che impulsivo, fervido e tenace, nei suoi
amori e nei suoi odi.
E’ orgoglioso; ha un alto sentimento di
sé, e per questo rispetto è individualista, mettendo il proprio io al di sopra
di ogni organismo sociale o di Stato e
poco sentendo il freno della solidarietà
e della disciplina.
La Sicilia fu sempre terra di conquista; ma non venne effettivamente vinta
mai, perché i conquistatori non seppero
guadagnare a sé l’anima del popolo che
si chiuse in se stessa, nel suo orgoglio
e nella sua solitudine, negando, fin dove
le era possibile, le istituzioni impostele,
e che per il cattivo modo con cui funzionavano, non potevano nemmeno raccomandarsi al suo rispetto.
Per questo l’anima siciliana fu, in fondo, ribelle sempre.
Da questo difetto non andarono esenti gli italiani, che dopo l’unione della Sicilia alla madrepatria dovevano pur ristorarne le basi e gli organismi ed introdurvi Un governo che fosse finalmente
giusto. Gli italiani non hanno compreso
i siciliani; e perciò questi si sentono
amareggiati ed esacerbati, pronti ad esagerare i torti del governo italiano e
degli italiani.
E per questo continua il loro atteggiamento di opposizione e di sñducia verso l’organismo dello Stato.
La negazione della giustizia statale, per
quante giustificata dal cattivo fxmziona
ANTOLOGIA
La mafia, ieri
La Sicilia, terra di conquista: come un popolo si chiuse
in sé stesso - L’offesa, la struttura della prepotenza
mento di questa nell’epoca feudale e borbonica, e forse anche nei primi amai del
governo nazionale, ha elevato a sistema,
se non per tutte le classi e per tutte le
offese, certo per la maggioranza del popolo e per un gran numero di offese, la
vendetta privata; la quale aumentò naturalmente i delitti, perché, se l’offesa
è riparata dallo Stato, il ciclo si chiude;
ma se è riparata dairindividuo si apre
un ciclo nuovo che continua fino all’esaurimento o alla soppressione degli individui e delle famiglie, o fino alla neutralizzazione di essi da parte dello Stato.
La vendetta si aspetta per mesi, per anni, per decenni. La si cova come una
cara speranza nel silenzio del cuore, finché giunga il momento di esercitarla. E
Tatto scende fulmineo e tragico.
Ma la giustizia non deve entrarci per
nulla. Tutto ciò è affare privato.
In ciò quasi tutti i siciliani sono concordi, se non per tutte, per la maggior
parte delle offese. L’offeso non deve mai
denunciare l’offensore alla giustizia. Tutt’al più denimcia il reato per mettersi in
regola con essa, ma non il colpevole, riservandosi di punirlo con le sue proprie
mani. E non sc’o l’offeso, ma i suoi familiari, ma i testimoni al fatto debbono
tacere, e tacciono.
Questo principio di tacere di fronte alla giustizia pubblica, onde la giustizia
privata abbia il suo corso si chiama
omertà.
L’omertà è una conseguenza necessaria del principio della vendetta privata,
il quale, a sua volta, è una conseguenza
della poca fiducia che la giustizia pubblica ha saputo conquista,rsi nei secoli
passati presso il popolo siciliano.
Quale fiducia
nella giustizia?
Prima di inveire contro i siciliani bisognerebbe vedere cosa si è fatto per la
loro risurrezione economica e morale, come vennero lasciate le loro scuole, sorvegliate le loro amministrazioni locali,
salvaguardata l’autorità dello Stato e
della Giustizia, governato insomma questo popolo che usciva da secoli di malgoverno.
In uno Stato nel quale i cittadini, per
lina ragione qualsiasi, non hanno fiducia
nella giustizia e non confidano che nella
propria forza, sono i malvagi che riescono alla fine ad avere il sopravvento e
ad imporsi, e chi non ha voluto inchinarsi alla giustizia è poi obbligato ad
inchinarsi e diventare schiavo di essi.
Nasce così la mafia. Questa non è una
associazione. Non era nemmeno in sul
principio Un fenomeno criminoso. Era
l’esagerazione del sentimento di sé, del
princìpio di non tollerare offese, della
deliberata volontà di ripararle a qualunque costo e in modo terribile senza
ricorrere mai alla giustizia pubblica.
Mafia è un atteggiamento per il quale
una persona non solo rintuzzerà le offese a qualunque costo senza ricorrere
alla giustizia, ma cercherà di imporsi in
qualsiasi ambiente ove si trovi, cercherà
di trame il massimo vantaggio personale, anche a danno altrui, ricorrendo a minacce, od offrendo i propri interessati
servizi, né rifuggendo, ove è necessario,
dal delitto dalle conseguenze penali del
quale sa con infinita arte tenersi immune, fidando sullo stesso principio di
omertà.
Non c’è il mafioso necessariamente delinquente, ma facilmente e senza esitazione lo diviene, quando ciò sia richiesto
dal suo interesse o dalla necessità di tutelare il suo prestigio.
L’essenza della mafia è la prepotenza
più che il delitto, il quale diventa strumento ai fini della prepotenza, non scopo a se stesso.
Del pari la mafia non si concreta necessariamente in associazioni, né è essa
stessa una setta, un’associazione, una
combriccola; ma facilmente dà luogo ad
associazioni più o meno regolarmente
costituite, perché l’individuo isolato può
esercitare un’azione meno efficace. I mafiosi perciò si intendono facilmente l’\m
l’altro, stringono rapporti di amicizia,
di parentela spirituale che è tenuta più
sacra di quella fisica e diventano compari: volta a volta sì associano per una
qualche impresa; e un nucleo di mafiosi
di un determinato paese forma una
cosca.
Giovanni Lorenzoni
Brano tratto da: Inchiesta parlamentare sulla
condizione dei contadini nelle province meridionali e in Sicilia, voi. VI; Sicilia, 1906-1910.
Nel corso degli ultimi decenni abbiamo
assistito alla crescita di un ventaglio di
attività illegali su vasta scala intraprese
da gruppi in condizione di disporre di
ri.sorse economiche ingenti, di usare la violenza privata per imporre il proprio potere, e di manipolare sezioni anche vaste
del sistema politico e dell’apparato statale.
Armi, droga, informazioni industriali
e militari ' naro di origine illecita, professioni.si i della violenza e della provocazione e; eri umani ridotti in schiavitù
econc; Viic i! o sessuale, circolano oggi con
una tacili I ed in proporzioni prima sconosciute.
T . influenti imprenditori criminali
attuaunente si caratterizzano per una
doppia identità culturale. Nonostante la
loro integrazione entro reti di contatti
e di affari multinazionali, e nonostante
l’assunzione di modelli universalistici di
comportamento e di consumo, questi
personaggi restano dei tradizionalisti,
saldamente ancorati al mondo della loro cultura d’origine, che è il mondo della
famiglia, della parentela, del villaggio,
del quartiere e della setta.
Il radicamento
territoriale
L’intervento dei capi criminali nella vita sociale e culturale locale assume spesso la veste di un contributo « disinteressato » concesso a quelle attività pubbliche che simboleggiano tradizioni fortemente sentite dalla comunità territoriale o che sono caratterizzate da una vasta eco presso la popolazione. Si va dal
finanziamento e dalla gestione di società
sportive e feste popolari, alla fondanone di stazioni radio-televisive, o società
cinematografiche, fino alTcrganizzazione
di gruppi d’interesse su base etnica nei
luoghi di immigrazione.
Tradizionalismo culturale e radicamento territoriale sono una fondamentale
condizione dell’attività economica illegale. Tramite l’accorta manipolazione dei
rapporti di parentela, familiari, si possono
costruire delle reti imponenti di « contatti », estesi su spazi geografici molto
vasti perché quasi sempre immersi OTtro
grandi (ed inconsapevoli) movimenti migratori.
Esiste il grande problema della fiducia.
Il ruolo della fiducia è cruciale per ogni
tipo di transazione illegale.
Gli imprenditori illegali non possono
stipulare contratti e compiere investimenti nel settore illecito basandosi su
una sicurezza degli scambi garantita da
leggi ed istituzioni formali. Essi sono
perciò obbligati a fidarsi l’uno dell’altro
in misura molto maggiore degli ucraini
d’affari normali. I criminali hanno bisogno di stabilire convenzioni, codici, tra
ANTOLOGIA
La mafia, oggi
La manipolazione dei rapporti sociali - La domanda di lavoro illegale - L'autonomia dalle matrici della criminalità
dizioni e rapporti di fiducia interni al
loro mondo che evitino i costi di un
continuo ricorso alla forza o alla minaccia dell’uso della forza.
Quale migliore garanzia di segretezza
e di reciproca fiducia, infatti, di quella
vigente tra membri della stessa setta,
della stessa cultura, della stessa ccraunità etnica e regionale, o addirittura della stessa famiglia?
La crescita dei mercati illegali mondiali ha promosso un processo di integrazione verticale tra la delinquenza organizzata, la mafia internazionale, da un lato, e la criminalità comune e minorile dall’altro. L’interazione tra queste due componenti si è accentuata a causa del processo di espansione della domanda di
lavoro criminale generata dalTaccresciuta scala d’attività dei gruppi criminali
maggiori.
In alcune situazioni di disastro urbano,
come la città di Napoli verso la fine degli anni ’70, l’espansione della domanda
di lavoro criminale è stata così rapida da
far nascere formazioni criminali di dimensioni numeriche senza precedenti.
La cosiddetta «nuova camorra organizzata», guidata da Raffaele Cutolo, era
arrivata a coagulare, tra il 1978 ed il 1983,
oltre 2.000 giovani gangster inquadrati in
una cinquantina di bande e diretti da
una ristretta élite di criminali professionisti.
Crimine e processi
di sviluppo
L’inserimento della criminalità organizzata nel processo di sviluppo mondiale
dei mercati illeciti ha portato con sé la
formazione di patrimoni molto grandi.
Tali patrimoni sono stati accumulati
in virtù del volume straordinariamente
elevato dei profitti ottenuti nell’economia illegale.
