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RIVISTA BIMESTRALE ILLVSTRATA DI STUDI RELIGIOSI
ROMA - 30 GIUGNO - 1913
Anno II : : Faso. III. MAGGIO-GIUGNO
1913
Roma - Via Crescenzio,
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DAL SOMMARIO: G. COSTA: La battaglia di Costantino a Ponte Milvio (con illustrazioni). — G. MONTALBO: Miti e religioni dell'antichità classica. — G. NATALI: Nuovi studi paolini. —-P. ORANO: Dio nella Scienza. — F. De SARLO: Intorno all'im-mortalità dell'anima. — F. SCADUTO: Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa, ecc. — NOTE E COMMENTI. — TRA LIBRI e riviste. — Notizie.
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi ------- Via Crescenzio, 2 - ROMA
D. G. Whittinghill, Th. D.» Redattore per l’Estero ------- Via del Babuino, 107 - ROMA ----fi Si pubblica alla fine di ogni mese pari in fascicoli di almeno 64 pagine, fi fi fi
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Illustrazioni del presente fascicolo.
La Battaglia di Costantino a Ponte Milvio: Fig. i. Campo della Battaglia secondo le principali opinioni (p. 202) — Fig. 2. Schizzo del campo della Battaglia e della disposizione delle truppe (pag. 203) — Fig. 3. Bassorilievo dell’Arco di Costantino a Roma. L’esercito di Massenzio in rotta è travolto nel Tevere (Tavola fra le pagg. 206 e 207) — Fig. 4. Bassorilievo d’Algeri alludente alla Battaglia di Ponte Milvio (Tavola fra le pagg. 206 e 207).
Le guerre di religione. Quadro di E. Debat-Ponsan, 1899. (Tavola fra le pag. 250 e 251).
Copertina, disegni e fregi di Paolo A. Paschetto.
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RJV15IÀ DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLATEOLOGICA BATTISTA - DI ROMASOMMARIO:
Giovanni Costa: La Battaglia di Costantino a Ponte 'Milvio. . . pag. 197
GlNO MONTALBO : Miti e religioni dell' antichità classica. » 209
G. Natali: Nuovi studi Paolini ............. » 214
Paolo Orano: La rinascita dell'anima. IV Dio nella scienza . . . > 218
Mario Rosazza: La religione del Nulla..................... > 229
F. DeSarlo: Intorno all immortalità del! anima................................ >234
Joh. Lo VER: La parabola del fico maledetto (Note esegetiche) ... »239
PER LA CULTURA DELL’ANIMA:
Alfredo Taglialatela: Due giovani. . . . . ...... » 242
INTERMEZZO :
LE GUERRE di religione: (Quadro). ........... >249
VOCI E DOCUMENTI:
Francesco Scaduto: Indipendenza dello Stato e Libertà della Chiesa > 251
NOTE E COMMENTI:
La fede di Arturo Graf ... ........ ..... > 259
La conversione religiosa di A. Manzoni.................... > 262
Ispiriamoci a Cavour (A. Fasulo) ............ » 263
La separazione della Chiesa dallo Stato................... » 265
B. Croce e la filosofia della storia (A. T.) .......... » 268
La guerra e le missioni (I. R.) .............. » 269
TRA LIBRI E RIVISTE:
Antico Testamento : li Pentateuco e la teoria documentaria (I. R.) — Per una
critica nuova dei testo massoretico (I. R.) .......... » 270
Nuovo Testamento: Il nuovo codice «W» (D. G. W.) ......... » 273
Storia del Cristianesimo: Il Cristianesimo in Italia (I. R.)............... » 274
Filosofia e Religione : L’Immortalità (S. Sighele) . . . . . . . . . . . » 275
Varia: La leggenda dei simboli (E. M.) — Verso la luce (T. G.) — Poesia bellica (T. G.) —- Mitologia popolare (T. G.) — Il Cristianesimo nel
xx secolo (S. C.) —- Per la riscossa cristiana (E. R.) ...... » 27S
NOTIZIE ...... . . . . . . ............................................... »181
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PEI PROSSIMI FASCICOLI:
Paul DOUMERGUE: David Livingstone (con illustrazioni).
FRANCESCO Biondolillo: La religiosità del Petrarca (con illustrazioni).
A. Distefano: Adele Kamm (con ritratto).
A. Cervesato: Mazzini e noi.
G. E. MEILLE: Gli sforzi verso ! emancipazione dell'Islam e l'avvenire dei popoli mussulmani.
Aristide Gambari : Il passato di A. Loisy.
Roland D. Sawyer: Gesù e lo Stato — Gesù e la famiglia — Gesù e la proprietà. ASCHENBRÖDEL: Il movimento del « Brotherhood » in Londra (con illustrazioni). GlNO Montalbo : La religione e la parodia religiosa in Aristofane — Le credenze di oltre tomba nelle opere letterarie dell' antichità classica.
N. B. — Degli articoli firmati sono responsabili i singoli autori.
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LA BATTAGLIA DI COSTANTINO A PONTE MILVIO(#)
(28 OTTOBRE 312).
I. — ESPOSIZIONE E CRITICA DEGLI ELEMENTI STORICI.
i. Argomento. — 2. Ponti. — 3. Cronologia. — 4. Forze dei contendenti. — 5. Località ove avvenne la battaglia.
1. L’ultima battaglia della guerra tra Costantino e Massenzio svoltasi nelle vicinanze di Roma, più che per la sua importanza reale, per quella che le si è voluta attribuire da storici principalmente moderni, merita di essere studiata in modo completo e definitivo perchè ritornando alle fonti se ne ripristini la ricostruzione nel modo più probabile possibile e contro quella formazione di tradizione Storica che è dannosa all'esatta concezione della verità.
Noi esamineremo quindi in queste vista militare, ma con l’intento di pori« mettono di conoscerlo. E naturalmente
(*) I risultali dello studio che presento in quest’articolo sono siali già resi noti al pubblico nella conferenza da me temila all’Associazione archeologica romana il /q febbraio u. s. su « La politica religiosa di Costan tino il Grande*. Se qualcuno à vaghezza di conoscere ¿’insieme delle mie opinioni sull’argomento, nelle quali allora inquadrai l’episodio militare che qui ò studiato in modo speciale, potrà leggere la mia conferenza, pubblicala sotto forma di articolo, nella Rassegna Contemporanea del 25 marzo u. s. A questo proposito anzi mi preme di dichiarare pubblicamente che alle critiche fatte con mollo garbo e con qualche forza d'argomentazioni dal p. F. Grossi-Gondi nella sua
pagine l’avvenimento dal solo punto di • in luce in tutti gli elementi Che ci per-cominceremo dalle fonti.
conferenza del 6 marzo u. s. tenuta nell'aula massima della Cancellerìa Apostolica, come a quella fatta con non uguale signorilità e forse con minor copia d’argomenti dal prof. O. Ma-rucchi nella sua conferenza del 5 giugno corr. tenuta nello stesso locale, risponderò non appena saranno pubblicali i loro discorsi. Voglio difatti sperare che il Comitato romano per le feste costantiniane darà alle stampe le conferenze di cui fu promotore, non solo nell’interesse subbiettivo dello scopo per cui esso sorse, ma pure in quello obbiettivo della constatazione del modo in cui è stalo adattato ad esigenze di fede e di parte un grande avvenimento storico di /6 secoli fa.
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Disgraziatamente — non è inutile forse il premetterlo — le nostre fonti sono o eccessivamente sospette (le contemporanee) o compendiose (le tardive). I panegiristi di Costantino che accennano alla battaglia esagerano i meriti suoi a danno di Massenzio: gli scrittori cristiani, che scrivono con intenti apologetici o politici, fanno lo stesso. Invece i veri storici o si limitano (con la caratteristica epitomatrice dell’epoca) appena a poche parole per narrare il fatto o sono più lontani da esso e ciò permette di dubitare di qualche loro indicazione. Questo è tanto più grave, quanto meno facile è stabilire tra le varie nostre fonti le relazioni che le legano, se si esaminano unicamente nella parte che dedicano all’ultima battaglia di Costantino contro Massenzio (1).
Premesso ciò, ecco quanto ci risulta sulle fonti di cui ci dobbiamo servire.
2. Il primo scrittore che parla del combattimento è l’autore del panegirico detto nel 313 d. Cr. ; il secondo è Lattanzio o, come altri vuole, l’autore anonimo del de mortibus persecutorum, opuscolo la cui compilazione può porsi nel 314 d. Cr. ; il terzo è Nazari©, che dovrebbe aver tenuto il suo discorso nei 321. Segue a costoro, sempre in ordine cronologico, Eusebio che nella sua storia ecclesiastica (la cui edizione definitiva deve porsi nel 324 o 325) vi accenna brevemente, mentre nella sua vita di Costantino (che non può mettersi ad una data anteriore al 338) se ne occupa un po' più estesamente per quel che riguarda il lato del meraviglioso. Gli altri scrittori che maggiormente ci interessano sono della fine del secolo IV, come Aurelio Vittore, i cui Caesares sono posteriori al 360; Eutropio, di pochi anni posteriore a lui; l'autore te\\'epitome de Coesa-ribus, probabilmente degli ultimi anni del iv secolo e fors’anche l’anonimo Vale-siano: o dei principi del secolo v come Orosio: oppure del secolo vi come Zosimo, l’ultima e più importante delle fonti letterarie prossime all’avvenimento e la prima delle fonti seriori. Sulle quali è inutile dilungarsi, trattandosi in genere di fonti derivate da queste e specialmente da Eusebio : esse non aggiungono dati nuovi o importanti al fatto e sono, tutt’al più, necessarie per lo studio della formazione della leggenda, che non è per ora nostro tema. In ultimo possiamo accennare ai cronografi che dònno la notizia sommaria del fatto e che vanno dalla metà del iv secolo al vii secolo.
Le fonti epigrafico-monumentali sono costituite dall’arco di Costantino, ove un bassorilievo rappresenta, come vedremo, una fase della battaglia e dalla pietra del museo di Algeri, che raffigura non sappiamo bene qual processione, in cui viene ricordata materialmente la spedizione costantiniana (2).
(1) Ecco alcune relazioni che accennano ad una probabile dipendènza delle varie fonti : Pan. 9, 16, «consumpto per desidias sexen-nio»; Vict. Caes., 40, 20 : «in desidiam foede pronus » (detto da ambedue di Massenzio) ; c. 1. l. 6, 1139: «quem de omni eius facilone ...» ; Vict. Caes., 49, 25 : « ac subsidia faclionibus aptiora » (detto del partito di Massenzio); Pan., 9, 17 e [Vict.] Ep., 40, 6 sembrano aver l’identica tradizione della morte
di Massenzio., mal riprodotta però dal secondo. Come si vede possiamo rilevare qui un certo legame tra gli scrittori della seconda metà dei secolo iv ed i contemporanei all’avvenimento.
(2) Per le fonti letterarie latine si veda lo Schanz, Gesch. rdm. Lilter., 3, 146 (panegiristi, di cui v. anche l’edizione recentemente curata dai Baehrens; noi continuiamo però a citare la vecchia); 462 (Lattanzio, sul quale
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Dei moderni merita conto vedere il Moltke, il Seeck, il Grossi-Gondi, il Monaci, il Tommassetti, senza seguire la letteratura d’occasione che ripete le opinioni dei maggiori senza ombra di critica e spesso sensa buon senso (i).
3. La cronologia dell’avvenimento è sicura, perchè l’anno 312 ci è dato concordemente dalle fonti contemporanee e da quelle seriori, compresi gli stessi cronografi, alcuni dei quali solamente (dei più tardivi e dei meno attendibili) danno il 313. Gli avvenimenti ed i documenti irrefutabili di quest’anno escludono che Massenzio fosse ancora al potere anche ai suoi inizi ; nello stesso modo si spiega il sessennio d’impero che gli attribuiscono le fonti e così pure si conferma il giorno della battaglia che ci vien fatto conoscere in duplice modo : da Lattanzio che ci avverte esser Costantino venuto nella contrada di ponte Milvio il 26 ottobre, cioè il giorno prima dell’anniversario dell’elezione di Massenzio, avvenuta il 27 ottobre 306, con la quale data si chiudevano le feste per il quinquennio d’impero (contato dal 28 ottobre 307, dalla data cioè del passaggio da Cesare ad Augusto), mentre col giorno seguente si chiudeva realmente il sessennio ; dal calendario filocaliano che pone nel 28 ottobre la battaglia (evictio tyranni) e nel 29 ottobre l’entrata in Roma di Costantino (adventus divi}. Quest’ultima data è in accordo con l’anonimo valesiano il quale dice che solo il giorno dopo della battaglia il cadavere di Massenzio fu ritrovato e la testa portata ih città: ora le fonti contemporanee Ci avvertono che ciò avvenne al seguito del corteo trionfale di Costantino. In tal modo viene confermata la cronologia dei fatti avvenuti nei giorni precedenti (2).
4. Sulle forze di cui disponevano i combattenti abbiamo una molto particolareggiata indicazione di Zosimo dalla quale si rileverebbe che Costantino aveva 90,000 fanti e 8,000 cavalieri, mentre Massenzio aveva 170,000 dei primi
puoi vedere ora anche Silomon in Hermes, 47, 250); 4, 59 (Aur. Vittore, per il quale v. ora la recente edizione del Pichlmayr); 69 (Eutropio); 99 (anonimo valesiano). Per Orosiov. Mörner, De Orosii vita, passim ; per Eusebio (bist. eccl.) v. Schwartz in Pauly-Wissowa, Real-Ency-clop&die d. Class. Altert. IV, 1370 segg. e (r. Consti} Pasquali in Hermes, 45 (1911) n. 3 ; per Zosimo la prefazione dell’edizione curata dal Mendelssohn ; per i cronografi Chron. min. ed. Mommsen, voi. 1-3 (in Mon. Germ. hist., voi. 9, 11 e 13) e per le fonti epigrafiche C. I. L. 6, 1139 ; 8, 9356, avvertendo che sull’arco di Costantino, dopo l’articolo del Frothingham in Am. Journ. of Arch., 16, n. 3, il lavoro più recente della letteratura sull’ argomento è l’articolo del Grossi-Gondi pubblicato nella Civiltà Cattolica del i° marzo e 19 aprile 1913, mentre sul bassorilievo d’Algeri non esiste, ch’io sappia, cosa più recente di Doublet, Musée d‘Alger, pagina 42. La riproduzione che ne diamo qui (fig. 4) è tolta
da una fotografia fatta eseguire espressamente per me, con molta cortesia, dal conservatore di quel Museo, signor J. Wierzeiski, della qual cosa lo ringrazio in modo speciale.
(1) Moltke, Wanderbuch, Berlin, 1879, pagina 115 e segg. ; Seeck, Gesch. Unterg. Ani. IVelt., 1, pag. 1x4 segg. e 493 segg. ; Grossi-Gondi in Civiltà Cattolica, 1912, pag. 417 segg. ; Monaci in Diss. Pont. Accad. rom. d’arch., 1903, pag. 109 e segg.; Tommassetti, Camp, rom., 3, pag. 232 segg.
(2) Ecco le nostre fonti cronologiche : Lact., de m.pers., 44, 4 (cfr. 26); Pan., io, 33 (cfr. 9, 16); C. I. L. I, 1, pag. 333; Exc. Val., 12; Chron. min., 1, pagg. 148, 231,448; 3, PaS- 337- La spiegazione data sopra da noi rende inutile il ritenere errato, come vuole lo Seeck (i, 484) il testo di Lattanzio e superflua quella del Mommsen nel Corpus 1. c. Per completare le prove cronologiche si può confrontare C. I. L., 1. c., per i giorni posteriori al 28 ottobre con Pan., 9, 19.
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e 18,000 dei secondi. Però, come ben vide il Seeck, qui non può trattarsi che del numero complessivo delle forze dei due imperatori, poiché il panegirista del 313 attribuisce a Costantino nella sua campagna contro Massenzio solo la quarta parte del suo esercito contro i 100,000 uomini dell'usurpatore ed aggiunge che le truppe costantiniane erano molto minori dell’esercito di 40,000 uomini di cui disponeva Alessandro il Grande. Per esser nel vero si può supporre non infondatamente che Massenzio tenesse con sé all’incirca 100,000 nomini, che il reste fosse stato da lui mandato nell'alta Italia ad opporre resistenza all’invasore e che questi tra milizie proprie e raccogliticce, dopo le vittorie conseguite, avesse all’incirca 40,000 uomini alle porte di Roma. In ogni modo non può assolutamente porsi in dubbio che le truppe dei due competitori fossero alla bat taglia di ponte Milvio nella proporzione di 1 a 2 e su questa base sono state raffigurate nello schizzo qui unito le forze dei due avversari (40,000 contro 80,000) (1).
5. La questione finora maggiormente discussa e rimasta controversa è quella dell’identificazione della località nella quale si svolse la battaglia. Occorre premettere che tutte le fonti, contemporanee e seriori, la dònno come avvenuta nei pressi di ponte Milvio. Però siccóme nessuno nega che quivi sia accaduto l’affogamento di Massenzio, ed un autore, Aurelio Vittore, dice che la battaglia avvenne a Saxa Rubra, a 9 miglia, ossia a 13 km. e 7, circa, di distanza dalla cinta serviana sulla via Flaminia, si è voluto da alcuni portare il campo di battaglia intorno a Primaporta, località identificata con Saxa Rubra e distante da Roma per l’appunto quanto vuole l’antico scrittore. Il Moltke, convinto di ciò, credendo di poter adattare le indicazioni delle fonti alle sue vedute strategiche, collocò le truppe di Massenzio sulle colline tra i fìumicelli Gelsa e Valca con la sinistra internata nella valle di questo corso d'acqua e la destra poggiata al Tevere. Il Seeck, vedendo l’impossibilità di sostenere tale opinione, contro l’accordo delle fonti e le loro precise indicazioni, studiando il terreno, venne alla conclusione che la battaglia si svolgesse con un larghissimo fronte da Primaporta a ponte Milvio, sicché là fosse l’avanguardia e qua la retroguardia divenute nel combattimento l’ala destra e l’ala sinistra e che l’esercito costantiniano sboccasse dalla Cassia e avesse facilmente ragione del nemico in gran parte immobilizzato tra le colline scoscese e il fiume. Il Grossi-Gondi, comprendendo qual parte fallace vi fosse in questa ipotesi e riconoscendo non potersi prescindere dalla pianura, indicata dalle fonti come luogo di combattimento, portò addirittura la battaglia nella pianura formata dall’insenatura del Tevere di fronte a Primaporta: ma senza dire che la pianura della larghezza di un chilometro e della profondità di un chilometro e mezzo, non avrebbe permesso lo svolgimento della battaglia in cui erano impegnati per lo meno 120,000 uomini, osta alla sua ipotesi, come vedremo, tutta la serie dei dati che si ricavano dalle fonti e tutto lo svolgimento dell’azione (2).
(1) Per le forze dei combattenti si vedano (2) Ponte Milvio come località dell’avvenuta Zos., 2, 15, 2-6; Pan., 9, 3 e 5 e si cfr. battaglia è espressamente indicato da Pan., Seeck, o. c. x, 494. 9, 17; Lact., de tn.t pere. 44,3; Eutr., io,
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Occorre stabilire in primo luogo che la battaglia avvenne presso ponte Milvio: e ciò risulta indubbiamente da Lattanzio che ci dice essersi Costantino accampato nella contrada denominata da quel ponte («e regione pontis Mulvii ») e dal panegirista del 313 che ci fa conoscere come al primo urto dei costantiniani i massenziani fossero tagliati fuori dagli accessi difficili di ponte Milvio e messi in fuga, salvo la resistenza disperata dei pretoriani (« Ad primum igitur aspe-ctum maiestatis tuae primumque impetum totius tui victoris exercitus hostes territi fugatique et angustiis Mulvii pontis exclusi, exceptis latrocinii illius primis auctoribus, qui desperata venia locum quem pugnare sumpserant texere corpo-ribus»). Da Zosimo e dall'anonimo valesiano risulta d'altra parte che il combattimento dovè svolgersi in una pianura, che il primo dice molto atta alle evoluzioni della cavalleria. Che quindi questa pianura non possa esser se non quella di Tor di Quinto lo si deve concludere da questi soli dati: quel che lo prova poi in modo irrefutabile è Aurelio Vittore con la sua indicazione che Massenzio si avanzò verso i Greppi Rossi (Saxa Rubrd] e, sconfitto, tu ucciso nel passare il fiume (< ... in Saxa Rubra milia ferme novem progressus, cum caesa acie fugiens semet Romam reciperet, insidiis quas hosti àpud pontem Milvium locaverat, in transgressu Tiberis interceptus est...») (1),
Ora per identificare la località di Saxa Rubra non vi sono dubbi mercè appunto l’indicazione che lo stesso autore fornisce e cioè della sua distanza di 9 miglia da Roma. Essa trovavasi là dove attualmente sorge la frazione di Pri-maporta, dove eravi una villa imperiale, i cui parchi si estendevano per tutta la contrada per parecchie miglia verso la città. La situazione della villa, proprio al nono miglio, nella località denominata ad gallinai albas per un voluto fatto miracoloso accaduto a Livia di Augusto, coincideva quindi con quella della stazione della via Flaminia che traeva nome dai greppi di tufo rosso che impendono sulla strada per tre miglia circa dall'attuale Monte delle Grotte a Prima-porta. Questa identificazione è sicura anche per un confronto col testo di Livio in cui si accenna alle lotte tra i Fabii ed i Veientani intorno al Cremerà (ora Valca), il cui corso che finisce nel Tevere, attraversa la via Flaminia per l’appunto poco prima dei Greppi Rossi.
Gli itinerari però dànno il nome alla stazione lontana 9 miglia da Roma, di ad rubras e Marziale ricorda accanto a Fidene le breves Rubrae, il piccolo borgo di Rosse: se aggiungiamo che nel Medio Evo tutta la località che si estende dall’attuale Monte delle Grotte e Primaporta ebbe il nome di Rubrae e che una iscrizione ricorda le amministrazioni dei praetoria della detta villa gallinarum albarum e rubrensium, oltre a quello di Fidene, dobbiamo concludere che molto probabilmente le Rubrae non erano la stessa cosa di Saxa Rubra come vuole
4, 3; Oros., 7, 28, 16; Chron. min., t, pagina 448 e dal bassorilievo di Algeri (fig. 4) ove si legge: Pone Muto[ius] Expedilio imperatorie Con\_slanlint\ e si vede raffigurato un ponte. E’ indicata come avvenuta nei suoi pressi la morte di Massenzio in [Vict.J Ep.t 40, 6; Cron. min., 1, pag. 14 e 221.
Le opinioni dei moderni ricordati nel testo
sono espresse e sostenute nelle pubblicazioni citate nella nota 1 a p. 199 : io ne ò indicato i rappresentanti più recenti ed autorevoli ; per la storia di esse si vedano anche i lavori del Monaci e del Tomassetti.
(1) Lact. de in., pere. 44, 3; Pan,, 9, 17; Zos., 2, 16, 1 ; Exc. Val., 12; Vict. Caes., 40, 23.
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0 12 3 cKil.
o •*>. miglia •
A. Località della battaglia secondo il Moltke.
B. » » » il Grossi-Gondi.
C. » » » la nostra fig. 2.
Per Seeck-Tommassetti la battaglia à per fronte tutta la strada tra Ponte Milvio e Primaporta: tra B e C dunque.
2^. /. - Campo della battaglia del 28 ottobre 312 secondo le principali opinioni.
anche l’aggettivo che pare lasci sottintendere un gallina^ se non rupes od altro. Tutto ciò è provato anche dalle denominazioni medioevali, dai ruderi, dalle indicazioni topografiche, onde al Tommassetti fu giocoforza identificare la stazione ad rubras non. con Prima-porta, ma con l’osteria di Grottarossa, di origine antichissima (1 ).
Crediamo quindi risulti all’evidenza che Aurelio Vittore, traendo dalla sua fonte l'indicazione della battaglia di Costantino contro Massenzio tra ponte Milvio e la stazione ad rubras — Che veniva a trovarsi al VI miglio da Roma, un miglio dopo il V, da cui trae il nome la pianura di Tor di Quinto — identificò classicamente la nuova località con l'antica, nota nella storia di Roma per avvenimenti di vario genere, e la indicò con la distanza che davano gl’itenerari. I quali naturalmente preferivano chiamare col nuovo nome — estesosi dal VI al IX miglio — anche la vecchia stazione, tanto più che per ragioni facili a comprendersi, data la situazione della villa imperiale, non era improbabile che i viaggiatori si fermassero più facilmente al piccolo borgo d’origine recente, anziché alla vecchia località, ormai troppo asservita alle esigenze imperiali (2).
Alla confusione quindi di Aurelio Vittore devesi se i moderni
(1) Determinato che ebbi sulle fonti storiche la località in cui si svolse la battaglia e venuto nella convinzione che esssa ebbe luogo nella pianura di Tor di Quinto, alla difficoltà dell’apparente contraddizione con il dato di Vittore mi rispose per il primo il capitano Angelo Rossi del nostro comando di stato maggiore, suggerendomi per una possibile identificazione la località delle Grotte rosse. Il Vaglieri che illustrò nel Bull. Comm. Arch. Mun.t 1910, pag. 141 e segg. l’iscrizione che distingue i praetoria dalla villa di Livia gal-linarum albarum (Primaporta) da quelli ru-brensium (Grottarossa) mi confermò il valore dell’ipotesi, che ora nel volume testò uscito del Tommassetti, trova ampio, sicuro conforto di dimostrazione {Camp. rom.. 3, pag. 249 e segg.).
(2) Per gli itinerari e gli autori che parlano
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Pig. 2. - Campo della battaglia del 28 ottobre 3/2.
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portarono il campo di battaglia dove non fu e non potè essere o se fu per lo meno protratta l’estensione dell’esercito massenziano fino all’inverosimile. Se il combattimento difatti avvenne nella pianura di Tor di Quinto e vi fu là quell’ammassamento di truppe che ora vedremo, non è possibile che là colonna continuasse ad estendersi per tante miglia (3 per lo meno) specialmente in un trattò dominato da colline scoscese da cui una sola linea di uomini, coronante le alture, avrebbe potuto aver ragione di centinaia di combattenti. D'altra parte se si fosse combattuto a Primaporta non solo sarebbe stato pazzesco che Massenzio avesse cercato di passare il Tevere appena poco lungi da ponte Milvio e con lui tutti suoi che perirono nel fiume, ma sarebbe stato incomprensibile che fossero « preoccupati », come si dice, gli accessi del ponte da truppe costantiniane, le quali se a tanta distanza fossero state separate dal corpo dell’esercito sarebbero state facile preda del nemico, e se avessero occupato il ponte avrebbero reso ancora più impossibile la fuga verso di esso, data la distanza e la infelice situazione del campo di battaglia che si poteva dire un vero fondo di sacco. Perchè il lettore si convinca dell’insostenibilità di queste opinioni le indico nell’annessa cartina geografica (fig. 1).
Lo schizzo quindi del campo di battaglia che presento nella fig. 2, è disegnato secondo i risultati della mia ricerca e sullo studio del terreno tatto sul luogo con l’aiuto tecnico dei due egregi ufficiali del nostro comandò di stato maggiore, capitano Riccardi e capitano Angelo Rossi, ai quali per ciò rendo grazie pubblicamente. In modo speciale sono poi riconoscente al Rossi per aver cooperato nella mia ricerca e per aver voluto disegnare lo schizzo che pone in chiara luce i risultati del mio studio (1).
Premesso tutto ciò per intelligenza dei lettori, ritengo che la ricostruzione degli avvenimenti storici svoltisi vicino a Roma dal 26 al 29 ottobre 312 debba farsi nel modo seguente.
IL — RICOSTRUZIONE STORICA DEGLI AVVENIMENTI.
1. 26 ottobre: Costantino alle porte di Roma. — 2. 27 ottobre: preparazione alla battaglia.
— 3. 28 ottobre : disfatta e morte di Massenzio. — 4. 29 ottobre : ingresso di Costantino in Roma.
i. Il 26 ottobre 312 un piccolo esercito di 40.000 uomini sbucava, all’in-circa dalla valle del torrentello che oggi si chiama Crescenza nella pianura che si apre tra l’odierno fosso di Acquatraversa e le colline che chiudono l’accesso di ponte Milvio per la via Flaminia, di fronte all’ampia pianura detta ora di
di Saxa Rubra v. C. I. L., XI, pag. 567 e cfr. Nissen, Hai. Landeskun., 2, pag. 372. I luoghi più importanti, però, sono: Liv., 2, 49, e Plin., nat. hisl., 15, 136.
Non credo che la mia spiegazione possa essere in contradizione con il «opporà?» di Eusebio {hisl. eccl.y 9, 9; v. Causi, 1, 3$), perchè questa frase trova il suo-necessario chiarimento in Pan., io, 27 e 28, ove appunto si
attribuisce alla meravigliosa fortuna di Costantino l’aver tratto Massenzio fuori della città, ad onta della sua ostinazione a tenersi chiuso.
(1) Le truppe sono indicate nelle forme d’uso : i rettangoli pieni rappresentano la fanteria, quelli in diagonale la cavalleria; le truppe di Costantino sono raffigurate dai rettangoli neri, quelle di Massenzio da quelli tratteggiati.
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Tor di Quinto, che il Tevere forma non appena passate le colline stesse fino al punto in cui si riavvicina alla strada ed alla sua parte leggermente montuosa, che ivi si denomina monte delle Grotte (v. sopra I, 5). Il piccolo esercito, comandato dall’imperatore Costantino, vittorioso, non senza resistenza, dei massenziani che gli si erano presentati nei campi dell’alta Italia, aveva già da qualche tempo abbandonato le vie maestre e tenendosi tra la Flaminia e la Cassia aveva preparato la sua avanzata in modo da giungere quasi di sorpresa nella contrada di ponte Milvio.
Un piccolo corpo difatti aveva fatto una punta verso il ponte che era l’unica via d’accesso alla città da quella parte, ma l’aveva trovato difeso, come difese dovevano essere state tutte le alture che dominavano i punti strategici che riparavano la sponda destra del fiume (1).
Costantino non aveva permesso che le sue truppe s’impegnassero con le avversarie in un combattimento definitivo, bastandogli che esse prendessero contatto in modo da procurargli qualche indizio sulle intenzioni di Massenzio. Questi che finallora aveva pensato di farsi assediare nella città e che a tal fine aveva raccolto viveri e provveduto alle opere di difesa, ebbe campo così di constatare come le forze del suo avversario non fossero tali da preoccuparlo ed ordinò per il giorno seguente a una parte dei suoi, mandata a rinforzare le scolte che ancora potevano mantenersi nelle posizioni loro assegnate, di impegnarsi (2).
2. Il 27 ottobre 312 venne così attaccata battaglia dagli avamposti con pari energia e con pari valore: nè gli uni nè gli altri indietreggiarono, onde l'esito rimase incerto, tanto che a Roma nel pomeriggio si sparse nel circo, affollato di spettatori per i giuochi che Massenzio dava a festeggiare il suo imminente anniversario d’impero, la voce che Costantino non si sarebbe potuto vincere. Si aggiungeva ad alta voce e con accenni ad un movimento sedizioso che la colpa era di Massenzio, il quale tradiva lo Stato, non osando presentarsi a capo delle sue truppe. Questi, che assisteva ai giuochi, da quell’uomo impressionabile che era, tanto che appena saputo ravvicinarsi di Costantino alle porte di Roma, aveva abbandonato con la moglie e con un figlio il palazzo per rinchiudersi in una casa privata, forse per tema di non essere più facilmente vittima di un attentato (3), uscì precipitosamente dal circo e convocò alcuni senatori per vedere quel che predicevano i libri sibillini. Il furbo che lesse in essi il futuro se la cavò facilmente asserendo che in quel giorno sarebbe perito il nemico dei Romani. Massenzio interpretò o mostrò d’interpretare la cosa a suo favore e risolse di uscire incontro al nemico (4).
(i)Ciò non si può negare se si ammette che Massenzio, come vedremo tra breve, aveva già pensato a lasciarsi assediare ed aveva cominciato a provvedere alla difesa.
(2) Come si vede seguo Lact., de m., pers. 44. l’unica fonte di questo momento, a torto sospettata, e che non può abbandonarsi senza ragione.
Per quel che riguarda l’intenzione di lasciarsi
assediare, che aveva Massenzio, si ricordi quel che si dice in Pan. 9, 14, e specialmente 16, sui viveri raccolti nella città: per i preparativi di difesa il « fossatum aperuit sed non perfecit » del cronografo del 354 (Chron. Min., 1, pag. 148).
(3) Pan. 9, 14.
(4) Lact., de m.t pers 44, 8, dice che « ilio die * sarebbe morto il nemico dei Ro-
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Quale fosse il piano di Massenzio che sapeva di poter contare su truppe ben più numerose di Costantino a noi è ignoto: qualche elemento pare, però, ci permetta di ricostruirlo in questo modo. Gettato un ponte di barche a monte di ponte Milvio, all’incirca nel punto di maggior strettezza dèi fiume in quel tratto (i), non potendosi servire del ponte di pietra perchè al nemico era più agevole l’invigilarne gli accessi, fece passare, col favor della notte, le sue truppe nel fondo della vasta pianura che oggi si chiama di Tor di Quinto ed avviarle lungo il Tevere verso il nord. Se gli fosse stato concesso di passare inosservato sotto le colline che costeggiano la via Flaminia dal lato sinistro per chi esce da Roma, trattenendo magari i costantiniani verso ponte Milvio con qualche scaramuccia egli avrebbe potuto tentar di girare il piccolo esercito di Costantino e prenderlo alle spalle risalendo la valle della Valchetta e chiudendogli gli accessi della Cassia e della Flaminia. Le sue numerose forze potevano benissimo permettergli l’esecuzione d’un piano così vasto, nel quale il piccolo esercito nemico si sarebbe trovato preso come una mosca in una ragnatela. Stretti così i costantiniani si sarebbero dovuti volgere ai ponti per cercar salvezza e mentre a ponte Milvio bastava un pugno di soldati fedeli e sicuri per impedire l’accesso in città, nel fondo della pianura di Tor di Quinto il Tevere poteva essere passato sull’insidioso e pericoloso pónte di barche che lasciato a bella posta per attrarre il nemico, avrebbe facilitato la sua fine nel fiume (2).
3. Disgraziatamente per Massenzio il piano era di difficile esecuzione con un numero così grande di soldati e con truppe così vigili come quelle di Costantino. Quando la colonna fu in marcia ed ebbe passato il primo tratto angusto di terreno posto tra il Tevere e le colline delle Grotte, giungendo nelle vicinanze dei primi greppi di tufo rosso, ad rubras (oggi Grottarossa), i costantiniani. Questo potrebbe far pensare ad uno spostamento nella cronologia da noi seguita e che la consultazione dei libri sibillini avvenisse il 28. Pur non negando che gli avvenimenti potrebbero venir ristretti al 27-29, anziché, come a me pare più probabile, al 26-29, faccio osservare che con « ilio die » si può benissimo intendere il giorno che stava per cominciare con la notte imminente ed a cui doveva riferirsi la interrogazione di Massenzio.
(x)Sul ponte di barche v. Zos., 2, 15, 6; Eus., hisl. occL, f), e v. Consl., i, 38. La sua posizione è determinata da [Vict.] Ep., 40, 6 : « paulo superius a ponte Mulvio in pontem navigiis compositum ». Vi è ragione di credere che esso fosse gettato nel punto di maggior restringimento del fiume, quindi o dove l’abbiamo posto noi (fig. 2) o nel punto di poco superiore a questo. Non so se l’attestazione delle fonti che Massenzio perì presso ponte Milvio ci permetterebbe di supporne la ubicazione nell’altro punto in cui le sponde del fiume si avvicinano maggiormente, poco
oltre l’affluenza dell’Aniene: strategicamente sarebbe stato più consigliabile il passaggio delle truppe per la Salaria anziché sotto gli occhi di Costantino, ma storicamente è poco probabile.
(2) Questo piano di Massenzio mi sembra si possa rilevare non solo dallo schieramento affrettato del suo esercito, come vedremo tra breve, ma dal fatto che, oltre l’attestazione di Eusebio, la quale di per sé sarebbe sospetta, abbiamo altre fonti, meno sospette, che ci avvertono di un’intenzione insidiosa nella costruzione del ponte di barche. Così Zos., 2, 15, 7 che ci descrive la tecnica di esso e la voluta facilità nell’aprirsi ; così Vict. Caes., 40, 23 che dice testualmente : « insidiìs, qna$ hosii apud pontem Milvium toc aver al, in trans-gressu Tiberis interceptus est... ». Ed il certamente erroneo «pons a tergo eius scindi-tur» di Lact., de in., pere. 44, 9 può spie-Sarsi appunto come una confusione fatta tra insidiosità del ponte di barche e la creduta distruzione di quello di pietra.
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Fig. 4. Bassorilievo d’Algeri alludente alla Battaglia di Ponte Milvio.
[1913 - HI.]
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LA BATTAGLIA DI COSTANTINO A PONTE MILVIO
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niani diedero l’allarme, onde fu giocoforza ordinarsi in battaglia là nella vasta pianura che permetteva all'enorme ammasso di forze di tentare una certa resistenza. La colonna si schierò così in file profonde e ben serrate, ma in condizioni tali da dover vincere subito o togliere senz’altro qualunque via di scampo. Se le ali che si stendevano dagli accessi difficili di ponte Milvio ai non meno difficili passaggi del Monte delle Grotte avessero potuto avvolgere l’esercito nemico con l’aiuto del centro Che avesse resistito all’urto, la vittoria era sicura; ma per poco Che questo avesse vacillato, non essendogli possibile un contrattacco, avendo dinanzi i costantiniani ed alle spalle il Tevere, di cui alcuni soldati delle ultime schiere toccavano la sponda destra, la rotta sarebbe stata disastrosa, facile essendo in quell’enorme massa che il timor panico si diffondesse e facesse pèrdere qualunque speranza di salvezza (1).
Come Costantino schierasse il suo esercito nessuno ce lo dice, ma dato questo affrettato ordinamento delle truppe massenziane, la posizione che occupava, le fasi noteci del combattimento e la genialità con cui, al dire dei panegiristi, egli dispose i suoi, non è difficile arguirlo. Mentre la sua ala sinistra dovè avere il compito di trattenere la destra di Massenzio, ormai ingolfatasi tra le colline e il Tevere e la sua ala destra e parte del centro ebbero il compito di buttare nel Tevere le schiere nemiche che avevano le spalle contro di esso, e che ne erano più vicine, egli con la sua poco numerosa, ma fida cavalleria, dovè proporsi di irrompere sulla parte del centro nemico che per aver più larga pianura dietro di sè era nella possibilità di controattaccare e di risolvere a suo danno le sorti del combattimento. E’ probabile che perciò egli si facesse sostenere da un corpo di fanteria di riserva, pronto ad aiutarlo nel momento della vittoria o della disfatta. Una piccola parte dei Suoi era rimasta a tagliare al nemico gli accessi al ponte Milvio per impedirgli la fuga : in tal modo il piano era perfetto, approfittava di tutte le debolezze del nemico, aveva dalla sua la posizione, contava sull’impeto e sulla fedeltà della cavalleria fedele all’imperatore (2).
Secondo questo piano l’attacco fu iniziato da un lato dalle truppe poste a ponte Milvio, dall’altro dalla cavalleria costantiniana con a capo l’imperatore. Questi, con i suoi fedeli « cavalieri della morte », caricò violentemente la fanteria nemica : sotto l’impeto furioso degli audaci, trascinati dal principe fulgente l’elmo di gemme, le armi di oro, il centro massenziano vacillò subito e quando
(1) Lo schieramento e l’ammassamento delle truppe così come è descritto nel testo risulta indiscutibilmente da Pan., 9, 16 e io, 29. Un’altra prova che le truppe di Massenzio si collocarono nella pianura di Tor di Quinto la si deriva dall’asserzione fatta a questo proposito dal panegirista (9, 16), il quale rimprovera al competitore di Costantino di aver avuto in mente nello schierare i suoi non le esigenze della resistenza, « sed propinquitatem refu-giendi » cioè il ponte di barche, gettato, come vedemmo, «paulo superius» di ponte Milvio e non certo presso Primaporta.
(2) v. Pan., 9,17 e io, 29 e la seguente descrizione della battaglia. Naturalmente accennando alla fedeltà della cavalleria costantiniana alludo al « cadeste signum Dei » da lui impresso sugli scudi dei suoi soldati secondo Lact., de m., pere. 44, 5 e segg. Non è qui il caso però di risolvere la questione del monogramma costantiniano da me già accennate nella conferenza sopra citata e che sarà oggetto di altro studio: esso dovè distinguere quelli che io chiamo « i cavalieri della morte » di Costantino dagli altri soldati.
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fu dato il segnale dell'attacco anche alle ali si potè dire che le sorti della battaglia fossero già risolte. La sola cavalleria di Massenzio, che doveva essere alla retroguardia della colonna in marcia e che come tale era rimasta all’estrema sinistra a proteggere gli accessi di ponte Milvio impedendo che i costantiniani aggirassero le truppe che vi stavano a guardia, resistette tanto che il generale sperò ancora di poter vincere per opera sua, ma tutto fu inutile. Anche da questa parte come al centro, ormai sfondato, lo scompiglio, il timor panico che lo avevano determinato ebbero ragione del numero e del valore e la rotta divenne fuga disastrosa verso il Tevere, verso l’unico mezzo di salvezza, il ponte di barche, l’altro essendo ormai occupato (fig. 3). I soli pretoriani non piegarono, fronteggiarono il nemico senza cedere e si fecero tagliare a pezzi sul luogo che avevano avuto la consegna di difendere (1).
Il ponte di barche, sia che realmente non potesse resistere alla massa scompigliata e fuggente di tanti armati, sia che il modo in cui era stato lasciato ne facilitasse la caduta, si sfasciò ed il Tevere, ingrossato per le pioggie, travolse i fuggenti. Lo stesso Massenzio che aveva tentato a cavallo, completamente armato, di passare il fiume a nuoto e di salire sull’altra sponda, fu travolto dalla corrente e perì (2).
4. Il giorno dopo, 29 ottobre 312, ritrovato il cadavere dello sfortunato competitore e mozzatagli la testa, l'esercito costantiniano entrò in Roma, accolto trionfalmente dalla popolazione, stanca del governo militare cui era stata soggetta per un sessennio. Il corteo era seguito dal trofeo osceno della testa del vinto, infitta su di una picca; ad essa la plebaglia romana insultava atrocemente facendo a gara con i soldati, che si permettevano i soliti lazzi cosidetti trionfali, ed era quella stessa plebaglia che aveva dapprima salutato con gioia, dappoi ubbidito con terrore il proprio dominatore. Vanae voces populi...
Giovanni Costa.
(1) La miglior narrazione della battaglia è in Zos., 2, 16, 4-11 ; però sulla scorta dei panegiristi bisogna correggere alcuni suoi dati, confusi evidentemente. Che la cavalleria di Costantino, p. es., attaccasse, com’egli sembra voler dire, la cavalleria di Massenzio, non solo è improbabile per ragioni militari facili a vedersi, ma è in contrasto con quel che dicono le fonti contemporanee che parlano di un assalto di truppe capitanate da Costantino in persona, il quale non era certo a piedi, v. Pan., 11. cc.
(2) Che il Tevere fosse in piena, come rilevò acutamente il Seeck, i, 497, risulta da Pan., 9, iS : « .... nunc violentus et tur-bidus ».
Sulla morte di Massenzio v. Pan., 9, 16 e 17 ; io, 30; Eus., hisl. eccl., Comi.,
1, 38 ; Vict. Caes., 40, 23 ; [Vict.J Ep.t 40, 6. La più probabile versione della morte sta nella prima di queste fonti, accordantesi, in sostanza più che nella forma, con l’ultima: da essa pur risulta che egli era coperto di corazza ed armato quando si gettò nel fiume.
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MITI E RELIGIONI
DELL’ANTICHITÀ CLASSICA
OTTO questo titolo riassuntivo daremo qui notizia di talune opere venute alla luce in questi ultimi anni, in Italia ed in Francia, intorno alle religioni classiche. Non che tutte vogliano trattare ex professo dettò tema, come quella dell’Habert : ma tutte vi si riportano, sia che si riferiscano a un movimento religioso particolare qual’è l’orfismo, come le opere di A. Diès e D. Comparetti, sia che studino la religione nella letteratura come i due volumi del Pascal, sia finalmente che ricerchino i miti e i culti fioriti nell’antichità sul suolo delle due isole
maggiori del mare Tirreno come fanno il Ciaceri e il Pettazzoni.
Per un aspetto o per l’altro queste opere riescono veramente utili ad alimentare la cultura critico-religiosa del pubblico italiano : e per questo verranno recensite con una certa larghezza d'informazione che riuscirà più profittevole ai molti e non impedirà ai volenterosi di riprender per proprio conto l’esame dei libri di cui qui parliamo.
La religione della Grecia antica.
L’opera intrapresa da O. HaBERT, La religion de la Grece antique, Paris, Léthielleux 1910, non era facile appunto per la copiosa letteratura su l’argomento. Tutto il periodo preclassico da studiare alla luce delle scoperte recenti, i vari culti locali da esaminare e controllare con i criteri etnologici, i culti mistici da lumeggiar con i medesimi criteri, ma più cautamente adoperati per non far dei loro adepti o dei maghi o dei loro simbolisti; tutto ciò richiedeva spalle robuste e buona audacia, per riuscir con lode nell’ intento.
V è riuscito l’Habert? .
Diciamo subito che il piano generale dell’ opera è stato ben disegnato secondo tre grandi sezioni, ia naturismo, in cui l’A. fa entrar gli elementi primitivi di ogni religione, culti litici, di montagne, di alberi, di animali, pratiche di magia; esamina l’influenze esteriori riducendo l'antico panindianismo e accentuando l’influsso semitico e tratta degli antichi culti localizzati, cioè della civiltà
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minoica e micenea, dei culti anatolici, dei culti agrari, eco., 2a antropomorfismo che comprende l’esame dei poemi di Omero e di Esiodo; 3“ epurazione, che abbraccia l’esame di tre correnti : la critica o razionalista data dalle opere di poesia o di scienza ; la corrente popolare che contiene l’esposizione della divinità e del culto ordinario della Grecia, quale la tradizione ce lo ha tramandato ; la corrente mistica dove si parla dei misteri e dell’orfismo.
La divisione, dunque, è ben fatta; non così le suddivisioni della materia e lo svolgimento dei singoli punti. Così non è giusto considerare come culto localizzato quello di Creta, mentre la civiltà minoica occupò tutto il bacino dell’Egeo ed ebbe una fisionomia sua propria che la nostra ignoranza dei particolari non ci autorizza a diminuire. Ancora, la preoccupazione delle suddivisioni ha condotto l’A. a tracciare i profili delle divinità e del culto dopo l’esame delle opere della poesia e della scienza, cioè dopo aver esaminato non solo i poemi di Omero e di Esiodo, ma anche gli scritti dei Tragici e di Pindaro e la critica dei filosofi da Talete a Socrate, quando cioè tutta un’ evoluzione era avvenuta nel modo di concepirli ed il culto ufficiale formava da secoli la religione di stato della Grecia.
Ma tutti questi son difetti formali a cui ben volentieri si potrebbe passar sopra se il contenuto delle 560 pagine fosse veramente ottimo per ogni parte. Invece l’introduzione generale su la razza greca è fiacca e apparisce mal digerita ; ed in tutta la prima sezione, nelle varie questioni antropologiche ed archeologiche si mostra incerto e lascia il lettore inesperto in un crocicchio di vie ignote ; anche nel capitolo su le influenze straniere, mentre non dice nulla dei Chittiti quali organi di trasmissione in Occidente della civiltà orientale, moltiplica su la scorta del Berard l’influenza (micia ma senza decidersi, nemmeno in questo punto. La trattazione della religione cretese è fatta citando l’opera un po’ affrettata del La-grange, mentre vien trascurata affatto la importante pubblicazione del Paribeni che illustrando il sarcofago di Haghia Triada ricostruisce tutta la religione minoica dal rito alle credenze su la vita futura. A questo proposito è ben ricordare all’A. Che l'idea di far derivare « laberinto » da labris = ascia non appartiene affatto al Lagrange, ma all’Evans.
L’Habert si è voluto inoltrare anche in Asia Minore e descrivere i culti frigi, ma non ne parla con chiarezza e non fa vedere che cosa hanno dato di proprio gli Anatolici, che cosa hanno apportato i Frigi venuti di Tracia, che cosa hanno contribuito i Chittiti dominatori diretti e indiretti di tutta l’Anatolia. E qui è doveroso rilevare che a Boghaz Koi non si tratta nè di tempio nè di pitture, ma di sculture su pareti di roccia a cielo scoperto, quelle medesime di cui l’A. a pag. 155 e 158 parla come di cose diverse.
Il valore del libro si rialza e si mantiene a un buon livello per tutta la trattazione dei poemi di Omero e di Esiodo e della critica religiosa dei filosofi e degli scienziati; e per la descrizione delle divinità e del loro culto. L’esposizione è ampia e ordinata, tanto che diffìcilmente in un manuale si potrebbe pretendere di più.
Sicché in complesso il volume, considerato anche che la parte ben fatta occupa più di due terzi di tutta l’opera, è in sostanza commendevole e si leggerà con profitto'.
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Il ciclo mistico.
Sopra un punto particolare della religione greca, cioè sul principio fondamentale che anima l’orfismo ci ha dato una buona trattazione AUGUSTE DlÈS, Le cycle mystique, Paris, Alcan, 1909, studioso valente della filosofia religiosa dei Greci. L’A. si è limitato « a seguir nella filosofia presocratica la nascita e lo sviluppo di una delle idee generatrici del misticismo greco: l’idea di far discendere dalla Divinità o dal Divino come da commune principio e di farvi risalir come a fine commune, la molteplicità degli esseri; o più brevemente, l’idea di una divinità origine e fine delle esistenze individuali », p. 1.
Per trattare il suo argomento l'A. lo divide subito in due parti, una che riguarda le origini religiose, l’altra i sistemi filosofici. Le quali due parti sono entrambe trattate con competenza grande, sebbene nella seconda pare che il D. per amor del sistema troppo forzi ad entrar nel ciclo, sia pur sotto una forma più temperata, i filosofi naturalisti della Jonia e di Elea da Talete ad Empedocle. È vero che il D. dichiara che rispetto a questi filosofi si deve parlar piuttosto di principio e di termine che non di origine e di fine; poiché per essi la divinità non è principio e termine in quanto è « divinità », ma in quanto è una « sostanza universale » in cui è racchiuso il divino universo e in cui si risolvono da ultimo tutte le determinazioni particolari dell’universo stesso.
Principio e termine, quindi, spontaneo e inevitabile il cui ritmo è determinato dalle leggi inflessibili della natura. Questa « sostanza » sarà l’acqua per Talete, l’infinito per Anassimandro, l’aria per Anassimene: ma essa cessa di esser principio e termine quando l’evoluzione cosmica, quale questi filosofi la concepiscono, vien negata e la divinità viene concepita in sé e per se stessa, nella sua immobilità e interezza, incapace di divisione e di comunicazione, come fa Parmenide e con lui la scuola eleatica. Empedocle tuttavia riesce in qualche modo a conciliare le due correnti perchè da una parte il suo Sfero giace in un’ immobilità beata che ricorda f Unità di Parmenide, dall’altra le esistenze son tutte uscite da lui ed anelano a ritornar una nell’altra e a ricomporsi. Ma ad ogni modo la religione è rimasta sempre al di fuori di queste elucubrazioni della filosofia presocratica, mentre ha avuto grandissima parte nelle sètte orfica e pitagorica.
La trattazione del Diès su queste due forine di religiosità mistica è veramente commendevole. Non gli sfugge un testo, un monumento, un’ interpretazione che giovino a portar luce su l’argomento da lui prediletto. Tutti gli autori più recenti che hanno trattato della materia son posti a contributo, specialmente Miss Har-rison, fautrice dei Prolegomeni allo studio della religione greca, che prima ha illustrato la differenza tra la religione classica e razionale e quella popolare e mistica gettando spiragli di vivissima luce sul complesso problema della religióne greca.
Laminette orfiche.
Un’altra opera che rappresenta un contributo notevolissimo allo studio del-forfismo è quella di DOMENICO COMPARETTI, Laminette orfiche, Firenze, 1910. Il primo contributo quest’opera lo reca restituendo il testo critico delle undici
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làminette orfiche, testo già dato dal Kaibel nel C. I. G. « con affrettata leggerezza ed acrisia » come dice l’A. e senza confrontar gli originali, ma Che pur fu seguito dal Rohde, dal Dieterich, dal Diès sopraccitato nei loro studi particolari. A quella del Kaibel va appaiata l’edizione del Murray in appendice ai Prolegomeni già menzionati di Miss Harrison. Il Comparetti spinto dalle manchevolezze delle citate edizioni ad uno studio cui lo disponeva la sua alta competenza in materia di studi greci, ha finito per pubblicar la presente decorosa edizione delle Laminette corredandola delle fotografie di ciascuna ed aggiungendo in fine la riproduzione di una antica iscrizione cumana, recentemente scoperta, dove si parla di adepti del culto di Dioniso.
L’altro grande vantaggio della pubblicazione del G. sta nell’ interpretazione e nell’ illustrazione magistrale delle laminette : illustrazione che porta grande luce su lo sviluppo dell’ orfismo in Italia tra i Greci della Lucania e dei Bruttii nel secolo V. a. C.
Gli scavi nell’antica Magna Grecia che dovevano portare alla scoperta delle magnifiche laminette di Thurii e di Petelia furono iniziati nel 1879, intorno a quelle tombe a tumulo, elevate sul piano di campagna e chiamate dagli abitanti del luogo tìmpe, timpanellì^ tìmpani> dal greco TÓjxpoi, con preciso significato di tumulo funebre. Di questi timponi quelli che esplorati dettero laminette, donate dal proprietario cav. Compagno al Museo di Napoli, furono il timpone grande e il timpone piccolo di Thurii.
Il grande ne fornì due l’una chiusa e piegata sull’altra delle quali la maggiore è intraducibile sia per il suo malo stato sia perchè vi appaiono parole e nessi senza significato, i quali forse si debbono ravvicinare alle dirae e ad altre formole di valore mistico-magico. La laminetta minore, ortograficamente corretta, chiara, spazieggiata può ascriversi al secolo IV. a. G. Si riferisce ad un iniziato e sembra tolta ad un carme che doveva essere di patrimonio comune per tutti gli ascritti alla religione orfica.
Il timpone piccolo ne fornì tre la cui età va ricercata in un periodo di poche generazioni tra il secolo IV e il III. Non contengono un inno orfico come Iia creduto il Dieterich nè carmi precatori funebri, ma semplicemente delle epigrafi, celate nella tomba soltanto perchè di natura mistica.
Il breve testo fondamentale rivela l'uso di uno speciale formulario che dovette essere estratto da quell’ coi nomi di Orfeo e Museo, che,
secondo Platone, portavano attorno gli apostoli e propagatori della dottrina orfica.
Un’altra laminetta era stata trovata già molto tempo prima presso Strongoli (antica Petelia) e pubblicata per la prima volta dal Franz nel 1836, ortograficamente corretta, di scarso valore poetico, ma nobile nell’espressione e più importante delle precedenti per gli studi orfici. Il suo contenuto si potrebbe definire come un’ istruttoria a beneficio dell' anima iniziata nel suo viaggio ultramondano.
A Greta, presso Eleutherna, sono state ritrovate tre laminette pubblicate erratamente dal Joubin. Tutt’e tre son di uguale contenuto, salvo qualche leggera variante nella terza, e possono rimontare al secolo li a. C.
In Roma fra i sepolcri della via Ostiense fu trovata un’altra laminetta che è l’undecima del nostro elenco e fu pubblicata per la prima volta dal Compa-
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retti nel 1903 ; v’è inciso, caso strano, anche il nome della defunta che è una Cecilia Secundina. A giudicar dai caratteri appartiene al li secolo a. C. e questa data vien confermata dal parallelo con gli Inni orfici.
L’iscrizione arcaica del secolo v a. C. trovata presso l’antica Cuma nel 1903, ora nel Museo di Napoli, interdice di seppellire nel terreno circostante chi non sia adepto del culto di Dionisio (ròv ps^a^suusvov). L’interdizione emana da un thiasos o confraternita bacchica la quale poteva possedere terreni destinati, alla sepultura degli iniziati non facoltosi che non potevano procurarsi una tomba lor propria.
Gino Montalbo.
L’A. in un prossimo articolo parlerà dello studio che C. Pascal ha dedicato alla religione e alla parodia religiosa in Aristofane.
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NUOVI STUDI PAOLINI
A. Schweitzer. Paulus and his interpreters. London. Black, >9i2
A. Deissmann. Paulus. Eine kultur- und religionsgeschichtliche Skizze. Tübingen, Mohr, 1911.
nessuno dei più seri problemi neo-testamentari la critica moderna è riuscita ancora o sta per riuscire a dare una soluzione esauriente, che raccolga, se non l’unanime, per lo meno l’ampio suffragio degli studiosi. Accade anzi che l’indagine prolungata, moltiplica le incognite e trasforma, dilatandoli, i termini stessi delle questioni. Le ricerche più recenti sembrano anche talora approdare a risultati contra-dittori a quelli ritenuti fin qui inoppugnabili, sicché uno studioso superficiale potrebbe essere tentato di rifiutare ogni
fede alla critica e ogni credito ai suoi metodi ; di definirla uno sterile lavoro di Sisifo. Ma in questo, come in tanti altri campi, non bisogna essere uomini di poca fede. Occorre riflettere, per non abbandonarsi allo scoraggiamento, che le discipline critiche applicate alla storia del cristianesimo sono giovani, e non hanno ancora
spiegato tutte le capacità di cui sono ricche. E occorre anche riflettere che pur attraverso oscillazioni e negazioni e ritorni, la critica neo-testamentaria va guadagnando lentamente ma sicuramente qualche punto di vista e qualche soluzione che sono destinati a rappresentare una conquista definitiva. Anzi, tenuto conto di tale certo avanzamento della critica verso interpretazioni del movimento neo-testamentario sempre più e meglio rispondenti all’oggettiva realtà dei fatti, mi sembra ottimo metodo espositivo quello adottato da alcuni critici, i quali, affrontando un problema, di storia neo testamentaria, invece di fissare nei primi capitoli lo stato della questione, rimandando a poi la sua analisi personale, innestano senz’altro l'indagine diretta sul racconto dei saggi precedentemente compiuti intorno al medesimo tema. Lo Schweitzer ha il merito di avere con sagace abilità applicato questo metodo ai due più oscuri e nel medesimo tempo più importanti problemi della vita neo-testamentaria ; l’insegnamento di Gesù e l’opera di Paolo. Alcuni anni fa egli pubblicava un insigne lavoro sull’evoluzione della critica neotestamentaria circa la figura e la predicazione di Gesù, intitolandolo: Da Rei-marus a Wrede, titolo più eloquentemente cambiato dal traduttore inglese : Alla
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ricerca del Cristo storico. E quel volume, anziché rappresentare una disinteressata rassegna dei tentativi compiuti dai critici tedeschi durante tutto il secolo XIX per circoscrivere la personalità e la missione del rabbi di Nazareth, segnò anche una data nell’ ulteriore sviluppo della critica neo-testamentaria, che spingeva risolutamente verso quella interpretazione escatologistica, dirò così, che molti e molti poi hanno fatto propria in Germania e fuori. Ora il medesimo professore di Strasburgo che, fra l’altre cose, pur non facendo dei libri tecnicamente perfetti, è scrittore brillante e appropriato, affronta, col medesimo metodo, il problema paolino. Egli premette, giustamente, che chiunque tratta della vita e dell’insegnamento di Gesù, proponendone una valutazione comunque originale, ha l’obbligo di non arrestarsi alla prima tappa del cammino, bensì di procedere a indicare le vie Che conducono alla spiegazione dello sviluppo dogmatico cristiano. Perchè appunto il còmpito arduo, fin qui inadempiuto, di coloro che si accingono all’analisi del cristianesimo primitivo, sta nel mostrare come la predicazione di Gesù passò alla condizione di teologia ellenistica, quale compare nelle opere di Ignazio, di Giustino, di Tertulliano, di Ireneo: e, subordinatamente, quali rapporti intercedettero fra il sistema dottrinale di Paolo e l’opera di Gesù da una parte, le credenze della primitiva communità dall’altra; e in qual modo la teologia greca antica scaturì dal paolinismo. In realtà il paolinismo costituisce una parte integrale della storia dei dogmi, poiché questa storia comincia, può dirsi, all' indomani della morte di Gesù. La critica teologica, dividendo la storia della evoluzione concettuale in seno al cristianesimo primitivo in altrettante separate categorie : Vita di Gesù, Età Apostolica, Storia dei dogmi, e assegnando a simile ripartizione un valore superiore a quello di semplice convenzione suggerita da esigenze scolastiche, fa una confessione di incompetenza e rinunzia ad ogni possibilità di poggiare la storia dei dogmi su fondamento solido. Su tale distribuzione dei fatti ha dominato il desiderio di ridurre ai minimi termini l'elemento dell’apocalittica giudaica in Gesù o in Paolo, onde far apparire il processo dell’adattamento ellenistico del Vangelo, come preparato da loro- Lo Schweitzer concentra i suoi sforzi nel mostrare come tale prospettiva manchi di ogni fondamento storico, e dopo aver sostenuto nel suo precedente volume che l’insegnamento di Gesù, in nessuno dei suoi aspetti, travalica i confini del mondo concettuale giudaico, spingendosi verso un orizzonte extra-giudaico ; e che invece costistuisce semplicemente una forma eticamente perfezionata dell’apocalittica sua contemporanea, Sostiene ora che la concezione esclusivamente escatologica dominante nel Vangelo rivela la sua strapotente efficacia anche nel pensiero dell’apostolo dei Gentili, e che tutto il suo sistema è scaturito integralmente da essa. Così il processo di ellenizzazione viene rimandato al cristianesimo post-paolino. La tesi è molto audace, e l’A., sapendolo, ne promette l’esauriente dimostrazione in un prossimo volume, che sarà intitolato: La mistica deli apostolo Paolo. Per ora egli, attraverso la rassegna dei sistemi critici in cui si è ripartita l’indagine paolina nel secolo XIX, si limita a mostrare le lacune abituali nella maniera stessa di formulare il problema e la necessità di assegnare una fondamentale importanza agli aspetti escatologici dell’insegnamento paolino. Lo Schweitzer ricorda le prime applicazioni del metodo critico all’analisi dell’epistolario di San Paolo, con Ugo Grozio (1641-1646), Rambach, Wolf, Semler, Schleiermacher. Quindi
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esamina l’opera della scuola di Tubinga. Descrive l’evoluzione dell’esegesi pao-lina tra Baur ed Enrico Holtzmann, arrestandosi poi, con ampiezza, sui recenti, tentativi compiuti per spiegare le principali esperienze mistiche di San Paolo, col sussidio della religione comparata. Come abbiamo già detto, FA. insinua nella esposizione dei sistemi altrui, la sua personale interpretazione di San Paolo, che formula poi nettamente nel capitolo finale. Secondo lui, paolinismo ed ellenismo usano la medesima terminologia religiosa, ma non hanno in comune le medesime concezioni. L'apostolo non impresse caratteri ellenici al cristianesimo:! suoi concetti sono ugualmente distinti da quelli della filosofia greca come da quelli delle religioni dei misteri. Che nessuna traccia di un vangelo ellenistico sia presente in Paolo, risulta dal fatto che ogni asserzione in contrario, svolta nelle sue logiche conseguenze, finisce col far violenza alla tradizione storica. Appare infatti impossibile che un paolinismo ellenizzato sia coesistito con un cristianesimo primitivo, saturo di aspettative escatologiche giudaiche. Si finirà o, con i critici olandesi alla van Manen, col rimandare le lettere paoline e la loro dottrina dal periodo primitivo al secondo secolo, o con lo spiegare il cristianesimo primitivo quale prodotto del sincretismo greco-orientale. Per evitare simili impellenti alternative occorre lasciare fuori discussione ogni efficacia ellenistica, e cercare di comprendere la dottrina dell’apostolo dei Gentili unicamente mediante i presupposti del primitivo cristianesimo giudaico. Tale atteggiamento implica che si dia all’escatologia paolina tutto quel valore che le dichiarazioni delle lettere impongono. Nè basta: bisognerà spiegarla. Quale lo schema degli ultimi eventi? Vi sono una o due risurrezioni, uno o due giudizi? Chi risorgerà al momento della parusia; e si svolgerà allora un giudizio? E su chi si eserciterà esso? In che cosa precisamente consisteranno la punizione e il premio? Che cosa ne sarà di coloro, che appartenendo alla generazione dei sopravviventi al momento della parusia, non sono destinati ai regno messianico ? Quale il destino dei credenti, decaduti dalla grazia a causa della loro condotta riprovevole? Perderanno essi la felicità finale o saranno semplicemente esclusi dal regno messianico? Deve esser lecito ricavare dalle dichiarazioni di Paolo, che non possiamo supporre rassegnato ad oscurità nel suo sistema, risposte convincenti a tutte queste interrogazioni. E nulla di straordinario che una intensa speranza escatologica abbia provocato il complesso sistema sacramentale e teologico di San Paolo, dal momento che al suo spirito l’attuale periodo appariva, in virtù della morte e della risurrezione del Signore, completamente diverso da quello in cui il Signore stesso si era rivelato.
Il valore dei problemi che lo Schweitzer formula alla fine del suo suggestivo volume; la maniera originale di ricostruire gli stati d’animo della primitiva comunità cristiana a cui egli ci ha abituato; fanno attendere con ansia il suo terzo saggio sulle forme della escatologia neo-testamentaria. Sin d’ora però è lecito sentenziare che il suo punto di vista, per quanto riguarda San Paolo almeno, è unilaterale ed eccessivo. Non crediamo che sia possibile dare una esauriente spiegazione di Paolo e della sua propaganda, ponendolo esclusivamente in rapporto con le aspettative escatologiche di cui son pregne la letteratura giudaica contemporanea di Gesù e la predicazione stessa del Cristo. Il mondo ellenistico con le sue esperienze religiose e la sua coltura, deve essere assolutamente consultato a tal fine. Si esagera e si è unilaterali anche in quest’altra direzione; è
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innegabile: ma eiò non vuol dire che il criterio sia completamente sbagliato. Il Deissmann, per esempio, nelle otto conferenze tenute ad Upsala nel 1910 e pubblicate ora, con lievi modificazioni, è uno di quei critici a cui lo Schweitzer rimprovererebbe aspramente là trascuranza dell’elemento giudaico, come coefficiente della predicazione paolina. Egli studia San Paolo come uomo, come ebreo, come cristiano, come apostolo, delineandone la figura sullo sfondo greco-romano del suo tempo. Il Deissmann, come si sa, è tenace, magari esagerato, assertore della utilità dei ritrovamenti papiracei recenti per la intelligenza del mondo neo-testamentario. Anche in questo volume torna a insistere sul carattere popolare di quasi tutta la letteratura evangelica e sulla conseguente opportunità di studiarla alla luce di quei documenti extraletterari del tempo, che le sabbie egiziane e gli scavi dell’Asia Minore pongono oggi a nostra disposizione. Ma ciò evidentemente non basta alla piena intelligenza del fenomeno paolino e del successo della sua propaganda, per quanto il Deissmann cerchi di colmare le lacune del suo Paolo ellenista, con l'insistere sulla sua originale e potente esperienza mistica del Cristo. Ciò non toglie però che il volume dei Deissmann sia pregevole per lo studioso di cristianesimo neo-testamentario, perchè l’autore vi si rivela ugualmente padrone dell’epistolario paolino e del mondo culturale greco-romano. La mappa del mondo mediterraneo, «il mondo dove attecchisce l’olivo », che accompagna il volume è mirabile.
In conclusione possiamo forse riconoscere che la critica paolina è a un momento decisivo del suo sviluppo, e che uno spirito perspicace e atto a rivivere le forme spirituali del passato, potrebbe essere ormai in grado di ricavare da opere come quelle dello Schweitzer, del Deissmann e, aggiungiamo, del Reitzen-stein, una evocazione completa e viva del convertito di Damasco.
Giacomo Natali.
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Nòte d’un pensatore “libero.»
IV.
DIO NELLA SCIENZA.
TRADIZIONI DEISTICHE DELLA SCIENZA E DELLA POLITICA —- MAZZINI — E’IDEA DI DIO: IDEA DI LIBERTÀ — IL DIO DI DANTE — ORIGINI DEMAGOGICHE DELL’ATEÌSMO — PÉRCHÈ IL POSITIVISMO DIVENNE ATEO — LA SCIENZA METTE NECESSARIAMENTE AL DIVINO — FATTO E LEGGE — LA REALTÀ È ARMONIA — LA SCIENZA NON DISCUTE LA REALTÀ E SI COMPIE NEL RICONOSCIMENTO D’UN RAPPORTO CENTRALE — L'EVOLUZIONISMO È UN PROVVIDENZIALISMO — L’INEVITABILE IPOTESI — LA REALTÀ È LOGICA E VOLITIVA — IL « SOGGETTO » È INTELLIGENTE E COSI PURE L* « OGGETTO » — L’ASSOLUTO È ASSOLUTO — SCHIAVITÙ ATEA — L’EMANCIPAZIONE NEL DIVINO.
i. — L’associare alla personalità del deista l’attributo di retrogrado e quasi d'inintelligente è stata consuetudine, è stato sistema sino a ieri. Non si perdonava il deismo che ai poeti vecchi come Dante ; ma se ne faceva un capo d’accusa agli uomini di scienza e filosofi come Galileo Galilei, il quale, se davvero s’à ad essere rispettosi a suo riguardo, accettava e firmava la ritrattazione che il signor Flammarior., sempre a crescere un atto di gentilezza ai molti che i fratelli di Francia fanno ai latini fratelli d’Italia, squaderna tenace sul frontispizio d'una sua opera di cosmografia popolare, molto popolare e meno cosmografica ; se la firmava, quel che dettava dentro di più forte era la fede in Dio e nelle sue conseguenze. Non rare volte ò udito parlare ed ò Ietto accenni di bonaria superiorità alla debolezza deistica d’un uomo come Galileo Galilei. E se la nomea
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di Giordano Bruno à raggiunto le orecchie sin dei ragazzi degli stallini dei sobborghi delle frazioni dei comuni di montagna fuori dalle strade comunali, mi si creda in parola che ciò si deve alla presunzione, alla pretesa, alla certa pregiudiziale, all’assoluta verità dell’ «ateismo bruniano».
Non è scampato al destino libero pensatore che Giuseppe Mazzini. S’è dimenticato — o non S’è mai conosciuto — il Mazzini che parte da Dio, naviga in Dio, in Dio sale, si bea, crea, scopre, riforma, purifica, emancipa e a Dio torna, per tenersi unicamente al Mazzini che la Chiesa Cattolica volle esclusa dal programma d’instaurazione sociale e nazionale e tolse al sacerdote di Roma il diritto alla gestione delle anime nel loro rapporto con la vita civile. Ma, ditemi il vero, avete mai udito dalla bocca dei commemoratoti di partito dire che Giuseppe Mazzini abbia ragione perchè credette in Dio e fece perno e principio e fine di tutto e d’ogni cosa Dio? Il commemoratore repubblicano tace o sorvola al Dio di Mazzini, pur dovendo dar piena ragione a Mazzini, perchè senza Mazzini non c’ è repubblica in Italia, nè ieri, nè oggi, nè domani. Il repubblicanesimo italiano non solo è ufficialmente anticlericale ed anticattolico, ma antireligioso, ma ateo. Leggete il Mazzini di Giovanni Bovio : qui Dio è superato e di Mazzini non resta che il programma civile. Bovio, in quel suo Mazzini pubblicato postumo e certo assai notevole, ci lasciava, come sempre, pensieri e immagini solenni; ma non ragionava a puntino per quanto si riferisce a Mazzini. La lettera di Mazzini, che io ripubblicai nel mio saggio sull'Ardigò — vedi « I Moderni », 11° volume, 4a parte, Milano, Treves — diretta ad Edgar Quinet, è la requsitoria contro l’ateismo, contro l’antireligione e l’anticristianesimo, è l’atto di condanna contro materialismo e scienza, è la dichiarata netta, recisa, violenta, disperata separazione che Mazzini fa da ogni opinione di gente rinnovata in repubblica, in federazione, in socialismo ed in anarchia.
Là ben si vede che Giuseppe Mazzini si sentiva sopra ad ogni cosa un riformatore religioso, come non può non sentirsi chiunque viva l'infinita poesia dell’amore per gli esseri umani, e che egli poneva come sbu qua non d’ogni rinnovamento ed incremento la fede senza dubbi nell’esistenza precisa e consapei vole e agente e onnipossente di Dio. Là ben si vede l’intendimento d'un apostolato del divino come i lettori delle opere mazziniane l'avevano veduto nelle Lettere ad Eleonora Curlo-Ruffini ov' è il materiale per un prezioso trattato della fede in Dio. E la conseguenza di quel che io dico è, come non potrebbe più, gravissima e melanconica per i repubblicani d’Italia. Perchè non v’ è modo a sentirs-e a credersi, e cioè a dirsi mazziniani se non si è deisti. Giosuè Carducci, sebbene non vigorosa mente d’analitico in faccende filosofiche e religiose, mostrò di comprendere ciò e fu costretto e lieto d’affermarlo nel Discorso a San Marino: in Repubblica non si può non credere in Dio. Il mazzinianismo è un sillogismo in cui la fede e la volontà della repubblica politica è la conseguenza necessaria e unica della fede nell’amoroso e limpido monarcato di Dio. Questo Dio è la sola arma che possa vincere l’immane prova contro la menzogna del divino d’una chiesa e d’un sacerdozio che ànno messo le mani nella materia della vita civile. Ma i mazziniani, se non sien molto puri e intelligenti, tradiscono Mazzini e i repubblicani la repubblica, come la rossastra demagogica onda d’ogni anno è un insulto al più imperiale dei nostri filosofi, Giordano Bruno.
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2. — Oggi, oltrepassato il torbido ruscello del libero-pensiero, il pensiero libero ci permette di capire che l’idea di Dio può andare egregiamente d’accordo con ogni altra più indipendente e ardita idea di conoscenza di noi e del mondo e di tramutazione civile e sociale. Dite, scrivete che tutte le rivoluzioni e tutte le scoperte ànno contribuito ad avvalorare l’idea di Dio, e non avreste sbagliato. Aggiungete che le dottrine a pregiudiziale atea sono di breve respiro ed infeconde e non vi si potrà contradire. La più imbevuta del divino, quella di Gesù, è immortale. Invece, gl’ innovatori atei e materialisti solo che del secolo decimonono, l’un dietro l’altro, dal brivido e dallo squillo della piazza Sono entrati a riempire di sè le caselle del museo. Non faccio che una constatazione. Un poeta, gira gira, se artista, piacerà al pubblico, vi desterà fervori sino al feticismo, e poi, a poco a poco, s’incomincerà a dire : Ma dentro che cosa c’ è ? Qual’ è il pensiero intimo, dov’ è la coscienza del poeta, quello che fa il poeta, insomma? Che cosa à voluto dire costui con tante parole, con tanto volo d’immagini, con onda sì piena di musicali motivi? La sanzione è certa e unica. Il grande poeta è ben colui del quale i posteri possono affermare che interrogò la Sfinge, per piangerne o indiarsene, per cantare un inno di vittoria o abbattersi nell’ombra disperata. Eschilo, Platone, Dante, Shakespeare, Leopardi : intendo i « poeti >, che sono legislatori del mistero. Son pochi.
A proposito di poeti e a proposito dell'infinita libertà che l’idea di Dio permette, l’esempio di Dante mi pare sufficiente, poiché in fatto di poesia da Dante si comincia e a Dante si torna. L’idea di Dio è nella « Divina Commedia » la ragione dell’universale e del particolare. Dante viaggia per tre mondi immortali che l’arbitrio incomprensibile di Dio creò entro e fuori la Terra, abbracciando tutto l’universo. Il Dio di Dante s’è già rivelato, per Dante, con due diverse manifestazioni solenni: Cristo e la Chiesa, la prova della spiritualità e del privilegio degli esseri umani, e l’ordinamento gerarchico dei vaiorie delle responsabilità religiose. Dante viaggia su d’una via la cui simbolica è tratta da canoni e dogmi. Dio gli concede di fare l’alto viaggio che a lui mena il perduto nella selva selvaggia, e d'ogni particolare realtà, d’ogni minuto evento Dio è la spiegazione. Eppure Dante, « theologus nullius dogmatis expers», raggiunge ardimenti d’invenzione che spaventerebbero il poeta più libero-pensatore ed ateo se fosse possibile averlo. La forza dell’idea divina è quella che alza il Ghibellino di sopra dal Passato, dal suo Presente e da quel suo Avvenire che è il nostro presente. Gli dà l’unità robusta del concetto e della visione. Legata a un tal fulcro l'inventiva dantesca si lancia libera in ogni ebbrezza di pensiero e d'immagine. Non corre pericolo di eccedere, anche giganteggiando in misure : compie sempre grandi circoli nella luce e le ire della tempesta obbediscono circolando anch’esse. Il Male e il Bene segnano come la punta estrema e mobile del compasso anelli ampi, siano i turbini dei peccator carnali o i nuvoli morbidi degli angioli. L'altra punta del compasso è fitta nella viva carne della fede, nel pensiero perenne di Dio. E così Dante non c innaturale quando perdona per tenerezza di sapiente esperienza Francesca e Paolo che dannati sono alla spira tragica attorno alla ruina ; non è illogico quando si paga una vendetta a riguardo di genti che per la vendetta medesima egli à tratto dal grigio dell’ignoto all’immortalità; così Dante, anche se apre una pausa di gentilezza nell’inferno e
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ci rende simpatica la figura d’un dannato, non cade nell’assurdo. Dìo non impedisce al poeta la sua libertà e gli spazi luminosi dei cieli permettono all'anima dell’artista inventore voli proibiti a chi abbia scelto le tortuose oscure strade dei sistemi e delle formule. Formule e sistemi non fanno poesia : è la prova che Dante à dato. Formule e sistema non ridanno una patria e una civiltà sociale : è la prova che Mazzini dà.
3. — Sarebbe uno tra i libri più interessanti e che colmerebbe molte lacune della nostra curiosità, quello ove si studiasse ampiamente il come e il perchè dell’espulsione di Dio dalle sistematiche scientifiche dei secoli deeimottavo e decimonono. Se io raccogliessi a questo riguardo quando son venuto pubblicando 0 serbo di non pubblicato, potrei forse contribuire e non scarsamente a un simile lavoro. Qui enuncerò solo alcune tra le opinioni che più sono state in voga e sopravvivono un pò nell’èra che può chiamarsi con i nomi di atea, areligiosa, antireligiosa, potivistica, evoluzionistica e forse anche altrimenti.
I positivisti, maestri e discepoli, testi ed emarginatori, ànno avuto per antifona, facendo finta di dire e di non dire : — Dio è un’opinione. — Nessuno si sarebbe azzardato allora di enunciare che nell’atmosfera d’una sistematica generale, anche la Materia è un’opione. Oggi i positivisti messi a far gli uscieri alla porta degli uffici ove ieri dettavano leggi, se ne sentono fischiare di ben più dure agli orecchi. Ma tant’è : — Dio era un’opinione. — La peregrina formula merita tutte le attenzioni da parte mia in questo punto del mio studio. Perchè, avanti d’ogni altra cosa, sta a provare la derivazione politica dell’ateismo positivistico soprattutto italiano. Corate vecchio e Spencer postumo, come ognun sa, non possono più venir messi nel mazzo con gl’italici rappresentanti del positivismo. Corate uscì di bozzolo ancor vivo e se volò basso, volò, o diventò pazzo come dicono i filosofi del criminal positivismo. Spencer, appena morto, fu causa che gli spenceriani o svenissero, o si ritirassero a vita privata, o in fretta s’ammanissero non si sa quale intingolo inconoscibilista. Qualcheduno anche tentò di ribellarsi al pontefice: ma l’accademia positivista non va tanto per le lunghe e dà la corda e brucia vivi gli eretici.