Il patrimonio di un gruppo finanziario siciliano legato alla mafia viene stimato superare il miliardo di dollari.
Un oscuro imprenditore mafioso di una
cittadina nei pressi di Palermo risulta
avere accumulato una fortuna personale
che si aggira sui 250 milioni di dollari.
Come vengono impiegati i profitti della
criminalità organizzata internazionale?
Tali profitti sembrano finora seguire tre
strade principali. Una parte di essi, di
dimensioni complessivamente modeste,
rientra nel circuito illegale e serve per
mantenere ed allargare la scala delle
operazioni. Una parte più consistente
entra nel settore legale dell’economia.
Questi profitti vengono investiti di solito
in settori caratterizzati da deboli barriere di ingresso di natura tecnologica,
da rilevanti tassi di profitto o da alta concorrenzialità interna (edilizia, agricoltura, oonmercio alTingrosso, terziario moderno, ecc.). Ma la parte più cospicua
della ricchezza criminale viene trauta
in forma liquida ed esportata al di fuori dei confini della nazione in cui è stata prodotta.
Per ragioni di sicurezza e di efficienza,
l’amministrazione di questi capitali non
può essere effettuata dagli stessi capi
criminali. Occorrono competenze specializzate che risiedono soltanto in alcuni
segmenti della comunità finanziaria, in
uomini in grado di dirigere banche e
società finanziarie di livello internazionale.
Una volta depositati entro una banca
abilitata ad operare all’estero, i profitti
criminali entrano nel mare del denaro
senza patria che si sposta per telefono
o per telex in ogni parte del mcmdo, lasciando tracce sempre più labili delle
proprie origini.
Lo sviluppo della grande criminalità
ha introdotto importanti cambiamenti
nel rapporto tra i fenomeni illegali ed
il contesto socio-economico. Per molti
decenni, gli studiosi hanno insistito nel
sottolineare una relazione di causa-effetto tra condizioni di povertà e di disgregazione sociale da un lato, e nascita di
forme di criminalità e di devianza dall’altro.
L’uso della violenza implica la necessità di disporre di un personale specializzato molto particolare. Occorre gente
disposta a mettere in pericolo la vita
propria ed altrui nella esecuzione di compiti particolarmente rischiosi. La forza
di un gruppo criminale dipende dallo
sfruttamento della devianza e dell’aggressività prodotte dai processi di impoverimento culturale di vaste proporzioni.
Una delle novità più importanti emerse negli ultimi anni consiste proprio nella tendenza verso il ribaltamento della
classica relazione dì dipendenza della
criminalità dalla disgregazione socioeconomica. I grandi poteri criminali hanno mostrato di sapere influire sulla società e sui processi economici più di
quanto non ne siano determinati. Essi
sono sempre più in grado di creare
emarginazione e dissesto anche in contesti che ne sono privi.
Il caso della espansione del potere mafioso in alcune zone dell’Italia settentrionale nel corso degli anni ’70 è molto indicativo al proposito.
La criminalità organizzata ha acquisito, quindi, una spiccata autonomia dalle
sue matrici. E’ in grado di riprodursi al
di fuori dei suoi contesti originari.
Investimenti
e imprese mafiose
E’ possibile stabilire un rapporto tra
la presenza della mafia e gli eventuali
divari nei tassi di sviluppo economico
regionale verificatisi in Italia nel corso
degli ultimi decenni? La risposta è sì,
ma la correlazione è negativa. Le aree
meridionali a più profonda incidenza
mafiosa non figurano tra quelle contrassegnate dai maggiori tassi di crescita
della produzione e degli investimenti. Le
due regioni meridionali che hanno sperimentato i più elevati tassi di crescita
nel corso dell’ultimo quindicennio — la
Puglia e l’Abruzzo — sono anche quelle
che mostrano tassi di criminalità organizzata e comrae tra i più bassi dell’intero Mezzogiorno. Le tipiche regioni « mafiose» — Calabria, Sicilia, Campania —
hanno visto le loro economie ristagnare
o decadere nello stesso periodo in cui
tutte le altre regioni italiane crescevano
economicamente. Lo Sviluppo degli investimenti e delle imprese mafiose, nel
settore legale dell’economia, non è avvenuto in concomitanza allo sviluppo delle imprese non-mafiose preesistenti, ma
è consistito in larga parte in un processo di sostituzione delle prime alle seconde, costrette a finanziare il capitalismo
mafioso tramite il pagamento delle tangenti, l’esclusione dai mercati di vendita e dagli appalti pubblici più redditizi,
la rinuncia ai programmi di espansione
nelle aree geo-economiche coperte dall’ombrello protezionistico mafioso.
Giuseppe Arlacchi
Atti del convegno: « Stato, mafia e poteri criminali oggi: dalla legge La Torre al pentitismo »,
organizzato dal centro lombardo dei problemi dello stato, con la collaborazione della fondazione
« Cristina Mazzetti » Il 22-23 marzo 1985 a Milano.
4
4 — questione meridionale
5 febbraio 1988
UN PROBLEMA NAZIONALE
'ft
La questione meridionale ci
serve ancora per designare un
contesto particolare di relazioni sociali, economiche e politiche
in im certo senso unitario o,
invece, se si deve parlare di un
insieme di questioni aventi caratteristiche particolari che per
comodità chiamiamo questione
meridionale? Esiste ancora la
questione meridionale?
Gramsci ha affermato che « la
questione meridionale è la questione nazionale ». Questo significava una cosa nel 1870, un’altra
nel 1901, im’altra ancora nel '29.
La questione meridionale è
stata ima questione nazionale per
i liberali airindomani dell’unità
nazionale, che avevano il problema di « fare gli italiani ». Era
ima questione nazionale per i
liberali dell’inizio del secolo che
avevano il problema di eliminare il freno, costituito dalla rendita, allo sviluppo capitalistico
nazionale. La questione meridionale è la questione dell’esistenza
dell’Italia, dell’esistenza di urm
Italia capibalistica.
Oggi, nonostante la necessità
di adeguare le categorie analitiche ed operative di cui disponiamo, nonostante i cambiamenti
sociali intervenuti anche a seguito dell’intervento straordinario dello stato centrale, si può
affermare che la questione meridionale esiste ancora. E’ pur
vero che esistono « i mezzogiorni » come aggregati particolari
La questione meridionale
Adeguare l’analisi e gli strumenti ad una realtà specifica: trasferimenti di denaro pubblico, cattolicesimo, urgenza del problema morale
di problemi che vanno aggrediti
con competenze tecniche, ma
passando attraverso ad essi si
riscopre una questione meridionale che è il frutto di scelte
politiche generali e di specificità
che sono proprie di un’area geografica: il Mezzogiorno appunto. Non SI può dunque parlare
semplicemente di « questioni »
risolvibili con interventi tecnici adeguati. La specializzazione
è necessaria neH’esame delle
problematiche locali, ma la caratteristica principale della questione meridionale sta nel fatto
che lo sviluppo capitalistico e
sociale del Meridione sta nei trasferimenti di denaro pubblico sia
per la produzione (imprenditore assistito), sia per il sostegno
del reddito della popolazione.
Una delle specificità della questione meridionale è, anche, il
problema del cattolicesimo nel
Mezzogiorno e della presenza
evangelica. Ciò chiama in causa la nostra analisi della Controriforma. La Controriforma è stata in Europa un momento di
grande repulisti della chiesa cattolica. Sulla spinta del diffondersi della Riforma, la reazione cattolica dopo il Concilio di Trento
è stata quella di fare pulizia in casa propria: si buttano finalmente via i simboli della religiosità, si razionalizzano le pratiche
religiose. Non si aspetba che sia
no i calvinisti a farlo. Questa
operazione non è stata portata
a fondo, nel Mezzogiorno italiano, per cui sono rimasti comportamenti, riti, religiosità inaccettabili per una visione di fede
evangelica. Da ciò deriva che il
termine « ecumenismo » deve
avere qui significati consapevolmente molto differenti da quello che significa, ad esempio, in
Olanda. L’interlocutore cattolico è molto diverso.
Nel cattolicesimo meridionale
troviamo anche gruppi interessanti che lavorano nel senso del
rinnovamento sociale, ma noi
non possiamo solo far riferimento a questi gruppi, ma alla realtà delle credenze e dell’organizzazione cattolica ufficiale. Così
non si può far riferimento, per
valutare la nostra presenza, esclusivamente alle punte alte del
protestantesimo: la presenza
evangelica è quella determinata
dalle nostre comunità così come
sono. Non possono essere le opere evangeliche nel Mezzogiorno
a garantire la nostra presenza.
Esse svolgono un ruolo importante nella proposta di nuovi
modelli di azione sociale, ma se
è vero che il cattolicesimo meridionale è quello descritto, la
testimonianza e la predicazione
evangelica non possono essere
centrate solo sull’etica individuale, l’etica professionale, l’onestà.
La questione morale è cosa
importantissima e non dobbiamo lasciarla in mano ai soli
politici, ma l’urgenza di questa
questione non può essere un
ritorno a moduli di testimonianza di carattere individuale. Essi sono solo una parte della testimonianza evangelica e devono
essere arricchiti. Il ravvedimento degli impiegati pubblici non
passa solo attraverso il ravvedimento individuale di ciascun
impiegato, ma anche nella ricerca di soluzione collettiva dei
problemi. Il nostro punto di
riferimento non è tanto l’etica,
quanto il libro, la Bibbia.
Giovanni Mottura
(sintesi)
Nel
Mezzogiorno
In questo Mezzogiorno, chi
ci vive, o chi solo lo attraversa, incontra ancora oggi:
— instabilità politica, difflcoltà delle istituzioni democratiche, una fragilità della
stessa democrazia:
— degrado ambientale (l’industrializzazione per poli, lungamente perseguita, ha provocato un alto tasso di inquinamento);
— processi di militarizzazione (derivati dalla ben nota centralità strategica acquisita dal Mediterraneo meridionale: si pensi ai poligoni dì tiro sui Nebrodi o sulle
Murge; alla costruzione, a
Comiso, della più grande base nucleare del Mediterraneo).