Nè l’opera di Spencer nè quella di Corate avevano la pregiudiziale atea o la mira della negazione di Dio. Ma il positivismo italiano si originò, senza nulla affatto di proprio, di nuovo, d’italiano, da una rottura teatrale del liberalismo pseudofìlosofìco e pseudoscientifico e malamente letterario col dogma cattòlico. Se ci furono in Italia positivisti, ci furono perchè nulla rispondeva tanto bene alle esigenze della polemica tra giacobini e gesuiti —- due sorta di gesuiti; due sorta di giacobini — quanto ciò che più s’avvicinava alla dichiarazione dei principi materialistici e pur aveva — per i beoti — aspetto scientifico e obbiettivo. La materia diffusa si consolida e poi, per una combinazione, diventa mondi e via e via, sempre per una o due 0 cento combinazioni, diventa animali e uomo. Voi sapete bene la favola e continuerete per conto vostro. Dio, su questa linea d’ascensione che per una semplice combinazione è ascensiva, doveva rappresentare o l’opinione dell'ignoranza dei fatti e delle leggi positive o la manifestazione d’un’epoca dello svolgimento evolutivo medesimo, l’epoca in cui tutto per la sublimità poetica e la scioccheria insieme degli uomini fanciulli veniva spiegato con la divinità. In seguito la spiegazione fu eroica e, finalmente, grazie ai pro-
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fessori positivisti, arrivammo all’umanità. Non si sa bene se vi sono compresi quei poverissimi diavoli dei Quattro Vedi e Platone.
Dio, scioccherìa poetica, immagine d’ignoranza, e cose simili. L’enunciato positivismo implicava sempre la pretesa che partire da un indistinto od omogeneo che diventa via via distinto ed eterogeneo, e diventa da per sé medesimo fùor d’ogni intervento di forza assoluta vigile creatrice indecomponibile eterna, equivalesse a situarsi in una posizione di libertà filosofica. Insomma, il sistema dei materialisti o il metodo dei positivisti — il « metodo » dei positivisti è una trovata piuttosto abile del dulcamarismo degli evoluzionisti — s’accampava davanti all’idea di Dio con la pretesa e sia pure con la certezza d’avere per sè tutta quanta la capacità a liberamente orientarsi, a guardare obbiettivamente cose, persone, fatti, fenomeni, superfici, angoli, processi. Il mio amatissimo e onorando Giuseppe Sergi or non è molto, dopo d’avermi dato una lavata di capo robustosa per le mie rinascentistiche velleità spirituali, riconosceva che il mondo è un po' mutato attorno alla « Scienza », che c’è davvero un « ritorno > all'Anima. Lo riconosceva. Ma voleva riaffermarmi che per conto proprio egli si sentiva libero dal bisogno della divinità, che per lui personalmente, insomma, non esiste alcuna ragione, alcun argomento per accettare il principio della spiritualità dell’anima e della divinità.
Ora io non ò certo acquistato alcun diritto ad enunciare principi che vadano accettati, nemmeno da quei due lettori che da un ventennio circa — e siamo vivi tutti e tre — mi si tengono stretti tra le tempeste ai panni. Ma sento di potermi prendere l’impegno di provare a sufficienza che l’idea di Dio nella scienza è una idea generatrice di libertà, campo aperto spaziosissimo alle più indipendenti attitudini dello spirito, che essa sola, dirò di più, l’idea di Dio, costituisce il terreno neutro sul quale è possibile alla mente nuova prendere gli atteggiamenti più arditi e più personali.
4. — Quando si dice « fatto » nel linguaggio scientifico, si dice ripetizione certa e prevedibile di quel che già fu esperimentato accadere. Una lunga ripetizione di « fatti », una serie di ripetizioni del medesimo coincidere d’elementi e di movimenti, è quel che chiamiamo « legge ». Noi ci abituiamo a sentire per le « leggi » — della vita, della materia, della forza, eccetera — una interiore garanzia che va diventando assoluta. Di tali assolute garanzie delle « leggi » che governano la materia e la vita — l’espressione è proprio questa, di « governare la materia o là vita » — ci è necessario, ad un certo punto del nostro Sviluppo conoscitivo, fare un sistema e tutto il sistema poggia sul principio, che pare e vien proclamato patentemente positivistico e materialistico e scientifico : — Quando noi siamo venuti al mondo, questo sistema di leggi esisteva. Non l’abbiamo inventato noi » - Ond’è Che inevitabilmente la nostra mente va incontro alla necessità di sottomettersi al riconoscimento di queste garanzie, di questi assoluti dei fatti ripetuti e ripetibili e ad un loro ordine, a un loro mutuo rapporto. E poi lo chiamiamo la Scienza, e poi usiamo chiamare la Scienza quel tale coordinamento il quale ci dice che nessun piccolo fatto di combinazione di elementi — o chimico — e, più al largo, nessun maggior fatto di scambievole azione delle masse, delle forze e delle condizioni loro — o fisico, — nessun più vasto evento cosmico, sfuggono alla legge del moto duplice di rotazione e di rivoluzione che nel cosmo
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è gravitazione, nel rapporto fisico è peso, nel rapporto chimico è piti chimicoorganico è diversa funzione degli elementi. Andiamo alla ricerca che soddisfa la nostra curiosità, col bisogno d’un ordine e le difficoltà del ritrovamento son quelle che ci dànno fiere delizie e profondi sgomenti, e della Scienza parliamo con rispetto e sin con entusiasmo quando ci dà l’illusione o c’infonde addirittura la certezza del sistema della realtà, questo o quel centripetismo di masse, questa o quella ellissi di movimenti, questo o quel ritmo di tramutazione dal caotico e dall’amorfo, dall’inarticolato e dal passivo al disciplinato e morfologico, articolato ed intelligente.
La ricerca scientifica parte da un bisogno d’ordine e arriva, inevitabilmente, al ritrovamento d’un ordine di fatti e fenomeni e leggi e ritmi e rapporti e misure. Badiamo : vi arriva. Ma ne parte. Questo è quel che m’interessa di sottolineare. Il positivismo materialistico durante un mezzo secolo à creduto fosse logico poter dire: — Abbiamo trovato le leggi e l’unità centrale dei rapporti delle leggi. Abbiamo trovato la spiegazione delle parti e del tutto in un tutto. Siamo liberi dalle superstizioni. Abbiamo messo alla porta Dio. La ragione à trionfato. — Quale logica ! La scoperta di leggi, la scoperta d’una legislazione per cui il giuoco di masse pesanti miliardi di tonnellate a distanza di miliardi di chilometri, è in rapporto col brivido d’un piccolo specchio d’acqua sotto la luna e il tacito sbocciare d’un fiore solitario in cima a una rupe immacolata ! La ragione à trionfato. La mente umana, questa, sia pure, forza del cervello, s’è talmente guardata da ogn’ influenza deformatrice, che di per sè è arrivata a constatare un ordine. Il loto primitivo, risultato da una narcescenza di materia astrale, è diventato il fiore umano canoro pensoso, che s’agita a respiri di bellezza e di sogno. Abbiamo scoperto Che la materia protoplasmatica dominata da leggi insopprimibili, inevitabili, precise, minute ed immani, onnipresenti, anelito d’ogni goccia di fango e d’ogni stella, è diventata il genio che la capisce, è diventata lo specchio della legge d’ogni legge. Ecco Dio vinto, Dio non esiste!
La goccia di fango che per l’evoluzionista materialista, o il naturalista biologo, o il positivista monista, diventa, attraverso all’ impero delle leggi, la coscienza della legge, la legge stessa specchiata, vissuta; questo giuoco di prestigio prodigioso che lancia la sua armonica voluta a completare un’architettura di portenti, si rivela dunque a sè stesso come un prodigio e un portento. Colui il quale dice : — Il mondo è la proiezione del mio Io — si mette fuori d’assurdo pregiudizialmente ; ma colui che, come il positivista materialista, il biologista monista, il naturalista panteista, dice che la Realtà è davvero quella che gli occhi e le mani e le orecchie ci dànno per Realtà, è costretto a subire come reale il prodigio e il portento crescenti, che derivano dall’incessante rivelazione logica, razionale, scientifica che la ricerca sistematica fa del mondo, della Realtà medesima.
5. — Il discorso ci à condotto nel cuore dell’argomento. La Scienza parte da un’esigenza d’ordine e non s’appaga che nella ricerca d’un ordine e la ricerca è appagata, sia pure con differenze dovute al così detto perfezionamento dei mezzi o degli istrumenti di ricerca. Chiunque à per vera la Realtà e si proclama « credente nella Realtà così com’è » — è la frase abituale del positivista, del materialista, dello « scienziato », in una parola — si ascrive tra coloro che tengon
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fede ad un progressivo rivelarsi d’ordine e d’unità nel sistema dei rapporti e delle leggi che « governano la Realtà ».
Qui dobbiamo trovare una delle ragioni per le quali da tanta parte di territorio scientifico, i pensatori convengono a una credenza nella razionalità universale di quanto esiste, razionalità di cui la nostra personale e discopritrice intelligenza sarebbe la precisa presente distinta consapevolezza. In questo sempre maggiore rivelarsi dell'ordine preesistente; nella certezza, conseguente ad ogni lunga metodica fatica di ricerche e precedente ad ogni impresa di ricerche, nella certezza che l’indagine assolve al proprio còmpito o l'assolverà solo per il ritrovamento d'un rapporto, d’un'armonia, d’una dipendenza, d’una legge ; in questa certezza Sta la ragione « scientifica » per cui il Nulla e il Nessuno sono via via rifiutati dagli uomini di scienza medesimi, cosicché oggi per la maggioranza degli uomini di scienza l'ateismo è una superstizione o, almeno, un luogo comune e certamente una volgarità.
Così « l’Inevitabile Ipotesi » riprende il proprio posto. L’espressione è di Tullio Martello, uno tra i pochissimi pensatori italiani che in mezzo secolo di meditazione abbia saputo restare immune dalle seduzioni di teoriche e formule ed alla scienza abbia sempre guardato come a un vino che non fa male se bevuto con infinita moderazione e che bisogni salvare dalle contraffazioni in giorni nei quali i contraffattori sono all'agguato in ogni angolo della strada; un vino, dunque, di cui un bicchiere non fa male: e c’è chi dopo qualche anno diventa astemio. Inevitabile ipotesi dell'ordine : o a ramificazione ove non si tarda a trovare una fillotassi ; o a cerchi concentrici di cui è dato e trovato il centro. La Realtà non è che in quanto è un sistema di rapporti e in quanto dal sistema di rapporti dipende sino al punto da esserne concepita come il risultato. Non cercate altróve la dottrina dell'evoluzione: le cose che mutano forma e da una tipica forma escono per entrare in un’altra che serba le linee generiche dell’ultima sorpassata e sbozza la fisionomia di quella Che verrà. Gli evoluzionisti, menti esigue, e poi chiuse nel borbottìo descrittivo, non si sono mai avveduti della portata immensa che Come documento filosofico à questa subordinazione assoluta dei principi essenziali medesimi dell’evoluzionismo al « rapporto ». La portata aumenta quando si ponga mente al fatto che i positivisti a base fisica e fisiologica non discutono la realtà, perchè il discuterla scuoterebbe e farebbe crollare l’edificio della Scienza. L'intelligenza positivistica non dubita di sé stessa e la scienza medesima che di questa intelligenza è figlia si aggiunge, per i positivisti, come una realtà alla realtà già esistente ed obbiettiva.
6. — Ora vedete enormità d'un assurdo. Al materialista, al positivista e a tutti i loro affini, non pare affatto un dovere, quando s’indugiano a disegnare le linee generali del loro sistema — il quale dev’essere un po’ la spiegazione di tutto — il considerare se l’Inevitabile Ipotesi è inevitabile soprattutto per loro. Questa realtà vieppiù individuata, dal lavoro suddiviso, dall’organarsi più minuto e complesso Che dentro porta lo specimen elementare, principio o destino di forza che si fa coscienza ; questo caos che si purifica ogni dì più di sè stesso e diventa armonia e coscienza d’armonia nell' individuo d’una specie, che della materia del S^aos superato ed eterno è materiato ; questo destino che mena il caos all’armonia elle stelle e delle idee, questa legge per cui in ogni fatto constatabile si ritrova
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il legame con tutti gli altri accaduti e possibili oltre che certi nel futuro, con tutti, con ciascuno e con l’Uno universale; questa confusione di masse che eccedono e di forze inutili, di vertigini che rompono in ogni senso, la quale diventa un raziocinio di realtà e s’impone a chi cominciava col negare una logica centrifuga o centripeta ma vuol cercare una spiegazione definitiva che sia « vera » perchè è « logica » ; l'aberrazione orrida dell'amorfo che diventa fisionomia dei mondi e delle funzioni organiche e delle intuizioni mentali e che ad ogni minima rivelazione di sè fa gridare all’uomo di scienza: — Vittoria! ò trovato! —; l’evoluzione dal confuso all’esatto, dal passivo al libero, viene via via esigendo la spiegazione sommaria d’un sistema logico. Che cosa importa che non sia possibile accordarci sull’interpretazione precisa della creazione? Io veggo la creazione come un fatto eterno, e mi pare che sia ben più degno del divino questa increata creatività perenne che non la discussione affannosa semioscura, quando non è affatto buia, d’un atto di creazione come quello della Bibbia ebraica che sarebbe accaduto e ehi dice cinquemila e chi vuole cinquemila volte cinquemila — o come vi piace — avanti l’èra cristiana.
A me pare che il vaglio fatto del positivismo possa autorizzarci ad esporre il giudizio che l’interpretazione evoluzionistica mette logicamente a un deismo. Evoluzione, passaggio dal caos alle funzioni suddivise, dall’ indistinto al distinto, dall’eterogeneo all’omogeneo, dall’etere vago e incoerente alla nebulosa che tende a compaginarsi alle masse in cui via via prevale il solido, alle combinazioni complesse ma di cui il numero è limitato, come sempre più limitato è il numero delle specie vegetali ed animali sulla superficie della Terra; tutto questo è un sistema temporale che costituisce una serie provvidenziale. Dire, come il positivista, ad orecchio o perchè piatto, noi non concepiamo « progresso », ma « diversificazione », non può valere più che come un espediente, una formula provvisoria. Inevitabilmente la vita che dal caos è arrivata al pensatore, e sia pure al pensatore positivista, è un progresso. Il positivista à tutta la buona volontà di riconoscersi come un progresso e nella vita politica, ove radicaleggia, masso-neggia, iperliberaleggia, il positivista fa il mestiere esplicito, esclusivo del progressista.
Mi si obbietterà da alcuno: — Ma è dal tempo in cui tu nicchiavi all’ombra della cattedra di Antonio Labriola, che tu dài la croce addosso ai positivisti! A che prò’, oggimai che su di loro è scesa cotanta svalutazione e che sin nelle commissioni accademiche v’à chi disobbedisce alla maestà del Positivo? A che far tanto calcolo dell’assurdo positivistico, se dieci e cento volte ài detto che il positivismo è morto? — Tenevo d’occhio l’obbiezione e credo d’aver un argomento di risposta, breve ed efficace. Il positivismo, specie quello materialistico d’Italia — il men buono e il meno simpatico — contro ogni sua speranza, contro ogn’ intenzione, à portato materia e prove al raziocinio deistico. L’evoluzione è, riassunta da un colpo d’occhio sintetico al quale siano venute le analisi particolari della dottrina, un’opera di volontà. E lascio da parte il lato estetico: l’opera d’arte.
7. — Non c’è bisogno d’arrivare alla fase suprema — e per adesso, badate bene, è suprema. Cosi dicono i positivisti, i quali preveggono un umano che perda qualche cosa ancora, come à perduto la coda, — non c’è bisogno d’arri-
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vare ad una tal fase, alla specie homo per trovare la volontà, l’attivazione d’una forza intelligente, l’arbitrio che mira a una difesa, a una conquista, a un capriccio. I più ovvii esempi tolti all’omocromismo e al mimetismo degli evoluzionisti, sono sufficienti. Essi dicono che la legge è sempre tutta in ogni minimo sistema di fatti. La mosca che cambia colore e poi forma, arriva sin dove ciò serve e fa al caso. Poniamo e accettiamo pure che la mosca, in quanto individuo, manchi della coscienza personale dello sforzo da compiersi e poi compiuto per trapassare, nello struggle jor life contro le api, dalla forma di mosca a quella d’ape; bisognerà bene accettare che questo senso della misura esista ove che sia, che esista questa inibizione, questa capacità a contenersi fino al tal punto, questo lavorio d’una preparazione e questa certezza infallibile di mettere il punto fermo a ciò che si chiama processo. Se levate la volontà libera all’uomo, se levate la coscienza individua agli animali che si pretendono inferiori, dovete ben ammetterla oltre di loro in una forza che li vigila, che pensa, che vuole, che misura per loro, che da quattro gocciole di sperma, che l’occhio centimilliplicato dell'uomo di scienza non distingue, fa balzare la scintilla che feconda quattro diversi nuclei ovarici e ciascuno uno solo, quello solo e niun altro.
Tutto il meccanismo mimetistico non è spiegato Che dalla persistenza vigile d’un volere. La medesima forza di conservazione di ciascun individuo, anche se l’individuo sbagliasse ricercando i mezzi della difesa e della conservazione, è la tenacia d’un volere affermato. Dico che l’errore, una tra le risorse miracolose della conservazione e del progresso, l’errore medesimo è la prova d’una volontà totalmente vigile e parzialmente occupata. È coloro i quali àn detto : — Ma non sempre riesce alla Natura o alla Legge di raggiungere lo scopo, perchè e individui e specie e generi soccombono e soventi, — portano un argomento ancora alla volontarietà dell’essere che informa la natura, dello spirito che invertebra l’organismo, del Dio che illumina il mondo. La materialità e i suoi risultati,, questo o quel sopravvivere e crescere, interessano meno alla volontà dell’essere che l’affermazione sua propria. Vedete il cristallo entro il breve meato permesso da un divaricamento della compagine terrestre. Quando mai tutta la forma pur geometricamente fondata sui piani e gli assi e in rapporto ai vertici esistenti è completa, materialmente, come un giuocattolo, come un apparecchio, come in un disegno? Si può dir mai. Ebbene: chi direbbe che il quarzo e l’anglesite e il diamante non cristallizzino con forme perfette, le forme < che precedono i fantasmi della visione e del disegno geometrico » ? La volontà della persistenza è innegabile nei cristalli. La cristallografia tutta quanta è il libro aperto d’un divino arbitrio di forme e dentro le moli compatte e pur così sovente sconvolte e dall'acqua e dal fuoco e dalle convulsioni d’assestamento, c’è sempre posto per la libera fiorescenza d’un di quei gingilli che tutte le combinazioni causali, tutte le immaginabili brutalità di non si sa quali forze, non saprebbero davvero portare a fine. In quel punto, come fosse la tenue lacerazione d’un tessuto organico animale, scendono con lentezza signora del tempo gli atomi puri d’un metallo, scendono solo dove debbono, nè si sa con qual forma, perchè non c’è strumento che li sappia scorgere, e vengono ad occupare un punto minore del punto matematico. Uno degli atomi fa il punto; gli altri salgono in linee limpide tranquille a una sede mirabilmente, eletta. Tutta quella luce è nel buio e quel lavoro che
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s'arresta a una forma di luce viene da una luce sapiente che attraversa le spalle di titani accatastati l’uno all’altro in un duro sonno ostile. A lei nulla è difficile e in cento secoli — dobbiamo ancor sapere quante migliaia ne occorrano per incominciarne uno — le invisibili arterie aperte da mille punti verso un punto, attorno a cui gli atomi rigidi di quella luce misurata si dispongono nella forma che loro è personale, versano i puri tesori della scelta, quelli che bastano all'individuo. Una forma è sempre intelligente; ma i rapporti del cristallo su cui l’ingegno nostro può innalzare un sistema di nozioni, suppongono un’intelligenza in perenne attitudine di sforzo, che presubordini un quale e un quanto a uno scopo ch’è insieme opera di bellezza insigne e limite assoluto di verità: il Cristallo. Chiamano intelligente il fanciullo che ben copia la forma imitata al Cristallo; perchè la forma è ricca, è difficile, è complessa, è un sistema di piani, è un’intersecazione di rapporti. Intelligente chiamano la mente che la studia e la capisce e chiamano bella la forma Studiata e capita. Poi l’anima è costretta al silenzio. Non l’è concesso che di sentire e credere all’ intelligenza che constata. L’ « altra » si chiama « dell’oggetto » ; la cosa a cui par quasi che l’intelligenza del soggetto dia l’investitura d’esistere. La scienza del Sole è un che d’intelligente; il Sole no. La scienza dell’Anima è intelligentissima; l’Anima nò. Di questa logica fu pasciuta la prigionìa dell’Anima nostra e a lungo, a lungo, a lungo !
8. — Ma
« ... tu non se’ morta, ma se' ¡smarrita Anima nostra, che sì ti lamenti ».
Per lungi che Si possa spingere il raziocinio del dubbio, della riserva e della lentezza ad ammettere l’assoluto d’un principio, è innegabile l’intelligenza esistente in ogni piccola cosa, nel frammento e in quel po’ po’ che noi chiamiamo il Tutto. Altrimenti non potremo fidarci e fermarci in una intelligenza nostra, fiducia questa dell’ateo nella scienza, che à reso possibile l’opinione d’una sistematica vera in ribellione, in atteggiamento di negazione. L’ateismo rende schiava la scienza d'ogni cosa, perchè priva di valore assoluto l’Io pensante e classificante e concludente. Il bisogno d’una scienza sistema è già un bisogno del divino, poiché divino è quel ch’è superiore e più antico e più universale di me, di noi, quel ch’è Legge, quel che si nasconde e può essere svelato. Una realtà che à caratteri di perennità è Assoluta e tutto l’è relativo: questa sola può essere la logica della Scienza che crede alla Forza, alla Materia, alla Legge, al necessario Effetto, al Rapporto. Ed è più certa la ragione delle cose esistenti prima e attorno a noi e che continueranno ad esistere dopo di noi, origine, determinanti e risultato di noi, vere in ogni punto fuori di noi e in ogni punto interno al noi, che non la ragione che noi medesimi ci vogliamo fare di quel ch’è noi e non è noi. Quest’anima derivata e subordinata che trova — come i positivisti dicevano — il suo compimento nello specchiare tutta la faccia della Realtà e che quindi vede nella Scienza l'ideale di ascendere ad un esatto combaciamento con quel ch’esiste; quest’anima che non sarà l’Anima se non al suo raggiunto ideale, va verso la Realtà integra e totale come all’assoluto della sua ascensione. Se non vede e non sa che il Fenomeno, tende al fatto reale, a quel che è di dentro del fenomeno e si erede capace di perennemente ascendere per vie di verità, di concretezza, di realtà, di scienza, d'esperimento — son le
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sue parole. — Ma in fondo adunque, ma dentro à un centro di certezza in un possibile assoluto e l’attitudine all’assoluto. Le pretese, le automillantate origini dall’atomico fango d’un’ associazione senza logica e scopo, non le tarpano il bisogno di cercare l’acquetamento e la soluzione del problema dell'essere, nel ritrovamento di ciò che spiega l’essere. La Scienza à la ragione sua nella speranza di raggiungere il vero ed ella fa della speranza tendenza e ogni arte avvia sull’orientamento al vero, un vero che non sa qual sia, ma che deve credere ci sia e credere che sia possibile avvicinare e un giorno essergli vicini, un vero di cui adesso la scienza è minore, perchè la Scienza può correggersi e rifarsi da capo e avvedersi d’avere errato e d’aver preso vie non diritte, ma il vero c’è, ella lo ammette, più vicino, più lontano, più sopra, più sotto; c’è la spiegazione che fa centro, c’è la spiegazione che fa cerchio, c’è la spiegazione che fa forma e sostanza e quanto e quale.
Par che ci si avvicini al giorno in cui la mitologia dell’ateismo come già quella della matèria finirà di pesare sulla coscienza dei ricercatori di leggi ed esperimentatori di fatti. Questo novello bisogno del divino è rientrato nella dottrina portandovi un soffio di primavera. Il divino nella scienza non soltanto cresce il sospetto dell’armonia del reale e la gioia del lavoro scientifico, ma sviluppa in chi pareva non potesse il sentimento d’una missione da compiere. Del resto le missioni dal nulla al nulla non avrebbero dovuto mai parer logiche e serie. E noi assisteremo a casi d’emancipazione individuale di più in più frequenti che compensino della non sempre dignitosa condotta degli uomini di scienza mescolati a sètte e fazioni, confusi a folle gridose ondanti dietro bandiere proclamanti un libero-pensiero equivoco, eterogeneo, d'ignota provenienza, d’incomprensibile mira. La proclamazione atea della scienza s'è fatta a danno di tanta individuale libertà e dignità ! La folla demagogica è tirannica ed inquisitoriale come lo fu la chiesa. Non essendo accettabili e degni di trionfo che gli enunciati eccessivi e i principi estremi, quanti non si tirano a parte presto, vengono trascinati dal baccanale sozzo. Ma il baccanale passa e le anime, conscie che v’à pure una saviezza che resta, ànno il dovere di mantenersi immuni da ogni contatto. La scienza come l’arte non saranno mai plebee, nè mai dono di plebe ruente ed ignara sarà il potere della contemplazione armonica dell’essere. Alle plebi nelle solenni ore della storia dalla cima tuffata nel soie può il solitario parlare una parola di bellezza placida o d’eroismo vigoroso. E la plebe sentirà, la plebe sarà domata; ma non comprenderà, perchè Ì'intelligenza che di noi può fare specchi della intima realtà dell’essere, è risultato di sforzi lenti e tenaci, è conquista che ciascuno dei pochissimi strappa a un tumulto orrido di rovi sul ciglio dell’abisso. L’ateismo d’un secolo di dottrine fisiche e di formule gasose è stato la manifestazione d’una società in cui passioni basse e intendimenti volgari ànno manomesso la tranquilla indipendenza degli uomini di scienza. Ma quel secolo settario è finito e le Colonne d’Èrcole della schiavitù demagogica sono valicate. Più in alto nella luce, più in fondo nell’ immensità, 1' Uomo sente di non essere più solo e non più perduto in un infinito senza significato. La Scienza, per quanto fragile e breve, non è il trapezio appeso a due ignoti nel nulla, nè la vita un folle gioco o l’abile frode d’una specie scampata al crollo d’un bieco e stupido caos.
Paolo Orano.
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(Vedi fììlyc/inis 1913, fase. 1, p. 23).
orientale. In altre
ELLO scrivere questo articolo che a taluno parrà irriverente ed ingiusto, e non è, io mi sono proposto di reagire violentemente contro un volgare andazzo della moda e contro le eccessive pretese di alcuni specialisti dell’orientalismo. I quali, a mio parere, compiono un grave errore di critica, quando, come spesso accade, esaltano i frutti dell’ ingegno (se si vuole del genio) orientale coi criteri di una scienza nata nell’ occidente, e poi pretendono che per apprezzare quelle recondite bellezze di cui sono vaghi, si debba immedesimarci dello spirito parole, io protesto contro lo sconfinare ch’essi fanno dai limiti
della loro scienza, quando essi per troppo amor di essa, s’invaghiscono tanto del loro oggetto di studio, da dimenticare la scienza stessa; e trovano tutto bello, grande; scoprono ignorate verità supposte, e più non vedono se non per gli occhi delia cosa amata. Adagio un po’, e vediamoci anche noi. Lo spirito si sà è universale, e le sue attività sono uguali dovunque e dovunque producono all’identico modo: e fino a che l'orientalista mi prova che nella data epoca nell’ India eravi un cotale, o una data scuola, che la pensava così e così, sta bene, è nel suo diritto di storico e di erudito. Ancora nei limiti della sua scienza è quando mi prova che il pensiero di quell’indiano in quell’epoca arriva a un certo punto di identità col pensiero occidentale : non lo è più quando mi provi la diversità del pensare dell’india dal nostro. Ciò che è verità nell’India lo è nell’Europa, il pensiero se è vero dev’essere identico; solo che nell’uno o nell’altro paese si può esser giunti prima a conseguire una verità, un modo di speculazione. Così per le altre verità dello spirito; così io mi sono indugiato alquanto nell’esame estetico del Buddhacaritay precisamente per mostrare come le categorie estetiche devono esser identiche per esso e, putacaso, per le Laudi dannunziane; ciò che è brutto in Europa non può esser bello in India. E poi questo voglio dire: che nella vita solo ciò ha ragione e trionfa che prosegue e
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procrea nel tempo ; noi Siamo ancora, malgrado i millenni, malgrado le innumerabili produzioni dell’arte, legati ai poemi omerici dal filo di una discendenza diretta ; hanno i buddhisti una letteratura che si connetta, con dignità universale, a questo assolutamente non vero capolavoro?
Sta bene come dice il Formichi che Buddha ed A^vaghosa sieno « due nomi che vanno e stanno strettamente uniti insieme non meno di quelli di Achille e Omero, Enea e Virgillio, ecc. >; solo ch’io nego che A^vaghosa sia Omero e Virgilio, perchè un rètore della scuola non può essere un grandissimo poeta. Ma io accolgo l’idea del Formichi nel senso che A^vaghosa sia « uno dei grandi patriarchi buddhisti, e un fedele e popolaresco espositore della filosofia e della religione buddhista», che mi rimane ora ad esaminare brevemente. Noi possiamo e dobbiamo essere grati al Formichi di averci data una bella traduzione di un documento su cui compiere questo esame ; mi spiace di non essere con lui d’accordo nel valutare il poema di A^vaghosa, perchè proprio non si può « sfrondare il suo racconto della parte mitica, allegorica, fantastica », perchè esso appunto lo costituisce come opera d’arte; mi spiace ancor più di non poterlo come lui valutare come opera di pensiero, perchè esso è figlio proprio « di un dato tempo e di una particolare civiltà», ch'oggi sono da moltissimo tramontati, credo per sempre.
Non è possibile non condividere le idee dell'on. Luzzzatti, che, sul Corriere della Sera, esprimeva intorno al contenuto etico del poema di A^vaghosa messo a confronto con quello dell’Evangelo. Il primo conduce all’inerzia, il secondo all’azione; l’uno all'egoismo, l'altro alla carità; quello allo scetticismo, questo alla fede: quello al materialismo più gretto, questo allo spiritualismo più alto; quello alla decadenza, questo alla civiltà. C’è una prova assoluta dataci dalla storia: il confronto fra i popoli cristiani e i popoli buddisti. Dice il Formichi: « nessun mortale può esistere al mondo che in un momento della sua vita, non abbia detto: « io sono buddista». Verissimo, ciò prova che l’umanità è la stessa dovunque, in Groenlandia come a Benares ; chè se è buddhismo il cupio dissolvi, il vanitas vanitatum, il lacerante lamento del Leopardi, il divinamente umano grido di Gesù morente -¿Xsi tjXsì ; non è per contro cristianesimo
l’indifferenza assoluta, il nulla, il nirvana, supremo ideale del perfetto buddhista.
Qui non è questione di pessimismo o di ottimismo, che sono negati dall’antica e dalla moderna filosofia; meglio da questa da poi che ritrovò l’identità dialettica della realtà-idealità nell’unicità dello Spirito che è lo stesso pensiero; è questione di una mera constatazione razionale e dialettica esprimentesi nel proverbio «gli estremi si toccano»; e in questo caso gli estremi sono il materialismo e il misticismo. Parlando di buddismo si dovrebbe anzi accennare al simbolico serpente che si morde la coda.
Comunque, il buddhismo incomincia a negare il dolore, la malattia, la morte ; ora abbiamo già accennato come queste sieno tre astrazioni e non tre concetti concreti; il dolore intanto esiste in quanto esiste la gioia, è negazione della gioia ; ora nel fluire della vita, questa reagisce sempre contro il dolore, tenta di espandersi, di vincere ciò che dà il dolore, anche nell’ordine etico: chi abbandona questa lotta sente accumularsi il dolore, fino alla morte, ch’è il massimo
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dolore, come ogni dolore è una piccola morte. Non esiste il dolore così in astratto, esiste questo e quél dolore, dovuto a una causa che turba la normalità della vita fisica è spirituale, ed esistono le singole reazioni contro questi continui attentati all’integrità della vita. Negare il dolore e la morte vuol dire negare la vita stessa, ed ecco il perchè dell’ inerzia buddhista. Invece quando la reazione è difficile, ardua la lotta, può l’uomo sentirsi esausto, e desiderare il riposo, onde lo sconforto accorato, la disperazione, il gettito inconsolabile d’ogni speranza; l’arte europea ne ha intuiti ed espressi meravigliosi esempi di questi momenti, e noi ne citammo taluni; ma son questi fuggevoli istanti, comuni ad ogni uomo, son proprio que’ momenti buddistici del Formichi; i quali non hanno altra soluzione del suicidio o del superare la crisi.
«E vincere bisogna», anche e più nell’individuo; il buddhismo che pare offra al mondo « l'infinita forza della coscienza individuale, che da sola, senza bisogno del prete o del teologo, trova pace e conforto e trasforma l’uomo in un Dio», a me pare faccia tutto l’opposto; negando il dolore astratto, nega quello individuale, nega quindi l’individuo stesso, il pensiero, lo spirito. Appunto, è misticismo; annegarsi nel tutto, o nel nulla, nel nirvana; ossia dichiarare la propria incapacità a reagire contro il male, contro le forze nemiche della natura, contro la bruta materia ; è il fallimento del ragionato coraggio, ed affermazione del cieco fanatismo, è la stupida rassegnazione dei bruti, la rinunzia all’ idealità da raggiungere, intesa anche come perfettibilità, come concetto dinamico di umanità. Il buddhismo esclude adunque il concetto di perfezione ; il vero buddhista dovrebbe nella giovinezza trastullarsi in ogni lascivo piacere, godere di ogni ben di Dio, e poi rinunziare a tutto di colpo, rintanarsi all’uso degli orsi nelle selve, sedersi al piede d’un albero e contemplarsi l’ombelico fino al disfacimento totale corporeo e spirituale. Ma nel mondo non ci sono dei veri buddhisti ; i quali escluderebbero anarchicamente ogni socialità; ci sono i buddhisti voilà tout, che si raggruppano in comunità, per fruire dei beni comuni, per obbedire inconsapevolmente alla legge morale che impone il contatto e l’aiuto reciproco, per compiere i riti religiosi e le pratiche delle comuni superstizioni. E ci sono dei buddhisti anche in Europa, pur non facenti parte di quei tanti milioni di buddhisti che ci dicono i manuali di scienze delle religioni. La filosofia dello spirito nostra contemporanea invece, traendo conforto dalla storia, unisce indissolubilmente l’individualismo con la socialità, al pari del cristianesimo, poiché, nativo, esso è realismo sano ; e permette ogni sviluppo ed ogni progresso in ogni campo dell’attività umana. La parola umanità è la sintesi dialettica di individuo e di società ; l’uno e l’altra si integrano e si completano; per questo noi si possiede una civiltà liberale ; per non essere giunto a questa verità il buddhismo è stagnante ed inetto. L’individuo nelle mille prove ha commesse stragi, compiute ruine, perpetrati saccheggi, ma ha scannati mostri paurosi e salvate Angeliche captive ed anche errato in solitudini vane; ora imbestialito e frenetico, ora prudente e provvido, ora sfortunato come Orlando, schiavo come un mujick, ora liberato e liberatore come Prometeo, tetro o ridente, turpe e infame o sublime e generoso, sapiente o folle, genio od idiota, nel mondo fantastico dell’arte e nella scienza e nella molteplice pratica vita, l'individuo è l’unica realtà che vi parli, vi per-
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suada e vi guidi e vi metta nella necessità di riconoscerlo nello spirito vostro in eterno; La socialità equilibra l’individuo, lo educa, lo induce libero al lavoro quotidiano, gli dà una patria, un còmpito nella vita, sia egli Napoleone o un messo comunale, gli porge i mezzi di gioire della vita, ossia lo immette nello spirito universale, che è nei libri, nelle opere dell'arte, nella politica : lo fa pietoso di sé e d’altrui e gli dà la religione. La socialità è l’universale di cui l’individuo deve sentirsi liberamente e perciò veramente partecipe. Ora se questo è vero, com’è, io debbo assolutamente negare al Formichi (che d’altronde è troppo buon critico per non tardare ad avvedersi dell’errore), che il buddhismo sia « la religione naturale, spontanea di qualunque essere umano esente da pregiudizi». Dei dell’Olimpo! ed è un europeo che pronunzia di simili facezie?
Già è difficile trovare un uomo esente da pregiudizi; ma nel fatto è che quei tanti milioni di buddhisti che dicemmo, sono proprio fra le persone più ricche di superstizioni, più schiave di un rituale materialissimo, professanti una morale utilitaria, ossia le meno morali come razze e nazioni, provvedute « d’immagini miracolose, di cerimonie pompose, di festività chiassose e clamorose » quali, a dirla col Formichi, contribuì a renderle il retore Agvaghosa. Ma so bene che intenda di dire il Formichi: ossia che essendo necessaria all’uomo comunque una religione, non possa l’uomo coìto moderno far parte di uno qualunque degli istituti confessionali, le dottrine dei quali sono sorpassate dalla coltura critica agnostica moderna. Essendo adunque l’essenziale dottrina buddista capace di quel tanto di aspirazione idealistica moderna, e collimando con il pensiero moderno, essere sola la religione da adottarsi. E questo ho contestato e contesto : si è rimproverato, e con ragione, prima a Lutero poi ad alcuni modernisti, di voler violare la storia e di voler retrocedere assai dalla civiltà, col pretendere di far ritornare la Chiesa alla pura espressione evangelica : ma unanime è la critica dell’istituto chiesastico; lo si vuol fare avanzare. Quello che non si è riusciti a provare si è che non abbiano più ad esistere oggi le ragioni più intime e profonde del cristianesimo: la morale dell’Evangelo è lì col suo solare splendore infittito di bontà radiosa ed attiva; è lì vigile custode dell’integrità fisica e spirituale dell' individuo, con la dolce parola di conforto, di perdono, col consiglio d’agire, con l’imperativo categorico che il genio di Kant ha ritrovato nel raziocinio, e che Cristo ha rivelato essere nella carità, nella bontà, nell'amore operoso. E questo, mi pare non sia un pregiudizio. Il buddhismo è sì diffuso come momento di tedio spirituale; lo ammetto; si potrebbe dire che è un epicureismo stanco ed annoiato.
Infatti oggi si tenta da taluni pochi in Europa per ¡stanchezza del positivismo epicureo : ma è una piega, una ruga attestante una malattia di certi deboli organismi ; i più hanno superato il periodo critico, e se non hanno ritrovato una Chiesa, hanno rinvenuto il sano realismo idealistico del pensiero, l'equilibrio della mente, e una gran voglia di muoversi, di operare, ansiosi di penetrare la vita vera e feconda, spiritualmente feconda. Potranno morire le religioni vecchie, io questo non so; questo so e sento e con me sanno e sentono molti giovani di grande intelletto e di gran cuore dell’età mia, che una religione c’è in noi: l’intelligente culto del nostro passato, che integrato dal nostro operoso presente,
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ci désta in cuore una ricca speranza, che ci «la parlare»: di una più alta vita religiosa avvenire.
E l’oscuro sofisma morale e logico perciò, che è sola premessa del buddhismo, non riesce a sfiorare con l’ali serotine la vetta della nostra speranza: la vita è dolore, e va bene, come è colpa, come iniquità, malvagità, passione, vizio e così via ; ma ciò perchè essa è gioia, libertà, purezza, generosità, carità. « Qual ti negasse il vin della tua fiala — Per la tua sete, in libertà non fora » ; la vita va intesa nella sua pienezza e integrità ; s’essa ci negasse, come vuole il Buddha, di A§vaghosa, la serenità e la pienezza ci ridurrebbe a schiavi ; a schiavi di sue proprie negazioni: e il cristianesimo per fortuna, come etica, è ancora libertà. E noi vogliamo essere liberi, cioè, come direbbe il Formichi, «senza pregiudizi ».
Mario Rosazza.
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INTORNO ALL’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
Pubblichiamo l’ultima parie dello scritto nel quale il prof. F. De Sarlo di Firenze ha raccolto alcune Idee intorno all’immortalità dell’anima e che comparirà integralmente nel volume Verso la fede che il doli. Whitlitighi II ha promesso d’inviare in dono a tulli i nostri abbonali.
A che idea possiamo formarci dell’esistenza e del modo d’agire di un’anima staccata dal corpo? Ecco la domanda che ci sembra di sentirci rivolgere a questo punto. E certamente mentre essa è legittima, è in fondo imbarazzante. Noi crediamo che sia tale non solo se fatta in riguardo a tutti gli esseri animati, ma anche se fatta solo riguardo all’uomo, e ciò perchè — come già si accennò di sopra — è tanto stretto il vincolo che unisce la vita dell’anima a quella del corpo, che non si vede come l’una vita potrebbe esplicarsi senza la collaborazione
dell’altra. Ma ehi ci assicura che col distacco da un determinato corpo non si accompagni la costruzione e la funzionalità di un’organizzazione compiente ufficio analogo a quello che compie il corpo degli esseri animati, quale noi al presente l’osserviamo? Chi ci assicura Che la crisi in cui consiste per noi la morte non segni il passaggio da un corpo all’altro? Noi siamo certamente qui costretti a brancolare nel buio, mancandoci qualunque dato positivo per pronunziarci in un senso piuttosto che in un altro ; noi non possiamo fare nessuna congettura plausibile intorno alla forma di organizzazione e al complesso di apparecchi e di organi che potranno esser chiamati a sostituire il corpo, ma ciò non toglie che abbiamo il dritto — una volta ammessa la necessità della permanenza delle anime — di postulare resistenza di quelle condizioni che son riputate mezzi indispensabili per l’esplicazione della vita psichica. Allo Stesso modo che un’ idea o uno stato d’anima in genere si esprimerà con parole, con suoni diversi a seconda della lingua parlata, pur avendo bisogno sempre di un mezzo di manifestazione esterna, allo stesso modo che una stessa nota musicale o una melodia sarà espressa con mezzi diversi a seconda degli Strumenti che la producono, pur diventando attuale solo a condizione che sia suonata, allo stesso modo infine che un argomento artistico assumerà forma diversa a seconda che variano i mezzi di espressione e di esecuzione (arti figurative, arte della parola, arte musicale), così è da supporre che le anime, pur avendo bisogno sempre di un corpo, si connettano con
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questo in conformità delle circostanze e specialmente del materiale che si trova a loro disposizione, secondo l'ordinamento universale delle cose.
Le differenze tra l’anima umana e quella di tutti gli altri esseri animati, quali risultano dal complesso delle manifestazioni esterne e specialmente dalla struttura di tutto il mondo, del mondo propriamente umano che lo spiritò ha saputo elevare al disopra del mondo della natura, fanno pensare necessariamente ad un destino, e ad una forma d'immortalità, per l’uomo, diversa da quella di ogni altra psiche. Fondandosi sulle particolarità più caratteristiche della vita del nostro spirito, si è in diritto di far delle congetture — S’intende sempre in modo approssimativo — intorno alla forma di esistenza che ci attende dopo assoluto il nostro compito su questa terra. Per l'uomo ciò che ha maggior valore è là permanenza nella quale la persona conserva quei tratti fondamentali per cui possa riconoscersi e ritrovarsi e ciò perchè egli è essenzialmente persona cosciente di sè e del suo posto nel sistema delle cose, anche in questa vita.
Sarebbe strano che le prerogative, libertà, autocoscienza che noi riscontriamo solo nell'uomo e che certo contribuiscono a determinare la sua superiorità rispetto a tutti gli altri esseri, si dileguassero nel nulla, nel qual caso si avrebbe veramente una perdita irreparabile e incompresi bile. Si è in dritto di pensare, che per l’uomo la permanenza dell’esistenza abbia un significato diverso da quello che è presumibile abbia per gli altri esseri, nel senso che egli possa legare mediante la memoria lo stato in cui verrà a trovarsi con tutta la vita antecedente, e possa quindi completare la sua evoluzione, mettendo sempre più in valore gli acquisti già fatti. Ed è tanto più plausibile una tale congettura, in quanto se noi teniamo presenti i tratti essenziali di ogni forma di sviluppo e il modo di comportarsi dei fatti psichici rispetto al tempo in cui vengono ad attuarsi, abbiamo ragione di pensare che non solo non è a parlare di interruzione tra il presente e il futuro, ma che il presente deve esser riguardato come preparazione, e per certi rispetti come allenamento, per l’esplicazione di forme di attività psichica più complesse ed elevate. In ogni processo evolutivo, infatti, si nota che ciascuno stadio è come preparazione al successivo e che tutta la serie delle fasi è come disposta per l’avvento dello stato perfetto e definitivo (Stato di maturità). E d’altra parte, nei vari processi dell’attività spirituale non si osserva costantemente accumolo di energia, e progressiva maturazione mediante la perenne conservazione degli acquisti già fatti? Se vi ha un carattere per cui l’evoluzione psichica si distingue dai processi evolutivi quali si osservano ordinariamente nei sistemi organici, questo è appunto la tendenza ad un accrescimento indefinito e quindi l’assenza, in questa vita di un vero e proprio arresto definitivo (termine dell’evoluzione). Ciò che può sembrare a prima vista contrario a tale tesi, il fenomeno della vecchiezza, perde ogni importanza, quando venga messo in rapporto con le condizioni organiche fisiologiche, le quali riescono a celare il reale ininterrotto progresso, e quando si tenga conto del fatto che in nessun periodo della vita umana le funzioni e le esigenze più caratteristiche dello spirito ricevano quell'esplicazione ed appagamento completo, per cui si possa parlare di sufficienza 0 di qualcosa di analogo alla sazietà.
A ragione una delle prove ed indizi per ammettere i' immortalità è stata riposta nell' incompiuta esplicazione di quelle forme di attività psichica che rap-
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presentano come le prerogative dell'anima umana. Fu tante volte notato come nè l’esigenza della verità, nè le aspirazioni più nobili ed elevate, quali quelle al bene ed al bello, nè le esigenze più vive ed urgenti, come quella della giustizia, nè la tendenza alla felicitò piena, completa o al componimento armonico di tutti i desideri e di tutti i voti, si può dire che raggiungano il loro termine su questa terra. E allora, ammesso che la vita non sia qualche cosa di assurdo e di con-tradittorio, ammesso che il mondo non sia l’effetto di un capriccio e quasi direi una beffa alla ragione è lecito pensare che esista un’altra sfera della realtà, in cui la vita umana raggiunga veramente il suo completo sviluppo.
Chi crede in un ordine razionale del mondo e che per ciò stesso non può non attribuire un valore obbiettivo alla legge morale, è costretto a riconoscere come, date le dissonanze, i contrasti, le ingiustizie delia vita attuale, s’imponga la necessità di ammettere un’altra esistenza in cui, da un canto possa esser raggiunto quello stato di perfezionamento, che per la resistenza e gli ostacoli incontrati, e per motivi indipendenti dalla propria volontà, non fu possibile prima raggiungere ; e dall’altro si possa avere quell’attuazione delle esigenze morali, quel trionfo del bene e della giustizia in cui risiede il vero ordine morale.
Nè fu valida obiezione quella di coloro che videro nella credenza dell’immortalità una minaccia contro la purezza dell’ intenzione morale per il fatto che motivo della volizione non sarebbe il puro rispetto alla legge, bensì l’idea di un premio o di una pena futura, giacché anzitutto il premio e la pena aspettati non sono concepiti come qualche cosa di estraneo al contenuto delia vita morale, ma cóme parte essenziale di questa, non come soddisfacimento od opposizione a desideri, passioni, interessi egoistici, ma come proseguimento o arresto sul perfezionamento morale; poi non è l’aspettazione del premio o della pena che deve costituire il motivo dell’operare in un modo piuttosto che in un altro, bensì la fede sicura, inconcussa nella giustizia e nella razionalità immanente nell’universo. Del resto il fatto che Emanuele Kant, l’assertore più rigido e coerente dell’autonomia del volere, abbia sentito il bisogno di porre l’immortalità fra i postulati della vita normale, è la più bella prova chela credènza nell’immortalità, lungi dal rappresentare un elemento perturbatore dell’ordine etico, ne rappresenta un necessario complemento. Si pensi per poco a ciò che l’uomo prova in quei momenti in cui 0 diviene vittima di irreparabili torti o si vede d’un tratto crollare tutto un edificio di speranze e di aspirazioni costruito con infinite cure e sacrifici, e ciò o per l'opera distruttrice della malvagità umana, o per 1 urto di forze cieche; si pensi a ciò che prova l’individuo che si sente piombare in un baratro per il tradimento di persone a cui egli completamente si affidò, si pensi insomma a ciò che si prova ogni volta che si prende a considerare la sproporzione spesso esistente tra l’opera e il suo risultato, si pensi a tutto questo e poi si dica se è possibile la credenza nell’assolutezza dei valori morali, senza quello nell’immortalità. Certo la pace della propria coscienza, la gioia derivante dal dovere compiuto sono beni per sè sufficienti a compensarci di tutti 1 travagli della esistenza, ma non sempre è possibile compiere il proprio dovere, appunto per le difficoltò e resistenze insuperabili che s’incontrano ; non sempre si ha il modo di cooperare al bene come pur si vorrebbe, non sempre si può raggiungere quel perfezionamento, quel grado di sviluppo a cui si avrebbe
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diritto; e allora come non farsi queste domande: chi si prende giuoco di noi? siamo realmente dei burattini in balìa di una potenza che ha per ufficio di eternamente trastullarsi coi dolori e le miserie altrui? Una volta che il bene, nelle sue molteplici forme e manifestazioni, rimane obbietto di una vana aspirazione, perchè ritenerlo qualcosa più di una semplice parola?
Vi è un altro ordine di considerazioni che vale a rinsaldare la credenza nell’ immortalità, ed è quello suggerito dalla riflessione sui caratteri della conoscenza umana. Questa, infatti, non si limita all’apprendimento degli obbietti particolari ed alla determinazione di ciò che può essere utile o dannoso, che favorisce o contrasta la vita umana ; ma elevandosi al disopra del contingente e del particolare, si affisa nell’eterno, nell’ universale, nell’ immutabile, nel trascendente io spazio e il tempo. Ora l’adeguazione della mente all'abbietto richiesta da tale forma di conoscenza, come potrebbe esser ottenuta, se il soggetto non partecipasse in qualche maniera delle proprietà caratteristiche dell’obbiettivo ? Come potrebbe lo spirito elevarsi al concetto dell’essere, e in genere alla sfera delle idee, se niente contenesse in sè di ultra materiale, di sovrassensibile e quindi d’indistruttibile? L’uomo perciò solo che riconosce la verità, la quale non nasce e non muore, e perciò solo che pensa lo spazio, il tempo e l'infinito, elevandosi al di sopra del mutevole e del transitorio, per Ciò stesso che può oltrepassare fìnanco se medesimo, mostra di posseder titoli sufficienti per appartenere anche ad un mondo diverso dall’attuale. Da una parte il pensiero aspira all’assoluto, al completo, al definitivo, dall'altro nella cerchia dell'esperienza attuale non riesce a veder appagata la sua aspirazione in quanto l'errore, l’illusione, le manchevolezze offuscano sempre la luce del vero. E allora quale congettura più plausibile di questa che il regno dell’anima non sia solo di questa terra?
La considerazione suesposta ha tanto maggior valore in quanto contribuisce a mettere in chiaro uno dei caratteri, per cui l’immortalità dell’anima umana va distinta dalla permanenza di qualunque altra anima; le attitudini, le disposizioni, congenite od acquisite, le forme di attività (funzioni) esplicate, le relazioni con certi obbietti non possono non elevare la natura dell’anima e quindi non possono non farle acquistare una coscienza più perfetta e più determinata del suo essere e dèi suo significato. E' evidente che quando si desumono certe note dell’anima da quelle deìl’obbietto, non si vuol intendere che soggetto ed oggetto vengano ad identificarsi, perdendo il primo il suo carattere essenziale che è quello dell’individualità e della personalità (nel qual caso poi la prova dell’ immortalità verrebbe anche a mancare al suo scopo); ma si vuol dire che l’anima umana, in quanto è capace di compiere funzioni che la mettono in rapporto col sovrassensibile, dà prova di possedere una natura speciale differente da quella di ogni altra anima. ' '
Formulando in brevi termini la conclusione del nostro discorso, diremo che se la tesi dell’immortalità non può essere derivata, allo stato delle nostre conoscenze attuali, dall’osservazione di fatti scientificamente accertati (quali sarebbero i dati della così detta psicologia d’eccezione o super-normale), se non può esser presentata come il resultato di generalizzazione empirica, e se infine non può esser dedotta da principi! razionali, trova però una sufficiente garenzia in un complesso di considerazioni, le quali, attinte come sono da forme differenti di
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esperienza, finiscono per avere efficacia persuasiva. Già è per sè significativo il fatto che nè l’esperienza (fatti di psicologia normale e di psicologia supernormale) presa in largo senso, nè alcun principio razionale o metafisico è in contraddizione con la credenza nella sopravvivenza ; ma poi il fatto che solo ammettendola è possibile dare veramente un significato al mondo e all’evoluzione storica della natura e dell’ uomo, non può non esser assunto al valore di prova. Che cosa sarebbe il mondo sè ciò che ha il maggior pregio, vale a dire resistenza per sè, non rappresentasse che un’incessante alternativa di balenìi sorgenti e dopo breve tempo dileguantesi ? Che cosa sarebbe la realtà se fosse ridotta ad un complesso di parvenze fuggitive e inconsistenti ? E che concetto dovremo formarci di una Divinità, di un Assoluto, che continuamente creerebbe e produrrebbe per aver poi il gusto di tutto disfare e di tutto annientare? E’ mai possibile che il senso della evoluzione cosmica si riduca ad una specie di lavoro di Sisifo? Basta enunciare queste domande per vedere quale sia la risposta più accettabile. O bisogna negare qualsiasi valore nel mondo, o bisogna riconoscere la permanenza di ciò che è condizione essenziale di qualsiasi valore ; o bisogna eliminare qualsiasi differenza di pregio e anche di grado di realtà tra l’esistenza per sè e resistenza per altro, ovvero bisogna riconoscere che l’esistenza per sè, una volta prodotta, non può esser più annientata, perchè la sua consistenza non si esaurisce nell’apparire ad altro, chiunque quest’altro sia. Sillaba di Dio non si cancella !
Firenze, marzo 1913.
F. De Sarlo.
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« i i. ■ t — ■ wr-t-wHn»»NOTE ESEGETICHE
LA PARABOLA DEL FICO MALEDETTO
(J/?. 21,'^O Mc. II
A similitudine dell’albero senza frutti e più precisamente quella della ficaia sterile è già usata nell'Antico Testamento in Gerem. 8,6’13 nel medesimo senso in cui essa appare in Le. 13,7 : « Nessuna bocca proferisce il bene, nessuno compie del male proprio penitenza rientrando in se stesso. Tutti corrono la propria via con l'impeto (Pun cavallo... >. Ossia : « manca Puva alla vite, manca alla ficaia il frutto ».
Egualmente in Le. 13,7 un popolo restio alla penitenza, che non produce frutti di penitenza (così Israele tutto intero a sensi del medesimo Le. 13, versetti 2 e ./) è asso
migliato all’albero di fico trovato sènza frutti. C’è in Le. un’idea nuova che colorisce meglio la similitudine antica. Il padrone dell’albero, colui che forse l’ha di sua mano piantato, che certamente provvede, direttamente oppure mediante un’altra persona, a che non gli manchino le cure necessarie alla sua conservazione e che quindi è in diritto di coglierne quei frutti delle proprie fatiche o per lo meno delle spese sostenute perchè altri vi fatichino in propria vece, il padrone medesimo constata personalmente con intensa pena la sterilità della pianta « venendo a cer
carvi dei frutti ».
A questo nuovo concetto, già introdotto nella similitudine antica dalla riproduzione che ne fa la parabola narrata da Le., s’ispirano Mt. e Me. il,'3’1* drammatizzandolo in un breve episodio della vita di Gesù.
Se il padrone che cerca frutti è in Le. un padrone imaginario come simbolica è la pianta sopra cui esso li cerca — il fico sotto cui il buon Israelita sta assiso, antitètico nel pensiero giudaico al sicomoro dei pubblicani che sono fuori della legge —, in Mt. ed in Me. è Gesù che va in realtà in cerca di frutti e Che alza davvero la mano per coglierne verso d’una ficaia incontrata sulla via per soddisfare una necessità fisiologica. Gesù ha fame: la parola è d’un crudo realismo — ¿-sivaasv —. Ecco il concetto tradotto parabolicamente da Le. portato da Mt. e Me. ad un’altezza d’espressione che rende assai meglio tutta la gravità della colpa di cui è reo il popolo giudaico, il quale deve vedere agevolmente
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simboleggiato sè stesso nella sterile ficaia. E, parallela alla specifica gravezza del peccato, la rapidità fulminea della pena che nel vangelo della misericordia è differita pietosamente, mentre nei due primi sinottici scroscia come folgore dalle parole di Gesù. Mt. e Me. inaspriscono la pena irrogata all’albero sterile in grado tale che il ricondurre la scena da essi rappresentata sulla via da Be-thania a Gerusalemme alla più leggera consistenza d’una parabola diviene sempre più agevole.
Se delle parole severe, se dei « guai ! » pieni di minaccia sono realmente usciti dalla mite bocca di Gesù, essi furono indirizzati a coloro che, secondo lui, erano i pienamente responsabili del morale malessere della sua nazione, rei com’erano di corruzioni lungamente operate sul senso religioso dato da Dio alle anime — farisei, scribi, dottori di legge —, come a coloro in cui doveva tale senso delicatissimo essere atrofizzato necessariamente — i gaudenti della terra —, oppure a quelli tra i connazionali suoi che per un più assiduo contatto con lui avrebbe dovuto, necessariamente, il senso religioso bene usato avvincere di intensa simpatia al novissimo ideale {Mt. La maledizione — espressione sacra, se non sacramentale, dell’anima orientale avvampata di fiero sdegno — appare al labbro di Gesù estranea come quella che non esprime più soltanto minaccia ma condanna, assolutamente, senza alcuna riserva ad un mutamento possibile — per quanto improbabile —- nel futuro e difatto non compare nel vangelo come parola uscita realmente di bocca a Gesù ma come accessorio veristico d’una vivace pittura drammatica im Mt. 25*. Quindi la maledizione di Mt. e di Me. non è che un corollario della presenza di Gesù nella parte di padrone e della frase realistica — ¿irsívacsv — ciò che porta di necessità un maggiore sforzo sulla parola già severa usata nella parabola di Le. — szxo^v
Il fondo del racconto nei tre sinottici è eguale. Il padrone d’un albero vi cerca dei frutti. Non trovandone, vuole la distruzione dell’albero.
Il dettaglio di Le. < ecco il terz’ anno clic cerco invano dei frutti » ed il rinvio della pena, ch’era già decisa, alla fine dell’anno in corso — zaì -rouro tó ero? — identificano tanto sicuramente Gesù col padrone dell’albero — il quale solo a prima vista è un padrone imaginario — che in Mt. ed in Me. entra in azione Gesù medesimo dando vita ad un'azione eminentemente simbolica anche nel consenso unanime dei Padri, a cominciare, almeno, dalla fame provata dal Rabbi cui viene negata ogni consistenza reale.
Che se in Le. il racconto meno movimentato ne dispensa è invece una necessità per Mt. e per Me. segnare il luogo dell’episodio.
In una gita mattutina di Gesù da Bethania alla città santa, al domani deb l’osannah trionfale secondo Mt., in un giorno non precisato ma a quello assai prossimo, secondo Me.
Il teatro dell’azione è ottimamente scelto e corrisponde perfettamente ai fini della parabola. La quale, pure in Le. è evidentemente estranea al ministero galileiano di Gesù mentre è pronunciata per via, sul cammino verso Gerusalemme (Le. ¡3”). E poiché essa, quantunque detta innanzi alle turbe che si pigiano innanzi all’angusta porta del Regno, non è per costoro, ma è diretta come uno strale contro i partiti dominanti della capitale a seguito della precedente provocazione farisaica chiusa nell’annunzio, recatogli maliziosamente, del-
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l'eccidio consumato da Pilato sopra a dei Galilei i quali erano considerati in massa come partigiani del Rabbi novatore, bene Mt. e Me. pongono la scena alle porte di Gerusalemme di cui Gesù intravede a sua volta la distruzione. Se dei farisei non ne sono spettatori, essa è però collocata abbastanza vicino all’altra in cui l’ostinazione farisaica contro di Gesù appare sempre più decisiva e formidabile (JfX. 2Z,^) per potervi essere logicamente coordinata, mentre d’altra parte l’ostilità dei nemici del Rabbi oramai prossima a spiegarsi in un colpo di mano contro la persona di lui è proprio quella che serve d’introduzione alla scena dipingendo il Maestro avviato di buon mattino alla città santa per esercitarvi il ministero suo dalla casa ospitale di Bethania dove era costretto a pernottare per essere al sicuro da ogni insidia.
Concludendo, i passi di Le. 13^ da una parte e d’altra Mt. 21S8’“* e Me. ZI,""'*’*0 si equivalgono, pure essendo soltanto i due ultimi strettamente
paralleli.
Da un’unica fonte — il ricordo vago dei detti e dei fatti di Gesù — i disce
poli di lui avviati oramai all’universalismo attraverso allo strato intermedio dei proseliti in senso largo, degli — avSps^ sùXapeT? ’a-ò wavTÒ? &S-vou; —, trassero i principi della nuova fede, differenziata oramai dall’antica, e li fissarono nei vangeli senza troppo curarsi delle divergenze tra l'uno e l’altro di questi, divergenze che non dovevano essere per nulla importanti dal loro punto di vista che non era verisímilmente che questo: base del cristianesimo Gesù ed imagine di
lui il vangelo. Così la similitudine originaria del fico, sterile condannato a perire diviene la storia del fico maledetto nella fonte scritta, comunque la si voglia
designare specificatamente, cui in comune attinsero di seconda mano Mt. e Me. la quale meglio rispecchia tutta la fremente indignazione dell’ebreo che primo raccolse per iscritto le parole di Gesù quando tramontava dietro il Moriah coronato di rovine fumanti ogni speranza di risurrezione per Israele. Mentre nel
l’ellenismo di Lc.t oramai tutto orientato verso le genti, rifiorisce serenamente la parabola — la consueta forma del mite sermone del Rabbi — e si colora di misericordia nei suoi dettagli per offrire al mondo pagano in tutta la sua squisitezza — 'r, jqdigtóttk zac ©'.XavOpw^ia — l’imagine dèi salvatore, Gesù.
Joh. Lover.
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PERI5G/EIVRA DELL'ANIMA
DUE GIOVANI
E Gionatan fece lega con Davide ...
j Sam. XVIII, 3.
ra i due giovani, Gionatan e Davide, che il nostro testo ci mette dinanzi, corrono non poche differenze. La differenza di età'. Gionatan contava una trentina d’anni, Davide una ventina: grande differenza: nella vita umana non vi sono due decine d’anni susseguenti tra le quali interceda tanto spazio quanto tra i venti e i trenta. La differenza della nascita'. Gionatan era figlio di Saul, il re, dunque sangue reale, diritto al trono; Davide invece era figlio di Isai, un pastore, ed egli stesso addetto alla pastorizia. La differenza delle
attitudini : uomini d’arme tutti e due, Gionatan non dà segno di altra attitudine, ma Davide innesta sulle sue qualità di guerriero, quelle di artista e di poeta. Finalmente, la differenza di destino', la stella di Gionatan tramontò presto — pochi anni dopo l’epoca della sua intimità con Davide egli cadde alla battaglia di Ghilboa contro i Filistei (i) —- mentre l’astro di Davide ascese maestoso l'orizzonte e vi si fermò per anni ed anni, finché, sazio di giorni e di gloria, il vecchio re morì, non sopra un campo di battaglia, ma nella reggia assistito dai congiunti.
Appena dunque lo sguardo si ferma su questi due giovani, percepisce delle differenze. Ma sono differenze che talliscono da un tronco comune, che germinano da un fitto strato di somiglianze. Ed è precisamente a questo strato di somiglianze che intendo invitarvi a guardare nel breve studio cui ci accingiamo, perchè sono sicuro che coglieremo alcune qualità dei due giovani degne d’essere proposte all’imitazione di tutti i giovani. Ed è bene che i nostri modelli sian
(1) 1 Sam. XXXI, 2.
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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due e tanto diversi per altri rispetti, perchè quando si propone l’esempio di un solo modello accade sentire obbiettare che per seguirlo bisognerebbe trovarsi nelle stesse condizioni sociali, economiche, di temperamento, ecc. Ma qui, nel modello 0 nei modelli che abbiamo dinanzi, c’è differenza, anzi contrasto di condizione e di temperamento, si che fin da principio l’obbiezione è rimossa, fin da principio è chiarito che —- siate come Gionatan o come Davide, poeti o guerrieri, figli di re o di pecorai, destinati a conquistare le altezze della piramide sociale o a non salire mai più su del primo blocco — voi potete, se volete, potete possedere le virtù che essi possedettero in comune.
I. La prima di queste virtù è (’OPEROSITÀ. Dal capitolo decimoterzo, dove per la prima volta incontriamo Gionatan, al sedicesimo dove sopravviene Davide, e per tutto il libro, anzi fino al principio del libro seguente, i due giovani ci si presentano occupati in qualche cosa. Sieno i lavori della pastura o un assalto ai Filistei, un colloquio con Saul o la composizione di una elegia, l’esecuzione di una sonata o il duello col gigante o un’ intesa per sventare le trame di Saul : i due giovani hanno sempre qualcosa da fare, e ci passano e ripassano dinanzi sempre affaccendati, come uomini d’azione.
Giovani, questa operosità è la prima virtù che indico alla vostra imitazione. Qualcuno troverà forse che porto nottole ad Atene, perchè i giovani sono naturalmente inclinati ad operare, tanto che più che di stimoli sarebbe il caso di parlar loro di freni. Ma non dimentichiamo che noi siamo appena usciti da un tristo periodo di depressione nel quale la nostra gioventù, nutrita di Jacopo Hortis e di Postuma, pareva non volesse far altro che sognare e belare sonetti e apostrofare fantasmi. Fu il tempo quando il nostro grande Francesco De Sanctis scriveva : « Conosco giovani che a trent’anni non sanno ancora quello che si devono fare della vita o del cervello, e, senza indirizzo chiaro e stabile, nel pensiero e nell’opera, posti a cavallo fra due generazioni, cavalieri erranti spostati, non sanno assimilarsi l’una nè precorrere all’altra e vivono come avventurieri, deridendo e derisi. Perdio ! in altri paesi a dìciotto anni si è un uomo e si ha vergogna di essere chiamato un giovane e si guarda già diritto dinanzi a sè e si prende la via e non si torce l’occhio a diritta e a manca ». Giovani, udite la parola di quel grande! Lasciate da parte le oziose fantasticherie! Questa vita, questo Universo ove tutto opera è un appello a operare. Progetti, schemi, piani, disegni, sistemi: di tutto ciò s'è fatto molto; gli scaffali delle trentamila biblioteche d’Italia rigurgitano di elaborate proposte di risanamento sociale : quel che manca sono le mani che pongano in esecuzione, le volontà animose e diritte che facciano. Quel che manca sono i giovani insomma, giovani degni del nome che non ripetano più il vecchio motto d’Archimede : « Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò la terra >, ma che comincino a servirsi, come li esortava il Goethe, dei punti d’appoggio già trovati e con le braccia volenterose sollevino questa umana famiglia che sente di star basso e anela di salire.
II. La seconda virtù che Gionatan e Davide posseggono in comune e che tutti i giovani dovrebbero possedere con loro, è 1’indipendenza. Appena l’uno
(1) 2 Re, II, 1-12.
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e l’altro si mossero ad agire — Davide per aeeettare la sfida del gigante, Gio-natan per far lega con Davide — urtarono in due ostacoli che furono sul punto di troncar loro la via. Nel primo caso Eliab, fratello maggiore di Davide che investì il giovanetto con irose parole : « Perchè sei tu venuto qua e a chi hai lasciate quelle poche pecore nel deserto? Io conosco il tuo orgoglio e la malvagità del tuo cuore » (1). Nel secondo caso il padre, il re, Saul, che aspramente dichiarò che non c’era via di scampo, che Davide morrebbe (2). Ma ambedue i giovani agirono con indipendenza; malgrado il fratello, Davide si avanzò contro Golia, e malgrado il padre, Gionatan fece lega con Davide : non si lasciarono nè deviare dai loro proposito nè sopraffare; non si rassegnarono all’altrui volere, ma affermarono il proprio.Giovani, sia in tutti voi questo medesimo spirito d’indipendenza. Son tristi a vedere una lucerna fumicosa, un occhio spento, una fonte inaridita, perchè appariscono come cose fallite al loro scopo essenziale ; ma la più triste di tutte le cose, quella che rappresenta il più vergognoso fallimento, è un giovane che non sa volere, un giovane che ha abdicato alla sua indipendenza. Badate, non appena avrete dato segno di uscire dalla via ordinaria, di voler intraprendere qualcosa di buono e di grande, qualcosa di vostro, sorgeranno gli ostacoli, i rappresentanti delle autorità Che vi metteranno una mano sul braccio per trattenervi. Alle volte sarà, come nel caso di David, un Eliab, l'autorità di famiglia. Quanti poeti e artisti e filosofi che sentivano di dentro gl' impulsi e le impazienze del genio ansioso di lanciarsi, furono arrestati e contraddetti dall’autorità di famiglia ! Anche i riformatori : sono famose le insistenze che il padre e la madre di Savonarola fecero al figlio, in tono di esortazione, di comando, di rimproveri e di lagrime per richiamarlo a Ferrara, quando il giovanetto, presago del suo destino, partì verso Firenze. Alle volte sarà l’autorità degli uomini d’ordine, l’autorità, che ammoniva ii giovane Beccaria : « Se abolisci la pena di morte, non vi saranno più dighe alla delinquenza» e che osservava ai giovani Wilberforce e Baxter : « Se abolite la schiavitù, voi minate le fondamenta della società ». Alle volte sarà l’autorità della scienza ufficiale, quella che trattò da matti i giovani Stephenson e Fulton con le loro velleità di far lavorare il vapore, e che al giovane Galvani che faceva muovere le gambe delle rane per studiare gli effetti dell'elettricità animale, affibiò il nome di «maestro di ballo delle rane». Altre volte sarà finalmente l’autorità religiosa, quella che usa «limitare Iddio», dichiarando esaurite le sue vie: quella che fulminò il giovane frate di Wittemberga, che anatemizzò il giovane maestro di Ginevra e scacciò dalle chiese il giovane profeta di Epworth.
Pensate se costoro avessero ceduto, se non fossero stati indipendenti ! Quante pagine eroiche strappate dalla storia ! quante fonti d'ispirazione a cui oggi ancora attingiamo, inaridite! quanti occhi spenti e quante lampade fumicanti...
E voi non cedete. Se vi tormenta una grande idea nella mente o vi strugge un gran sogno nel cuore, se sentite sul vostro petto già posato l’artiglio del(1)1 Sani. XVII, 28.
(2) 1 Sani. XIX, 1 ; XX, 30-34-
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l’aquila che vi ha ghermiti per lanciarvi in una grande impresa, siate indipendenti. Indipendenti come Gionatan e come Davide i quali non credettero che per resistere a un ordine dell’autorità familiare fosse necessario negare la famiglia ; ma — forti di mente come di cuore, ricchi di verità come d’audacia —- negarono il falso senza far torto al vero ; contrastarono all’autorità che esorbitava senza sovvertire quella che conosce i suoi fini e sta nei suoi confini.
III. Una terza virtù io trovo in questi due giovani e propongo, o giovani, alla vostra imitazione: la MAGNANIMITÀ. Intendo nel senso etimologico: animo magno, animo grande. Se li osservate, vedrete che manifestarono la loro magnanimità nel fare e nel sentire.
1. Nel fare. Li ho chiamati uomini d'azione, aggiungete di grande azione. Che fa Gionatan? Solo con un fante saie sopra una rupe ove stanno accampati i Filistei e li sorprende e li annienta (i). E che fa Davide? Mentre le schiere d’Israele allibbiscono alla sfida del gigante, egli il più giovane gli va incontro, raffronta e lo atterra (2). Azioni dunque che escono dall’ordinario, azioni audaci, magnanime! E noi, o giovani, aspettiamo azioni audaci e magnanime da voi.
E' noto che la scoperta d’America obbligò la Spagna a correggere la scritta delle sue monete che era un « Nec plus ultra » tutt’ intorno all’ immagine delle colonne d’Èrcole. Siccome quel « Nec pus ultra » non andava più ora che le colonne erano state passate, il governo fece cancellare il « Nec », sicché si leggeva « Plus ultra », più oltre, si va più oltre. Cancellare questo « Nec » nella vostra vita e mirare più oltre e andare più oltre, ecco che cosa significa essere magnanimi nel fare, ecco la magnanimità che aspettiamo da voi.
2. Ma Gionatan e Davide furono magnanimi anche nel sentire. Che avrebbe sentito l’uomo ordinario nei panni di Gionatan quando Davide comparve sulla scena e raccolse sopra di sè l’attenzione e il favore del popolo ? Avrebbe sentito invidia e rancore; non avrebbe desiderato altro che disfarsi dell’importuno. E che avrebbe sentito nei panni di Davide un uomo ordinario dinanzi alle proposte d’amicizia di Gionatan? Avrebbe diffidato, si sarebbe messo in guardia; nella migliore ipotesi avrebbe agito secondo quell’ infame detto : « Tratta il tuo amico come se avesse a diventare nemico». E invece no. Gionatan, superiore a rancore e ad invidia, apre le braccia a Davide, e Davide, superiore a sospetti e a diffidenze, si lascia cadere in quelle braccia con perfetto abbandono. Sentivano da magnanimi, ecco tutto.
Giovani, siate così magnanimi anche nel sentire. Magnanimi come il giovane Amie! che scrisse nel suo giornale : « Torno da una conferenza di Vittorio Cher-buliez : pubblico immenso ed elegante, entusiasmo moltissimo : constato con gioia di non aver provato neppur l’ombra d’invidia » (3). Magnanimi come il giovane Medici che udito il moribondo Anzani dirgli: « Non contraddire Garibaldi, Garibaldi ha fortuna, è la fortuna d’Italia », si rappattuma col generale e diventa uno dei suoi più fidi fino alla morte. Magnanimi come i giovani Donatello e
(1) 1 Sam. XIV. 13.
(2) 1 Sam. XVII.
(3) Amiel, Journal intime, sotto la data del 9 gennaio 1861.
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Brunelleschi che nel concorso per le porte del Battistero dichiarano agli esaminatori che hanno scelto il loro bozzetto : « E’ migliore il bozzetto di Ghiberti, scegliete quello». Magnanimi come il giovane Huss che si fidò dell’imperatore Sigismondo e andò a Costanza. Voi mi direte che fu ingannato e che ci rimise la vita. Vi risponderò che se è cosa triste essere ingannati, è più triste non essere mai ingannati per non aver mai avuta fiducia. Vi risponderò che la storia ha fatto giustizia: il nome di Huss è scolpito nel Pantheon degli immortali e quello dei suoi ingannatori gettato nella spazzatura.
IV. Ma ancora una virtù ammiro in questi due giovani : la COOPERAZIONE.
Meditate il v. 3: «E Gionatan fece lega con Davide perciocché egli ramava come l'anima sua». Se fossi pittore vorrei ritrarli sulla tela nel momento in cui si stringevano così le mani in un patto d'amicizia : che quadro singolare e inspirante verrebbe fuori! Ma ispirante è pure nella sua laconicità il versetto. Osservate la cooperazione dei due giovani nei suoi effetti e nella sua base.
Gli effetti. Furon grandi. Un’ora nuova suonò nella storia d'Israele da quel momento, per virtù di quella cooperazione. Davide aiutato da Gionatan salì sul trono e tutto il governo — le istituzioni e lo spirito della nazione —- fu trasformato. Oh, sono sempre grandi gli effetti di una sana cooperazione! La mole meravigliosa di S. Pietro è il frutto della cooperazione di Michelangelo che creò la Sistina, di Bramante che innalzò la fabbrica, di Raffaello che dipinse la sala della Segnatura. Giovani, simili fatti di cooperazione aspettiamo da voi. La generazione passata fu divisa, ma voi datevi la mano e cooperate.
La base. Dopo gli effetti della cooperazione la base di essa. Fu l’amicizia, il profondo sentimento d’amicizia che faceva vibrare l’uno e l’altro cuore. Mi piace leggere che ciascun d’essi amò una donna : David Micale e Gionatan una innominata, dalla quale però sappiamo che ebbe un figliuolo, quel Mefiboset di cui dopo la morte del padre prese tenera cura Davide stesso. Ma più che averli trovati amanti, questi due giovani mi piace trovarli capaci di amicizia. E’ stato detto che nel banchetto della vita l’amore è il vino e l’amicizia il pane, perchè si può fare a meno del vino, l'amore, non del pane, l’amicizia. Vi è una grande verità in questo detto. Cercate allora ciò di cui non si può fare a meno. Cercate il pane. Cercate l’amico. Cercatelo più alto che voi nella scala della virtù, e sopratutto ricordatevi che disse bene Cicerone non poter essere l’amicizia che nei buoni (< nisi in bonis amicitia») che tra i malvagi c’è complotto, coalizione, complicità, amicizia no.
V. Ed eccoci all'ultima virtù che voglio notare nei personaggi del nostro testo : la religiosità. Ho detto che alla base della loro cooperazione sta l’amicizia, ma, veramente, se riflettiamo bene alle parole del testo siamo condotti ad una base ancora più profonda. Uscirono fuori alla campagna e Gionatan disse: «Oh signore Iddio d’Israele...» E’ chiaro, quest’appello a Dio, nel cui nome fu stretto e suggellato il patto di cooperazione, prova che la base della cooperazione o la base della base, fu la religiosità, la profonda religiosità onde erano animati l’uno e l’altro. Dico profonda perchè la si ritrova sempre energicamente espressa nei momenti più solenni della loro vita. Quando per esempio Gionatan in compagnia del suo fante sale a sorprendere i Filistei sul monte e il fante gli osserva che non potranno far nulla in due soli, egli risponde : « Niente può
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PER LA CULTURA DELL’ANIMA
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impedire al Signore di salvare con gente assai o con poca» (1). E quando Golia imprende a deridere Davide per la povertà della sua armatura, il figlio d’Isai risponde: «Tu vieni contro a me con ¡spada e con lancia e con ¡scudo, ma io vengo contro a te nel nome del Signore degli eserciti, dell’iddio delle schiere arringate d’Israele il quale tu hai oltraggiato » (2).
Ecco, giovani, che cosa può fare per voi, che cosa deve fare una sana religiosità: accompagnarvi quando siete soli con l’amico e quando vi lanciate in un’opera civile; assistervi nel sentimento e nell’opera, nella vita più intima e nella pubblica; trattenervi e spronarvi, accendervi e placarvi; scendere in voi a proteggervi quando le passioni saccheggiano il vostro sangue e darvi slancio e fiducia nelle ore dell’accidia; rivestirvi di forza e di senno nelle ore delle audacie... Ma voi nutrite dei pregiudizi contro la religione come se fosse roba da idioti la religione in cui hanno creduto Galileo, Hershell, Keplero, Copernico, Newton, Cuvier, Max Muller, Dalton, Pasteur, Roberto Mayer; come se fosse roba da museo, la religione che ispirò Dante e Milton, Haydne e Mendelssohn e ai giorni nostri i Rossetti, i Morelli, i Victor Hugo, i Gladstone, i Wagner, i Tolstoi, i Pascoli; come se fosse roba da anime fiacche la religione che accompagnò Livingstone allo Zambesi e Nansen al Polo, che spiegò le ali sulla prua delle tre caravelle naviganti alla scoperta del nuovo mondo, che fu la ispiratrice di Mazzini sognatore di repubblica e di Bismarck sognatore d'imperi. Avete mai gettato un'occhiata sull’epistolario di questo fiero soldato che vide la Prussia piccola e volle farne un impero, che guidò i prussiani a Parigi e dettò leggi a Versailles... Avete visto quante delle lettere scritte dal campo di battaglia alla moglie, sono disquisizioni religiose, commenti sul Vangelo ? Chi l'avrebbe immaginato anima religiosa il cancelliere di ferro, colui del quale Pascoli potè dire
Egli era il vento, il mondo era il suo mare.....
Gli è che i vostri pregiudizi contro la religione sono falsi ; gli è che voi dovete cessare dall'essere come quei giovanotti saccente! li e increduli ai quali sarcasticamente scriveva il Magalotti... ricordate? — « Voi dormite sino a mezzogiorno, andate in chiesa per vedere il bel mondo; affettate sopra tutto l’irriverenza perchè questa vi pare che rialzi il concetto del vostro spirito, della vostra galanteria, della vostra bravura; e in questo caso solamente, sto per dire, vi rallegrate che vi sia religione al mondo per far gala di non farne caso » dovete, dico, cessare dall’essere giovani di questa fatta — che in realtà nell’ involucro giovanile nascondono un’anima vecchia — e assurgere al tipo di Gionatan e di Davide fecondi di ©porosità, ricchi d'indipendenza e di magnanimità perchè toccati fino in fondo al cuore della fiamma calda e purificante della religiosità.
Mi par di udir passare per l'aria una obiezione: «Troppe cose ci hai Chieste: dovremmo vincere la nostra natura da tutti i lati, e ciò è difficile » . Ma no, io non vi chiedo, o giovani, una cosa difficile, perchè voi, voi giovani, siete i soli che sappiano vincere la natura.