— criminalità organizzata
(1’« impresa mafiosa»);
— mediatori a legioni (quelli che manovrano le leve delicate del rapporto tra lo Stato erogatore di sussidi ed il
Mezzogiorno dipendente; in
tal modo si rendono alfieri
di un modello sociale diffuso
che vede; la mediazione come criterio fondamentale di
soluzione dei problemi individuali e collettivi):
— e tanti e tanti altri problemi, tanti e tanti altri fenomeni che attentano alla
qualità della vita nel Mezzogiorno. E fra di essi il fatto
doloroso della disoccupazione.
Sergio Aquilante
[...] Se guardiamo a pochi indicatori,
demografici o economici che siano, Napoli ci appare come una città in grande
trasformazione strutturale. Una città profondamente cambiata soprattutto negli
ultimi quindici anni. Sotto i nostri occhi, forse confusi dalla vicenda del terremoto dell’80, è crollato il mito della
grande città industriale: quel mito che
appariva radicato nella coscienza di tutti
tanto da determinare le scelte di fondo
del Piano Regolatore del 1972. Quella città è lontana, con i suoi caratteri produttivi in crisi, con la sua composizione sociale che cambia, con la sua cultura
che si rinnova, raccontando una città diversa da quella del passato.
La vicenda del terremoto dell’80 ci ha
forse distratti, fino al punto da sfumare
i segni di questo scompenso.
Le risorse, le leggi, le procedure, i poteri che in questa città sono arrivati dopo il terremoto ci hanno fatto intravedere un nuovo mito: quello della città
terziaria, delia città moderna.
Non è per pessimismo che si parla di
nuovo mito: ma è un fatto che, ad oggi,
i contorni di questa nuova identità di
Napoli appaiono sfunrati, poco definiti.
Si avverte il pericolo che il nuovo mito
terziario serva solo o soprattutto ad accelerare la cancellazione delle quote residue di una città industriale, che è produttività ma è anche cultura e presenza
sociale. Si avverte la necessità di governare la crisi di un tipo di produttività
ed il passaggio ad una nuova fase perché Napoli punti a mantenere un suo
carattere di città interproduttiva, tale
cioè da vedere compresenti gli elementi
delle sue tante e varie nature e vocazioni: come del resto la sua storia ci insegna.
Se incerti appaiono i caratteri di una
Napoli dalla identità terziaria nei prossimi decenni, addirittura nulla può dirsi
della sua forma o dei modi del suo funzionamento.
Si può quindi parlare di ritardo fra domanda di trasformazione e modernizzazione della città. Ed è necessario chiedersi quali siano i motivi di questo ritardo.
Le cause non sono certo tutte da ricondurre ai mali endemici e storici di
Napoli né tantomeno alle mille emergenze che ne caratterizzano, ormai peraltro
da secoli, resistenza. Riteniamo che vadano considerati con attenzione i limiti
da sempre presenti dell’azione politica
che sembra sempre più arroccarsi su
posizioni di emergenza, avallando i suoi
limiti attuali con una presunta impossibilità storica di eliminare ogni traccia
di politica di piano dalla nostra città.
UN’AREA METROPOLITANA
Napoli: città
meridionale
Tra staticità e violente dinamiche
[...] Napoli ha una popolazione residente nel Comune praticamente ferma da
circa venti anni. Questo dato, spesso ricorrente in altre situazioni urbane, nasconde dietro l’immagine di una città
cristallizzata nei suoi valori demografici, una grande mobilità aH’interno del
Comune, fra il Comune e l’area metropolitana, fra il Comune e la Regione.
Una elaborazione anche sommaria dei
dati della popolazione residente al 1981,
rapportati a quelli del censimento del
’61 e del ’71, conferma comportamenti
chiari quanto sorprendenti.
La Regione Campania aumenta il suo
peso demografico: negli ultimi venti anni, passando da 4.760.750 abitanti a
5.408.289, è anciata avanti del 13,60%.
La Provincia di Napoli, che nella schematicità di questo ragionamento potremmo assimilare all’area metropolitana, aumenta invece del 22,69% (2.970.563 contro 2.421.273 abitanti).
Il Comune di Napoli aumenta solo del
2,30%, passando da 1.182.815 a 1.210.102
abitanti.
Ma in comuni della cintura intorno a
Napoli, 0 meglio i comuni confinanti
con il capoluogo, nello stesso ventennio,
aumentano del 97,81%, in pratica raddoppiando il proprio peso demografico e
passando da 242.149 abitanti al 1961 a
479.010 al 1981.
Intorno a Napoli si realizza il massimo della crescita demografica, con una
pressione nel capoluogo che minaccia di
far saltare la sua scarsa dinamicità demografica.
A sua volta Napoli, dietro questa apparente staticità del dato complessivo,
nasconde una dinamica fortissima che
può essere in prima approssimazione
esaminata.
Assunta la perimetrazione del Centro
Storico indicata dal PRG del 1972, la
sua popolazione è diminuita, negli ultimi
venti anni, del 37,50% passando da
399.512 abitanti al 1961 a 249.715 abitanti al 1981; per cui quello che rappresentava al ’61 il 33,77% dell’intera città, oggi ne rappresenta solo il 20,63%.
E’ quindi la parte periferica della città che è cresciuta: con un incremento
pan al 22,61% tende a saldarsi con l’altra fascia in grande incremento, rappresentata dai comuni della fascia interno
a Napoli.
Un centro che si svuota pericolosamente, una periferia che cresce, una corona di comuni tangenti al capoluogo
che in vent’anni raddoppia il proprio
peso demografico: il tutto calato in ima
area metropolitana ed in una regione in
continua crescita. Una situazione di tal
genere è difficile a gestirsi: soprattutto
dopo il terremoto che ha ulteriormente
degradato il centro ed ha costretto, per
molti motivi che esulano dagli interessi
di questo lavoro, ad avviare un piano
di costruzione di 100.000 vani proprio
nella fascia periferica comunale e nella
corona dei comuni immediatamente
extraccmunali in massima crescita. Nella mancanza di un piano dell’area metropolitana e di un piano per il centro
storico questa situazione può riservare
amare sorprese. L’equilibrio già precario della struttura della città, letta nei
suoi pesi demografici, è destinato a subire duri colpi. Infatti, o si assisterà ad
un ulteriore svuotamento del centro storico, secondo una tendenza ricorrente
quanto combattuta in tutte le più grandi città italiane c, con l’afflusso di popolazione daH’area metropolitana, verrà a
rompersi di qualche decina di migliaia di
abitanti (o di qualche centinaio di migliaia) la staticità del dato complessivo del
Comune di Napoli: e questo in una città
così carente di servizi primari e cosi impacciata nei modi del suo funzionamento quotidiano potrebbe rappresentare
il superamento del limite ultimo prima
di un tracollo generale. Tutto ciò sugge
Napoli, il nuovo centro direzionale.
risce una prima considerazione. Il progetto di costruzione straordinaria di 100
mila vani, in mancanza di due momenti
di pianificazione, a scala metropolitana
l’uno ed a scala suburbana relativo al
Centro Storico l’altro, rischia di mantenere gli squilibri più che risolvere i problemi.
Dal punto di vista produttivo è ormai
riconosciuta da tutti la crisi dell’apparato industriale: da una parte l’Italsider,
nel suo comunque disperato tentativo di
sopravvivere alla crisi che l’attanaglia,
dall’altra, ad oriente, un insieme sconnesso di vecchi e meno vecchi edifici,
nella maggioranza dei casi già da molto
tempo privi di qualsiasi traccia di attività produttiva. Il Centro Storico, dimezzato nei suoi abitanti, vive le peggiori
crisi di degrado che si possano immaginare. Mille interventi si compiono senza
un piano, la sua trasformazione è ad un
tempo incolta ed inutile.
La carenza di servizi, la difficoltà di
muoversi in città, la mancanza di verde,
sono tutti aspetti di una crisi che non
riguarda solo la grande prospettiva ma
anche il quotidiano. Che fare in una situazione di questo genere? Evidente che
lo sforzo deve essere quello di superare
la logica dell’emergenza e riprendere il
cammino che porta a ridare a Napoli una
forma fisica ed un funzionamento adeguati alla nuova fase di uno sviluppo
produttivo. Ciò significa ridare fiato alla
cultura del piano anche se sono evidenti
a tutti le difficoltà che si incontrano: difficoltà politiche e tecniche. [...]
Uberto Siola
5
5 febbraio 1988
questione meridionale — 5
GUARDARE AL SISTEMA COMPLESSIVO
Il Mezzogiorno politico
Il periodo post-unitario è stato caratterizzato dalla centralità politica del Mezzogiorno e
della sua capitale, Napoli. Il regno borbonico era caratterizzato
da una classe politica di corte, che svolgeva il ruolo di mediazione politica tra il potere e
i vari segmenti della società e
deU’economia. L’unità d’Italia
porta al crollo politico di questa classe: nel regno delle Due
Sicilie l’unifloazione significa
crollo del sistema politico, non
integrazione. L’impatto con la
questione politica napoletana
porta ad un capovolgimento delle concezioni politiche delle classi moderate del nord: da un modello di decentramento amministrativo si passa a uno stato
centralista basato sull’attività
dei prefetti, di ispirazione francese. In questo scontro tra due
concezioni politiche ha origine
l’ostilità della classe politica sabauda per un’altra classe che non
si comprende.
L’illuminismo napoletano
prende la bandiera dello stato
unitario, come idea guida della
comunità nazionale, e lo stato,
in questa concezione, diventa il
soggetto erogatore dei beni collettivi. Il Mezzogiorno, per oltre
un secolo, non gioca un ruolo
politico nazionale, diventa prima questione sociale (Fortunato) e poi economica (Nitti).