(1)1 Sam. XIV, 6.
(2) 1 Sam. XVII, 45.
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All’assedio di Roma del '49 si presentò a Garibaldi un giovanetto di sedici anni. Sbarbato, pallido, biondo, gracile, timido, sembrava una fanciulla. I compagni motteggiatori gli affibbiarono il nomignolo di « Maria Santissima ». Venne la giornata del 30 aprile. La mischia era imminente. Le truppe schierate attendevano l’ordine del fuoco. Parevano tutti pronti, tutti coraggiosi e frementi del desiderio di battersi. Solo Maria Santissima tremava come una foglia: provava a dominarsi, ma non riusciva ; un tremito convulso lo scuoteva dalle radici ; era pallido come la morte. Passò Garibaldi e vide. Allora fu udita la sua voce gridare: «Ragazzi, portatevi bene come il solito... se qualcuno ha paura — fu notato che dicendo ciò il suo occhio si era fissato su Maria Santissima — si ritiri ». Ma il giovane restò; levò sul generale i suoi occhi dolci di bimba bionda e tacque. Lo videro combattere come un automa, obbedendo agli ordini, regolarmente caricando il fucile, puntando, avanzando impassibile e austero come un vecchio soldato. Il viso bianco e gentile pareva come soffuso d’un pallore mortale; si sarebbe detto ch’egli fosse morto, una creatura d’oltre tomba, venuta dai secoli tramontati... Lo videro correre innanzi, gettarsi nella mischia, atterrare un tamburino francese, passarsi la tracolla del tamburo al collo e marciare avanti ai suoi e battere disperatamente la carica... Un colpo di moschetto gli forò la tracolla in pieno petto e lo uccise. Allora — era caduto sotto i lauri di Villa Corsini — si accostarono ai cadavere per raccoglierlo... Era già rigido e sul suo viso s’era stampata un’ impronta di terrore indicibile. Capite... la natura aveva reagito, il terrore ricacciato in giù a forza di volontà era ritornato su non appena la palla di moschetto aveva spezzata la volontà e la vita... Oh giovani, ricacciate, come costui, in fondo all’anima tutte le debolezze e le viltà e siate grandi, siate eroi... Se esse ritorneranno su appena morti e si diffonderanno sul viso fatto di marmo dalla morte, non vi porteranno vergogna, allora, ma onore perchè i superstiti vi saluteranno due volte eroi se comprenderanno che l'ardimento dell’eroe voi imponeste a una timida natura di Maria Santissima.
Alfredo Taglialatela.
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INTERMEZZO
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LE GUERRE DI RELIGIONE
« Ed io vi aveva detto: — Amatevi gli uni gli altrii »
[Quadro di E. Dcbat-Ponsan, 1899].
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[1913 - III.]
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VOCI E DOCUMENTI
INDIPENDENZA DELLO STATO E LIBERTÀ DELLA CHIESA
Su questo soggetto domenica 25 maggio al Congresso Democratico Costituzionale in Roma il prof. FRANCESCO Scaduto, ordinario di diritto ecclesiastico nell’Università di Roma, ha tenuto un importantissimo discorso, che crediamo opportuno riprodurre qui integralmente, col consenso dell’Autore, certi di fare cosa grata a motti dei nostri lettori.
Gli enti esistenti nello Stato.
1.a logicità dell’ ideale richiede l’applicazione del medesimo a tntta la sfera dell’attività: perciò non solo allo Stato, ma anche agli organismi minori, che vivono entro di esso, e vivano con la figura di persone morali o con quella di associazioni di diritto pubblico o con altra qualsiasi, e siano enti autarchici o siano non autarchici.
Pertanto: il partito democratico costituzionale ha il dovere di esaminare se e quali organismi non siano nè democratici nè costituzionali, e di propugnarne la riforma.
li democratico e costituzionale l’organismo della Chiesa e delle confessioni religiose in genere ?
1.a risposta a questa domanda è semplice ed intuitiva, e perciò non abbisogna di dimostrazione: le confessioni acattoliche oggi generalmente hanno una Costituzione (Statuto) e democratica: solo la Chiesa cattolica non ha costituzione e, molto meno, democrazia : non ha costituzione, perchè il suo capo è doni-maliziato superiore al diritto positivo anche canonico ; non ha democrazia, perchè tale capo è asssohito nel senso più lato della parola, e non ammette governo di popolo neppure nelle sfere inferiori e subordinate.
Dunque dovere del partito democratico costituzionale sarebbe di propugnare la costitu-zionalizzazione e democratizzazione anche della Chiesa cattolica.
Separatismo, incompetenza.
Cave conseqnentiarios. mi sembra di sentir dire: la conseguenza è logica, ma urta con due principi non meno fondamentali di quello della democrazia costituzionale, quelli del separatismo fra Stato e Confessioni religiose e della incompetenza dello Stato in materia religiosa; e perciò cessa di esser logica, perchè il contemperamento dei diversi principi basilari è anche esso materia di logica, anzi la logica delle logiche.
Noi non neghiamo la necessità di contemperare i vari principi fondamentali ; ma neghiamo che l’osservanza della medesima jx>rti ad escludere la conseguenza del dovere del partito democratico costituzionale, cioè neghiamo che essa urti coi detti assiomi, se si intendono come razionalmente vanno intesi.
Separatismo fra Stato e Confessioni religiose non significa parallelismo, e perciò esenzione delle Confessioni religiose dal diritto di tutela, vigilanza e polizia dello Stato ; ma significa limitazione del diritto dello Stato a questa sfera, non estensione al di là della medesima; perciò non esclude la giurisdizione dello Stato, ma semplicemente la restringe nei confini di quella che analogamente esso esercita sulle altre organizzazioni, cioè nei confini del cosidetto diritto comune, diritto comune pubblico si sottintende e non privato.
Ed incompetenza dello Stato in materia re-
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BILYCHNIS
ligiosa non significa neppur essa esclusione della giurisdizione dello Stato e nemmeno ignoranza assoluta dello Stato in proposito; ma significa solo limitazione al lato puramente etico e politico, senza entrare nella parte meramente teologica e non influente sulla morale e sull’ordine pubblico quali oggi sono generalmente concepiti.
Ora: l’organizzazione giuridica di una Confessione è materia appunto giuridica e non teologica: e se mai sia stata dommatizzata, come effettivamente in gran parte io è stata nella Chiesa cattolica, non perciò è divenuta estranea all’ordine pubblico: onde il diritto dello Stato a richiedere la conformità al proprio ordinamento pubblico, ed il dovere dei partiti a spingere lo Stato alla conquista di tale suo diritto, alla osservanza di tale suo dovere, e perciò alla costituzionalizzazione e democratizzazione della Chiesa cattolica.
Indipendenza dello Stato dalla Chiesa.
Che lo Stato, specie italiano, non si sia finora occupato di esigere che la Chiesa cattolica si riorganizzi costituzionalmente e democraticamente come esso e come generalmente le altre persone morali od associazioni, si comprende storicamente e politicamente: ma il fatto storico e la necessità ed opportunità politica, pur essendo elementi degni di alta considerazione, devono essere valutati per quello che sono realmente, e non al di là, cioè non anche come elementi logici, assoluti, quali assiomi.
Pertanto: che lo Stato si sia trovato di fronte al fatto parecchie volte secolare dell’assolutismo antidemocratico della Chiesa cattolica, ed alla necessità od opportunità di subirlo, non si nega; ma si nega che questa condizione di necessità ed opportunità rappresenti diritto razionale e conforme al nostro ordinamento pubblico, si nega che rappresenti diritto della Chiesa cattolica a mantenere il suo organamento assolutistico ed antidemocratico, si nega che lo Stato abbia il dovere di rispettarlo, si afferma che lo Stato ha il diritto ed il dovere di vigilare se e quando ed in quanto sia venuta meno la necessità ed opportunità di non far valere il proprio diritto e dovere
E questo nostro ragionamento non è in semplice ipotesi, ma è anche in fatto. Noi ammettiamo : che storicamente e politicamente l’Italia ha fatto bene a non imbarcarsi nella costituzionalizzazione e democratizzazione della Chiesa cattolica, perchè non ne avrebbe avuto
la forza: forza ne ha avuto appena tanta da superare a stento e dopo lunghi anni battaglie meno ardue e per essa più interessanti, l’abolizione del Potere Temporale, la soppressione degli enti regolari, la soppressione di alcune categorie di quelli secolari, la conversione dei beni stabili degli enti ecclesiastici conservati in rendita Sul Gran libro del debito pubblico, la trasformazione delle opere pie, ecc. ; battaglie di natura eminentemente politica o poi it ico-econon; ica.
Il vecchio giurisdizionalismo, del sec. xvm, aveva mirato anzitutto ad affermare la propria emancipazione dalla Chiesa sino ad affermare anzi la propria autorità sulla medesima. La nuova Italia, sanzionando tale emancipazione, si è inoltrata, affermando e conseguendo il suo diritto all’unificazione e perciò all’abolizione del Potere temporale,.ed alia riduzione dell’organico della Chiesa (soppressione di enti), ècc. Ma, sebbene così avanzandosi sia in certo modo passata dalla sfera dell’indipendenza a quella dell’esplicazione del proprio diritto sull’ordinamento giuridico della Chiesa, nondimeno la stessa nuova Italia è rimasta piuttosto nell’orbita della semplice emancipazione, nel senso che, allorché ed in quanto ne è uscita, lo ha fatto unicamente e stretta-mente nell’interesse statuale (sia pure svariato, politico, economico, sociale) più che nell’interesse pubblico vero e proprio, considerando siffatto quello di tutte le classi sociali, non esclusa quella dei membri di Confessioni religiose, e della cattolica in ¡specie.
Ordinamento giuridico della Chiesa.
Che l’Italia abbia applicato il separatismo e l’incompetentismo completamente, non è vero: non solo in quanto mantiene qualche istituto contraddittorio a tali principi, ma anche in quanto ha positivamente legiferato in senso contrario.
È un’illusione che l’Italia non abbia voluto toccare e non abbia toccato l’organismo della Chiesa per omaggio al separatismo e all’ incom-petentismo. L’Italia è andata per la sua strada, senza preoccuparsi,© senza preoccuparsi troppo, di intersecare così quella della Chiesa. Con le leggi soppressive ha conservato gli enti necessari pel governo della Chiesa: ma quali siano necessari e quali non, lo ha giudicato essa stessa, non lo ha fatto dipendere dalla Chiesa; e lo ha giudicato quasi sempre contrariamente alla dottrina della Chiesa, dottrina anche teologizzata e canonizzata. Il celibato e la verginità, che ecclesiasticamente rappre-
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sentano la perfezione, italianamente sono contro natura; onde soppressione delle corporazioni religiose, abolizione dell’impedimento di ordine e di voto monastico pel matrimonio. Le opere pie secondo i canoni dovrebbero stare sotto la tutela e vigilanza ecclesiastica, ed esclusivamente ecclesiastica: ma lo Stato le ha messe sotto la sua tutela e vigilanza escludendo viceversa quella ecclesiastica. Lo stesso per le scuole. 11 potere temporale era ed è dichiarato necessario pel governo della Chiesa, nel Concilio vaticano 1869-70 si era perfino preparata la proposta di dommatiz-zarlo; ma l’Italia l’ha abolito lo stesso, ecc. ecc.
La costituzione attuale della Chiesa non rappresenta, dunque, per l’Italia, arca santa, intangibile ; si tocca anche quella se e quando se ne riconosca la necessità od opportunità: la costituzionalizzazione e democratizzazione non rappresenterebbero, dunque, nè incoerenza nè innovazione del sistema di diritto pubblico ecclesiastico italiano.
Indipendènza dello Stato e libertà della Chiesa.
Questa formula sembra sinonima dell’altra separatismo ed incompetenza ; ma non lo è, sènza che del resto sia antitetica.
Ancora. Indipendenza dello Stato e libertà della Chiesa possono apparire termini correlativi, cioè: indipendenza dello Stato dalla Chiesa, e viceversa della Chiesa dallo Stato, e perciò libertà della Chiesa.
Ma questo significato, senza che vada escluso, non è che l’indice di un concetto, indice che abbisogna di esplicazione, perchè è rimasto in genere come esponente di cui la radice non è stata ricercata con la luce del diritto pubblico, radice che perciò generalmente è fraintesa.
Che cosa significa libertà della Chiesa? La risposta ovvia sarebbe: indipendenza di essa dallo Stato. Ma indipendenza e libertà sono due termini non assolutamente comprensivi l’uno dell’altro, non necessariamente correlativi: uno Stato (un’organizzazione di altro genere) può essere indipendente senza essere perciò libero; viceversa, può essere libero senza essere perciò indipendente: l’indipendenza o dipendenza è rapporto esterno di una organizzazione rispetto ad un’altra: la libertà è rapporto interno di una stessa organizzazione, cioè dei membri, col governo della medesima.
Ora: l’Italia ha conquistato la propria indipendenza dalla Chiesa; non ha invaso l’in
dipendenza della medesima nei limiti di sua spettanza (tutela, vigilanza, polizia) ossia, come si direbbe col linguaggio comune ma informe ed inesatto, ha concesso o riconosciuto libertà alla Chiesa; ma è proprio vero, che abbia concesso e riconosciuto anzi che abbia garantito libertà alla Chiesa?
. La risposta dipende dal concetto di Chiesa. Se Chiesa è organizzazione di credenti in una determinata specie di sovrannaturale, se tale in sostanza si concepisce anche cattolicamente (socieias fideiium), se Chiesa presuppone popolo di fedeli come Stato presuppone popolo di cittadini, se perciò Chiesa non è sinonimo di gerarchia come Stato non è sinonimo di corpo di funzionari; allora, l’Italia, come generalmente gli altri Stati, ha tutt’altro che assicurato la libertà della Chiesa: ha assicurato altro, l’indipendenza della Chiesa, o meglio l’indipendenza del governo della Chiesa da quello dello Stato; ma non ha assicurato la libertà della Chiesa ossia del popolo dei fedeli ; anzi, effettivamente, non solo non la garantisce, ma collabora a violarla, dando, come si direbbe in linguaggio di altri tempi, il braccio secolare per l’esecuzione delle disposizioni dell’autorità ecclesiastica violatrici della libertà della Chiesa : lo Stato garantisce non la libertà della Chiesa, ossia dei cittadini di questa specie di Stato non terreno, ma la tirannide delia gerarchia ossia del governo della medesima.
La laicità dello Stato è oggi generalmente considerata come la quintessenza del liberalismo, in quanto rappresenti da una parte la emancipazione dello Stato dalla Chiesa, e dall’altra l’eguaglianza ed il rispetto di tutte le confessioni.
Ma nella interpretazione della generalità è una formula relativamente negativa; giacché non contiene costituzionalizzazione e democratizzazione della Chiesa medesima.
Libertà della Chiesa e libertà di coscienza.
Ancora. Libertà della Chiesa: questo è il vero problema, alla cui soluzione non si provvede, neppure si pensa.
Libertà di coscienza : rappresenta non più un problema, ma una conquista : qualche avanzo del passato (esempio: insegnamento religioso nelle scuole elementari) è relativamente trascurabile.
Pei cittadini esiste una costituzione a base democratica, le garanzie costituzionali hanno la loro esplicazione nei codici e nelle leggi
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speciali; tutti sono sottoposti alla legge, e devono rispettarla, compreso il capo dello Stato.
Pei fedeli e per gli ecclesiastici, nulla di tutto questo; non costituzione, molto meno democrazia, non soggezione del capo della Chiesa alle stesse leggi o canoni da lui pubblicati, ma superiorità del medesimo sul diritto positivo canonico, ecc.
Nè limitazione di tale assolutismo ed arbitrio alla materia puramente spirituale, nè ai soli ecclesiastici : scomunica per chi adisca i tribunali delio Stato invece che il foro ecclesiastico, scomunica recentemente rinnovata, con scandalo e proteste anche diplomatiche all’estero, con indifferenza in Itatia.
Per gli ecclesiastici in ¡specie, peggio: sospensione a divinis, cioè inabilitazione a recitare la messa e perciò inabilitazione al lavoro, ex informata conscienlia, cioè dietro semplici informazioni particolari, senza alcuna garanzia di procedimento : rimozione, cioè destituzione, anche dei parroci, fulcro della cura delle anime e della funzione veramente religiosa della Chiesa, con una semplice larva di procedimento, senza le garanzie procedurali, analoghe a quelle di diritto comune, che essi avevano regolarmente goduto sino a pochi anni fa, innovazione radicale innanzi a cui l’Italia è rimasta impassibile: destituzione anche dei grandi vassalli, i vescovi, sempre senza giudizio.
I fulmini un tempo erano lanciati contro ecclesiastici, che avessero avuto il torto di mostrarsi patrioti. Oggi questa specie è scomparsa nella scala zoologica italiana, è scomparsa per merito dell’Italia stessa che, in preteso omaggio alla libertà, l’ha abbandonata al suo destino di essere divorata dal più forte. Ma i fulmini si lanciano ancora o si minacciano, non più contro la specie scomparsa, ma contro un’altra, quella che, indipendentemente dal liberalismo, osi non ubbidire agli ordini del Vaticano a favore di un candidato, sopratutto politico, e contro un altro. — Reato elettorale ! — Si ; però il Papa è inviolabile; per i subalterni i Tribunali hanno politica-mente sentenziato che tale fatto non rappresenti materia di reato.
Gran parte del nostro diritto pubblico ecclesiastico, così come viene generalmente interpretato ed applicato, non è che un’ipocrisia, lesiva della libertà degli ecclesiastici. Lo Stato riconosce la validità del loro matrimonio ; ma se sposano, li priva del beneficio {alias li destituisce) a titolo di inabili al lavoro. Lo Stato proclama la libertà di suffragio; ma, se un ecclesiastico viene, per l’uso della medesima,
destituito dalla Chiesa, lo Stato dà esecuzione sempre a titolo di sopravvenuta inabilitazione al lavoro. I Tribunali riconoscono la propria competenza a giudicare dell’espulsione dei membri di una associamone e di altri rapporti giuridici fra gli uni e l’altra; ma per l’associazione ecclesiastica, specie monastica, la negano, e, quando più tardi finalmente la ammettono, la limitano all’osservanza dèlia procedura, come se si trattasse di delibazione di sentenza di Stato straniero, e ritengono che questa stessa procedura canonica, sebbene povera di garanzie, basti che sia stata osservata per semplici equipollenti. E via, e via.
Insomma la bandiera della cosi detta libertà della Chiesa non serve che a coprire la merce della servitù degli ecclesiastici, secolari e regolari.
Interesse dello Stato alla libertà della Chiesa.
Che ce ne preme? obbietteranno non pochi. Se la Chiesa non ha costituzione, se il suo Governo non è democratico, se i membri di questa associazione sono spadroneggiati da una oligarchia, anzi dà un capo assoluto, questo è affare loro, ed esclusivamente loro: noi, Stato, non vogliamo impicciarcene ; se in questa associazione si sta male, perchè ci sono entrati ? e se vogliono uscirne, chi li impedisce? se ci restano, nonostante che si lamentino di starci male, peggio per loro.
Questo modo di ragionare, se mai, sarebbe applicabile solo ad una parte dei componenti l’associazione, cioè ai laici e non anche agli ecclesiastici.
Nè si replichi, che gli ecclesiastici, pure essendo membri dell’associazione, sono anche componenti della gerarchia e perciò dell’elemento dominante e tirannizzante. Poiché il vero e proprio Governo {poteslas iurisdiclionis) risiede non in tutto il clero, ma solo nell’alto clero; il clero viene distinto precisamente in alto e basso, come la società medioevale veniva divisa in feudatari e vassalli : il così detto basso clero, nonostante eserciti la cura delle anime, ossia la parte sostanziale del ministero religioso, nè legalmente nè di fatto è messo a parte del Governo della Chiesa. Sicché esso è tiranneggiato, come il laicato, non meno del laicato, anzi infinitamente più del medesimo.
La surriferita obbiezione sarebbe, se mai, applicabile al laicato, e non al clero. I laici, se vogliono, possono, generalmente senza danno, specie se non facciano rumore, uscire
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dal grembo della Chiesa. Ma per gli ecclesiastici non è 10 stesso : tutt’ altro ! Per essi l’uscita dalla Chiesa significa una specie di morte civile: l’applicazione di questa espressione sembrerà paradossale, ma corrisponde alia realtà.
Il cosi detto prete spretato è guardato generalmente dalla società come un appestato, anche dai laici, spesso magari dai razionalisti che così quasi sembrano incoscientemente sentire il peso della scomunica lanciata a quegli infelici. E questo ambiente morale non lusinghiero si traduce in danno materiale : anche i privati, magari liberi pensatori, si guardano dall’adibire per un lavoro qualsiasi un prete spretato, anche quando siano superiori al pregiudizio volgare, per non sfidarlo ed evitare così i mille impicci che da tale sfida deriverebbero.
Ma, soggiungerà qualcuno, resta sempre il campo dell’attività pubblica, statuale, provinciale, comunale, ecc. : qui non regnano pre-Siudizi, qui l’adito è aperto, qui tutti i cittaini sono uguali.
Sì ; tutti gli uccelli sono uguali innanzi all’aria, tutti possono volare ; ma purché le ali le possiedano ancora, ossia a loro non siano state tagliate. Gli ecclesiastici sono stati ordinati generalmente senza laurea universitaria e nemmeno licenza liceale; sicché, spretandosi, mancano di possibilità di addirsi ad una professione o ad un impiego pubblico. Ed è strano, che il progetto di richiedere la licenza liceale per l’ammissione nel Seminario sia stato combattuto in nome della libertà, sempre per il preconcetto che libertà sia quella del Governo e del Governo soltanto, non anche quella del populus fidclìum, cioè che libertà sia indipendenza e possa tradursi in tirannide.
Ma, si aggiungerà da taluno, questo ad ogni modo sarebbe interesse della classe degli ecclesiastici, non un interesse sociale, di cui debba occuparsi lo Stato.
La proposizione non sarebbe esatta, anzitutto essa sarebbe ispirata al vecchio concetto teologico, dello Stato terreno, di fronte allo Stato celeste, dello Stato con la cura degli interessi puramente materiali di fronte alla Chiesa esclusiva curatrice e competente della morale, dello Stato carabiniere di fronte alla Chiesa etica.
Ma, a parte ciò, guardando la questione dal lato strettamente politico, sarebbe poi proprio vero, che lo Stato non vi abbia alcun interesse? Dai profani si concepisce il corpo degli ecclesiastici come compatto quale un sol uomo, e tutto contrario all’Italia ed allo Stato in genere. Ma ciò non è esatto : il prete,
per quanto prete, è sempre uomo ; per quanto asservito al Vaticano, è sempre cittadino dello Stato ; per quanto curialista, conserva sempre un fondo di sentimento patriottico. Questo oggi, è vero, generalmente, non si manifesta e molto meno si espande. Ma di chi la colpa? Proprio delio Stato, il quale resta indifferente innanzi al crescente asservimento, e così impedisce il ravvicinamento del clero alla patria.
Nè si obbietti, che il clero resterebbe sempre quello che è, e che sia nemico nato ed irreconciliabile delle istituzioni. Questo assunto sarebbe basato sulla confusione tra gerarchia e clero, ed è smentito dalla storia anche non lontana. Si ricordi che mezzo secolo addietro circa, nel 1860, più che 9000 preti italiani osarono firmare la petizione per la cessazione del Potere Temporale della Chiesa e così per l’unificazione dell'Italia, sfidando i fulmini del Vaticano.
Quanti mai oserebbero oggi di sottoscrivere una petizione più blanda, che invitasse il Papa a rinunziare alla pretesa di restaurazione del Potere Temporale? e perchè la differenza? Perchè intanto il Vaticano, specie coi Concilio ecumenico del 1869-70, ha proclamato ed attuato l’assolutismo più illimitato, mettendo tutto il clero alto, e specie basso, alla sua mercè, disarmandolo di qualsiasi garanzia, mentre, d’altra parte, l’Italia non solo non ha protestato, ma di fatto, ha prestato braccio forte al Vaticano per l’esecuzione del suo galoppante assolutismo. Volete che gli illuminati e sinceri fra gli ecclesiastici si espongano al martello del Vaticano, quando lo Stato, invece di pararne i colpi, appresta l’incudine?
E qual è il risultato ultimo ?— Il Papa oggi, senza il Potere Temporale, è certo più potente di prima ; domina nella Camera, pur tenendo un esiguo numero di deputati e pure sconfessandoli della qualità di suoi portavoce : domina nella Camera non pel detto trascurabile numero di rappresentanti del Vaticano più che della Nazione, ma domina per mezzo della maggioranza degli altri, che, pur non dichiarandosi del così detto partito cattolico, non osano affrontare le quistioni scabrose, perchè temono che saranno poi combattuti nelle elezioni : la Camera è in mano del Vaticano assai più di quanto non apparisce : ed è strana questa situazione di deputati uscenti e di candidati nuovi, che hanno più paura di esprimere liberamente il loro pensiero in materia di politica ecclesiastica anziché in qualsiasi altra.
Heu! quanlum mutalus ab ìlio ! Sino a pochi anni addietro i candidati battevano la gran cassa dèli’anticlericalismo. Oggi quella della apolitica ecclesiastica; e taluni addirittura quella
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della inopportunità di riforme civili combattute dalla Chiesa, o magari fanno la dichiarazione positiva, orale o addirittura scritta, che non le voteranno mai : e fra costoro non mancano vecchi parlamentari, che preferiscono ripiegare la bandiera anziché perdere il collegio.
La politica spicciola, del giorno per giorno, dei ripieghi e delle transazioni, può restare indifferente e magari secondare ed approfittare del l’avanzarsi di questa valanga : après moi le déluge. Ma la politica vera, sincera, patriottica e non individuale, non si nasconde che ci avviamo al precipizio, che il disinteresse da certi problemi è ostentazione interessata e meschina e non convincimento, che il problema dellaìibertà della Chiesa, intendendosi per Chiesa non la semplice gerarchia ma il popolo dei fedeli e degli ecclesiastici, non è un problema semplicemente interno della Chiesa, di fronte al quale convenga allo Stato di rimanere semplice spettatore.
Importanza della classe degli ecclesiastici.
A parte la ragione etica e quella politica, ne sussiste ancora un’altra perchè lo Stato debba prendere a cuore la questione della vera libertà della Chiesa. Oggi ogni classe sociale reclama non solo il proprio miglioramento economico, ma anche la libertà e la garanzia dei proprii diritti. Per gii impiegati statuali si è fatta la legge sul così detto stato giuridico ; anche per quelli non statuali e magari per i provinciali e comunali, si pubblicano e si progettano leggi. E perchè mai solo gli ecclesiastici dovrebbero essere privi di libertà e di garenzie? Perchè mai essi soli dovrebbero restare nella condizione di servi della gleba di fronte al feudatario? Non sono a neh’essi cittadini dello Stato? Non costituiscono anche essi una classe sociale?
Ma, obbietterà qualcuno, essi, diversamente dalle altre classi sociali, non si agitano, anzi addirittura non si muovono, dunque sono contenti, echi si contenta gode: voletedare libertà e garenzie agli ecclesiastici loro malgrado?
Ma è proprio vero, che non si muovono perchè sono contenti? Non si muovono nonostante che non siano contenti, non si muovono nonostante che spesso subiscano gli arbitrii, non si muovono perchè sanno che sarebbe inutile, anzi dannoso, in quanto l’autorità ecclesiastica superiore li colpirebbe immediatamente con le facili e pericolose armi della sospensione a divinis e della destituzione; non si muovono, ma mordono il freno. Così
la grande maggioranza: del resto non mancano quelli che lo spezzano, o che, senza arrivare a tanto, osano reclamare e protestare.
Nè si dica che, alla fin fine, la società sia combinata così, che per le classi che non sappiano organizzarsi e reclamare,' non si provvede, e che perciò quella degli ecclesiastici non abbia moralmente diritto a che le si faccia giustizia. La giustizia va fatta da per se stessa, non per le agitazioni ; deve essere ex sese, non giustizia di piazza.
Questo principio andrebbe applicato più rigorosamente nella specie, perchè si tratta di una classe singolare, singolare perchè non ha agevolezza di ribellarsi, uguale alle altre, anzi non ne possiede affatto. Gli schiavi, coalizzandosi e tentando di conquistare con le armi la libertà, non avevano nulla da perdere ; se sconfitti, non potevano scendere ad una condizione peggiore di quella in cui si trovavano. I ferrovieri, i postelegrafici, ecc., al massimo, corrono il pericolo di perdere l’impiego (quando pure lo perdono), ma conservano sempre la possibilità di trovarne un altro, quantunque menosicuroe meno lucroso, presso un’altra amministrazione, pubblica o privata. Còme per j troverebbe da vivere la classe dei preti, se sospesa a divinis, o destituita o, peggio ancora, scomunicata? Quali amministrazioni pubbliche o private, o quali fedeli offrirebbero loro lavoro e perciò mezzi per vivere ? E quale specie di lavoro offrirebbero ? Lavoro professionale civile, no, perchè, siccome notammo, i preti generalmente mancano dei necessari! requisiti accademici civili : lavoro di indole ecclesiastica, no, perchè, per effetto delle censure, non avrebbero più il diritto di officiare, cioè sarebbero diventati inabili al lavoro di indole ecclesiastica. Purtroppo non resterebbe loro che la carità, carità non dei fedeli, ma degli infedeli ; ma neppur questa riceverebbero, come effettivamente non la hanno goduta e non la godono quelli che sono caduti in disgrazia delia Chiesa: essi diventano invisi a Cristo, e, stante il pregiudizio, anche ai nemici suoi.
Come dunque potete pretendere che prendano l’iniziativa per far valere, magari con la ribellione, i loro diritti? In coscienza, dobbiamo anzi consigliarli a rassegnarsi, a sottomettersi ; dobbiamo essere noi, che personalmente abbiamo nulla o poco da temere, dobbiamo essere noi a prendere la iniziativa, od almeno a porgere la mano per aiutarli ad alzarsi.
La classe degli ecclesiastici merita considerazione anche pel numero, il quale è tutt’altro che trascurabile, anche oggi.
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INDIPENDENZA DELLO STATO E LIBERTÀ DELLA CHIESA
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Nelle Due Sicilie era stato per legge limitato a non più dell’uno per cento della popolazione : sicché, con una tale norma, oggi gli ecclesiastici per tutta l’Italia non potrebbero essere più di 350.000 ; e sarebbero già un esercito: aggiungendo altrettanti monaci e frati, ed altrettante monache, si avrebbe la cifra di 1.050.000, cioè di un esercito formidabilissimo.
Ma, anche con le cifre moderne, divenute assai più modeste per forza di eventi senza coazione di legge, si ha sempre una delle classi sociali più numerose, oltreché più importanti per altre ragioni.
La riforma da noi propugnata non significa persecuzione della Chiesa ; tutt’altro ; noi vogliamo darle la libertà, libertà vera, nell’interesse suo stesso oltreché nel nostro, non per creare imbarazzi alla gerarchia.
Aggiungiamo: noi siamo affatto alieni da intenti di persecuzione, anzi propugniamo non solo la libertà della Chiesa, ma anche il miglioramento economico dei suoi ministri, specie di quelli così detti bassi. Le 900 lire, cifra alla quale è Stato aumentato il minimo di congrua parrocchiale garentitodal Fondo culto, sono insufficienti ancora: un parroco razionalmente non dovrebbe avere una posizione econòmica inferióre a que'la di un professionista (avvocato, medico, ingegnere, ecc.) : o si riduca il numero delle parrocchie, o si riduca il numero dei canonicati e benefici! cattedrali, o si riduca il numero dei capitoli, dei seminarii e dei vescovati, o si escogiti un altro mezzo qualsiasi ; ma si ripari allo sconcio che il curatore delle anime debba spesso, più che curarsi delle anime, preoccuparsi del problema di sbarcare il lunario.
Libertà delle confessioni religiose.
Abbiamo parlato di libertà della Chiesa, non delle confessioni religiose. Appositamente. Infatti le chiese cristiane acattolico, e le confessioni non cristiane (esempio : israelitica), la libertà oggi la hanno generalmente raggiunta ; esse tengono una costituzione e, più o meno largamente, democratica ; e nessuna pretesa accampano contro le istituzioni dello Stato, e nessuna guerra, più o meno sorda, gli muovono.
Ma non vi accorgete, che co! vostro sistema provochereste la più terribile delle rivoluzioni ? Cosi osserverà qualcuno.
Spieghiamoci.
La scienza deve cercare quale sia il diritto razionale. La scienza non si esaurisce nell'in
terpretazione del diritto vigente, questa sarebbe pura meccanica, roba da legulei, specie nelle materie giuridiche a base eminentemente politica, e perciò in continua evoluzione, e che non hanno ancora ricevuto il loro assetto definitivo, specie in diritto positivo. La scienza deve indagare le soluzioni adottate da altri paesi, deve esaminare quella che è logica.
Se nell’attuazione della forinola razionale si debba procedere di un tratto, o passo passo, se l’adattamento graduale debba essere diverso secondo tempi e luoghi, questa è un’altra questione. E noi, mentre affermiamo la necessità di studiare la soluzione razionale, in sé stessa, indipendente dalle contingenze, d’altra parte non neghiamo, anzi affermiamo, che l’attuazione debba essere graduale e variabile.
Affermiamo che la scienza deve mirare ai razionale, e non fermarsi all’empirismo; affermiamo che l’uomo politico deve conoscere a quale meta vuole arrivare : che, poi, per arrivarci debba seguire la via diritta e più breve, o, per evitare scogli, debba piegare e girare, questa non è più scienza ma politica. E la scienza non pretende l’attuazione immediata, nè pretende invadere il campo della pclitica. Ma viceversa la politica, la vera politica, deve conoscere e tenere presente la mira ultima come guida; altrimenti non è vera politica, ma mezzuccio di interesse quotidiano.
Del resto, è proprio vero che la costituzio-nalizzazione e democratizzazione della Chiesa susciterebbe una rivoluzione e rivoluzione pericolosissima ?
La Chiesa Luterana non nacque, ma divenne costituzionale e democratica, e senza scosse sismiche, per evoluzione propria, senza iniziativa, diretta o indirètta, dello Stato.
La Chiesa cattolica in Francia oggi è stata costituzionalizzata, indirettamente, per opera dello Stato, che ha sostituito alla ricognizione della personalità morale degli enti gerarchicamente dipendenti dalla S. Sede, la ricognizione della personalità morale delle associazioni cultuali ossia del populus fidelium. La gerarchia, sì, ha protestato, ha provocato anche resistenza a mano armata, ha di fatto impedito che si costituiscano le associazioni cultuali. Ma lo Stato ha domato le ribellioni isolate e spavalde, ha mantenuto fermo il principio, ha risposto al Vaticano devolvendo ad altri fini i beni che le costituende associazioni cultuali non hanno voluto e potuto accettare : il Vaticano finirà col l’adattarsi, come ha già fatto per l’introduzione del divorzio presso la figlia primogenita della Chiesa.
Ed in Italia i clamori e le resistenze contro le leggi pel matrimonio civile, per la soppres-
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sione degli enti regolari e di enti secolari, li abbiamo dimenticati ? E che queste leggi toccano l’ordinamento interno della Chiesa cattolica, non lo abbiamo rilevato?
Il ragionamento dei vaticanisti è : la Chiesa tiene la sua organizzazione ; questa, anche per rispetto al separatismo, all’incompetentismo, alla libertà, non può essere toccata dallo Stato, lo Stato perciò non può con le sue leggi urtare contro tale organizzazione, le leggi deve adattarle alla medesima.
Lo Stato risponde: l’organizzazione prima è la mia ; non sono io che mi devo adattare a voi, siete voi che vi dovete adattare a me, a me che del resto voglio solo la conformità di tutte le istituzioni a quella mia basilare, e l’uguaglianza delle medesime, delle confessioni religiose, non l’arbitrio e la persecuzione.
E la Chiesa mano mano finisce col rassegnarsi, purché trovi che non abbia forza per resistere. Essa stessa oggi, almeno in corde, riconosce l’impossibilità di ripristinare il matrimonio esclusivamente religioso, le corpo-razioni religiose, il potere temporale, ecc., mentre prima aveva minacciato i! finimondo.
Conclusione.
Il settenio 1860-67 rappresenta un periodo ardimentosissimo e glorioso nella politica generale italiana, ed in quella ecclesiastica in ispecie. La breccia di Porta Pia è un'altra tappa non meno ardimentosa e d’importanza mondiale. Ancora un’altra, meno rumorosa, è la legge 1890 con la trasformazione delle Opere pie. Negli ultimi ventitré anni nessun nuovo passo di tale importanza si è più fatto, anzi in qualche momento la bandiera si è un po’ ripiegata. Ma il sentimento liberale, liberale nell’oramai antico e classico senso della parola, di unificazione della patria con Roma Intangibile, di semplificazione della carcassa burocratica della Chiesa con la soppressione delle piante parassite, di libertà per tutti, compreso il basso clero di fronte alla gerarchia feudale ed assoluta, quel basso clero che un tempo osava benedire all’Italia ed accom
pagnare Garibaldi nella leggendaria spedizione dei Mille, questo sentimento liberale resta sempre nel profondo del cuore italiano, e scoppia sincero e fragoroso allorché, come in una recente occasione, viene opportunamente rievocato.
La storia del nostro passato di politica ecclesiastica fino a circa un quarto di secolo addietro é veramente gloriosa: scriverla, tributare omaggio agli attori, è doveroso. Ma, assolto questo compito, bisogna proseguire, non dormire sugli allori. Sempre avanti Savoia !
O vi piace o vi dispiace, io vi dò la libertà. Così inaugurava Luigi Luzzatti la sua conferenza snlle relazioni fra Stato e Chiesa. Lo Stato ha il dovere di dare la libertà, anche a quelli che non la domandano, anche a quelli che non la vogliono. Lo Stato ha il dovere di dare la libertà agli schiavi, anche se essi non la apprezzino, non la chiedano, e credano di star meglio sotto i padroni. Lo Stato ha il dovere di dare alia Chiesa la libertà. Ma libertà della Chiesa non significa solo emancipazione dello Stato e separatismo, significa pure libertà del popolo, dei fedeli e del basso clero, e questa libertà non è ancora stata data dall’Italia. O piaccia o non piaccia, non già al popolo dei fedeli e degli ecclesiastici ma al Vaticano, l’Italia questa libertà ha il dovere di darla. Tale diritto dell’ uomo ancora non è stato ottenuto, anzi neppure affermato. O piaccia o dispiaccia, l’Italia adempia al suo dovere: sempre avanti Savoia!
* * «
Un lungo, caloroso applauso saluta il professor Scaduto al finire del suo discorso.
Segue un’animata discussione che termina con l’approvazione ad unanimità del seguente ordine del giorno presentato dai prof. Scaduto :
« Il Congresso, considerando che i problemi arditamente risoluti dalla legislazione ecclesiastica italiana, furono solo i più urgenti, delibera di completare con programma democratico costituzionale la laicità dello Stato e la libertà delle confessioni religiose».
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OT&XffiMMENTI
La fede di Arturo Graf.
Nato ad Atene il 9 gennaio 1848 è spirato serenamente in Torino la mattina del 30 maggio scorso.
Bilychnis commemorerà degnamente l’illustre letterato pubblicando nei prossimi fascicoli uno studio accurato e sincero del professore Giuseppe Lesca sulla sua opera poetica. Oggi desideriamo che i nostri lettori sentano di nuovo la voce della bell’anima sua cosi desiosa di vita superiore, e spigoliamo per loro alcuni pensieri dalla sua bella professione di fede pubblicata nel 1905 (1).
* * *
C’è chi l’ha [la fede], sotto una o altra forma di religione rivelata, e se ne contenta. C’è chi non l’ha, e non ne sente bisogno ; anzi la stima dannosa e impossibile. C’è chi non l’ha, e sente che gli manca e, come cosa necessaria la cerca e la vuole.
Di questi ultimi fui io medesimo.
Se ho da vivere, bisogna che io abbia ciò che mi occorre per vivere. Ora, tutto ciò che la natura può darmi e mi dà ; tutto ciò che la scienza, l’arte, l’industria mi possono dare e mi danno, non mi basta. Qualcuno dirà che molti, moltissimi anzi, se ne contentano. Buon prò lor faccia. Qualcuno dirà che sono insaziabile, Non lo nego. Il fatto è che io mi
(1) Vedi Nuova Antologia de! i* giugno, pagg. 383-405.
sento soffocare, non dico, che troppo s’intende, in quest’afa d’interessi minuti, gretti, transitorii che d’ogni parte m’avvolge, ma nel finito, qual eh’esso sia, per quanto dilatato in lunghezza, larghezza e profondità, comunque solennizzato d’imperialismo. Per poter respirare a mio agio io ho bisogno dell’infinito, e ho bisogno di mettermi con l’infinito in un certo rapporto morale.
La vita non è per me di nessun valore, se non posso riattaccarla a qualcosa che abbia infinito e assoluto valore.
« ♦
Per religione intendo il riconoscimento di una intelligenza soprastante al mondo e operante nel mondo; il riconoscimento di una legge morale in cui quella intelligenza più particolarmente si manifesta e si esprime, e I? disposizione dell’animo nostro a conformarsi a quella legge. Non posso qui discutere i termini di questa definizione, nè confrontare questa con altre definizioni. Solo soggiungerò che se mai potè meritare in passato, ora più non meriterebbe d’essere detta religione quella che non conferisse pace e serenità allo spirito e non fosse in grado di guidare l’azione.
Di che religione ho io bisogno ? Di una religione che non neghi nè la vita, nè la civiltà, nè la scienza; che s’accordi con l’esperienza e con la ragione, e sia sempre aperta a ricevere ciò che via via possa convenire di farvi entrare.
Io non posso aver religione se non quanto abbia vita. Se nego la vita, nego ogni operosità e ogni rapporto nascente da essa, e nego per conseguenza anche la religione.
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Io ho bisogno di una religione non già che neghi la civiltà, ma che la civiltà tuteli, regoli e guidi.
Non c’è tra religione e scienza quell’antagonismo che fu immaginato da chi non aveva giusto concetto nè della scienza, nè della religione. La scienza parla di fatti ; la religione parla di valori. Tutto ciò che si può, o si potrà, quando che sia, mettere in forinole matematiche, appartiene alla scienza; tutto ciò che non si può, nè mai si potrà, mettere in forinole matematiche, appartiene alla religione e alla filosofia. La religione dev’essere sopra la scienza, non contro la scienza; e l’una non ha in nessun modo da temere dell’altra, finché ciascuna si riman nel suo regno, e non presume di usurpare l’altrui. La religione che voglia contrastare alla scienza il diritto di accertare i fatti è odiosa ; la scienza che voglia negare alla religione il diritto di esistere è ridicola. Una religione sicura di sè deve aver cara la scienza, dacché la scienza le può in più modi giovare.
Qualcuno potrebbe sentirsi tratto a ricordare che la scienza trionfante fu quella che nei secolo scorso richiamò in vita e mantenne lungamente in onore il materialismo, e potrebbe dedurne che dalla scienza bisogna guardarsi. Il ricordo sarebbe certo conforme a verità. Quel materialismo è veramente la maggiore vergogna del passato secolo, come fu la sua maggiore calamità. Noi ora non sap-piam più intendere come una così crassa e incoerente dottrina, che rivela in ogni sua parte una stupefacente insufficienza mentale e l’assoluta incapacità di pur proporsi i problemi che presume risolvere, potesse usurpare titolo di filosofica, e diffondersi come un'epidemia alia quale non sia possibile contrastare.
Gli scenziati sono ora agnostici, parallelisti, monisti, pluralisti, magari idealisti o anche spiritisti ; materialisti non più. Quel tanto di materialismo che, refrattario a ogni critica, rimane ancora, bisogna cercarlo altrove, tra certi institutor! degli umili, tra certi redentori degli oppressi e riformatori degli umani consorzi!. Non so se costoro hanno mai riflettuto quanto sia poco probabile che quel materialismo che travolse nell’abiezione la borghesia possa servire a innalzare il proletariato ; ma certo fanno una figura assai comica quando parlano della dignità della umana persona, e delia inviolabilità della umana persona, dopo aver tacitamente riconosciuto, e fors’anche predicato, o almeno lasciato intendere, che ¡’uomo non è se non un miserabile vertebrato, una concrezione momentanea di materia putrescibile, uno zimbello di tutte le forza della
natura, e che anzi, ultima e inevitabile conseguenza, la persona umana non c’è. I filosofi materialisti furono tutti, o con solo qualche assai rara eccezioce, intelligenze di secondo e terz’ordine. L’intelligenza superiore sente troppo se stessa, e però si rifiuta al materialismo, instintivamente, invincibilmente.
La religione deve aver sede e nel cuore e nella testa. Nulla è che tanto noccia alla religiosità quanto un domina che alla ragione ripugni ; e se tanti vivono ai nostri giorni senza religione alcuna, e senza speranza di potersela procacciare, gli è solo perch’ei non credono di poter conciliare la fede con la ragione.
La religione che faccia per me dev’essere una religione aperta, libera, mobile, senza donimi immutabili, senza ingombrante mitologia; non la presunzione d’avere, sin dall’inizio, e per tutti i secoli, raggiunta la verità intera e inconcussa ; ma uno sforzo indefesso e incoercibile verso la verità. L’anima della religione è la fede, non il preciso contenuto della fede; e molte sono le vie che posson condurre alla verità. Io non dirò menti religiose davvero quelle in cui nessuna verità nuova può sorgere ed allignare ; non bocche di veri credenti quelle da cui mai non ¡sgorga una parola di vita. Le ortodossie riescono quasi infallibilmente a soffocare il sentimento da cui son sorte, e che vorrebbero tutelare: ma condannato dal Santo Sinodo, Leone Tolstoi si drizza sull’orlo del suo sepolcro, e in nome della religione condanna i suoi giudici. Bisogna che l’idea religiosa si protenda verso l’avvenire, non già che si lasci legar dal passato.
*
* •
Una sola volta in mia vita m’accadde, non so come, e per un fuggevole momento, di sentirmi unico e solo, d’immaginarmi d'essere io tutto l’ente e tutto l’esistente. Da quel momento son passati molt’anni ; ma ancora ne serbo il ricordo commisto a un indicibile senso di vacuità e d’orrore.
Dirò con le parole di uno fra i più acuti e rigorosi psicologi del tempo presente, il James : « Da qualunque parte il mondo si guardi, non è possibile di raffigurarselo come una realtà unica ». Il monismo viene più sempre perdendo il credito, e non sarà Ernesto Haeckel quegli che glielo potrà mantenere.
Io non so dir se non questo, che la materia non è lo spirito ; che lo spirito è la realtà superiore, la materia la realtà inferiore; che io spirito è la sostanza che si muove per un fine, la materia la sostanza che si muove senza un fine.
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NOTE E COMMENTI
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Il mondo è mistero, un mistero di cui son parte io medesimo.
Il senso del mistero è andato crescendo col crescere dell’intelligenza e del sapere.
L’uomo apprende una realtà sempre più vasta, sempre più complicata e sempre più indisciplinabile.
L’agnosticismo si può criticare e ribattere; ma esso attesta il mistero che avvolge ed incombe, il mistero che noi non siamo in grado di penetrare.
Dentro a questo mistero bisognerà che io congegni la mia credenza; dentro a questa immensurabile sfera d’ombra bisognerà che io accenda la mia piccola face.
In un suo recente libro il James conclude con l’ammettere una comunicazione diretta dell’io subcosciente con un potere che eccede la realtà quale può essere appresa dall’io cosciente. Ma, quanto a me, io non so d'avere mai avuto comunicazioni di tal natura. Più d’una volta, si, mi parve di trovarmi sulla soglia di una porta chiusa che stesse per aprirsi, e furono istanti di ansiosa e formidabile aspettazione; ma la porta mai non si aperse.
La incertezza e la insufficienza del nostro conoscere rispetto al reale ci deve far andar rattenuti nell’affermare, e ancora più nel negare; ci deve disporre a considerare con libertà, con guardinga attenzione, con animo non ostile e non preoccupato, fatti, idee, ipotesi. La ricusazione caparbia e sistematica, l’avversione permalosa, il dileggio, sono di spiriti illiberali ed angusti.
Come ci appare il mondo? Non certo come opera compiuta e perfetta, che non avrebbe più nessuna ragione di muoversi e di mutare. Noi vediamo nel mondo un divenire, un tendere e un procacciare. Il totale suo moto, composto di innumerevoli moti particolari, sembra essere un infaticabile sforzo verso la vita, l’intelligenza, la bontà, la bellezza.
* *
A me la natura appare alquanto più intelligibile se la considero in relazione con lo spirito che opera per un fine, di quello m’appaia se la considero fuori di ogni relazione così fatta.
La storia naturale degli organismi ci pone sulla traccia di una forza che promuove la vita, la innalza e la sollecita in una certa direzione. E per me questa forza non può essere se non una forza spirituale, intelligente e cosciente. Solo concependola tale, io riesco a
fare armonizzare, in qualche misura, la mia ragione coi fatti.
La storia degli uomini sembra essere, più che altro, la storia dei delitti degli uomini, e la società un mostruoso meccanismo per la produzione di tutte le vergogne e di tutti gli orrori.
Eppure attraverso le lunghe peripezie, in mezzo alle catastrofi ricorrenti di questo fosco e sciagurato dramma, un moto si delinea, sia pur sottile e vacillante ; e questo moto è verso più verità, più giustizia, più umanità.
Abraam giudeo si fa cristiano quando vede che la malvagità dei chierici non basta ad atterrare la Chiesa di Cristo. Egli si persuade che una potestà superiore alla loro tiene in piè quella Chiesa. Una persuasione consimile si fa strada negli animi nostri, quando vediamo reggersi le città, e vie più stringersi i legami sociali, e sempre dal tumultuoso conflitto degl’interessi e dall’anarchia venir fuori un ordine nuovo ; quando vediamo quelle cose stesse che gli uomini andarono procacciando senz’altro fine che di saziare le insaziabili loro cupidigie, senza rispetto alcuno nè a ragion nè a diritto, tramutarsi in freni e regolatori della propria lor vita, e aiutar la morale dopo essere nate dalla negazione della morale.
In Cristo fu tradita e crocifissa la stessa bontà; ma nel terzo giorno la bontà risorse dal suo sepolcro. Essa non può morire, perchè il suo principio è fuori del mondo che muta e che passa, in un mondo che non passa e non muta. Di là dalle nostre leggi, di là dai nostri ordinamenti, di là dalla nostra infida e titubante giustizia, è un’altra giustizia, più diritta e sicura, che tramezza e corregge la nostra. Una forza da tergo promuove la vita; una forza da tergo promuove la morale; e come non credo si possa spiegare l’ascension della vita mediante una semplice accumulazione di variazioni utili, così non credo si possa spiegare l’ascensione della morale mediante una semplice coordinazione di utili adattamenti. E che vi sia un’ascensione delia morale, io non dubito, per quanto ad alcuni paia di dover affermare che l’intelligenza s’eleva, ma che la morale sta sempre ferma al medesimo punto, pur se non s’abbassa.
Se io dico di credere a uno spirito del mondo che operi per un fine buono, dico lutto quanto sono in grado di dire. Non presumo discernere e definire tutte le possibili qualità di quello spirito, nè discuto i modi e le condizioni dell’opera sua. Non giova moltiplicare le affermazioni, se con le affermazioni moltiplichino le difficoltà. La coscienza e il sentimento. l’esperienza e la ragione mi fanno pen-
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sare che quello spirito ci dev’essere. Questa fede mi basta. Essa ini tira fuori del pessimismo. M’avvia forse pei fioriti sentieri del-l'ottimismo? No, davvero. Il mondo, quale ora io lo vedo, cessa d’essere insensato, ma rimane tragico. Non sono punto disposto ad estasiarmi, con certi partigiani del cosidetto argomento cosmologico, alla vista di quelle che ad essi paiono perfezioni del mondo. Il mondo è imperfetto e disarmonico. In esso qualcosa che è si oppone e resiste a qualcosa che vuole e dev’essere. Le ragioni di questo mistero? Le ignoro. Il male è sterminato, tenace formidabile; ma, non so come, il bene lo vien traforando, e lo spirito allarga il suo regno. Lunga, lenta, faticosa conquista, attraverso vicende innumerevoli, nella immensità dello spazio e del tempo. Il mondo è uno sconfinato campo di battaglia, dove bisogna stare o con l'uno o con l’altro dei due combattenti.
* • «
Io intendo di stare con quello che si propone il fine buono, e di aiutarne l’opera, per esiguo, per disapparente, per minimo che possa essere il mio aiuto.
Io intendo di cooperare con chi si propone quel fine buono, e la mia religione consisterà essenzialmente nel desiderio e nella volontà della cooperazione.
Ma la cooperazione mia è subordinata a due postulati: i° che la mia anima sia immortale ; 2® che la mia volontà sia libera.
Dirò ancora ch’io non ho bisogno di prove per credere all’immortalità dell’anima, perchè questa credenza è in me intuitiva, necessaria e incrollabile. Confesserò, a mia vergogna, che in un lontano tempo della mia vita m’ingegnai con tutte le forze di soffocarla; ma soggiungerò, a mia gloria, che non vi riuscii e che non sono per tentarlo mai più.
Dove non è libertà, non può essere religione.
La coscienza mi dice ch'io sono libero.
La coscienza può ingannarci spesso; ma non è possibile che c’ inganni sempre, in tutto, dappoiché per essa soltanto noi sappiamo di esistere; e non è punto probabile che c’inganni quando provoca in noi quel singolarissimo fatto che è il pentimento e il rimorso.
La dottrina del determinismo assoluto mena a conseguenze che mi sono oltre ogni dire odiose.
Tutti gl’ inetti, tutti i poltroni, tutti i furfanti di mezza taglia, tutti coloro che si danno per vinti prima ancora d’aver cominciato a combattere devono essere suoi partigiani.
Chi si crede una macchina, è degno di essere una macchina.
lo ho fede che la suprema legge del mondo sia, non una legge fisica, ma una legge morale. Aver religione vuol dire riconoscere che c'è nel mondo, e di là dal mondo, una incommensurabile potenza spirituale, che opera per un fine buono, e mantenersi costantemente in contatto con lei, e volere con lei più vita, più intelligenza, più bontà, più bellezza. Chi così creda e voglia, può ripetere, giunto a sera, le parole che San Paolo scriveva a Timoteo : lìonum cer/anien certai'i, ct/rstim consummavi, /idem servavi.
La conversione religiosa di A. Manzoni.
Alessandro D’Ancona ha pubblicato otto lettere di Gio. Batt. Giorgini, tra le quali una è specialmente interessante perchè parla della conversione religiosa del Manzoni. La lettera è diretta al prof. Carlo Magenta a Pavia e reca la data del 1876.
« Le dirò subito e francamente — scrive il Giorgini — che fare indagini sulla cosi detta conversione del Manzoni mi sembra cosa oziosa e quasi irriverente, visto quanto egli fosse alieno dal parlarne anche coi suoi più intimi. Ricordo che una sera in cui eravamo soli con lui, Vittoria ed io, e non ci si vedeva più e non erano ancora accesi i lumi, Vittoria si fece coraggio e gli chiese : « Ma perchè papà, non mi hai raccontato mai come andò che divenisti credente?» E il Manzoni, dopo un momento di esitazione, rispose : « Figliuola mia, ringrazia Iddio che ebbe pietà di me... quel Dio che si rivelò a San Paolo sulla via di Damasco ». E non aggiunse niente altro». E aggiunge il Giorgini: «Ma per la lunga consuetudine avuta da me col Manzoni io posso dirle come cosa sicura che egli arrivò alla fede per una via che potrebbe sembrare poco adatta trattandosi di fede: per la via della logica. Logico stringente come egli era, dopo aver tutto interrogato a lungo, intorno a sè e dentro di sè, e non aver trovata mai risposta alcuna che lo soddisfacesse, finì col convincersi che l’uomo non può fare a meno di una fede religiosa ; e si convinse altresì che fra tutte le religioni quella che risponde a maggior numero di domande, che scioglie maggior numero di quesiti, è appunto la religione cattolica... ».
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Passa quindi il Giorgini a negare che questo « radicale cambiamento », del pensiero del Manzoni in materia di fede sia dovuto a « ragioni sentimentali, a ragioni più o meno romantiche » al «risvegliarsi in lui delle memorie dell’infanzia» del collegio e della famiglia. E conclude il Giorgini : « L’ingresso della fede nell’animo del Manzoni avvenne per altre vie. Sulla via di Damasco non c’erano residui di vecchie memorie. Paolo di Tarso vide la grande luce, press’a poco, è da supporsi, come la vide il Manzoni quesi due millenni più tardi... ». E’ dunque da accettarsi solo in senso assai lato — commenta il D’Ancona nella nota eh’ei fa seguire alla lettera — il press'a poco con cui il Giorgini, riferendosi alla risposta data dal Manzoni alla figlia, chiude la sua lettera. Chè veramente, più che il nome di S. Paolo, vien fatto di ricordare quello di S. Agostino, il quale a poco a poco si accostò ai cattolicismo, riconoscendo colla meditazione assidua e coi conforti di Ambrogio, gli errori del manicheismo. Pur tuttavia, poiché il paragone con S. Paolo uscì dalle labbra stesse del Manzoni, dovremo attribuirgli un non trascurabile valore, e confrontare il caso del Manzoni con quelli di Paolo e di Agostino insieme, inquantochè, molto verisimil-mente, l’idea d'iddio, il senso del divino, gli possano essere balenati quasi improvvisi, ma lungo debba esser stato poi il lavoro per addivenire ad una fede concreta, e precisamente alla lede cattolica ». E il D’Ancona continua :
« Non intendiamo, nè sarebbe qui opportuno, entrare in minuti particolari : ma 1 a ricordanza dei casi occorsigli, come dicemmo, in Parigi : l’abbandono del protestantesimo, fatto con tanta convinzione, e nonostante l’ira e il dolore dei parenti, della moglie carissima: il ritorno della madre, un po’, per lo innanzi, ed anche più che un po’, mondana, ai riti del cattolicesimo; i colloqui e la corrispondenza con persone pie, col Degola fra gli altri e poi col Tosi ; la compagnia del Somis e della famiglia di lui ; le condizioni della sua salute, per cui ogni tanto egli traversava delle crisi, durante le quali si sospendeva in lui coll’agilità del corpo anche quella del pensiero e dalle quali usciva come smarrito, sono tutti atti preparatori: non decisivi, nè ciascuno per sè nè tutti insieme, a produrre il fatto. Tuttavia, altro che la lux de coelo dell’Apostolo! Ci volle invece del tempo, e non breve, ed un lungo meditare e ragionare !... « Alessandro, scriveva il Tosi nell’agosto del 1S10 al Degola, ha intrapreso la carriera con estrema docilità e sommissione : domani avremo ancora una lunga conferenza, e se il Signore conserva
ed accresce in lui le sue benedizioni, egli pure sarà per fare gran passi ». Passi, dunque, e non cose o salti, o voli, o rapimenti istantanei : passi, compiuti, è vero, con «docilità e sommissione», ma successivamente e ponderatamente.
Ed a sorreggere l'animo ben disposto, e a dargli un incrollabile coraggio, chi sa quanti ancora ne sarebbero occorsi sicché non tornasse « più volte volto » o non rimanesse a mezza via incerto e dubitoso, se, come afferma il Giorgini, non avesse, egli, il gran loico, chiamato in soccorso la ragione. Il suo fu un novissimo itinerario dal ragionamento alla fede : fortissimamente egli volle esser credente, ed incrollabilmente fu tale, perchè con animo risoluto e con ferma mano riuscì a che le aspirazioni della pietà fossero suggellate dal consenso dell’intelletto».
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Ispiriamoci a Cavour.
Negli ultimi giorni del mese di maggio u. s. si radunò in Roma il Congresso del partito democratico costituzionale che, per le materie trattate e la serietà scientifica, si lasciò di gran lunga indietro i piti frequenti, ma più vuoti congressi di altri partiti di bandiera più radicale. Nel pomeriggio del giorno 26 poi si trattò un argomento d'importanza eccezionale che ci dà proprio bene a sperare per l’avvenire: /eticità dello Stalo c libertà delle coscienze religiose, di cui fu relatore il prof. Scaduto del-l’Università di Roma.
« Il relatore — scrisse il Giornale d’Italia — entra senz’altro in argomento affermando che l’Italia finora si è preoccupata di emanciparsi dalla Chiesa, ossia di liberarsi dalle invasioni delie autorità ecclesiastiche nella sfera di competenza della potestà civile ed ha trascurato il problema della libertà vera delle confessioni religiose... L’oratore, avviandosi alla conclusione, nota che la politica ecclesiastica del-l’Italia, già ardimentosa, arrestatasi nel 1890, deve oggi essere ripresa e proseguita...».
Dopo una lunga, interessante discussione a cui parteciparono molti oratori ed in cui si affermò sempre esplicitamente la necessità di propugnare l’assoluta sovranità dello Stato su ogni categoria di cittadini non esclusa in nessun modo la Chiesa, venne approvato all’unanimità il seguente ordine del giorno:
« Il Congresso, considerando che i problemi arditamente risoluti dalla legislazione eccle-
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siastica italiana furono solo i più urgenti, de* libera di completare con programma democratico la laicità dello Stato e la libertà delle confessioni religiose».
Non accade spesso in Italia di sentir discutere con arditezza e chiarezza — segnatamente da parte di uomini illustri e non rivoluzio-narii — intorno al problema della nostra legislazione ecclesiastica. Da molti anni in qua si è sempre trattato codesto argomento con un certo sacro timore che induceva gli animi anche dei più arditi a sfiorarlo più che a sviscerarlo. Nè si comprende bene la cagione di siffatto misterioso timore che altra conseguenza non ha avuta — nè poteva avere — se non quella di render baldanzosi i clericali che ognor più alzano la loro stridula voce, fatti sicuri dalla debolezza delle autorità civili e di coloro che dovrebbero essere i più autorevoli loro avversarli.
Di recente infatti l’on. Luzzatti che pure ama atteggiarsi ad assertore delia piena libertà di coscienza — in un discorso pubblico sentì il bisogno di cantar le lodi della nostra legislazione ecclesiastica, definendola un capolavoro di sapienza giuridica. Quasi che i vizi di quelle leggi non fossero di una evidenza tangibile!
Cosi pure l’on. Sennino, per mezzo del suo organo {Giornale d’Italia del 27 maggio), fa dichiarare ch’egli si oppone ad una politica anticlericale « per impedire la divisione degli animi nel Paese ». Sempre la solita misteriosa paura di un pericolo assolutamente inesistente ! Il Paese che non si commosse quando lo Stato italiano soppresse gli ordini religiosi ed il potere temporale dei papi, dovrebbe poi agitarsi e dividersi per l’abrogazione di talune disposizioni anacronistiche e già morte nella coscienza pubblica? Si temono delle ombre e ben se ne avvedrà l’Italia allorquando si deciderà finalmente a riprendere in esame l’annosa questione ecclesiastica.
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Intanto possiamo essere contenti che il partito democratico costituzionale abbia impostato il problema senza debolezze e senza equivoci. E’ un sintomo che ci fa sperare per un avvenire che, per il bene d’Italia, speriamo non lontano. Si dovrà pur riprendere in questo campo l’ardita e franca marcia iniziata nel 1848 ! E bisognerà che gl’italiani s’ispirino alla mente poderosa d’uno dei maggiori fattori del nostro risorgimento nazionale : il conte di Cavour.
Se gli ammiratori sviscerati del Cavour non si restringessero soltanto a tenere il Conte in
una nicchia come un santo qualunque, ma si _ adoperassero a seguire le sue tracce, noi non assisteremmo al poco edificante spettacolo che ci offrono tanti illustri parlamentari ed uomini politici, i quali — allorché discutono di politica ecclesiastica — si mostrano costantemente preoccupati di andar in cerca del compromessi, della transazione, in una parola dell’eterno viscido mezzo termine.
Oh ! non così avrebbe agito il conte di Cavour e, s’egli fosse stato per la fortuna d’Italia ancora vivo nel 1870-71. quella debole legge delle Guarentige — che fece della Chiesa uno Stato dentro allo Stato italiano, col poco piacévole risultato di tener sempre vivo all’interno il focolaio delle rivendicazioni vaticane e d’impacciare all’estero le nostre relazioni internazionali — non sarebbe stata indubbiamente nè presentata nè approvata. Ma i pavidi suoi epigoni ben più in basso sarebbero discesi, poiché era loro intenzione — e fecero anche l’offerta alle varie cancellerie europee — di sottomettere le condizioni fatte al pontefice dallo Stato italiano al controllo internazionale! Se una tanto avvilente jattura politica non si verificò c’è proprio da ringraziarne la Provvidenza, chè gli uomini di Stato di quel tempo tutto fecero per attirarcela addosso.
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Quando nel 1S48 Carlo Alberto, dopo tante incertezze, promulgò lo Statuto, che non da tutti fu accolto favorevolmente perchè non lo si giudicò abbastanza liberale, il Cavour scrisse un articolo nel suo giornale {Il Risorgimento del io marzo 1848) (1) dove— pur mostrandosi assai sodisfatto che finalmente anche il Piemonte avesse la sua costituzione — fece però le sue riserve circa il valore del primo articolo: «...da questo lato — egli scrisse — dichiariamo non essere lo Statuto del tutto conforme ai nostri desideri». In quello scritto egli si preoccupò principalmente di difendere lo Statuto, mettendone in evidenza i pregi, ma si lasciò una porta aperta per ciò che riguardava la sua irrevocabilità ch’egli non ammetteva. chè. al contrario, mostrava di sperare in una prossima revisione : « Come mai puossi pretendere — continua — che il legislatore abbia voluto impegnare sè e la nazione a non mai portare il più leggero cambiamento diretto ad operare il menomo miglioramento ad
[i)GH Scritti del tonte di Cnvonr, raccolti da Dome incaico Zanichelli.
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una legge politica? Ma questo sarebbe... un concetto talmente assurdo che non poteva venire concepito da nessuno di coloro i quali cooperarono alla redazione di questa legge fondamentale. Una nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi politiche».
E più giù aggiunge : « La parola irrevocabile, come è impiegata nel preambolo dello Statuto, è solo applicabile letteralmente ai nuovi e grandi principi proclamati da esso... Ma ciò non vuol dire che le condizioni particolari del patto non siano suscettivi di progressivi miglioramenti operati di comune accordo tra le parti contraenti. Il re, col concorso della nazione, potrà sempre nell’avvenire introdurre in esso tutti i cambiamenti che saranno indicati dall’esperienza e dalla ragione dei tempi ».
Più tardi, nel Risorgimento del 6 maggio dello stesso anno, il Cavour, facendo un’enumerazione dei lavori a cui avrebbe dovuto sottoporsi il Parlamento, termina : « E se non avrà a riformare lo Statuto (il Parlamento) dovrà certamente migliorarne non pochi articoli ». Indubbiamente egli qui alludeva al primo articolo in modo speciale.
* * *
infine nel Risorgimento del 18 maggio, sempre su) medesimo argomento scrisse: « Fra le maggiori, le più importanti conquiste della civiltà moderna è certamente da annoverarsi la libertà di coscienza, e quindi la libertà dei culti che ne deriva qual logica conseguenza. Questo gran principio tuttavia non venne proclamato nel nostro Statuto. Il legislatore, forse per non precipitare in si grave materia un’irrevocabile definizione, credè più opportuno il non farne particolar menzione, riservandosi d’introdurlo nella pratica con leggi speciali... Ma ciò non basta. Un principio qual si è quello della libertà dei culti non può essere introdotto nella costituzione di un popolo altamente civile per via indiretta: «leve essere proclamato come una delle basi fondamentali del patto sociale. Epperciò non dubitiamo d’asserire che quando l’epoca prevista dal discorso del trono sarà giunta, in cui la desiderata fusione di varie parti della penisola coi nostri Stati renderà opportuno il promuovere quelle mutazioni nelle leggi che valgano a far grandeggiare i destini della patria, in allora non si ometterà più nella Magna Carta italiana, di dichiarare nel modo il più esplicito essere ogni coscienza un santuario inviolabile e doversi accordare a tutti i culti una intera libertà ».
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Queste cose scriveva il Cavour nel 1848. Da allora è trascorso quasi un secolo ; « la fusione delle varie parti d’Italia » è avvenuta oramai da 43 anni ; « l’esperienza e la ragione dei tempi » a cui accennava il Conte consigliano, per opinione generale, la revisione di tutta la legislazione ecclesiastica; ma... non se ne è fatto nulla. Ogni anno in giugno si festeggia solennemente lo Statuto che ancora proclama quei confessionalismo di Stato che la coscienza moderna ha condannato come un anacronismo in completo disaccordo con le nuove concezioni di Stato e di Fede.
Auguriamoci che la voce inalzata dal partito democratico costituzionale non rimanga isolata ; che la revisione di tutta la nostra legislazione ecclesiastica sia compiuta; che la laicità dello Stato, e quindi la sua separazione dalla Chiesa, sia. altamente proclamata.
Intanto facciamo risuonare la gran voce del conte di Cavour: eh’essa sia di monito agli uomini politici odierni e li induca ad affrontare la questione ch’egli tanto caldeggiava. Il tempo è più che maturo e, se si vuole che la festa dello Statuto divenga veramente una festa nazionale e non rimanga un semplice ricordo storico, occorre riprendere, nel campo delle relazioni tra Stato e Chiesa, la tradizione malauguratamente interrotta.
Aristarco Fasulo.
La separazione della Chiesa dallo Stato in Italia.
L’on. Romolo Munì tenne il giorno 20 maggio nella sala della Facoltà Teologica Battista una interessante conversazione sul tema : La separazione della Chiesa dallo Stato in Italia.
La conferenza voile essere una serena ed imparziale disamina dello stato della questione, senza riferimenti polemici od applicazioni pratiche, che tuttavia non è difficile trarre dai principi posti.
Essa può essere divisa in tre parti.
I.
Nella prima l’oratore nota che per intendere che cosa possa o debba significare separazione della Chiesa dallo Stato con viene prima
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intendersi sul significato delle parole: Chiesa e Stato ; parole che indicano istituzioni sociali viventi e svolgentisi e via via diverse da quello che erano prima.
Riferendosi ad idee da lui ampiamente esposte nel suo volume: Religione, Chiesa e Sialo ( r), egli osserva come, in una concezione realistica delle istituzioni sociali, queste non possono esser prese come entità a sè, incarnazione di concetti astratti, ma non sono se non fatti, e fatti di coscienze individue : abitudini, stati d’animo, rapporti, previsioni, ecc.
Quindi, con lo svolgersi della vita delle coscienze. mutano le istituzioni sociali ; indicano cioè una somma di fatti e stati d’animo individuali che non è più oggi quella che era ieri e che domani sarà ancora diversa, pur seguendo nello svolgersi alcune direttive fondamentali le quali sono date dai caratteri e dalle vocazioni native dello spirito umano che si svolge acquistando sempre più chiara coscienza di sè e con ciò stesso più sicuro dominio di ciò che esso fa, quando da circostanze esterne non è trattenuto o impedito nel suo sviluppo.
Questo sviluppo si nota più particolarmente nei rapporti fra Stato e Chiesa.
Da principio la differenza non è avvertita. Dottrine, riti e ceremoniale religioso sono considerati come cose di pertinenza pubblica, delle quali si occupano i poteri pubblici come di ogni altra che cada sotto l’orbita del loro interessamento.
La distinzione nasce quando la religione ha raggiunto un certo carattere di interiorità, e la coscienza umana incomincia ad avvertire che essa non può assoggettare a norme e precetti esteriori i suoi rapporti con la divinità, la quale è di là dalle divinità etniche o cittadine e dai templi, e ha sanzioni interiori più potentemente efficaci che quelle degli uomini.
Questa interiorità del fatto religioso si afferma vittoriosa col cristianesimo ; ma essa non viene adeguatamente compresa dai seguaci di questo ; e le coscienze religiose della nuova fede, già tatito illuminate e fatte forti da non saper più piegarsi alla sovranità dell’imperatore, ma non ancora tanto da reggersi per virtù propria, e bisognose pur sempre di una salda norma e disciplina sociale, dànno luogo a una sempre più rigida organizzazione ecclesiastica.
Questa è quindi una specie di scissione dallo Stato : è lo stato degli affari interiori e spirituali; e si organizza come tale, sino a giungere all’imposizione coattiva di tutti i
(i) Milano. Troves, >910.
doveri che si intendono derivare dall'iscrizione, non volontaria, ma quasi automatica, ad una Chiesa, e della stessa fede.
Nel decadere delle organizzazioni civili, dopo il tramonto di Roma imperiale, questo organismo ecclesiastico si estende e si irrobustisce, e diviene, sempre più veramente uno Stato nello Stato e sopra gli Stati, e fa leggi, riscuote tributi, crea enti pubblici, ha il potere giudiziario ed esecutivo sui suoi, impone allo Stato l’osservanza delle norme da esso fissate in materie attinenti comunque alla religione o le concorda con esso.
In questo lungo periodo il diritto ecclesiastico si impernia sulla concezione delle due potestà, astrattamente considerate, come il sole e la luna nel mondo della storia; e ci offre dall’un lato l’aspetto di una separazione, o scissione, fra due poteri egualmente sovrani, e di un accordo o unione fra di essi per le innumerevoli materie miste.
Solo quando l’autorità del pontificato romano è. con la riforma protestante, messa in discussione e negata, incomincia un terzo periodo; nel quale, prima che i rapporti fra Stato e Chiesa, muta il concetto di questa ; alla quale non si applica più la superba definizione degli scolàstici, ma che è sempre più intesa come una volontaria consociazione di fedeli per comunicare negli atti di una fede il cui magistero è interiore e i cui documenti irrefragabili non viventi ma scritti.
Prima la confessione battista intende la Chiesa come costituita dall’atto di libera e personale adesione dei credente che, in età capace di discernimento, riceve il battesimo; ma questo concetto va lentamente generalizzandosi anche nelle Chiese che continuano a praticare il battesimo dei bambini.
Solo resiste, mantenendo tenacemente il concetto medioevale della Chiesa, società necessaria. visibile, indipendente, perfetta, il pontificato romano; che giunge anzi, per questa via, sino alla proclamazione della sua infallibilità ed. alla più aperta professione dell’assolutismo papale.
Ma, benché esso insista, la società civile gli si modifica rapidamente intorno. Sorge infatti e si svolge e si afferma vittoriosamente in più luoghi, dopo la rivoluzione francese, in armonia con il pensiero filosofico moderno, una nuova concezione degli istituti sociali, secondo la quale questi non scendono dall’alto sull’uomo investito di una divina autorità che li fa rispettabili e comanda obbedienza, ma sono posti, più o meno consapevolmente, dalla stessa volontà umana, che, nelle condizioni date, ma reagendo su di esse e modificandole
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continuamente, si crea e si foggia ia sua storia esteriore e domina quindi sovrana le istituzioni sociali, rifacendole e correggendole incessante* mente.
Questa dottrina, implicita in tutta la filosofia giuridica dell’età moderna da Bruno ad Hegel, e più nitidamente espressa poi in L. Feuerbach e nel socialismo classico, ha alimentato un lungo moto di rinnovazione sociale, durante il quale gli uomini vennero, contro gli antichi istituti, collegati nella resistenza, abbattendo tutti i vincoli antichi e conquistando libertà. Fino a che, impossessatasi delio Stato, la democrazia affermava nel diritto pubblico anche ia libertà religiosa e. come conseguenza di ciò, toglieva alla Chiesa gran parte dei privilegi ereditari.
Questo moto fu favorito dalle necessità emergenti da tutte le altre riforme canoniche e sociali imperiosamente volute dalle classi nuove; poiché non c’era campo, a cominciare dalla unificazione politica del paese, nel quala non ci si imbattesse con privilegi ecclesiastici, e non fosse necessario modificare la posizione del clero e del pontificato.
Così per una rapida serie di riforme si venne, in Italia, dalla soppressione della congregazione dei gesuiti, nel 1848, sino alla caduta del potere temporale ed alla legge delle guarentigie.
Questa legge, se in molte parti è separatista, sopprimendo parecchie forme di intervenzionismo dello Stato in materia spirituale, riconosce tuttavia al pontificato romano una speciale sovranità e taluni privilegi e, d’altra parte, conserva, per sua garanzia, alcune forme di intervento giurisdizionalistico.
Quindi, anche dopo essa, la separazione, intesa come crescente distacco dello Stato dagli affari spirituali ed ecclesiastici e riduzione di questi nel campo di attività liberamente eser-c¡ tan tisi, come ogni altra attività lecita, sotto l’egida del diritto comune, doveva essere ulteriormente perseguita e raggiunta.
Ma, venuti a mancare gli stimoli politici ed economici dei quali facemmo cenno, e sorta invece per una parte della borghesia l’opportunità di allearsi con il clero ed avere il voto dei seguaci di questo per conservare il dominio politico minacciato dalla cresciuta pressione delle classi lavoratrici contro il vecchio Stato, nel nome della democrazia, apparve che la coscienza religiosa degli italiani non era abbastanza vivace e profónda per occuparsi di riforme il cui valore era assai più religioso che politico ; e la politica ecclesiastica si arrestò al punto verso il quale C. Cavour la aveva avviata con la sua formula: libera
Chiesa in libero Stalo ; formula illogica e con-tradittoria. poiché affermava la libertà parallela di due istituti ia lotta l’uno contro l’altro, ma della quale va studiato soprattutto e lodato il valore praiico, che può esser tradotto nei seguenti termini: Lo Stato vuol liberarsi dagli oneri del vecchio diritto ecclesiastico senza attentare alla libertà spirituale della Chiesa.
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Ora, se si volesse delineare una condizione tipo di perfetta separazione della Chiesa dallo Stato, verso la quale avviare la nostra vita pubblica, converrebbe riprendere le mosse dalle definizioni di Stato e Chiesa e vedere quali profonde modificazioni stiano affaticando i due istituti e preparando forse nuovi ed assai diversi rapporti fra l’uno e l’altro.
Come lo Stato va perdendo il suo carattere metafisico di persona giuridica, soggetto di diritto, di imperio, per divenire realistico e pratico coordinamento di gruppi di forze e di volontà, così la Chiesa sta cessando di essere una società di autorità, per divenire libera consociazione di credenti nella medesima fede, ai quali la società civile olire, disinteressandosi del contenuto delle singole comunioni, le forme di convivenza giuridica ; dichiarando come e dentro quali limiti esso riconosce e tutela, come leciti e socialmente utili, i fini e gli interessi delle comunità religiose.
Nè fa meraviglia che lo Stato si arroghi, contro la Chiesa, questo diritto di giudicare della sincerità e della bontà delle associazioni cultuali ed ecclesiastiche; poiché: i°, come abbiamo detto, Stato e Chiesa non sono se non coscienze di cittadini ; 20 intanto può darsi luogo a un giudizio dello Stato in materia in quanto sia giudizio delia volontà morale più sana e più vigorosa contro una Chiesa rimasta indietro e attardantesi in metodi e forme che costituiscono magari una offesa per coscienze religiose educate e affinate nella libertà; come appunto avviene oggi di molti istituti ecclesiastici.
Ma quali saranno, precisamente, questi limiti?
Mollo si è teorizzato sull’argomento, partendo dalle concezioni astratte già da noi criticate di Chiesa e Stato; i vari sistemi possono essere da noi ricordati solo come schemi pratici che permettano di meglio esaminare i vari e molteplici aspetti delia realtà.
Il prof. Mario Falco, nella sua prolusione al corso di diritto canonico presso l’Univer-
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sita di Modena (1) li riduce a quattro: in quanto cioè la separazione è intesa:
a) come riduzione delle associazioni ecclesiastiche nell’orbita del diritto che regola le associazioni private ;
b) come l’ordinamento in cui nella Chiesa si entra e ad essa si appartiene per atto volontario ;
c) come riduzione al minimo dei rapporti esistenti fra Chiesa e Stato;
d) come l’ordinamento giuridico nel quale le Chiese cadono nella sfera del diritto comune, senza che alcuna o più di esse abbiano speciali privilegi o svantaggi dinanzi ad altre associazioni.
Ma tutte queste non sono indicazioni storiche precise di stati di fatto, p. es. della separazione nord-americana, francese, ecc., poiché non vi è sistema vigente di rapporti fra le due società che non olirà molteplici complicazioni e che non sia possibile far rientrare in più d’una delle categorie indicate. Nè sono, d’altra parte, definizioni teoriche dentro le quali si possa un giorno far rientrare esattamente la realtà. Poiché le forinole giuridiche non sono che o strumenti di lotta dello Stato contro organismi ecclesiastici antiquati o seguono mutazioni di costumi e di rapporti già avvenute, mentre altre forse ne stanno sopravvenendo. Cosi, ad es., per quanto riguarda il sistema francese, non può io Stato impedire, anche quando abbia creato e fissato un diritto di associazione nel quale far rientrare l’organismo ecclesiastico, impedire che molte di queste associazioni siano collegato dal vincolo spirituale di unità, di fede e di disciplina, e costituiscono una Chiesa popolare, ignorata dallo Stato, ma pur 'sempre reale e operante; se pure lo Stato può ignorarla, quando si tratti di riconoscere o fissare condizioni giuridiche di proprietà, di possesso e di amministrazione e trasmissione di beni.