La ricomparsa del Mezzogiorno
avviene solo in questo dopoguerra con l’Italia dei partiti
di massa, che fanno i’integrazione nazionale. Nasce in questo
periodo il fenomeno del clientelismo politico; oggi, con la crisi
dei partiti di massa, il sistema
politico entra in una nuova crisi. Al clientelismo, tradizionalmente, si è opposto il movimento collettivo, ma ciò ha fatto
mettere da parte una categoria
importante quale l’individualismo. Quando il modello di sviluppo va in crisi e con esso il
clientelismo politico, riemerge
nel Meridione la categoria delrindividualismo, sganciato dalle
protezioni politiche.
A fronte deU’individualismo emergente, non c’è più l’orizzonte
collettivo dell’industrializzazione
operaia, e nemmeno la rete di sicurezza del clientelismo. Il governo politico del Mezzogiorno è
difficile. L’individualismo porta
alla riscoperta del binomio di
governq: più individuo più stato.
Mauro Galise
(sintesi)
IL DIVARIO CRESCE
Mezzogiorno economico
li sud va più a sud. Questo è
quanto emerge nei rapporti della Svimez degli ultimi 10 anni.
C’è un arretramento complessivo del ruolo economico del Mezzo.eiorno e ciò si manifesta a partire dalla crisi economica del '73
originata dall’aumento dei prezzi
dei petrolio. Da questo momento
inizia una deindustrializzazione e
parallelamente si ha un decremento dell’occupazione. Si arresta un proccs.so di formazione di
classe operaia moderna.
Tra il h)74 e il 1986 il reddito
prò cardie nel centro-nord è
aumenlalo ;eH’l,7% annuo e nel
Mezzogiorir) solo dell’1,3%. Gli
investimciui industriali hanno
una inii ii'ità molto maggiore nel
cenl:'ii-i;ord che nel sud. I disoccupali, negli ultimi due anni, so
no aumentati del 18% al sud e
del 2,9% al centro-nord. Il tasso
di disoccupazione nel Mezzogiorno è passato dal 14,3% al 16,5%.
Contrariamente a quanto ha affermato il Censis nei suoi rapporti annuali, il sud vede un aumento del divario col centronord. Gli effetti della deindustrializzazione sono molto più devastanti socialmente nel Mezzogiorno che al centro-nord. Il contributo statale serve solo per mantenere il livello di reddito, attraverso misure assistenziali e pensionistiche. Diminuiscono quindi
i diritti di cittadinanza.
Disoccupazione e povertà sono
i due grandi problemi del Mezzogiorno, che riguardano soprattutto le donne e i giovani ad alto
livello di scolarizzazione. Nel Mez
zogiorno c'è il 54% dei poveri. E’
il risultato di scelte errate di politica economica e delTaver abbandonato la politica di investimento programmato, per affidare lo
sviluppo unicamente ai meccanismi di mercato, mercato che non
c’è mai stato al sud.
Enrico Pugliese
(sintesi)
L’ANALISI DELLA SVIMEZ
Le difficili prospettive
In base alle proiezioni Istat
sulla popolazione e all’ipotesi
di un innalzamento del tasso
di attività femminile (che attualmente è di circa 10 punti
percentuali minore nel Mezzogiorno che nel Nord) si valuta
che Pincrcmento deU’oflerta
di lavoro del Mezzogiorno nel
decennio 1986-1996 sarà di
1.370.000 unità; nel Nord, dove
già dall’inizio del prossimo
decennio le forze di lavoro
cesseranno di crescere, nello
stesso periodo l’aumento dell’offerta di lavoro sarà di
230.000 unità.
Assumendo l’ipotesi di una
crescita del prodotto interno
lordo del 3,5 per cento sia al
Nord che al Sud (nel trascorso triennio di ripresa dell’economia tale tasso è stato delti,6 per cento nel Mezzogiorno e del 2,8 per cento nel
Nord) e di un rapporto tra il
tasso di crescita dell’occupa^
zione e il tasso di crescita del
prodotto pari a quello medio
dell’ultimo decennio, si avrebbe un incremento della domanda di lavoro pari a 549.600
unità nel Mezzogiorno e a
1.289.009 imità nel CentroNord.
Il saldo tra offerta e domanda di lavoro farebbe aumentare, in assenza di emigrazione, la disoccupazione meridionale dagli attuali 1,3 mUioni a 2,1 milioni di unità nel
1996 e dal 16,5 al 23,3 per cento delle forze di lavoro. Nel
Nord la disoccupazione si ridurrebbe invece a 300.000 unità circa, pari a meno del 2
per cento delle forze di lavoro.
La Svimez da quasi venti
anni rileva che la questione
meridionale è venuta trasformandosi da questione agraria
in questione urbana. Se questa trasformazione può essere
vista come segno di progresso, essa rende però più complesse e difficili le soluzioni.
Chiunque conosca la realtà di
Napoli, Palermo, Catania, Reggio Caiabria e di altre città
meridionali può facilmente
giudicare quanto ardue siano
le azioni che si richiederebbero per rendere accoglienti
queste realtà per quelle attività innovative su cui dovrebbe far leva il futuro sviluppo
meridionale.
E’ pur vero che tali attività
innovative trovano oggi il supporto di queUa vitalità dei
soggetti non rassegnati aU’assistenzialismb che la società
meridionale ormai esprime:
sia pure in misura molto mt '
nore che in altre regioni del
paese, anche in alcune àree
del Mezzogiorno vi è stato un
fiorire di imprese e di iniziative sane, in campo economico, politico e culturale. Ma
sono forti e numerosi anche i soggetti e le iniziative
che, operando legalmente e illegalmente, costituiscono gravissime « diseconomie esterne » per i soggetti e le iniziative sane.
Di qui la convinzione che lo
Stato abbia sempre la grande responsabilità di garantire
ai soggetti e alle iniziative sane le condizioni per U loro
sviluppo. E tali condizioni non
possono essere garantite senza quel metodo di governo
che consiste nel valutare i
progetti da autorizzare e finanziare in base agli effetti
che essi sono destinati a produrre sul sistema economico
e territoriale in cui si collocano. I guasti maggiori subiti
dal Mezzogiorno negli ultimi
anni sono derivati da ima
espansione urbana e da un
saccheggio del territorio che
sono stati proprio il frutto
della non volontà o deU’incapacltà di disciplinare « programmaticamente » certe « vitalità » della società meridionale.
Pasquale Saraceno
(da ”la Repubblica”)
Le storie dei disoccupati sono tutte
uguali e tutte diverse: u^ali perché
hanno in comune la precarietà, il disagio, l’emarginazione; diverse perché ogni
situazione è un caso a sé. Ne abbiamo
sentite alcune e le riportiamo.
STORIE DI VITA
UMBERTO, 31 ANNI: UN
MOTORISTA CHE DISEGNA
« Sono sposato e ho un figlio. Per
campare mi arrangio facendo lavoretti
qua e là. A Napoli spesso il disoccupato
lavora più di un operaio e guadagna la
metà. Sono motorista con diploma di
qualifica. Ho fatto il portuale, il benzinaio ma mai il motorista. Viviamo in
una stanza allo Spirito Santo, nel centro
storico, mia moglie è disoccupata anche
lei, dovrebbe insegnare tecnica del linguaggio. Per il momento sto facendo un
nuovo mestiere: disegnatore a mercato
nero per gli studi di architetti. Che vorrei fare? Qualunque cosa andrebbe bene ma, se dovessi scegliere, opterei per
Un lavoro all’aperto in riva al mare. Per
campare decentemente mi servirebbe almeno un milione al mese ».
lo, disoccupato
napoletano
Tunica strada per combattere l’emarginazione dal sociale che esiste dentro chi
vive la disoccupazione sulla propria pelle, anche se non la si vuole accettare.
Reagire significa non fare la fine di tanti ragazzi che si bucano; quanti amici
miei hanno fatto questa fine! ».
GENNARO, 29 ANNI:
SFRATTATO DALLA CANTINA
lina, 23 ANNI:
UN LAVORO, PURCHÉ’ ONESTO
« Nessuno mi ha mai offerto un lavo
ro. Per mancanza di soldi ho dovuto la
sciare ^università, frequentavo econo
mia e commercio, sono diplomata in ra
gioneria, per tre anni ho fatto propa’
ganda editoriale, senza contratto, di libri
scolastici. Non sono s'posata, vivo con mia
nonna e accetterei qualsiasi cosa, purché
fosse un lavoro onesto. Andare via da
Napoli? Ci si pensa quando si è giovani
ma qui si invecchia precocemente, perché
bisogna rapportarsi sempre a problemi
più grandi. Però, se dovesse andare proprio male, me ne andrei. Credo moltissimo in questa esperienza della rappresentanza sindacale dei disoccupati, sembra
« Sono sposato, senza figli, mia moglie fa la domestica. Il 19 mi hanno dato lo sfratto dallo scantinato dove abito,
al rione Traiano. Il mio nome è nella
graduatoria dei 28.000 nuovi alloggi assegnati ma non consegnati. Ho fatto per
anni il tipografo, poi mi hanno licenziato perché il lavoro era poco. Allora ho
fatto vari mestieri, tra cui il manovale in
qualche ditta che non pagava. Ora mi
arrangio come ambulante al mercatino.
Aspirerei a qualsiasi lavoro, purché ci
fosse ».
sta battaglia è l’ultima possibilità, dopo
queste leggi verrà il vuoto e allora bisogna impegnarsi perché i problemi si
possano risolvere oggi. Ho cinque fratelli,
di cui uno cieco a un occhio. Per salvarglielo ci voleva una operazione da cinquanta milioni e non ce la siamo sentiti
di ricorrere a una colletta. Viviamo in un
seminterrato con la pensione sociale di
mia madre, che è di L. 720.000 ogni due
mesi. Ho fatto il propagandista di libri,
il collaboratore di un giornale, lo scaricatore di porto. Ora faccio il parcheggiatcre abusivo, la domenica, nei pressi di
Edenlandia ».
desca e poco dopo ci siamo sposiati e
abbiamo avuto un figlio. Sono tornato a
Napoli e ho fatto lavori saltuari,
come il sottoappalto delle pulizie ai tempi del colera, sempre sperando di avere un posto sicuro che non è mai arrivato. Dopo 17 anni mia moglie si è stufata e mi ha lasciato per tornare in
Germania portandosi via il ragazzo. Ora
vivo con i miei genitori che sono pensionati, se trovassi un lavoro e una casa forse mia moglie tornerebbe. Per
questo spero che le cose si aggiustino,
perché potrei ricostruire la mia famiglia ».