III.
Forse verrà un tempo in cui, aboliti tutti i privilegi che ancora intralciano le libertà religiose, educate le coscienze a scegliere e vivere personalmente la propria fede, le chiese non siano che gruppi di forze, sindacati, operanti come gli altri nelle libere competizioni regolate dalle supreme rappresentanze politiche
(>) ,M. E,, // concetto giuridico della separazione, 'forino, Bocca, 1913.
degli interessi di tutti ; per ora non c’è che andare verso la libertà, demolendo via via, senza offesa delle coscienze, ma senza riguardo al clericalismo ed alle pretese dell’alta gerarchia, i superstiti privilegi della Chiesa romana.
E qui, Fon. Murri, senza entrare nel campo di un preciso programma di politica ecclesiastica, che troppo lunga discussione avrebbe ancora richiesta, chiuse con delle osservazioni che taluno sembra aver male inteso.
Poiché egli, indicando ed illustrando i compiti di cultura c di educazione che spettano allo Stato, disse come a questo noi dobbiamo chiedere, non dei servigi da rendere all’una o all’altra confessione, ma solo una educazione la quale conduca gli individui, e le coscienze, al possesso di sé, alla autonomia che è il termine ultimo di ogni educazione. Le particolari Chiese svolgeranno, ciascuna secondo le sue forze, i loro speciali sistemi di formazione e di convivenza religiosa ; estraneo a tutte, e serenamente neutrale, lo Stato, in quanto è il primo degli educatori, preparerà gli animi al possesso di sé ed alla libertà, facendo appello a quei supremi principi! etici che lo spirito umano porta con sè e che costituiscono quasi il fondo comune di tutte le religioni. E di queste meglio vivranno quelle che si mostrino più atte a vivere su questo terreno di libertà che viene ad esse offerto, e ad educare gli uomini ad una più alta ed intensa e benefica vita dello spirito.
B. Croce e la filosofia della storia.
Nel suo eloquente discorso contro la proposta della cattedra per la filosofia della storia, Benedetto Croce ha ripetuti concetti che già aveva espressi nelle sue opere: per esempio, nel suo volume su II concetto della storia (Loescher, 1S96). Ma ha dimenticato, l’illustre Maestro, di ridire una distinzione già da lui fatta, che avrebbe, credo, aiutati i signori senatori a raccapezzarsi nell’ardua questione.
La distinzione è tra filosofia della storia e filosofia sulla storia.
Sono due cose differenti, dice, o, meglio, disse il Croce nel suo Materialismo storico ed economia marxista (Sandron, 1900). La filosofia della storia è la pretesa di fare una riduzione concettuale del corso della storia: pretesa assurda, perchè, se è possibile ridurre concettualmente i singoli elementi della realtà
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che nella storia appariscono, non è possibile elaborare concettualmente il complesso di questi elementi, che è il fatto, se non scomponendolo, disgregandolo e quindi annullandolo. Ma, negata la filosofia della storia, « resta— precise parole del Croce — la possibilità di filosofare sulla storia. La stessa eliminazione e critica delle vecchie costruzioni erronee richiede una discussione di concetti, eh’è un filosofare; quantunque sia un filosofare che porti proprio alla negazione della filosofia della storia».
Ma o io m’inganno, o la proposta d’istituire una cattedra di filosofia della stori? non aveva mica il significato di affermare che si potesse fare la riduzione concettuale della storia e che esistesse la filosofia della storia propriamente detta, fosse quella di Sant’Agostino o di Hegel, quella di San Paolo o di Marx. Che forse quando lo Stato istituisce una cattedra di filosofia, intende affermare un sistema o l’altro, o la possibilità stessa di un sistema? No, tanto vero che molte cattedre di filosofia sono affidate a professori che fanno aperta professione di scetticismo, che insegnano l’impossibilità di pervenire ad una qualsiasi sofia. E allora? Allora l’orazione del Croce contro la cattedra di filosofia della storia colpisce tanto poco la proposta della cattedra, che essa stessa, l’orazione, sarebbe stata una magnifica lezione da impartire da quella cattedra medesima.
A. T.
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La guerra e le missióni.
Una nuova rivista trimestrale è stata fondata in Germania col titolo La quercia (Die Eiche). L’oggetto di questa rivista è di coltivare i buoni rapporti fra l’Inghilterra e la Germania.
Il The Missionary Record di maggio dà una lunga recensione di un notevole articolo del redattore capo, Siegmund Schultze, intitolato: «Le missioni cristiane nell’evento di una guerra tedesco-inglese». Egli fece al proposito diligenti ricerche presso le Società Missionarie tedesche sul probabile effetto di questo conflitto sul lavoro missionario. Le risposte sono seguite da rapporti di missionari della Cina, dell’india e dell’Africa e ulteriori informazioni sono promesse pel prossimo numero.
Con completa unanimità tutte le società e tutti i missionari dichiarano che una tale
Krra costituirebbe un danno serio al loro
>ro e in alcuni casi ne importerebbe la rovina. Un rapporto dice che nella passione della lotta lo spirito missionario di entrambi i paesi verrebbe a diminuire. « In ¡stato di guerra il lavoro missionario della pace non può prosperare». Vi sarebbe probabilmente penuria di uomini e di denari. Inoltre in molti campi missionari, specialmente nelle colonie inglesi, i missionari di entrambi i paesi lavorano insieme con i più schietti ed amichevoli rapporti. La guerra non toglierebbe tutto questo, ma creerebbe certamente per loro delle situazioni imbarazzanti.
Molti degli scrittori si fermano specialmente sul pericolo della ribellione degli indigeni la quale verrebbe esercitata non solo contro i Governi. ma anche contro il Cristianesimo. Un missionario della Cina diceche se la Germania e l’Inghilterra con altre potenze venissero a questa suprema decisione, il vecchio sentimento xenofobo dei cinesi romperebbe ogni barriera e si manifesterebbe più tremendo e più universale che non nella rivolta dei Boxer del 1900. La Cina riguarda la Germania come la prima potenza di terra e l’Inghilterra come la prima nel mare e se queste due incominciassero ad indebolirsi essa non mancherebbe di prendere tutte le opportunità derivanti da questo nuovo stato di cose.
In India la situazione sarebbe ancora più difficile. Lo spirito di malcontento che non cessa di serpeggiare nel paese si rivolterebbe in favore dei Tedeschi, creando pei missionari tedeschi una situazione delicatissima e dolorosa. Se poi l’Inghilterra venisse sconfitta vi sarebbe nell’india il pericolo di una ribellione universale, e tutto il lavoro missionario compito con secoli di sacrifici sarebbe in un solo colpo estirpato. I Maomettani sarebbero i primi ad iniziare la lotta contro il Cristianesimo e le Missioni.
Un missionario dell’Africa scrive: «Un risultato tremendamente grave della guerra fra le due potenze cristiane sarebbe il rafforzamento dell’IsIam in Kamerum ed in tutto il mondo. Nell'interno di Kamerun vi sono grandi tribù guerriere, le quali stanno quiete soltanto per la pressione delle forze militari di occupazione. Un indebolimento di queste forze significherebbe il rafforzamento del Maomettismo ». Ognuno può immaginare cosa significherebbe questo stato di cose nell’Africa Maomettana.
Ignazio Ri vera.
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Il Pentateuco e la teoria documentaria.
Il prof. SK1NNER M. A., I). 1). dell’università di Cambridge, con un primo articolo nel The Exfiositor di aprile, riafferma il valore della teoria documentaria contro gli attacchi del pastore tedesco Dahse, che nel suo ultimo volume Textkrìtische Malerialen sur Hexaleuchfrage si credeva di averne demolite le fondamenta.
E’ ormai noto agli studiosi della Bibbia che la teoria documentaria ebbe origine dai diversi nomi di Dio, usati in differenti parti del Pentateuco e specialmente nel libro della Genesi. Il critico che per il primo fece la importante scoperta fu Astruc, che nel 1754 apriva cosi la via alla separazione dei documenti primitivi che concorsero alla formazione del libro della Genesi quale noi lo possediamo. Però il massimo valore della scoperta di Astruc stava specialmente nel fatto che essa conduceva, quasi immediatamente dopo, i critici a riconoscere che i documenti riferiti avevano caratteristiche speciali nettamente segnate e distintivi linguistici innegabilmente diversi fra loro. Fu così che nel 1854 l’Hupfeld potè dimostrare, con universale soddisfazione, che in realtà gli scrittori che usano il nome di Elohim sono due. separandoli fra loro con
un lodevole senso di perfezione. Questa importante operazione fu necessariamente compita senza tener conto dei nomi di Dio, ed il risultato pratico, riconosciuto dall’Hupfeld stesso, fu l’accertamento che le affinità fra i due scrittori Eloistici sono minori fra loro, che fra l’uno di essi e lo scrittore che usa il nome di Jahwe. Uno degli Eloistici fu poi chiamato il codice (P) o il codice sacerdotale.
I critici contrari alla teoria documentaria fecero ogni sforzo per discreditare il testo ebraico, che aveva fornita la chiave dei diversi nomi di Dio, servendosi a tale scopo del fatto che l’antica versione dei Settanta non corrisponde nei nomi di Dio al testo ebraico che noi possediamo ; dimenticando con ciò che la teoria documentaria ha fondamenta ben più profonde delle semplici diciture ebraiche Elohim e Jahwe, come I’ Hupfeld aveva dimostrato, dimenticando inoltre che gran parte delle innumeri varianti dei Settanta non hanno valore critico alcuno, e che infine il testo ebraico |X>ssiede credenziali tali di autenticità che nessuna versione può pretendere, e meno ancora la versione dei Settanta. Il pastore Dahse, uno studioso di valore nel campo della critica sui Sefiluaginta e che ha consacrato con in\ i-diabile pazienza molti anni allo studio del problema, ripete con più pertinacia nel suo ultimo volume gli argomenti della opinione antidocumentaria e che egli ha voluto chiamare ipotesi — pericope, definita dal prof. Skin-ner « un capolavoro di ingenuità ».
1) testo classico che Dahse si affretta a prendere in esame è quello contenuto in Esodo VI, 2, 3. L’ebraico può essere tradotto così : « Ed Elohim parlò a Mosè e disse: Io sano Jahwe :
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ed apparvi ad Abraham, Isaac e Jacob come El Shaddai, ma non mi feci conoscere da loro (o non fui conosciuto) per il mio nome/aAov».
La capitale importanza critica di queste parole appare a qualunque lettore della Bibbia. Vi sono usati tre nomi di Dio. Elohim, nome generico, applicato al vero Iddio ed agli dei pagani; Jahwe il nome proprio del Dio di Israele e quindi il nome di Dio par excellence : ed El Shaddai, un curioso titolo della divinità, la cui etimologia è oscura e che i Settanta hanno tradotto come hanno potuto, cercando di nascondere il più possibile il loro imbarazzo. Eerdmans pensa che i Settanta dovettero leggere El Shèdì « Dio. demonio mio », intendendo El Shaddai come una speciale divinità, custode dei singoli patriarchi. Ad ogni modo il passo, che è comunemente attribuito al codice (P), afferma chiaramente un triplice stadio di rivelazione segnato dai tre nomi di Elohim, El Shaddai t Jahwe, con l’implicita affermazione, su cui si basa la teoria documentaria, che i patriarchi non conoscevano il nome di Jahwe.
La traduzione del Dahse, privando le parole del loro proprio significato, distrugge se stessa ; e qualunque lettore, anche poco inoltrato nella critica, può facilmente riconoscere falsa la situazione dei critici antidocumentari. Essi traducono così : « E Jahwe parlò a Mosè e disse : Io senoJahwe; ed apparii ad Abraham, Isaac e Jacob come lóro Dio, ma non feci loro conoscere il mio nome’. Così noi siamo lasciati, al principio di una solenne comunicazione a Mosè, con la vuota asserzione che Jahwe è apparso ai tre patriarchi senza dire il suo nome, sia che i patriarchi lo conoscessero senza la rivelaziane di Dio, o che, nella loro supposta ignoranza del nome, esso fosse stato rivelato a Mosè prima di questa comunicazione di Dio. o sia infine che questo nome fosse qualcosa di diverso da Jahwe, qualcosa di ineffabile, da non poter essere rivelato allora, e senza dirci se ora è già stato rivelato.
Non bisogna dimenticare anche che la parola nódó'ti « io mi feci conoscere » o «io fui conosciuto» è rappresentata in tutti i testi dei Settanta da tSxkwoa, che è l’equivalente di hóddti «io feci conoscere». Cosi invece di tradurre « non fui conosciuto per il mio nome Jahwe » noi otterremmo la sentenza « io non feci loro conoscere il mio nome Jahwe » a dispetto del Pentateuco Samaritano, della Targum di Gionatan e di tutti i codici ebraici, uno solo eccettuato, che stanno per la prima traduzione. La preferenza del prof. Skinner per la detta versione è basata specialmente sul fatto che vi è una ragione ovvia per tradurre il verbo
con valore causativo, ma nessuna affatto per cambiare l’originale hód&'li in nódà'li.
Egli fa osservare infine che l’unica via che ancora rimane per salvare a qualunque costo l’unità del Pentateuco starebbe nel seguire due scrittori cattolici (Hummelaner e Hoberg), i quali sostengono che il testo originale di Genesi I, Esodo III, 12, non contenne mai il nome di Jahwe. Il prof. Schlogl del seminario di Vienna è giunto coi suoi seminaristi ai medesimi risultati, asserendo che la tendenza di usare Jahweh promiscuamente con Elóhim, fu incomparabilmente più grande del suo contrario, e che quindi i pochi passi che sostengono Jahweh contro Elóhim, sono di poco valore, e che se ne deve dedurre la conseguenza che Jahweh non fu usato nel passo Genesi I, Esodo III, 12. «Il ragionamento cattolico è questo (dice lo Skinner): In 118 casi dove M. T. (il codice Massoretico) ha Jahweh altri testi (qualunque essi siano) hanno Elóhim o Jahweh Elóhim, perciò leggi in tutti Elóhim. In 30 passi tutti i testi leggono Jahweh, dunque tu cambialo in Elóhim. In 59 posti, dove M. T. ha Elóhim, « gli altri testi » hanno lahweh e in 47 Jahweh Elóhim, leggi perciò sempre Elóhim». A questo punto arriva la critica investita dell’infallibilità papale, conchiude amaramente lo Skinner, e non lontana da questa sta quella del Dahse, priva di intelligenza esegetica e di intuito storico e religioso.
Ignazio Rivera.
Per una critica nuova del Testo Massoretico.
La rivista inglese di teologia The Expositor del mese di aprile contiene un interessante articolo del Dr. James Kennedy per determinare la critica biblica in una nuova via di ricerche di fronte al Testo Massoretico.
Esaminata la posizione di autorità tenuta fin dal Medio-Evo dal Testo Massoretico, il valente critico pone in luce le varie manchevolezze di esso, derivate dalle frequenti trascrizioni degli amanuensi, nelle quali pur troppo i cambiamenti intervenuti non furono sempre lievi nè superficiali. Qualche volta la omissione di una lettera, o la sostituzione di essa con un’altra, o l’omissione di una parola intera hanno prodotto una grave mutazione nel significato dei passi, senza che i critici.
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dopo un secolo di lavoro, abbiano potuto trarne fuori il senso originale.
Il Dr. Kennedy confessa che alcune difficoltà dovettero essere riconosciute come « disperatamente insolubili ». E questo a dispetto dei molti studi e dei validi aiuti giunti alla critica dalla ricerca affannosa sulle più antiche versioni, specialmente su quella dei Settanta, ricerca che ancora oggi continua e che tiene occupate migliaia delle più forti intelligenze nella soluzione di un problema che sembra quasi disperato.
Ora il prof. Kennedy si propone di indicare una nuova via per giungere ad un risultato più sicuro e più preciso nella intelligenza del pensiero del testo e per le opportune revisioni delle versioni moderne. Essa assicurerà la correzione nelle nostre Bibbie di molti passi assolutamente inintelligibili allo stato attuale delle nostre conoscenze.
« L’oggetto di questo studio, dice il Kennedy, è di indicare appunto che lo stesso Testo Massoretico, quando studiato paziente-mente e con cura, dà più aiuto di ogni altra guida esterna per la sua stessa correzione. Il critico esperto che con ardore si applica allo studio del testo tradizionale scoprirà frequentemente il significato genuino attraverso il travestimento di una forma corrotta. Una coltivazione diligente di questo nuovo campo della critica darebbe più frutto di quello ottenuto altrove e offrirebbe una grande economia di lavoro e di tempo ».
Egli stesso si accinge all’esame del Salmo 1 per dare una illustrazione della nuova tesi, scegliendo appunto un salmo che è stato vittima di queste frequenti violazioni di significato. Per brevità ci limiteremo a qualche esempio :
Nel primo verso è strano che si parli di camminare nel consiglio degli empi. Invece della forma bA'AzAt con un mutamento della prima consonante con un’altra strettamente simile a quella si otterrebbe kA'àzAt « secondo il consiglio » degli empi ; ma sarebbe ancora meglio mutare la terza consonante così da ottenere la forma bA'ddAt, già suggerita da Olshausen e assicurante il significato più logico: « nella compagnia degli empi ».
Al principio del secondo verso v’è un'altra difficoltà, anche questa già notata nelle note marginali che appariscono in molte edizioni stampate, costituita dal fatto che nel testo, come pure nella «Vulgata Latina», viene ripetuta due volte la stessa parola legge. Diodati evita la difficoltà un poco ingenuamente. Invece di leggere « nella legge del Signore [è] il suo diletto e nella Sua legge medita giorno
e notte » uno penserebbe subito, come il nostro Diodati, di leggere al secondo emistichio del verso la forma pronominale MA « e in essa ». Ma la presenza di una nota marginale nelle edizioni antiche di fronte al primo occorrere della parola legge, indica piuttosto la conclusione che questa è la forma sospetta e non la seconda. Il Kennedy esclude i cambiamenti proposti da Lagarde e da Gràtz e propone di leggere bS/iódót (in praising thè Lord): «Anzi il cui diletto è nel lodare il Signore e medita nella legge sua giorno e notte ». Questo è il cambiamento più rigorosamenze simile alia forma attuale del testo.
Al versetto 5 è strano che gli empi non stiano in piedi nel giudizio. Eppure questo è il significato normale delia parola ebraica corrispondente: jàqiimii (Gen., XIII17). 11 senso espresso da Diodati « stare ritti » significando una padronanza morale sarebbe espresso con una parola differente. (Gios., XIII. 9 ; Il Re, X. 4 ; Ester, IX. 2). La traduzione del Cheync nel suo ultimo commentario sui Salmi « si manterranno » è certamente inesatta non essendo questo il significato della parola ebraica del testo. Invece con un lieve mutamento di meni in nun e anteponendo quest’ultima si formerebbe la parola strettamente $\m\\e jinàqii, ed il significato del passo sarebbe che « gli ingiusti non saranno assolti nei giudizio».
Per dare un’ idea del lavoro coscienzioso e paziente fatto dal Kennedy sul salmo I, aggiungo qui, per un eventuale confronto con quella del Diodati, la traduzione letterale di quella inglese offerta dal Kennedy stesso:
1. Beato c l'uomo che non cammina nella compagnia degli empì, ne si ferma sulla via dei peccatori, né siede nella sedia degli schernitori (canzonatori).
2. Ma il cut diletto [è] nel lodare il Signore, c medita nella sua legge
giorno e notte.
3. Egli sarà come un albero piantato presso ruscelli d’acque, il quale dà frutto nella sua stagione, e le cui foglie non appassano;
E tutto ciò che fa prospera.
4. Non come lui [sono] gli empi ma etti (sono) come la pula che il vento sperde lontano.
$. Perciò gli empì non saranno assolti nel giudizio, ne i peccatori quando gli uomini giusti denunziano.
6. Perchè il Signore si compiace nella via dei giusti, ma abborrc la via degli empi.
Tutto questo non solo non altera il significato essenziale della Bibbia; ma invece lo abbellisce, e noi saremo perciò lieti di pren-
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dere a suo tempo la nostra Bibbia per le debite revisioni quando il consenso della critica si sarà definitivamente pronunziato.
Il nuovo indirizzo dato dal Kennedy alla critica del Vecchio Testamento è certamente geniale ed utile, e non mancherà di trovare cultori fervidi ed entusiasti nell’Inghilterra ed altrove, e di offrire incalcolabili servizi allo esame più coscienzioso del testo e ad una {»iù esatta intelligenza de) pensiero e della orma della Bibbia.
Ignazio Rivera.
11 nuovo Codice “W„.
La pubblicazione del nuovo manoscritto greco dei vangeli «W» in questi giorni ha suscitato molto interesse fra gli studiosi del testo del Nuovo Testamento. Questo manoscritto viene dal paese dei Faraoni, dove fu scoperto circa sei anni fa. Poco dopo fu comprato dal milionario americano Freer. Però il manoscritto non porterà il nome del Freer, ma quello di Washington, e verrà indicato con la lettera « W », indicazione datagli dal prof. Gregory di Lipsia, il noto editore del Nuovo Testamento di Tischendorf. Il nuovo Codice si trova ora a Washington ed appartiene al Governo nazionale.
Non è un rotolo di papiro secondo l’uso dei primi secoli, ma è un libro scritto sul vellum. Il prof. Sanders data il manoscritto del quarto secolo. Ecco dunque un altro testimone che viene a far parte della nobile compagnia dei codici Alef e B. I critici del testo hanno cosi in questo nuovo documento un manoscritto che può classificarsi coi sei migliori testi : lì, Alef, A, C, D. e secondo le indicazioni usate dal Tischendorf. E’ da notarsi pure che la buona provvidenza ha distribuito questi documenti abbastanza equamente in quanto alla topografia, perchè si trovano, secondo l’ordine suindicato, nelle città di Roma, Pietroburgo, Londra, Parigi, Cambridge e Parigi ; e da oggi Washington può prendere posto accanto alle altre città che custodiscono in un senso la parola di Dio.
Il Codice « W » è stato pubblicato con gran cura e pare con criterio scientifico dal professore Sanders dell’Università di Michigan, il
quale insieme col testo ha pubblicato un volume in cui si trovano molte lezioni colie rispettive «autorità», nonché un abbondante materiale che può servire mirabilmente a chi voglia confrontare questo manoscritto con gli altri del Nuovo Testamento.
I vangeli non sono disposti nell’ordine consueto: Marco e Giovanni si sono scambiati il posto. Nè si può dire che il documento sia omogeneo perchè pare che i diversi evangeli sieno copiati da manoscritti anteriori che non rappresentano la stessa tradizione.
Mentre Alef e B sono scritti in quattro e tre brevi colonne, qui abbiamo sott’occhio un manoscritto nella forma d’un libro del terzo secolo. Secondo Grenfell e Hunt il manoscritto corrisponde in modo straordinario in quanto alla forma, alla grandezza ed alla lunghezza delle linee col papiro n. 2 d’Oxyrynchus che è come si sa del terzo secolo e che deve necessariamente essere servito come modello pel Codice « W ». A conferma di ciò osservi il lettore ad esempio il seguente confronto stabilito tra le linee 6, 7, 8 del foglio B del detto papiro (Matteo I, 16) col foglio 2, linee 16, 17. 18 del manoscritto «W».
W» EJrENNKEN ÍQCH<? TON ANóPAM^A I
V/ CEN TON KKW TON ANAPA MAPlAC ¡
fapin PIAC EH HC EFENNH^jn ¡C 0 AETOMENOC (XC) I IV Ex MC ErENNHOH ¡C OAEPOMENOC XC I
BACAI OYN fE[NE]AI ARO ABPAAM EQC 1
VI BACAI OYN Al IENEAI ABO ABPAAM E J
Gli studiosi della critica del testo sono naturalmente desiderosi di sapere se o no il manoscritto appoggi il gruppo Alef e B o qualche altra famiglia di documenti. Da un accurato esame risulta che il Codice appoggia ora un gruppo ora un altro. Per esempio in Giovanni 19:39 esso appoggia Alef e B, benché non ci sia alcun altro manoscritto che vada d’accordo con i due testi. In Luca va d’accordo nei primi capitoli con Alef e B, ma più in là appoggia il Codice A. Il Codice « W» omette parole o frasi in Giovanni io ¡9 ; 8:53 ; 7:1 e 9:21 il che dimostra in parte la sua antichità e purezza.
Nel vangelo di Marco ci sono delle lezioni proprie, fra cui quella inserita dopo il versetto 14 del capitolo 16. Ecco il versetto 14 coll’aggiunta in parentesi : « Infine apparve agli undici, mentre erano a tavola; e li rimproverò della loro incredulità e durezza di cuore, perchè non avean creduto a quelli che Pavean veduto risuscitato. [Ed essi si scusali
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rono dicendo che quest’età d’illegalità e d’incredulità è sotto l’influsso di Satana il quale per mezzo di spiriti immondi non permette che il vero Dio sia appreso. Per questa ragione essi dissero a Cristo : Rivela ora la tua giustizia. E Cristo disse loro: Il termine degli anni della potenza di Satana (non) è ancora compiuto, ma esso s’avvicina (qui il testo è incerto); per l’amore di coloro che hanno peccato fui io abbandonato alla morte affinchè essi ritornino alla verità e non pecchino più, ma possano ereditare la gloria spirituale ed incorruttibile della giustizia dei cieli]. E disse loro: Andate per tutto il mondo, ecc... ».
S. Girolamo cita una parte di questo versetto che non si trova in nessun altro manoscritto del Nuovo Testamento. I discorsi dei discepoli e di Cristo sono molto probabilmente apocrifi, ma possono gettare molta luce sull’evoluzione del testo greco del Nuovo Testamento e specialmente sull’ultima parte enigmatica del vangelo di Marco.
Molti giornali e riviste inglesi ed americani si sono occupati di questo interessante documento ; tra essi ricordiamo il Times di Londra che ha pubblicato una riproduzione del versetto interpolato del XVI capitolo di Marco, e The Exposilor di Londra, che nei suo fascicolo di maggio pubblica un esame critico del nuovo Codice.
D. G. Whittinghill.
Il Cristianesimo in Italia.
Gionanni Luzzi, The Strugglc for Christian Trulh in Italy. — 1913. Voi. di pag. 33S, prezzo 5 scellini. — Fleming H. Revell Company. London, 21 Paternoster Square.
Il volume, che è una ricostruzione sintetica del Cristianesimo italiano dalla primitiva Chiesa di Roma fino ai nostri giorni, contiene cinque capitoli che in forma di conferenze furono ietti alla Facoltà Teologica di Princeton e ripetuti poi in altre università e scuole degli Stati Uniti. A questi cinque capitoli primitivi due altri ne furono aggiunti dall’autore, unitamente alle note che arricchiscono il volume.
Il prof. Luzzi, conosciutissimo in Italia nel campo evangelico e modernista, svolge, con notevole abbondanza di documenti, l’aurora
del Cristianesimo in Roma, la rivoluzione protestante col suo eco in Italia, le drammatiche vicende della Bibbia nel nostro paese, la storia dell’Israele delle Alpi o del popolo Valdese di origine lombarda (pag. 154), per passare poi in altri tre successivi capitoli a parlare concisamente e con asattezza della moderna fioritura missionaria in Italia, della falange degli ultimi esiliati politici e religiosi ed infine del Modernismo, che egli considera come la fase più recente della lotta fra le due tendenze che sempre esistettero nella vita della Chiesa (pag. 295), e la cui ultima determinazione sarà probabilmente nella costituzione di una nuova Chiesa Episcopale con carattere più spiccatamente latino (pag. 337).
Il volume è più specialmente cosi una storia critica della Riforma in Italia, una storia breve, sintetica, completa quale noi oggi ancora non possediamo. Dopo di aver letto il volume, in cui l’autore ha saputo concentrare tutto il bello e il tragico della nostra storia religiosa, il cuore è commosso e un sentito senso di gratitudine va al prof. Luzzi per questo monumento che egli ha eretto, oltre l’oceano e fra i popoli che parlano la lingua inglese, al sacrificio ed all’eroismo dei nostri padri.
Il volume ha incontrato molta simpatia nell’America e nell' Inghilterra e non mancherà di attrarre gli occhi di molti sulla battaglia religiosa che fu combattuta e che .si sta ancora combattendo qui in Italia. È destinato quindi ad aumentare il numero dei nostri amici ed il loro interesse per noi. Una lode speciale va data al prof. Luzzi per lo spirito di fraterna considerazione con cui egli ha trattato la moderna fioritura missionaria in Italia riconoscendone i meriti ed i sacrifici.
Per noi e per la situazione dell’opera nostra in Italia è specialmente interessante lo studio critico che l’autore compie sulle cause che produssero in Italia il fallimento di tutti i tentativi di un vasto ed omogeneo movimento di riforma (pag. 86 a 97). Forse la persecuzione soltanto è responsabile di questo fallimento. Senza la persecuzione le schiere di profeti che abbiamo avute e i successi constatati nei loro lavoro, avrebbero facilmente trionfato di ogni altra difficotà. D’altronde ancora oggi in Italia l'essere protestante è quasi un delitto.
L’autore che, con lodevole onestà storica, non risparmia alla Chiesa Valdese, di cui è figlio, una critica oggettiva e sincera (pag. 234) non manca di porre in luce le manchevolezze, alle volte gravi, del nostro stesso lavoro (pagina 239). Questi appunti desidero che vengano presi in seria considerazione da quelli che in qualche maniera ne sono interessati. Ma non.
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posso condividere con lui l’idea di abolirei! nostro denominazionalismo. Nemmeno la Chiesa Valdese sarebbe oggi disposta, in maggioranza, alla perdita del nome glorioso che ha fatto del popolo valdese l’Israele delle Alpi e la più bella gloria religiosa collettiva della Riforma italiana. Se il popolo nostro si è abituato a considerare come vera Chiesa quella sola che è una malerialmente{ pag. 237), noi non dobbiamo seguirlo in questo pregiudizio, ma indicare invece al popolo italiano 1’ unità superiore spirituale che tutti ci unisce nella medesima fede sostanziale ed effettiva e nelle medesime esperienze. Dobbiamo solo farci conoscere di più. I Valdesi hanno già incominciato a farsi conoscere con pregevoli volumi e anche con fogli popolari. Le altre denominazioni stanno facendo altrettanto. Cosi hanno fatto i Metodisti, così i Battisti. Quando il popolo ci conoscerà allora avremo spianato la via per una più forte e più distinta affermazione. Ma una abolizione del denominazionalismo in Italia non è possibile nè ora, nè lo sarà mai; e forse sarebbe nociva per noi e per l’opera nostra.
Ignazio Rivera.
FIIPJOFIAE RELIGIONE
L’immortalità.
Alessandro Chiappelli : Amore, morte ed immortalità. — Società editr. « Dante Alighieri », 1913 — Sir Oliver Lodge: Za survivanee humaine, Paris, Alcan, 1912.
Chi dice che l’epoca nostra è indifìerente, incredula o scettica di fronte ai problemi religiosi e ad ogni questione che riguardi la vita d’oltre tomba, dice una verità, ma non tutta la verità. Senza dubbio la vita moderna sembra, a chi la consideri nel suo complesso, unicamente preoccupata del presente, e tutta rivolta alla conquista di ricchezze materiali immediate. Non pare vi sia nè tempo nè voglia, oggi, per tentare indagini o per seguire ideali che sconfinino dalla nostra cerchia terrestre. E ritornano alla memoria, e sembrano applicabili anche attualmente, le parolecheii Goethe pronunciava in uno dei suoi colloqui! coll’E-ckermann : « Si occupano dell’ idea di immorta-ito solo quelli che non hanno nulla da fare;
l’uomo che lavora, che ogni giorno ha da combattere e da operare, lascia il pensiero d’un mondo ulteriore ed opera utilmente in questo ».
Ma se tale è, innegabilmente, la condizione generale degli spiriti, non può d’altra parte negarsi che nel campo scientifico e filosofico il problema dell’al di là ritorni invece oggi a preoccupare le menti più alte con un’intensità e quasi direi con un’angoscia alle quali da tempo non eravamo abituati.
Il lago stagnante della nostra indifferenza è attraversato da una corrente sotterranea che a quando a quando ne agita l'immobile superficie. Noi sentiamo cioè che il problema che avevamo creduto di soffocare o di allontanare, è sempre vivo e vicino, e risorge imperioso dinanzi alla nostra fantasia come un rimorso dinanzi alla nostra coscienza.
Era fatale de! resto che dopo un periodo di miope e gretto materialismo che aveva voluto imprigionare le nostre ricerche entro il mondo visibile e tangibile, rifiorisse l’idealismo che a quelle ricerche non pone limite ed anzi addita i voli più audaci. Ed era anche logico che, essendo venuta meno l’antorità delle religioni le quali avevano dogmaticamente risposto ai grandi problemi dell’umanità, noi cercassimo di rispondere a quei problemi con le nostre sole forze. Non accontentandoci più di un umile atto di fede, era necessario che noi avessimo l’orgoglio di tentare col metoto scientifico il mistero dell’al di là.
*
* *
Uno dei più geniali e profondi filosofi contemporanei, Alessandro Chiappelli, in un suo recentissimo e bellissimo libro ha avuto il merito di porre la questione dell’immortalità con una grande chiarezza, di spogliarla cioè di tutto quel vago misticismo che ancor l’attornia e l’annebbia, e di studiarla obbiettivamente con un rigore positivista, di molto superiore a quello di cui fece sfoggio il Maeterlinck nel suo volume su La Morte.
Presso certi scienziati o pseudo-scienziati, è diffuso il pregiudizio che chi si occupa dei problemi che trascendono il campo dell’osservazione materiale, faccia dell’inutile metafisica e segua una sua vana aspirazione sentimentale. Quei cosiddetti scienziati accompagnano quindi con un sorriso sprezzante le ricerche e i tentativi degli idealisti che vorrebbero spostare un poco il limite dell’ ignoto.
Ora, pur riconoscendo che fra questi idealisti ve ne sono alcuni che si perdono in aberrazioni mistiche e che meritano davvero le
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staili late dell'ironia, io affermo che è assurdo il bollare come anti-scientifica ogni ricerca che oltrepassi i termini dell’esperienza reale e diretta. Anche gli scienziati, anzi gli scienziati sovra tutti, devono oggi riconoscere che non solo si può, ma si deve stendere l’indagine su problemi che escono dalla sfera della nostra materiale esperienza e toccano i confini dell’inconoscibile.
Alessandro Chiappoli! ha magnificamente espressa questa verità dicendo che «l’idea delia immortalità, dileguata ormai dalla coscienza moderna come dogma religioso o come dottrina di astratta ragione, riappare come vivo quesito scientifico e insieme come segno d’un rinascente bisogno spirituale».
Gli idealisti, i mistici, lasciando in disparte il vivo quesito scientifico, danno soprattutto importanza al rinascente bisogno spirituale, e ripetono le frasi degli uomini celebri che di questo bisogno spirituale hanno fatto la regola della vita e la condizione della saggezza e della moralità.
« Chi non ha speranza nella vita futura, diceva Lorenzo il Magnifico, non vive nemmeno in questa ». E Renan sentenziava : « un popolo credente nell’ immortalità vai più di un popolo che non vi creda ». Anche senza essere mistici, si può convenire che la fede nel-l’immortalità sia segno d’energia, perchè il pensiero della vita postuma è per l’uomo la misura della sua altezza spirituale, creda egli o non creda. Se infatti egli è credente, penserà ad una evoluzione superiore del suo spirito personale, sopravvivente alla morte. Se non è credente, sarà sollecito di lasciare di sé buona ricordanza come esempio ai superstiti. E in questa proiezione ultravitale, dice egregiamente il Chiappelli, in questo bisogno di scorgere una prospettiva alla vita, è il segno e il crisma del-l’essere superiore.
«• « »
Ma l’idea dell’immortalità riappare oggi — abbiamo detto — anche come vivo quesito scientifico, ed è da questo punto di vista che sembra più interessante il considerarla.
Orbene, la scienza non solo non può dimostrare che l’idea dell’immortalità sia assurda, ma offre anzi argomenti d’analogia per ritenere eh’essa sia probabilmente vera. Quando noi moriamo, l’esperienza apparente ci annunzia, è vero, l’annullamento. Ma l’esperienza nostra è circoscritta e limitata dai dati del senso. Il fatto empirico che quando si spegne la luce della vita corporea l’energia psichica non si manifesti ai nostri sensi, non
è prova bastevole della sua estinzione. Bisognerebbe dimostrare che ciò '■he non si vede non esiste. « Ora invece molte forme di realtà ci ha rivelate la scienza moderna, che non appaiono ai nostri sensi. Ognuno sa che solo quando le vibrazioni eteree raggiungono un certo numero in un secondo, noi possiamo vedere ; se questo numero non è raggiunto od è oltrepassato, noi cessiamo di vedere. Così, noi non possiamo udire le vibrazioni aeree se non entro certi limiti. Onde l’Huley notava che se il nostro apparato uditivo fosse atto a cogliere tutte le vibrazioni, noi udremmo come forte remore il lavorio minimo della linfa saliente negli alberi e l’insonne germinare delle erbe. Così innumerevoli altre energie probabilmente esistono ed operano intorno a noi e su noi, senza che i sensi ce ne diano direttamente contezza : « nè è lecito quindi affermare che una cosa o persona più non esiste solo perchè non appare a noi».
Ecco, dunque, che cosa può dire la scienza : nulla di positivo in favore, ma anche nulla di positivo contro l’idea dell’immortalità.
E se vi è ancora chi crede che la scienza, appunto perché circoscrive la ricerca al mondo dei fatti, precluda ogni tentativo d’indagine intorno alla realtà ultrafenomenica, costui si sbaglia, e scambia per scienza la superstizione materialista. Un gretto materialismo può credere che V inconoscibile di Spencer sia un atto di superbia, vale a dire una barriera fissa sulla quale sia scritto di qui non. si passa. Ma un vero spirito scientifico sa che V inconoscibile di Spencer è invece un atto di modestia, una barriera spostabile, il limite di un ignoto che ogni giorno può essere ricacciato più indietro.
E infatti, ogni giorno, questo limite indietreggia, e noi facciamo un passo e portiamo un raggio di luce nella profondità dell’ inconoscibile e nella oscurità del mistero.
Non solo: ma nel momento stesso in cui sembrava che la scienza della natura fosse sul punto di ridurre tutta l’attività spirituale alle forze meccaniche, la materia stessa sfuggiva alle sue strette. Il materialismo cioè faceva bancarotta. Scrive il Chiappelli : « La materia inerte, coi suoi tradizionali attributi di solidità, di impenetrabilità, di resistenza, s’è come dileguata dinanzi alla scienza moderna, convertendosi in un sistema di energie. La concezione meccanica fondata sull’antica teoria atomica è caduta, dacché gli atomi si son decomposti in alcunché di più elementare, i corpuscoli elettronici. Si direbbe che non a materializzare lo spirilo, si tenda oggi, ma piuttosto a spiritualizzare la materia. Siamo bensì sempre dinanzi a qualcosa di corporeo,
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se anche di materia più sottile ed eterea. Ma la materia non appare più a noi quasi un sistema chiuso, inaccessibile ad onde d’influenza provenienti da un ordine superiore al nostro orizzonte visibile : bensì piuttosto un sistèma aperto e penetrabile da energie imponderabili ».
Quali siano queste energie, ancora non sappiamo : ma presentiamo che esse esistono. Ed è perciò che — non con la debolezza nervosa dei mistici, ma con la serenità dei tempera-menti scientifici — noi possiamo concludere che tutte le vie della fisica moderna conducono a vedere nella materia l’espressione di qualche cosa che è al di la di essa, — e che vi è quindi tutto un universo invisibile di cui ora appena incominciamo ad avere sentore.
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Questo universo invisibile, questo qualche cosa che è al di là- della maleria, comincia, o pare cominci a rivelarsi a noi colle ricerche ed esperienze psichiche o spiritiche o medianiche, le quali ci danno la promessa o per lo meno ci offrono la speranza di una vita oltre mortale.
Che valore hanno, scientificamente, queste cosidette prove della nostra immortalità?
Prima di rispondere a tale domanda bisogna sgombrare il terreno da una pregiudiziale che lo intorbida.