GENNARO, 40 ANNI:
HO DISTRU'TTO UN SEGGIO
GAETANO, 36 ANNI:
C’E’ SOLO IL MOVIMENTO
PEPPE, 24 ANNI:
300 MILA LIRE IN SETTE
« Dopo la maturità scientifica mi iscrissi all’università, ho fatto 7 esami, poi ho
dovuto abbandonare per mancanza di
soldi. Sono stato uno dei promotori della rappresentanza sindacale dei disoccu■ Ci credo, ma sarebbe meglio dire
« Ho lavorato in un albergo di Agnano
sino all’anno scorso. Io e 16 compagni a
un certo punto sentimmo girare le voci
di un possibile licenziamento. Allora decidemmo di rivolgerci al sindacato. Alla Uil, il compagno ci accolse con entusiasmo e ci assicurò: ”Oon noi vi sentirete in una botte di ferro”. Manco
fece in tempo a dirlo, dopo 15 giorni
fummo tutti licenziati ».
« Sono invalido civile a causa di una
forte miopia. Ho dieci fratelli, mio padre
morì quasi 30 anni fa lasciandoci tutti
piccoli, non abbiamo mai avuto l’aiuto
di nessuno. Io sono sempre stato disoccupato. Un anno fa mi capitò questo:
andando a votare per le elezioni regionali, ebbi una crisi di disperazione e
distrussi il seggio elettorale. Mi chiusero
4 giorni a Poggioreale e fui condannato
a 16 mesi con la condizionale e a 400 mila lire di multa, più le spese delTavvocato. E oggi sono ancora disoccupato ».
CIRO, 34 ANNI:
HANNO VENDUTO IL MIO LAVORO
ANGELO, 39 ANNI:
MIA MOGLIE SE N’E’ ANDATA
pati
che sono costretto a crederci, perché que
« A 19 anni sono andato in Germania a
lavorare, ho conosciuto una ragazza te
« Il mio posto se lo sono venduto.
Ero iscritto al collocamento, un bel giorno sul giornale lessi l’elenco di quelli
che avevano ottenuto un posto al comune tramite la legge 285. C’ero riuscito,
ero felice. Vado là e mi dicono: ”Ci dispiace, il suo posto non c’è più”. E che
fine ha fatto?, domando. Loro mi rispondono: ”E chi lo sa?”. Non avevo idea
di cosa fare. Intanto la giunta Valenzi
era caduta e io al mio posto ci ho dovuto rinunciare ».
Í
6
6 — questione meridionale
5 febbraio 1988
1
QUATTRO OPINIONI A CONFRONTO
Per un nuovo
meridionalismo
E' necessario trovare uomini nuovi per una questione che è nazionale
Ada Becchi Collidè
Il dibattito sul meridionalismo è rimasto, per anni, circoscritto alla tematica se esistesse nel Mezzogiorno un divario
di sviluppo economico in quell’area, e quale fosse il necessario
intervento riequilibratore dello
stato centrale. Un approccio molto economicistico alla questione. In questi termini, indubbiamente, la questione esiste. Gli
studi recenti confermano il divario. Il Mezzogiorno è j>erò cambiato rispetto al passato: il processo di integrazione economica
nazionale c’è stato, anche se permangono degli squilibri e il divario.
Il sopravvivere della questione meridionale è un dilemma la
cui risposta non pmò essere data
solo sulla base di calcoli econoniici. Se ci sganciamo da una
visione economica, vediamo che
esistono fattori che ci fanno vedere in tutta la sua attualità la
questione meridionale. Questi
fattori sono « non economici »:
il Mezzogiorno ha, rispetto al
nord del paese, un divario di
comportamenti istituzionali, di
comportamento del ceto politico
dominante, di rapporti tra lo
stato e i cittadini. La questione
meridionale oggi è figlia del modo con cui si è intervenuti in
questi ultimi 37 anni (dalla riforma agraria alla legge De Vito). Nei fatti, oggi, l'intervento
straordinario non punta più ad
una redistribuzione dal Nord al
Sud, ma è la messa in atto di
procedure eccezionali, da sperimentare rei Mezzogiorno per
poi esportarle in tutte le altre
parti del paese. E’ un intervento
che privilegia zone colpite da calamità. Le procedure dell’intervento in queste zone presentano vantaggi per le imprese, per
le istituzioni, per il ceto politico
che acquista capacità di intermediazione molto ampie. La questione meridionale, in questo senso, contagia tutto il paese: la
questione meridionale è nazionale.
Gaetano Cingari
sumere una ipotesi rifonnista
(Cassa del Mezzogiorno e intervento straordinario). Lo scontro
è dunque sul modo di affrontare la questione.
Oggi, nel Mezzogiorno, si pone
il problema istituzionale, dei poteri e del loro rapporto con la
società, della costruzione del consen.so, della formazione della
classe dirigente, della costruzione della autonomia regionale.
La questione meridionale esiste, perché si è creata una situazione negli orientamenti nazionali in cui non esiste più attenzione al Meridione. Una delle ragioni di questo è la dipendenza
culturale del Mezzogiorno dalla
tecnocrazia nazionale. Il Mezzogiorno non fa più notizia, se non
nei resoconti di tipo folkloristico. Il Mezzogiorno è evanescente nella cultura politica nazionale, non ci sono pnù i Nitti, i Salvemini.
I partiti non hanno più la
capacità di avere una visione nazionale, sono diventati grupjpi di
pressione. C’è il problema del
partito, ma anche quello del sindacato. Il sindacato oggi non si
muove, nel Mezzogiorno.
II problema è se sia p>ossibile un’azione, un impegno p>er
modificare la realtà, per risolvere i problemi del Mezzogiorno.
Esistono aggregazioni in cui
si discutono localmente i problemi, ma queste non trovano interlocutori nei partiti, nel ceto
dirigente, e sono sottoposte alle
pressioni dirette e indirette da
parte delle organizzazioni criminali. Oggi c’è la fuga dal Mezzogiorno, questa è anche una parte della questione.
Ennio Pintacuda
zogiorao. Il problema della ingovernabilità è diffuso a livello
nazionale, rende impossibile ogni
ordinaria amministrazione, altro
che rintervento straordinario! Le
città diventano nuove colonie
della partitocrazia.
C’è bisogno di uomini nuovi
che operino nelle istituzioni, che
sono le prime vittime di questo
modo di affrontare le questioni.
Quello che sta succedendo a Palermo è una speranza. C’è bisogno di solidarietà.
La questione oggi è questione
morale, ima questione di tutto
il paese. Qccorre identificare i
nuovi soggetti sociali, che vogliano agire in questa direzione
ed appioggiarli.
Giuseppe Vacca
Il meridionalismo di stato è
il frutto della valutazione politica secondo cui non esistevano
in Italia le condizioni per uno
sbocco rivoluzionario del conflitto sociale, per cui una tradizione meridionalista finisce per as
II problema oggi è di avere
idee per l’azione, per come orientarsi. Dal ’68 ad oggi l’interesse
per la questione meridionale è
sempre più decrescente. L’esigenza, oggi, è quella di ricercare
un grande arco di solidarietà attorno a chi, nel Mezzogiorno, vuole affrontare la questione con
atti concreti. La questione meridionale è ima questione essenzialmente politica. Bisogna assumere iniziative nuove, progetti per il futuro. In alcuni luoghi
(Palermo), questo è stato reso
possibile anche con sacrificio della vita dei meridionalisti: è possibile trovare nuovi modi di fare politica, che non sono solo ristretti a un luogo geografico.
Non bastano più i termini tradizionali dell’arretratezza; il nostro compito oggi è quello di incidere sul modo di sviluppo, sulla qualità della vita. La programmazione economica che si basa
su questa visione trasferisce risorse che vanno a beneficio di
altri, che non sono i destinatari
ufficiali dell’intervento. Qggi esiste una omogeneizzazione della
politica locale; Torino, Napoli,
Milano e Palermo sono molto
simili. Oggi il problema è quello di cambiare il modo di fare
politica, il modo di amministrare. Il peso delle attività illegali
determina l’azione delle amministrazioni. La vertenza verso lo
Stato non è solo propria del Mez
IL SUD E LA CITTA’
Modernizzazione
senza sviluppo
Il pensiero meridionalista storico si caratterizza come una interpretazione critica della storia
d’Italia, del modo in cui si sono
formati il mercato nazionale, lo
stato nazionale e i caratteri della struttura della società italiana. Il meridionalismo è diventato dal ’900 in poi un elemento
costitutivo delle principali culture piolitiche del paese. Gramsci,
nella sua visione politica della
questione, fornisce al movimento operaio italiano una lettura
critica delle particolarità di lungo periodo dello stato nazionale
unitario. Nel dopoguerra, ad un
meridionalismo di stato che vede la questione in termini di divario quantitativo, si contrappone un meridionalismo del movimento operaio che pone in modo critico ria questione del modello di sviluppo. Il dopoguerra
è caratterizzato dalla diffusione
del lungo « ciclo fordista » della
produzione, sul modello della economia americana; col ciclo che
comincia a metà degli anni
'70, inizia la fine delle economie nazionali. Cambia in questo
periodo il piano dei rapporti tra
mercato interno e internazionale e l’economia diventa internazionale, con nuovi vincoli, nuovi
paradigmi. Non è più sul terreno nazionale che si giocano
le grandi partite dello sviluppo.
L’internazionalizzazione dell’economia capitalistica colpisce i
luoghi tradizionali dello sviluppo della democrazia nell’occidente; colpisce il compromesso socialdemocratico e la costruzione
dello stato del benessere. Il meridionalismo, che è una grande
scuola di apprendimento a condurre l’analisi storica in termini di analisi differenziata, serve
oggi a porci il problema di quale sovranazionalità, nei termini della costruzione dell’Europa.
La questione meridionale non
può essere risolta in una visione nazionale. Il meridionalismo
ci richiama alle particolarità dello sviluppo, e alle potenzialità
di costruire su di esse una conflittualità, su cui rifondare le
culture politiche, i partiti, i soggetti politici, oggi organizzati su basi e interessi nazionali. Il discorso politico deve arricchirsi di analisi storica, analisi differenziata, di nuova costituzione dei soggetti politici. E’
questo il contributo del nuovo
meridionalismo.
Mettere al centro la città come punto cardine della questione meridionale significa superare il tradizionale approccio
del movimento operaio e democratico alla questione, che era
vista principalmente come questione contadina o ’’vaticana”. In
questa prospettiva, la città era il
mito della città operaia (per es.
Emilio Sereni poneva il tema di
Napoli come quello della costruzione dell’egemonia operaia nel
Mezzogiorno). La sensibilità per
il tema della città è venuta all’esterno della cultura del movimento operaio e democratico.
Francesco Saverio Nitti è stato,
forse, colui che ha posto in maniera più rilevante il problema
della grande città del Mezzogiorno come elemento necessario
della mediazione, della trasformazione meridionale.
L’unico che ha affrontato, allo
interno del movimento operaio,
il problema della città è stato
Gramsci nei « Quaderni ». Il tema fu poi abbandonato. La città
è stata abbandonata alla DC, alla costituzione dei grandi sistemi di potere meridionali. Il movimento operaio si è arroccato
nelle campagne e non ha colto
tutta l’importanza del problema.
Gramsci pone il problema in termini molto attuali : le forze urbane sono un punto essenziale della
mediazione politica. Il problema
odierno è quello di innervare la
questione urbana meridionale
nella grande dinamica del rapporto Nord-Sud del mondo.
Gramsci proponeva la grande
tematica del rapporto tra produttivismo e parassitismo, tra le
diverse forme dell’egemonia nelle diverse forme di società e affermava la centralità della città
come essenziale per il processo
di trasformazione e cambiamento del Mezzogiorno. Nelle grandi
città del Mezzogiorno si è formato un blocco di potere urbano
costituito da centri di intermediazione parassitaria, da un ceto
sociale-politioo capace di mediare tra i flussi finanziari centrali
e la costituzione sociale del Mezzogiorno. La DC è stata l'artefice di questo processo, che ha costituito la modernizzazione della
società meridionale, anche per
l’assenza di iniziativa del movimento operaio su questo tema.
Nel Mezzogiorno siamo di fronte a grandi processi di modernizzazione senza innovazione. La
città meridionale si è omologata
alla città settentrionale nella
mentalità, nel senso comune, nel
costume, ma sotto questa modernizzazione non c’è innovazione dei mestieri, della tecnologia, dell’ informazione. Nella
struttura meridionale non c’è
una vera domanda di innovazione. In realtà si è approfondita
la separazione tra le due Italie.
Le questioni sono dunque rilevanti: c’è la disoccupazione, che
non è più quella contadina ma
disoccupazione intellettuale, qualificata: è questo un fatto socia
le completamente nuovo. C’è la.
prospettiva di una nuova emigrazione con la conseguenza dello
svuotamento del cervello sociale
del Mezzogiorno. Anche l’università vede una flessione, perché
non si vede lo sbocco lavorative
agli studi. La ricerca ha più re
lazioni internazionali che nor
con il sistema produttivo meri
dionale. Il processo culturale è
quindi subordinato a decisioni
esterne, non ha effetti culturali t
politici nella realtà meridionale
L’industrializzazione non c’c
stata, ma già si parla di societ:
post-industriale. Il Mezzogiorno
è una società che non ha voce
non ha informazione, non esisto
no quotidiani di rilevanza nazie
naie, non fa opinione.
In questo processo di rnodernizzazione senza sviluppo è fondamentale riacquisire la dimei;
sione della città, della sua sto
ricità, della sua specificità. Oc
corre porre nuovamente il pr(;blema di come far funzionare la
città, ridare senso alla città. Ma
chi è in grado di fare questo lavoro? Occorre riprendere la bai
taglia politica su di esso.
Se guardiamo alla storia del
Mezzogiorno, essa è stata, nei
suoi momenti alti, storia giacobina; ha sempre avuto bisogno
di avanguardie. Credo che sia
necessaria la costituzione di un
neogiacobinismo, di una avanguardia politica, un lavoro propositivo per la lotta politica. I
temi non mancano; la dimensiono etico-politioa, la rifondazione
dei partiti. La battaglia politica
è oggi una necessità, altrimenti
la situazione diventa catastrofica.
Biagio De Giovanni
(sintesi)
Le strade
La strada non può essere quella della reazione estemporanea, sia pure generosa, alle quotidiane « emergenze » del Mezzogiorno: ieri un terremoto, oggi la mafia, domani la disoccupazione e poi chissà. Le vie sono molte e si sviluppano sui
piani diversi della non-dipendenza economica, della rigenerazione delle forme e dei contenuti della politica, della coscienza e della valorizzazione delle risorse culturali. Per molti anni
ci si è chiesto chi potesse e dovesse percorrerle: è ovvio che
non saranno i gruppi di potere vecchi e nuovi generati dal
sistema della dipendenza e cresciuti nella cultura della mediazione. Occorre che qualcuno — movimenti di massa piuttosto che élites intellettuali, forze politiche organizzate piuttosto che improbabili cartelli « degli onesti » — le percorra
al più presto. In caso contrario si potrà anche organizzare o
mantenere una società « dei due terzi », una società che convive con una disoccupazione elevata, che tolleri una nuova
povertà, che protegga materialmente il nucleo dei lavoratori
occupati ma isoli i gruppi marginali. Ma ancora una volta
sarebbe una vittoria di Pirro.
Paoio Naso
(Da « La questione ricorrente »)
7
5 febbraio 1988
questione meridionale — 7
SPIEGARE UN FENOMENO COMPLESSO AL DI LA’ DEI PREGIUDIZI
La magia del Meridione d’Italia « è almeno potenzialmente
mediatrice di valori cristiani, sia
pure in modo estremamente angusto ed elementare » (De Martino).
De Martino constata il rapporto esistente fra pratiche magiche, sacramentali e sacramenti;
fra esorcismi extra-canonici ed
esorcismi canonici, risalendo dal
cattolicesimo meridionale al cattolicesimo in quanto tale.
Tl rapporto constatato fra magia e cattolicesimo non autorizza però il pregiudizio polemico
di un Meridione pagano, che trovò uno dei più noti assertori nello storico protestante tedesco
Threde, che pretendeva di « rintracciare i resti viventi » dell’anfico paganesimo nel cattolicesimo meridionale del suo tempo.
De Martino osservava però che
l’antico paganesimo come tale è
presente nel Meridione solo a
livello folklórico, mentre il paganesimo, come complesso mitico-rituale mediatore di valori, appariiene solo al passato.
La realtà religiosa delle popolazioni meridionali è ben più
complessa: in essa la magia (in
particolare la magia lucana) si
collega col carattere magico del
cattolicesimo meridionale e ad
un nucleo magico nel cattolicesimo in quanto tale.
Nel l’analisi di questi fenomeni
è perciò necessario avviare studi interdisciplinari, per metterne
in luce l’intreccio storico e la
complessità degli elementi in gioco.
De Martino ha dato un esempio d’inda;; I L- ne La terra del
rimorso, su! tarantismo pugliese.
De) turai ismo egli analizzò,
fra l’uiro: rorigine nel contesto .ùorieo seguente all’espansione dell i him nel Mediterraneo,
i] suo .ipporto con la polemica
crisi in na contro i culti orgiastici, il riassorbimento nel culto
callo li co, il decadere del fenomeno come segno di crisi e di
una sopravvenuta profonda trasformazione culturale nell’ambiente in cui il fenomeno si era
sviluppato.
Il rapporto fra paganesimo popolare, magia e cattolicesimo popolare doveva essere a sua volta
oggetto di un'ulteriore indagine interdisciplinare, dopo l’esperienza fatta Sul tarantismo.
Il luogo della ricerca doveva
essere il villaggio di San Cataldo e il santuario di Santa Maria di Piemo (Bella, Potenza).
L’indagine avrebbe dovuto evidenziare: la consapevolezza e la
partecipazione soggettiva nelle
pratiche religiose, il rapporto fra
credenze religiose e coscienza etica, il rapporto fra pratica religiosa e collocazione sociale e
politica della popolazione.
Di questa ricerca, che non poté essere attuata. De Martino ci
ha lasciato solo il progetto in
alcuni aippunti inediti.
Fra i suggerimenti contenuti
nel progetto, vi è quello, da lui
già sperimentato, dell’osservazione partecipe, per rilevare da vicino il senso antropologico e psicologico delle esperienze religiose vissute più profondamente,
come per esempio il pellegrinaggio del 15 agosto al santuario di
Santa Maria di Pierno.
La tradizione cattolica
dietro la religione
popolare
Dal punto di vista della storia del Cristianesimo, la religiosità popolare è conseguente alla
rottura dell’unità interna della
comunità cristiana, avvenuta all’inizio dell’era costantiniana.
Religiosità popolare nel Meridione
Il rapporto tra pratiche magiche e cattolicesimo - Religione dello Stato e religione dell’Uomo - La festa, affermazione di socialità dalla società agricola a quella post-industriale
In quel iperiodo si accentuò
sempre di più la distinzione e
la separazione fra clero e popolo. E il popolo, divenuto cristiano ma non adeguatamente evangelizzato, conservò spesso tina
concezione della vita che rifletteva ancora non pochi elementi
dell’antico paganesimo.
Le manifestazioni religiose esprimevano d’altra parte la realtà dei rapporti umani e sociali
che si vivevano quotidianamente. Perciò, se il Dio annunciato
da Gesù Cristo veniva predicato
da un clero che a sua volta era
anche rivestito di potere, e per
questo separato dal popolo, la
comunità cristiana era, di fatto,
divisa. Allora avvenne che la comunione fraterna nella condivisione della Parola e del Pane cedette il posto all rapporto con
Dio cercato attraverso una serie
di mediazioni che avevano* la loro origine storica non nel messaggio biblico, ma nei culti misterici e nel paganesimo. In una
parola, si viveva un momento
particolare del rapporto conflittuale fra religione dello Stato
e religione dell’Uomo. E il clero accentuò la mediazione, per
affermare il proprio ruolo.
Lo stesso papato, dedicando il
Pantheon di Roma a Maria e a
tutti i martiri, invece che al Dio
unico del messaggio biblico, aveva favorito la continuità col
paganesimo invece che la rottura con esso.
La religione dell’Uomo, che si
opponeva a quella del clero sempre più investito di potere, trovò così espressioni autonome (anch’esse vennero poi riassorbite
nel culto cattolico ufficiale) nei
pellegrinaggi e nel culto dei santi e delle reliquie.
I pellegrinaggi esprimono la
convinzione che Dio sia più accessibile nei luoghi sacri che nella vita quotidiana, o attraverso
l’intercessione dei santi, il cui
culto si diffonde fino alle forme
del culto dei santi patroni, giunto
fino a noi.
II culto dei santi ha due espressioni particolari neWapologia
della loro vita e nel conservare
le loro reliquie come segni della
loro presenza fra gli uomini.
Le reliquie prendono spesso il
posto del pane della cena eucaristica nelle case dei cristiani,
ed anche nelle chiese. Inoltre,
la reliquia fa riferimento alla
esistenza terrena del santo, non
alla speranza della resurrezione
dei credenti: concentra l’attenzione sul passato, non altrettanto sul futuro che Dio prepara
per coloro che lo amano.
I racconti leggendari sulla vita
dei santi, inoltre, assimilano i
testimoni della fede cristiana alle divinità dei misteri, ognuna
Una delle tante manifestazioni che caratterizzano la religiosità popolare.
delle quali aveva avuto una sua
« storia » mitologica.
La festa
La festa è un fenomeno complesso, che conosce profondi mutamenti nel corso dei secoli, e
sul quale si attua una dialettica,
spesso uno scontro, fra religione dello Stato e religione dell’Uomo-. scontro delle istituzioni
con l’uomo, non solo col singolo, ma anche con i gruppi umani che nella festa ritrovano identità e coesione.
La polemica è molto antica, e
si può far risalire alle critiche
dei Padri contro una religiosità
di tipo collettivo, che richiede
spazi e momenti di comunicazione esterna, visibile.
Senza risalire all’antichità classica, già nella storia del Cristianesimo è una polemica complessa, che va dalle critiche di Clemente alessandrino contro il profumo degli arrosti e delle salse
nelle agapi cristiane, fino alla
« fuga mundi » come rifiuto della comunità umana, propria di
alcune correnti di eremiti e del
monacheSimo.
Nel Medio Evo invece si ebbe
un proliferare di feste, nelle quali la società celebrava la propria
unità culturale e sociale sulla
base del proprio patrimonio religioso.
In alcune regioni (Cognac, Tolosa, Oxford) si superarono le
50 festività infrasettimanali, per
Una veduta parziale dell’assemblea durante i lavori del convegno.
un totale di oltre un centinaio
di giornate festive su 365 giorni dell’anno.
La polemica contro la festa,
considerata come giorno di ozio,
nel quale è aperta la chiesa, ma
è aperta anche l’osteria, riappare nei tempi moderni, oon l’inizio dell’era industriale.
Nel secolo XVIII, i papi Benedetto XIV e Clemente XIV
tendono a ridurre le festività infrasettimanali a 15-17, e Napoleone le ridurrà (quelle religiose) a 4.
Con l’unità d’Italia, si tende
ancora a ridurre il numero delle feste con due motivazioni tipiche del tempo: Tintralcio al
commercio e all’economia nazionale creato dalle feste infrasettimanali, e le esigenze di uniformità dei ritmi della vita sociale
su scala nazionale. Nel 1867, la
deputazione della provincia di
Rovigo chiese al governo la riduzione delle feste infrasettimanali, affermando che tale riduzione « è uno dei desideri della
moderna civiltà e uno dei bisogni delle popolazioni, per le quali il lavoro è l’unica sorgente di
proprietà » (Francesco Pitocco).
Cioè, il consolidamento del sistema economico e l’unità nazionale si vogliono attuare scoraggiando la festa locale, la festa tradizionale, la festa popolare.
Il tema della festa come ostacolo alla produzione è ritornato
anche nel 1977, nel dibattito relativo aH’abolizione di alcune feste, fra le quali l’Epifania.
Dato che questa festa si carica spesso di forti valenze popolari e tradizionali a livello locale, non mancarono le reazioni.
Fra gli altri, un gruppo di befanari di Castiglion della Pescaia
reagì cantando questi versi:
« Questa vecchia Befana tanto
attesa / con ansia da ogni cuore di bambino... / Quindi giusto
non è che sia sospesa / per colpa di un governo malandrino /
che si vede che è un’opera villana: / sta grattando pure la
Befana... ».
Dal punto di vista antropologico-sociale, secondo E. Durkheim,
la festa costituisce una celebrazione e un’affermazione della socialità nei suoi momenti fondanti, sacrali, periodicamente rinnovati per rinforzare lo spirito di
comunanza, nonostante l’usura
del tempo e il passare delle generazioni.
La festa è il momento antagonistico risipetto all’oppressione
della vita quotidiana e ai rap^
.porti di potere che in questa si
vivono. Nella festa si recuperano la socialità e la soggettività,
ricongiungendo le famiglie in un
noi comunitario.
Questo è vei'o soprattutto nelle feste delle società agropastorali, nelle quali ogni gruppo familiare, nei giorni feriali, è frazionato e anche isolato nei prati e nelle campagne, e vive spesso nel contesto di un’economia
povera.
La festa — come osserva Vittorio Lanternari — in questo contesto costituisce un momento di
scambio abbondante di beni e
di intensa comunicazione.
In essa si viveva: un’orgia sessuale (balli, contatti e conoscenze fra giovani e ragazze, erotismo diffuso), un’orgia alimentare, un’orgia verbale (comunicazione intensa, contrapposta all'isolamento quotidiano).
Questo era vero per tante feste locali del Meridione. Oggi
esse sono segnate da una profonda trasformazione interna:
l’abbondanza alimentare si è estesa alla vita quotidiana; la sessualità si è diffusa e allo stesso
tempo privatizzata, staccata dalla socialità; la comunicazione
verbale si è ampliata a tal punto che il soggetto umano è oggi
assediato da una miriade dì messaggi e di possibilità di comunicazione.
Contemporaneamente, è cresciuta in genere negli individui
la coscienza di se stessi. Perciò,
mentre la festa della società agropastorale costituiva Tinserimento degli individui in una socialità forte, che creava intensi legami fra le persone, oggi assistiamo a fenomeni di festa come momenti di rapporto labile
fra personalità che, in genere,
sono più forti che in passato:
hanno più chiara coscienza di
sé.
Da qui è evidente la profonda
trasformazione dell’esperienza
della festa dalla società agricola a quella post-industriale.
A questo si può aggiungere
ancora il fatto generalizzato
che la persona, oggi, vive la
propria comunicazione non a livello locale, ma su scala più vasta, secondo interessi e affinità
e scelte culturali, e si vedrà quale profonda trasformazione avviene oggi sul tema della festa,
e più in genere sulla religiosità
che in essa si esprime.
Cesare Milaneschi
8
8 — questione meridionale
5 febbraio 1988
TRA STORIA E FUTURO
EVANGELISMO MERIDIONALE
Gli evangelici nel Sud Problemi di metodo
Oggi l’evangelico italiano è meridionale - Riscoprire la storia della
presenza evangelica - Rispondere ai temi della religiosità popolare
Riprendere l’analisi storica dell’evangelismo
El
I risultati dell’evangelizzazione dell'800, inizio ’900, sono stati: la costruzione delle gloriose
chiese dei minatori e dei braccianti (Riesi, Scicli, Cerignola,
Corato, Orsara, Rapolla), le comunità piccolo-borghesi nei centri di media grandezza, e le chiese nelle capitali (Palermo e Napoli).
Oggi la consistenza delle chiese valdesi e metodiste al sud è
la seguente: 43 comunità di cui
10 metodiste, 20 opere sociali,
25 pastori, 2.400 membri, di cui
400 metodisti. Il pastore al sud
ha quasi sempre due comimità
ed opera in una vasta diaspora.
La frequenza ai culti è del 45%,
mentre nelle chiese del nord è
del 33% e nelle Valli è deU’ll%.
La popolazione evangelica del
sud è ril,5% di quella totale,
ma il 30% dei catecumeni e il
23% dei bambini della scuola
domenicale vivono nel meridione.
I battisti invece hanno al sud
1.700 membri di chiesa, il .37%
delle comunità, oltre il 40% dei
membri di chiesa. Quasi metà
delle chiese è al sud. Dopo la
prima guerra mondiale i « Fratelli » sfondano al Sud: in provincia di Foggia ci sono 50 comunità delle Assemblee dei Fratelli. Nell’area napoletana sono
molto presenti le Chiese libere.
Nel ’57 tre chiese indipendenti
dell’area napoletana aderiscono
alla Chiesa luterana d’Italia.
Fino ad 80 anni fa l’evangelico
italiano era un piemontese, oggi l’evangelico italiano è un meridionale. I due terzi degli evangelici (compresi, ovviamente, i
pentecostali) sono meridionali.
Negli anni '60 il boom economico stronca la chiesa valdese
smantellando le valli e svuotando il Sud. Ma le chiese valdesi
e metodiste sono capaci di dare una risposta a questa crisi:
la creazione di gigantesche opere diaconali. Alla contraddizione
dello sviluppo, le chiese evangeliche rispondono battendosi nel
sociale: a Napoli con Casa materna, Casa Mia, l’Ospedale di
Ponticelli; a Palermo col centro
diaconale La Noce, che è un
centro di collegamento con l’Europa socialdemocratica, oltre che
di lavoro sociale nel quartiere
mafioso; a Riesi con il Servizio
Cristiano e la teologia della ero
ce e il rifiuto dei miti dello sviluppo capitalistico, che stavano
uccidendo il sud.
Con l’iniziativa della Federazione delle Chiese Evangeliche
nelle zone del terremoto del 1980,
si ha una svolta nell’attenzione
delle chiese alla questione meridionale. Ma in precedenza la
Fcei aveva elaborato interessanti analisi e proposte (documenti
Aquilante, Miegge)
Si apre per le chiese, e per
il SAS, il problema di gestire
un grosso programma da 5 miliardi e si impone, nel mondo evangelico, il tema meridionalistico. Nascono iniziative a Monteforte, Ruvo, Ponticelli, Senerchia;
si collabora con le amministrazioni democratiche, si contribuisce allo sviluppo del settore della cooperazione agricola. La Federazione, attraverso alcuni convegni, elabora una aggiornata riflessione meridionalista e il Sinodo deH’83 recepisce, faticosamente, la svolta. Si avvia il ricambio generazionale a Palermo
e Riesi. I giovani della Fgei scoprono la questione della pace
e del Mezzogiorno, si apre il
centro culturale di Guardia Piemontese e si forma il Cedip a
Catania.
Dal punto di vista culturale,
il Mezzogiorno evangelico ha espresso il miglior filosofo protestante italiano: Giuseppe Gangale, amico di Gobetti, Dorso,
T. Fiore. Gangale, calabrese di
Ciro, è il primo che in Italia
parla di Max Weber, di Tillich,
di Schweitzer.
Ma la cultura evangelica del
sud è ignorata dai più, troppo
attenti ai miti dello sviluppo industriale. Pensiamo all’importanza del lavoro di Abbattista,
di Pozzanghera, di Scroppo, tutti meridionali. Per raccogliere la
realtà culturale evangelica del
meridione, ignorata per decenni,
è nata la « Società di studi evangelici » di Guardia Piemontese.
Gli evangelici meridionali dispongono infatti di un patrimonio di memoria storica non inferiore a quello delle valli valdesi. Pensiamo alle colonie vaidesi ed occitaniche, alle tracce
della riforma napoletana, al risorgimento evangelico.
Ma oltre alle presenze ci sono
anche le assenze La formazione
e l’informazione delle chiese stanno al nord, nel sud non ci sono
centri d’incontro nazionali.
Agli evangelici meridionali
manca il mito dell’identità in
positivo, mentre altrove questo
è ben vivo. Pensiamo alle valli
valdesi.
L’unico simbolo di cui disponiamo nel Sud è Guardia Piemontese: dobbiamo fame l’asse
del distretto? Oppure dobbiamo
rivendicare Napoli, come metropoli evangelica? Dobbiamo dare
visibilità alle grandi opere evangeliche, dobbiamo ridare tono e
infondere fiducia a una minoranza scoraggiata e dispersa.
Gli evangelici nel Mezzogiorno
sono una diaspora di professanti in cerca di identità culturale,
sbilanciati tra una memoria evangelistica e l’impegno sociale.
Le prospettive della nostra presenza sono tre:
— inserirsi nel nuovo meridionalismo;
— inserirsi nello schieramento riformatore di fronte allo sfascio attuale;
— rispondere alla religiosità
popolare.
Al nord le nostre chiese devono rispondere alla secolarizzazione. Al sud, invece, bisogna rispondere à San Gennaro e non
a Benedetto Croce.
Mentre alle valli valdesi la
coesione degli evangelici è data
dalla sociologia e dalla geografia, nel meridione la coesione è
data dalla storia. Noi possiamo
trasformarci da minoranza dispersa, in una comunità con una
fo-rte identità storica, con segni
e simboli, e capace di una predicazione calibrata nel settore
della religiosità popolare.
Giorgio Bouchard
(sintesi)
Il Mezzogiorno
delle chiese
valdesi e metodiste
43 comunità, 20 opere sociali, 2400 membri, 25 pastori, il 30%
dei catenumeni, e il 23% dei ragazzi delle scuole domenicali:
sono la ricchezza spirituale del IV Distretto delle chiese vaidesi e metodiste. La presenza evangelica è anche battista, luterana, libera, pentecostale, e salutista.
Come studiare la storia dell’evangelismo meridionale? Ha un
senso farlo? Soprattutto, trattandosi di una minoranza, è poi legittima questa ulteriore specificazione, una minoranza nel Mezzogiorno? E’ legittima questa dissezione, che può diventare la dissoluzione dell’oggetto storico?
Il bisogno di indagini specifiche è forte, soprattutto in presenza di serie e grosse ricerche
complessive che, per loro stessa
ampiezza geografica e cronologica, consentono margini di imprecisione o genericità. E’ chiaro
che dal punto di vista del metodo bisognerebbe procedere per
ricerche puntuali, biografiche, o
per aree geografiche, per denominazioni o per singole comunità.
Ma resta un poblema: qual è
la direzione di ricerca, qual è
l’ipotesi complessiva che sorregge queste indagini e le rende ricerche degne di questo nome, e
non un ammasso insignificante
di dati e di fatti?
La domanda può essere ulteriormente specificata: che cosa
avviene quando la sostanza della Riforma del XVI secolo, che
è la sostanza dell’annunzio evangelico riscoperto dalla Riforma,
viene detta, viene predicata al
Mezzogiorno? Che cosa suscita
nella gente meridionale l’annunzio della grazia totale, della salvezza per grazia: tu sei salvato
per grazia, sei liberato, e questo
cambia il segno della tua vita
personale e della tua vita con
gli altri; e questo avviene senza
contropartite, nulla in cambio,
niente santi protettori, padrini
o mediatori; che cosa avviene
quando questo vien detto in una
società di miseria e di emarginazione, dove tutto si può comprare, tutto si scambia_ (la terra e la grazia), tutto si media,
tutto si baratta, i poteri si gerarchizzano, l’etica individuale e
quella sociale si corrompono; che
cosa avviene?
Che cosa è avvenuto, come e
perché è avvenuto: è questo precisamente l’oggetto di una storia dell’evangelismo meridionale, che pertanto si costituisce, come tale, in categoria storiografica.
Ponendosi in quest’ottica, nell’ottica cioè di un incontro tra
messaggio evangelico e particolarissime condizioni della società meridionale, è possibile rintracciare alcune costanti, alcuni
temi ricorrenti che danno la fisionomia di questa storia, che
ne disegnano il profilo. Provo a
individuarne schematicamente
alcuni:
a) l’evangelo rinnova non solo le coscienze individuali, ma
trasforma la società, cioè l’evangelo si gioca nel mondo, nel Mezzogiorno in questo caso. E’ questa una convinzione che lega i
primi evangelizzatori deU’ottocento, così dentro le trasformazioni politiche e istituzionali dell’Italia risorgimentale e del Mezzogiorno, a un evangelico come
L. Schirò, così vicino ai bisogni
della gente, cosi dentro le lotte
politiche, i movimenti, le istituzioni;
b) l’acquisizione progressiva
di una coscienza meridionalista;
un intervento inizialmente indifferenziato, come ho cercato di
dimostrare, si va specificando e
si attrezza con un progetto di
evangelizzazione calato fortemente nella realtà meridionale, di
cui progressivamente si colgono
specifici bisogni. Il progetto, direi da sempre nella nostra storia, è fatto di predicazione e diaconia.
La sostanza della predicazione
è l’annunzio di Gesù Cristo che
salva e che libera e dalle antiche forme della « superstizione
papista idolatra » (come si dice
va nell’ottocento), e dalle mo
derne forme della delega colpe
vole, della passività, della res.e
cosciente ai poteri corrotti, de;
cedimenti alle sipecifiche forme
che assume la subalternità meridionale. E’ una predicazione
che si modella sulla realtà.
L’impegno diaconale ha ere:'
to una fitta rete di opere sociali
che in molti casi sono giunte il
no a noi: scuole, in primo luogo,
centri per l’infanzia o per gl:
anziani, ospedali, centri cultur; ■
li, piccole cooperative. L’evange
lizzazione ha da sempre cammi
nato in parallelo alla promozi'
ne sociale, culturale ed uman: .
Questo binomio va mantenuto a;
Sud;
c) tramonta, anche al Sud, rantica illusione risorgimentale eh
gli evangelici sarebbero divento
Il moderatore prende appunti
ti una realtà di massa, avrebbero introdotto quella riforma religiosa che poteva cambiare il
segno dell’intera storia italiana.
Il Mezzogiorno non diventerò
probabilmente mai evangelio^
Ma non è di una chiesa di massa che il Sud ha bisogno; ha bisogno di una presenza profetica
che sia capace di dare segni di
contraddizione e di speranza.
Quando, in un’epoca non troppo
lontana, Riccardo Santi si portò
a casa due bambini che aveva
trovato sotto i portici della Stazione Centrale di Napoli, dando avvio aH’opera di Casa Materna, questo non cambiò il segno della presenza evangelica a
Napoli o a Portici, ma fu certamente un gesto profetico di contraddizione in quella realtà, e
di speranza.
Rosanna Ciappa Nitti
(conclusioni dell’intervento)
« Non panem et circenses
ma terra e lavoro domandano
le moltitudini. (...) In Italia si
può forse meglio che altrove,
perché la terra italiana è in
gran parte incolta e selvaggia,
come la coscienza religiosa
italiana. Sono due terreni che
attendono ancora il soffio della rivoluzione; attendono di
essere riscattati, l’uno dalle
barbarie dei bruchi e della
gramigna, l’altro dalla barbarie della superstizione cattolica. La nostra rivoluzione è
lontana dall’essere compiuta;
se non si profonda giù e diviene agraria, religiosa e sociale,
la nostra rivoluzione del 1860
è stata una rivoluzione in difetto, sconcia, abortiva ».
Pietro Taglialatela
(Da « L’evangelista » settimanale metodista 31.8.1894)
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