« Quando si parla di spiritismo — dice il Chiappelli — si confondono di solito due cose ben diverse: un complesso di fatti speciali, in parte incontestabili, in parte dubbi, in parte anche illusorii, con una ipotesi o teoria proposta per spiegarli. Che in alcuni di questi fatti sembri manifestarsi la presenza di entità intelligenti invisibili, le quali non fanno parte del nostro mondo e della nostra esperienza, è cosa incontrovertibile. Che poi questa parvenza risponda ad una realtà, è un'altra questione. Ma bisogna liberarci dal preconcetto antiscientifico, che ove la presenza di codesta entità fosse provata, si escirebbe dai termini della scienza».
Perchè si dovrebbe uscirne ? Perchè, rispondono alcuni, si cadrebbe nel soprannaturale. Ma non è vero. La natura può comprendere anche' questa supposta realtà di un mondo invisibile, o campo spirituale, analogo a quello che la fisica chiama campo elettrico e magnetico. E sarebbe temerario e sciocco escludere dal campo delle possibili rivelazioni della scienza un ordine di fatti solo perchè non rientra finora nei quadri e negli schemi cogniti del sapere.
Non si può dunque affermare che l’ipotesi scientifica sia di per sè assurda e antiscientifica. Si tratta piuttosto di vedere se sia scientificamente dimostrata.
Fino ad oggi, bisogna confessare che non lo è. Lo riconoscono quegli stessi i quali hanno con maggior fervore tentato di raggiungere la prova agognata. Le testimonianze in favore della sopravvivenza dell’uomo, vale a dire in favore della persistenza dell’intelligenza umana e della personalità individuale al di là della morte, sono sempre andate accumulandosi, ma non sono giunte a darci l’indiscutibile certezza. Uno degli scienziati più illustri nel campo delle ricerche psichiche, sir Oliver Lodge, scriveva : « Io credo che attualmente la miglior ipotesi provvisoria è di ammettere come possibile l’esistenza di momenti di comunicazione lucida con delle persone morte. Questi momenti si osservano in mezzo a una congerie di fatti di assai minor valore probativo. La barriera che esiste fra il noto e l’ignoto, fra il mondo visibile e l’invisibile, è ancora assai forte, ma essa va indebolendosi in qualche punto. Come dei minatori che stanno scavando un tunnel alle due estremità di una montagna, noi cominciamo ad udire di tanto in tanto, fra io scrosciare delle acque e mille altri romori, i colpi di piccone dei nostri compagni che lavorano dall’altra parte... ».
L’immagine è bella e forse esatta. Essa esprime con modestia e con misura la soddisfazione per fatti raccolti e la fede incrollabile dell’uomo di scienza nel finale trionfo delle sue esperienze.
Quanto a noi, senza avere questa incrollabile fede, ripetiamo che il problema dell’immortalità è un problema scientifico, e crediamo col Lodge che coloro i quali lo negano o lo irridono e presumono che l’universo altro non possa essere da quello che noi abbiamo finora limitatamente esperi mentalo, danno prova di tale stoltezza e angustia mentale che in nessun altro tempo sarebbe giustificabile che nel nostro.
Da la Tribuna del 12 aprile 1913.
SCIPIO Sighele.
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VARIA1?) Wgr.
La Leggenda dei Simboli.
J-a leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici, ojx^ra genialissima del signor MARCO SAUNIER, tradotta per la prima volta in lingua italiana dalla terza edizione originale. Todi, presso la Casa Editrice « Ata-nor», 1912. Pag. 238, prezzo L. 6.
Che cosa è questo libro, quali i criteri cui s’informa, quali i fini suoi? Non è facile dirlo. Ma il sottotitolo afferma che in quest’opera sono evocati i vecchi continenti scomparsi ; si fa la storia psicologica del genere umano, sono studiati profondamente i misteri che attorniano la vita dell’uomo, si discorre della formazione dei Vangeli, si prova che tutte le religioni, le Fraternità d’iniziati e la Framassoneria hanno un fondo comune e sono spogliati del loro arcano i rituali, i gradi e tutti i Simboli, come il Triangolo, il Punto, Dio, la Trinità, la Sfinge, la Croce, il Paradiso, l’inferno, la Messa, il Talismano, la Comunione, le Stelle ; con l’esposizione perfetta dell’Arte religiosa e de) veritiero significato della sua simbolica ornamentazione.
Più che genialissima noi chiameremmo que* st’opera stranissima, in moltissimi punti frutto di fervida immaginazione dell’A.
Ci ha interessato un po’quello che l’A. dice di Gesù, del Cristianesimo, dei Vangeli. Ma qui ci muoviamo su un terreno niente affatto solido. Ad esempio Gesù era un Esseno, mentre non è vero, e la formazione dei Vangeli è attribuita a ragioni punto attendibili. Insomma qui l’immaginazione dell’A è davvero portentosa come in molte altre parti dell’opera sua.
Non sappiamo a chi possa giovare un libro siffatto, e temiamo molto che l’edizione italiana rimarrà unica. E. M.
Dov'è la Vita?,te\ conte AMBROGIO CARACCIOLO DI TORCHI ARO LO. Napoli, Libreria Detken, 1912. Prezzo L. 2.
Non sappiamo, a dire il vero, quale sia lo scopo cui abbia mirato l’A. nello scrivere questo volumetto, nè sappiamo la ragione del
titolo che non ci sembra neppure in piena e perfetta concordanza col contenuto.
Anche qui si parla molto dell'evoluzione dell’idea religiosa attraverso i tempi; vi è il solito facile criticismo intorno alle origini del Cristianesimo. Vi sono, però, qua e là espressi alcuni ottimi pensieri, e l’idealità morale vi ha pure il suo posto. E. M.
W
Verso la luce.
BRUTO BRUZIO, Verso la luce (Rime). Bassano, 1912. Pag. 130. L. 1.50, presso Salvatore Serra, in Catanzaro.
Un libriccino di versi sui più vari argomenti di attualità, particolarmente interessante perchè legato e sorretto da una concezione di morale religiosa. Vi si rima di politica, di educazione sessuale, di delinquenza, di grandi uomini scomparsi, di avvenimenti commemorativi, d’idealismo e di positivismo, con ottima disposizione sentimentale. L’autore, che maneggia il verso assai facilmente, nei modo semplice ed onestamente scherzevole od ironico quale insegnò Beppe Giusti, in questi suoi componimenti poetici combatte altrettante scaramucce contro il rammollimento dei costumi, la dimenticanza dei più puri e nobili affetti, l’irrisione e la trascuranza di una personale fede sostanzialmente religiosa che guidi gli uomini nella loro vita quotidiana. « Verso la luce » di una civiltà migliore, più buona, più pura, vorrebbe condurre, l’autore, gli umani. Bruto Bruzio accetta e sostiene interamente il credo religioso e sociale di Giuseppe Mazzini. Si potrà fare qualche riserva su particolari suoi giudizi, ma l’autore va lodato per l’onestà dell’intento e per una certa armonia e proprietà nell’esporre, col verso, i suoi pensieri. T. G.
Poesia bellica.
Giacomo Ungarelli, Delle canzonidellagesta d'oltremare, di Gabriele D’Annunzio. — Ancona, Giovanni Puccini e figli. — L. 1. Ecco un dannunziano, amatore delia lingua nostra dai bei periodi torniti, che si esalta commentando le dieci canzoni di D’Annunzio sulla guerra libica. Voli di aquile, « vetustà di glorie che si ripetono », dilagare di poesia epica,
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tensioni di volontà e di muscoli; spiegamenti di, almeno intenzionali, forze audaci, magnifiche nella loro potenza e prepotenza; «bramiti de l’amore», e tutto per una più forte patria, per una più grande Italia.
Qui non facciamo il critico bellico e nep-pur vogliamo negare la grandezza di qualche piccolo episodio oscuro della guerra. Vogliamo soltanto domandare il permesso di lasciarci pensare come, tra i piccoli ed i grandi episodi, non tutto sia argomento di poemi scritti o da scriversi con lettere d’oro. A nostra volta concediamo che qualcuno possa commuoversi al miraggio d’una agghindata novella grandezza, ed inizi la sua orazione cosi : « Con commozione intensa mi accingo a rivivere l’ebbrezza dei primi giorni di guerra che mi ferirono in petto con la vittoria d’un turbine». E continui, dopo aver riassunta « la gesta d’oltremare*, scagliandosi, a proposito della Canzone dei Dardanelli e del futuro d’ Italia, contro quella ch’è la nostra amica-nemica. « Ma dalla nostra memoria nulla è cancellato. Nutriamo una religione avanti la nostra nascita, oltre la nostra morte., la più bella oggi, la più santa, la più forte nel nostro cuore. La religione de l’odio. La gioia de la vendetta la berremo tutti, tutti dal poppante al vegliardo, e ci parrà quel giorno il nostro cielo più lieto nel riposo ch’avranno i martiri, la nostra vita più libera nel sacramento assolto. Questa la nostra religione. Chiudiamola nel cuore e segniamola in croce».
Ammettiamo, dunque, che non sian solo parole sonanti ma ci sia, di vero, una personale emozione, una disposizione sincera, e, anche, dei riflessi ingranditi — luci d’arcobaleno — di qualcosa di giusto e di vero — goccioloni di lacrime: di dolore, o di gioia?
Ma risalendo dal nostro poeta in prosa alla generalità dei poeti, ci domandiamo come mai soltanto sappiano esaltarsi cantando le gesta di guerra, sostenendo che « il paradiso è all’ombra delle spade ». Via, trattandosi di poeti il motivo dovrèbbe sembrare piuttosto passatista, dopo che tanta onda gorgogliò di poesia epica... Non sarebbe tempo ormai di avvezzare il palato dell’umanità a gustare la bontà di una nuova epica, quella che esalta l'immenso eroismo del lavoro e la bellezza della fede, del pensiero e dei « paradisi terrestri » che possono sorgere e sorgono lentamente e duraturi all’infuori del fatto guerresco?
T. G.
Mitologia popolare.
Tito Gironi, Mitologia popolare e proverbiale esposta in sesta rima. — Ditta Para-via, 1913. — L. 1.
Chi volesse piacevolmente intrattenersi una ora con tutti gli abitatori dell’Olimpo, e di tutti gli Dei far conoscenza non che di tutta la lor svariata parentela, e sapere come il Tempo occupò il seggio del Destino, e Giove quello del Tempo, e come dal cervello di Giove saltasse fuori Minerva armata di lancia e di scudo, e come, ministro Mercurio, si svolgessero le relazioni tra i possenti Numi nei cieli, e nei profondo inferno, e sulla terra, e come si sparpagliasse vagamente nei superni giardini la teoria delle gentili Muse e delle Ninfe, e conte lottassero tra loro le varie gradazioni dell’immensa curiosa indisciplinata famiglia di creature che strettamente legavano tra loro la terra ed i cieli pagani, può leggere questo libriccino del Gironi, e soddisferà il suo desiderio immergendosi nella poetica serena tranquillità della sesta rima classica.
Questo lavoretto, molto ben riuscito, ha intenti narrativi, didascalici: vi è la critica parca, scherzosa, affabile, che si riassume nell’ultima sestina:
Santo amor de la Patria, dolce impero D’inviolate domestiche mura, Sacra memoria d’antenati, altero Senso de la progenie c nobil cura. Sono tutta la legge, o umana gente: Tutto il resto è caduco, c inganna e mente.
Numerosissime illustrazioni adornano il testo, seguito da un’appendice che spiega molti modi proverbiali di origine mitologica.
T. G.
Il Cristianesimo nel secolo XX.
V. MELODIA II Cristianesimo nel ventesimo secolo. Messina, 1913.
Nella prima parte, il parallelo tra la Chiesa di Roma ed il Vangelo, mette in evidenza il contrasto, la deformazione, la negazione, che si è fatta della parola di Gesù ed eleva lo spirito del lettore nelle sublimi aure del Vangelo. La seconda parte del libro confuta con vigore ed evidenza le accuse che si muovono al Vangelo, di non essere in armonia col progresso. La Religione per essere fattore di progresso dev’essere basata sulla ragione, sulla scienza,
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sul vero. La Chiesa Romana, travisando, oscurando il Vangelo, ostacola il progresso umano. Il Cristiano moderno, mettendo in armonia la parola di Gesù col pensiero dei filosofi, degli scienziati, dei grandi, che danno il cuore e la mente al benessere dell’umanità, si forma una religione positiva, di uguaglianza, di amore, di benessere.
Il libro del Melodia è pregevole perchè, con stile facile a tutte le intelligenze, contribuisce alla formazione del cristiano moderno — libero di superstizioni e partecipante al progresso umano. Ing. Stefano Cardia.
Prezzo L. 1.30 presso l’autore. Traversa 7* via L, n. 49-51. Per gli abbonati di Bilycnis L. 1 la copia, franca di spese postali.
Per la riscossa cristiana.
Per la riscossa cristiana. Voi. I. Milano, 1913. Libreria Editrice Milanese. (L. 3.50).
Se molti libri simili a questo venissero pubblicati e se pari al loro merito fosse la loro diffusione, certo un bene immenso ne avrebbe la vita dello spirito di questa nostra generazione.
Perchè in queste pagine ritroviamo le voci di fratelli vicini o lontani, che vissero o che vivon tutt’ora, che furono dei santi nel senso ecclesiastico della parola, o che furono e sono degli uomini intenti alle intime voci, cercatori di verità. E queste voci dicono a tutti che son presi dall’inquietudine religiosa che
altri, infiniti altri operarono e lottarono per una fede e per una speranza alla realizzazione della quale intesero con l’intelletto e più col cuore. Essi cercarono luce e calore, condizioni assolute di vita, e di questa grande preoccupazione, documento ed ammonimento per noi, restano i loro scritti, brevi righe spesso, ma in cui l’ansia grave sembra centuplicata. E tutte queste testimonianze tendono ad affermare la soluzione cristiana della vita interiore. Soluzione cristiana superiore infinitamente ad ogni falsificazione farisaica venutasi operando finora.
Sulle voci umane che dalla Didachi a Tertulliano, a Giustino; da Tommaso d’Aquino a Caterina da Siena, a Bacone; da Mazzini, al Negri, al Sorel, al Sabatier, al Crispolti, al Bonomelli, al Tyrrell, ecc., ecc., risuonaron sempre per ogni età e che in questo libro vengono raccolte in un mirabile e sano eclettismo, alta e chiara suona sempre immortale la voce divina espressa dal Vangelo e nella Bibbia.
Chi ha dato opera a questa selezione e che altri volumi ci promette, è Antonietta Giacomelli. Detto questo, ci sembra inutile l’attardarci ulteriormente a lodar questo libro. Molte anime debbono a lei ed ai suoi scritti se risorsero alla vita e se la luce, che pareva spenta, riarse in esse. Onde l’augurio nostro fervente è che anche il nuovo libro op°ri e fecondi in molti la riscossa cristiana.
Tre capitoli specialmente i lettori mediteranno in queste pagine: la chiesa cattolica, la coscienza cattolica e « Ut unum sin/ ». Ne avranno conforto e ne ritrarranno speranze nuove. E. R.
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I NOTIZIE
All’Indice! — Un decreto della Congregazione dell’Indice, emesso il 5 maggio e pubblicato dall’organo pontificio, condanna le seguenti pubblicazioni :
Annate* de philosofihie diri Henne (fondées par A. Bonnetty). Sécretaire de rédaction, L. Laberthonnière. Paris, 1905-913.
Henry Bremond, Sainte Chantal ( 1572-1641 ). — Collection « Les Saints». Paris, 1912.
Ce qu’on a fiait de l’tglise. Elude d’histoire religieuse, avec une supplique à S. S. le pape Pie X. Paris.
Questo decreto colpisce il clero francese, de! quale fanno parte gli autori delle pubblicazioni condannate; ed esso solleverà grande impressione non soltanto in Francia, per la notorietà dei colpiti e delle loro opere.
La menzione fatta, nel decreto, del segretario di redazione degli Annali di filosofia cristiana, l’abate Luciano Laberthonnière, indica chiaramente il proposito di condannare il filosofo cattolico francese, i cui Saggi di filosofia religiosa furono già colpiti dalla Congregazione romana. L’abate Laberthonnière gode ne! clero francese e fra gli studiosi larga fama, e la condanna della sua rivista, che ha per collaboratori vescovi 'e studiosi cattolici di varie nazioni, susciterà indubbiamente discussioni vivissime.
È evidente il proposito del Vaticano, di lasciare ai gesuiti il monopolio della così delta « coscienza cattolica >; infatti così in Italia come in Francia, tutti gli studiosi indipendenti cattolici sono stati ad uno ad uno messi a tacere, lasciando per altro ampia libertà ai gesuiti e alle loro pubblicazioni In realtà la
Chiesa romana diviene ogni giorno di più una emanazione della Compagnia di Gesù.
La vita di santa Chantal, condannata dal-l’Indice, è dovuta all’abate Brémond, uno scrittore assai in voga in Francia, che ha veduto premiate dall’Accademia le sue opere. Egli è un ex gesuita e venne già sospeso a divini* quando, due anni or sono, accompagnò al cimitero protestante di Storrington la salma del padre Tyrrel, morto scomunicato. Questa sua nuova opera fa parte di una collezione sui « Santi » diffusa in tutto il mondo cattolico, ed edita da una Casa cattolica di Parigi.
III Congresso Archeologico Internazionale. — Abbiamo ricevuto il « Bollettino riassuntivo » contenente tutti i dati relativi alla costituzione del Congresso e i verbal di tutte le adunanze. E’ un fascicolo di pagine 126 in 40, con tavola in cui è una bella riproduzione della medaglia offerta dal Comitato ai congressisti. Sono in preparazione gli Alti del Congresso. Parteciparono al Congresso 920 persone, di cui 720 congressisti effettivi.
Il Solco. — Il simpatico bollettino mensile « Il Solco » dell’Associazione cristiana universitaria di Napoli nel suo interessante fascicolo del 15 maggio scorso ci reca la notizia che l’illustre prof. Michele Kerbaker, ordinario di scienza del Linguaggio e di Sanscrito nella R. Università di Napoli, ha accettato cordialmente la Presidenza onoraria dell’Associazione. Le nostre più sincere congratulazioni ai bravi giovani della fiorente
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Associazione. Ci piace riferire qui una parte dell'articolo che il Bollettino dedica al venerando professore. «... Fra tutti i professori delle Università italiane, ove si eccettui il Chiappelli e qualche altro, egli solo non ha mai trascurato il vasto e capitale problema religioso; alla soluzione di tale problema ha sempre cercato di portare il suo impareggiabile contributo. Suo è infatti quel meraviglioso discorso sulla Nuova scienza delle religioni, che, messo alla pari con l’altro Filologia classica e comparala, formano, si può dire, ciò che di meglio, in Italia, pur fra la varia ed ampia letteratura riguardante l’argomento, sia stato scritto in proposito... Suoi sono i numerosissimi studi, che svolgendosi principalmente intorno ai Veda e intorno a questioni mitologiche, assai spesso hanno però riferimenti alle origini cristiane e alla dottrina di Gesù ed alla sua persona. Anche sappiamo che Kerbaker ha dedicato al problema religioso in generale una vasta monografìa, purtroppo inedita, e chi sa quale tesoro di osservazioni e di conclusioni sia contenuto in essa ! Ma il Kerbaker, accettando di dirigerci col suo consiglio illuminato, ha anche promesso, se le forze gli basteranno, di mettere fuori quegli scritti e donarceli. E noi attendiamo la fortuna con ansia. E attendendo facciamo i voti più schietti, più cordiali, più fervidi, perchè egli fiorisca ancora, si senta ancora sano e forte e vegeto, riacquisti completamente la vista, torni ad allietare con la sua opera e la sua parola tutti i suoi discepoli ed amici ed ammiratori e seguaci ». Ai quali voti ci associamo di tutto cuore.
#*# La Nuova Riforma. — Nonostante le tetre profezie e i voti ostili de’ suoi avversari, il settimanale di Gennaro Avolio è sempre vivo e prospero. Ecco i soggetti principali trattati negli ultimi numeri (24 e 31 maggio « 7 giugno) = Sentimentalismo selvaggio e sentimentalismo civile — Il celibato del clero in America— I Sadducei — 11 modernismo nella storia — La lotta per l’armonia della vita — Per la lega delle donne contro la guerra — Cristianesimo e Socialismo — Per una analogia — La dignità della Camera — Il mio regno non è di questo mondo — Perchè delinquono i minorenni — Possiamo conoscere e sentire Dio? — Il problema della miseria — Il potere temporale, ecc.
Chiedere copie di saggio all’Amministrazione del Periodico: S. Antonio a Tarsia, 2, Napoli.
E' uscito il 2® quaderno della Nuova Ridorma : « Verso il sacerdozio laico » di G.
Avolio. Opuscolo di pag. 44; prezzo L. 1.00, per gli abbonati della N. R., L. 0.50.
Per l’XI Congresso Sionista. — Ecco la circolare diramata il io aprile 1913: « Per sede del XI Congresso dell’organizzazione Sionistica abbiamo scelto Vienna. In questa città, dalla quale Teodoro Herzl lanciò il suo grido di risveglio al popolo ebreo, la nostra Organizzazione farà la sua rassegna. Dinanzi agli occhi del mondo essa vuole esaminare la via che il Sionismo ha percorso dal primo all’ultimo Congresso di Basilea, e quali sono gli scopi che esso deve proporsi per il prossimo avvenire.
« Le discussioni e le dichiarazioni del Congresso di Vienna dimostreranno che l’idea sionistica stringe insieme le forze vive e piene di speranza del nostro popolo per il lavoro di rigenerazione nazionale.
« Le rappresentanze del popolo ebreo si raduneranno questa volta in un grande centro ebraico. I Sionisti devono procurare che il loro Congresso presenti davvero l’immagine dell’Ebraismo nazionale dei nostri giorni.
« Noi siamo consapevoli della nostra forza. Noi sappiamo che l’avvenire dell’opera nostra è anco l’avvenire del nostro popolo.
«Un lavoro sionistico conscio del dovere deve tiare espressione alla nostra forza morale, al nostro vigore interno.
« Il numero dei Delegati che è determinato dal numero dei Shekel raccolti, è l’indice della prontezza e della potenza della nostra Organizzazione. Perchè lo Shekel è la manifesta professione di fede sionistica. Perciò rivolgiamo ai Sionisti di tutto il mondo questo invito: raccogliete lo Shekel quale simbolo dell’appartenenza al nostro Sodalizio e della volontà di assicurarne l’avvenire».
La Filosofia della Scienza. — Questa interessante rivista, diretta con tanto amore dal prof. I. Calderone di Palermo, a partire dal 15 giugno 1913 si pubblica in fascicoli bimestrali di 64 pagine. Una parte d’ogni fascicolo è dedicata ad articoli originali, critici o polemici, e l’altra alla Rivista delle Riviste, alla Fenomenologia, alle Recensioni, alle Notizie varie. Si avrà a fin d’anno un bel volume di circa 400 pagine. Amministrazione : Via Bosco, 47, Palermo.
VI Congresso internazionale del progresso religioso. — Avrà luogo a Parigi dal 16 al 20 luglio 1913, sotto la presidenza di E. Boutroux. — La sera del 16 si terrà una seduta ufficiale di ricevimento in cui si
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udiranno dei brevi discorsi sui sintomi recenti dei progressi della libertà religiosa in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, America, Scandinavia, Italia, Svizzera dal punto di vista cattolico e protestante ; poi nella chiesa cattolica greca e nella chiesa Armena, nel giudaismo e nelle religioni non cristiane. — l.e relazioni che verranno presentate nei giorni seguenti possono raccogliersi sotto sei rubriche principali: 1. Il contributo francese all’emancipa' zione e alla libertà religiosa-, 2. I problemi attuali. (E’ desiderabile e possibile una religione universale? — L’ideale sociale del cri-stianasimo progressista — La base morale — Lo spirito di conciliazione); 3. L’organizzazione e la difesa della libertà religiosa (La libertà religiosa ed i credi della cristianità ; la libertà e la chiesa; la libertà e lo stato; la libertà e la scuola); 4. Rapporti e doveri dei credenti liberali (tra loro, coi credenti tradizionalisti, coi non credenti, con le altre religioni non cristiane) ; 5. Prediche nelle diverse lingue sul testo: Michea VI, <9 : « O uomo, egli ti ha dichiarato ciò eh’è buono; e che cosa richiede l’Eterno da te, se non che tu faccia ciò eh’è diritto, e ami la misericordia e cammini umilmente col tuo Dio?»; 6. Discorsi vari su i problemi internazionali e la pace mondiale.
Il programma completo sarà inviato a chiunque lo desideri, rivolgendosi al segretario generale del congresso : prof. J. Vienot, 83, rue Denfert-Rochereau, Paris.
La separazione nel Portogallo.— E’ noto che la separazione delle Chiese e dello Stato segui ben presto all’avvento della repubblica. La Chiesa romana non si è però adattata al nuovo stato di cose. Ma parecchie parrocchie, disobbedendo agli ordini dei vescovi, hanno costituito delle Associazioni di culto, dando origine ad una Chiesa « Nazionale, Cattolica Apostolica Lusitana ». Questa Chiesa ha adottato le tradizioni liberali del vecchio catto!icismo.
Un antico commentario greco. — Il prof. Harnack annunziava recentemente nella Teologische Literalur Zeitung la scoperta d’un Commentario d’Origene sull’Apocalissi, commentario da molto tempo perduto. Un dotto ateniese, Diabouniotis, ricopiando un manoscritto appartenente al monastero greco di Meteoron, ha trovato il testo greco dell’Apocalissi fino al cap. XIV, v. 4, testo accompagnato da annotazioni di un anonimo. Egli attribuì queste note a S. Ippolito. Ma PHarnack, riconobbe ch’esse devono prove
nire da Origene, salvo una che riproduce un passo della grande opera d’Ireneo. Nel suo commentario sull’Evangelo di Matteo, Origene aveva espresso l’intenzione di scrivere anche Sull’Apocalissi, ma non si sapeva sin qui se avesse potuto realizzare il suo desiderio. E’ molto attesa la pubblicazione per quest’anno dell’opera scoperta dal Diabouniotis.
Toponomastica palestinese in Italia. —Abraham Sarsowsky scrive ne La Settimana Israelitica del 23 maggio:
Fino da tempo antichissimo l’Italia formava come un anello di congiunzione fra l’Oriente e l’Occidente. Frequenti erano i rapporti dell’Italia specialmente con la Palestina, con le Sporadi sulla costa dell’Asia Minore e col Levante. Nei tempi più remoti furono i Sehar-din, rammentati nelle lettere di Tell-Amarna, che abbandonarono la Palestina e si stabilirono nella Sardegna la quale da loro appunto ebbe il suo nome. Più tardi gli Etruschi (i Tursch delle iscrizioni, Tiras della Bibbia, Tarsaim del Talmud) fratelli di stirpe dei Filistei. dall’Asia Minore e dalle coste palestinesi immigrarono in Italia e chiamarono le loro nuove sedi coi nomi dei loro luoghi nativi o dei loro Dei. Così nel nome delia città italiana di Corneto Tarquinia — sopravvive ancora, come dimostra il celebre orientalista Hommel, il dio nazionale dei Hittiti Tarku : e così, secondo quanto io ho dimostrato altrove, il ben noto nome di città Catania (Cata-onia) deriva da Rata (= Chata : Hittita). Lo stesso nome si ritrova anche in Catanzaro. Ma ciò che mi sembra ancor più interessante si è che io nel nome di città Ascoli (noto anche come nome di famiglia) ravviso una forma italianizzata del nome della città palestinese Askelan. Forse la città italiana si sarà chiamata originariamente Ascolona. Se questo nome debba la sua origine agli Etruschi o a qualche più antica colonia filistea io non saprei decidere, forse qualche lettore delia « Settimana » mi saprà dire qualche cosa intorno al tempo a cui risaie questo nome. I rapporti fra la Palestina e l’Italia continuarono anco nei tempi talmudici. Quindi è che il Talmud palestinese fu conosciuto in Italia prima del babilonese. Del resto fu dall’Italia che ambedue i Talmudim si diffusero per tutto l’occidente.
_ss- Censimento religioso dell’Irlanda. — Sono stati recentemente pubblicati i risultati del censimento compiuto in Irlanda nel 1911. Ecco i dati statistici che si riferiscono alla religione: Cattolici romani 3,242,670 —
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Episcopali protestanti 576,611 — Presbiteriani 440,525— Metodisti 62,382 — Aderenti di altre denominazioni protestanti e Israeliti 65,652 — Persone che rifiutarono d’indicare la loro religione 2,379. Totale 4>39O,2i9 abitanti. — 1 cattolici costituiscono adunque il 73°/0 della popolazione.
Arturo Graf ed un suo tipografo. — L’avvocato Attilio Begey di Torino scrive al direttore de L’Azione di Cesena(8 giugno): « Fra le memorie, che serbo più preziose, è quella dei rapporti corsi, molti anni or sono, tra Arturo Graf di cui oggi è si grande il rimpianto e l’amico mio carissimo Francesco Ava-taneo, direttore della tipografia Vincenzo Bona, che già da anni ha preceduto il Poeta nella eterna dimora.
«L’Avataneo, persona intelligentissima ed anima eletta, non curava soltanto il lavoro tecnico ed artistico della tipografia di cui era direttore e che per suo merito assurse fra le prime d’Italia, ma prendeva parte ad ogni studio, ad ogni manifestazione del pensiero che per mani sue dovesse passare in ragione del suo ufficio. Così avvenne che — sul principio dell’anno 1880 — avendo Arturo Graf affidato alla tipografia Bona, la stampa del suo volume di versi « Pt ometto* involventi problemi dello spirito tanto ardui, Francesco Avataneo che sentiva profondamente la poesia, ma nello stesso tempo portava nell’anima l’idealità d’una fede cristiana elevatissima, scrisse al Poeta questa lettera di cui tosto per mia richiesta mi confidò l’abbozzo:
« Egregio signor professore,
« Voglia perdonarmi se, quasi digiuno di lettere, e profano alla scienza oso fate qualche considerazione al suo Prometeo nella Poesia or ora pubblicato, presentandole le impressioni che ne ricevetti.
« Dirò, prima di tutto, che mi associo di tutto cuore a quanto Ella disse nella prefazione. — Si, non vale il negarlo ; l'uomo, nello stato attuale, aspira a qualche cosa di più grande di ciò che gli presenta l’odierna poesia; ei cerca il vero, inconsciamente sì, ma pur lo cerca, ed il vero verrà, ne ho piena fiducia.
« Ma per quanto Ella scrisse relativamente al Carducci e al Rapisardi, se lo trovai giusto, non corrisponde però alle mie intime convinzioni ...
« Ella non combatte il cristianesimo, è vero, ma nemmeno lo difende nell'essenza che porta in sé, e si associa in tal modo a coloro che, in fondo, hanno la convinzione che il cristianesimo abbia fatto il suo tempo, e che si debba
ora sostituirgli il mero razionalismo come unico fattore del progresso.
« Io credo invece che il razionalismo lascialo a sé non basta, come non basta la sola intelligenza a dar ragione dei grandi problemi sociali e psicologici di questi tempi, ma è necessario che il razionalismo sia illuminato e riscaldato dall'amore e dalla fede.
«Sul cristianesimo io nutro la convinzione che, non solo non ha ancora dato tutti i suoi fruiti, ma che finora non ha fallo che le sue primissime prove. — Tutto t iò che si sviluppò in questi diciannove secoli non è che il prologo del dramma, poiché ben poco si realizzò di quanto portò il Cristo; il regno di Dio è lungi ancora dalla terra, e chissà quanti secoli passeranno, prima che abbia posto stabile dimora, tra noi! Ciò dipenderà sopra tutto dagli sforzi, che saprà far l'uomo...
« Ma la più grande parte degli uomini appena è se ci pensa, o, se pur ci pensa, ne cerca i mezzi dal lato opposto a quello in cui si trovano. — Chi coltiva le scienze, le lettere, le arti, sdegna il più sovente ogni idea spirituale, e vuol trovar lutto nella materia, e colla sola forza dell’ intelletto, rigettando il Cristianesimo quasi un intoppo alle indagini del sapere (mentre ne sarebbe il più valido aiuto) e condannandolo senza giudizio e senza neppure studiarlo nella sua essenza, lascia in lai modo l’uomo nell’abbattimento del dubbio ed in un desolante indurimento del cuore.
« Strana condizione dell'uomo in questi tempi! Da una parte, gente religiosa che parla continuamente di Dio e di Cristo, ed in fondo o non lo conosce o non lo sente più, dall’altra, gente che rigetta ogni idea, ogni pensiero cristiano, e se vi parla dell'uomo nel suo passalo, nel suo presente, nel suo avvenire, più nulla sa concretizzare, si dà alle astrazioni, e vi lascia in un indifferentismo che agghiaccia ogni sorgente di vita, vi rende apatici al bene ed al male!
« Io credo ancora che le grandi verità apportate da Gesù Cristo meritino pur sempre d'esser cercate e meditate da tulli, dallo scienziato come dal semplice operaio, e che il germe da Lui gettalo si possa e si debba far fruttificare sulla terra ; poiché il cristianesimo non contiene affatto in sé l’errore colossale in cui caddero quasi tutte le religioni e le scienze dei tempi passali, di erigere cioè tutto a sistema, lutto a dogma, pretendendo quasi legare la volontà, la libertà stessa di Dio a pochi principi, male interpretali e peggio digeriti. Ma però v’è una condizione preliminare e indispensabile da adempire se lo si vuole comprendere e sentire, ed è questa: che si deve nel nostro
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cuore cedere a Colui che si è umiliato, cioè allo slesso Cristo.
«Sono anch’io un rivoluzionario, perchè seguace in buona parte di idee anche più avanzate di quelle da Lei date al suo Prometeo, però nella mia base sia la Fede nella immortalità dell’anima e quindi dell’esistenza reale e personale dello spirilo anche dopo la morte dell’uomo; ed a mio avviso impossibile riuscirà io scioglimento di quella miriade di problemi sociali e psicologici che agitano in questi giorni più che mai la nostra povera umanità, quando si voglia negare tale immortalità o limitare ad una sola esistenza terrena le prove dello spirilo unito al corpo umano.
« Ma sopratutto io sento che il nostro Prometeo è il Cristo e provo un dolore indicibile nel vedere lo spirito umano correre dietro a vani fantasmi e a fole mitologiche, pur di non prendere in considerazione questo alilo di amore e di verità, questa persona reale e vivente che ha abitato fra noi, che ci ha presentalo degli orizzonti infiniti, e che per noi si è sacrificato sino alla morte.
« Ella non badi al modo con cui Le ho esposto quel che sento, poiché io non sono che un semplice operaio, e, più che alla forma voglia quindi aver riguardo alla sostanza delle povere mie espressioni ».
« Arturo Graf fu colpito dal tono di questa lettera, e con sentimento di profondo rispetto andò subito a ringraziarne l’Avataneo alla tipografìa, stringendogli con effusione la mano. Ne segui un colloquio nel quale il Graf spiegò il suo pensiero, gli aprì l’animo suo e fra altro (come l’Avataneo mi narrò l’indomani) disse: « Anni or sono io ero ancora un materialista « tenace... ebbene, un giorno considerando « in me stesso il mirabile esempio di una uma-« nità che progredisce continuamente malgrado « la cattiveria degli stessi uomini, malgrado « gl’ infiniti imbarazzi che suscita a sè stessa, « mi nacque a poco a poco la certezza di una «provvidenza governatrice e di un destino be-«nefico dell’uòmo e degli elementi stessi materiali della natura... Che ne pensate Voi «della spiritualità degli animali e della ma-« teria bruta?...»
« Dell’evoluzione del suo pensiero attestarono più tardi anche altri colloqui più intimi.
« In uno di essi, ad esempio, Arturo Graf chiedeva all’Avataneo: «Ma quale stregua « avete voi per giudicare se un uomo ha fatto « il bene o il male, mentre talune azioni con-« dannate un tempo sono più tardi applaudite?» Al che essendosi udito rispondere dal-l’Avataneo «.he la sua stregua era questa:
« tutto ciò che è consono all’dw/or vero è un « bene —- e per converso è un male ciò che è « contrario a questo amore ». — Arturo Graf ristette pensoso alcuni istanti, poi gli disse : < Vedo che l’avvenire è per voi ».
« A me stesso furono ben care le poche parole colie quali in uno di questi ultimi anni Arturo Graf mi espresse la sua gratitudine per l’invio del volume «Note Intime» da me fattogli, perchè gli fosse di conforto nei suoi dolori.
« Possa il suo spirito in oggi avere la visione completa di quella verità di cui, dopo molte prove, vincendo l’umana fralezza, riuscì quaggiù a sollevare luminosi lembi ! »
■ Torino, 31 maggio «93«.
« Avv. Attilio Begey».
L’ORIGINE EBRAICA DI CRISTOFORO COLOMBO? — In uno dei più accreditati giornali di Berlino, un dotto protestante, il dottor Diercks, ha pubblicato, non ha guari, intorno all’origine di Cristoforo Colombo un articolo interessante, che merita di essere conosciuto anche in Italia e di cui ci piace offrire un largo sunto ai nostri lettori.
Per secoli, dice il Dr. Diercks, gli storiografi si sono affaticati invano per determinare la patria dello scopritore dell’America, Cristo-foro Colombo. La sua asserzione di essere italiano, si è dimostrata priva di fondamento e fu già tratta in dubbio dagli stessi suoi contemporanei. E’ notorio peraltro, ch’egli nel Portogallo si dichiarava Spaglinolo. D’altra parte il suo figlio Fernando nella Fila di Cristoforo scritta da lui, dice esplicitamente che suo padre non volle mai far conoscere a nessuno la sua vera origine, tanto che gli stessi suoi congiunti o realmente non ne sapevano o fingevano di non saperne nulla di preciso. Sono ignote altresì le vicende della sua vita fino alla sua comparsa dinanzi alla Università di Salamanca nel i486. Perfino l'anno della sua nascita non si è mai potuto accertare con precisione. Dai suoi compagni di viaggio egli veniva spesso designato come Galiziano e anche alcuni storiografi ritennero per probabile ch’egli fosse o galiziano o portoghese di nascita. Ma queste non erano finora che ipotesi, cui mancava ogni solido fondamento. Recentemente però uno scienziato galiziano, il Dr. Celso Garcia de la Riega, dopo trentanni di assidue e diligenti ricerche negli archivi, è riuscito a svelare il segreto mantenuto cosi gelosamente dai Colombo intorno al suo luogo di nascita e alla sua famiglia, e, servendosi del materiale raccolto dal Garcia, un altro dotto spagnuolo, il
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Dr. de Morta y Pardo ha pubblicato sull’argomento un libro assai interessante, in cui riproduce non meno di 18 documenti relativi a Cristoforo Colombo. Da questi documenti autentici risulta che il suo vero nome era Colon, come del resto lo chiamavano quasi costantemente gli Spaglinoli, e ch’egli nacque a Pontevedra nella Galizia spaglinola. La madre sua era una Fonterosa, ond’egli, giusta l’uso spaglinolo di aggiungere al cognome paterno anchequellodella madre,si chiamava in Ispagna Crislobal Colon y Fonterosa. I suoi ascendenti da parte della madre portano esclusivamente nomi biblici e anche nella famiglia del padre tali nomi sono frequentissimi. Da questo fatto e da altri indizi da loro addotti, i due dotti spaglinoli i quali, si noti bene, sono entrambi cattolici, credono di poter concludere con la massima probabilità, se non con assoluta certezza, che ambedue i genitori del nostro personaggio fossero di origine ebraica. I porti galiziani erano notoriamente luoghi di rifugio per molti fra gli Ebrei cacciati dalla Spagna, nonché per i Neocristiani o Marrani, pur essi tanto spesso atrocemente perseguitati. Così sarebbe risolto il problema perchè Colombo celasse con tanta cura la sua origine e il suo luogo di nascita. Essendosi la sua famiglia fra il 1440 e 1450 trasferita a Genova egli a causa della poca simpatia che gli Spagnuoli godevano in Italia si faceva volentieri passare per Italiano.
Quando poi egli concepì il suo grandioso disegno e per attuarlo si recò in Ispagna, dato il disprezzo che i Casigliani avevano in ogni tempo - e hanno tuttora — per i Galiziani e data specialmente la sua origine ebraica, Cristoforo non poteva sperare di trovare appoggio nelle sfere governative della Spagna. Egli pertanto si rivolse dapprima in Salamanca al proprio influentissimo compaesano Fray Diego de Deza, il quale pur essendo nativo di Galizia, era salito all’alto grado di confessore del Re Ferdinando e della regina Elisa-betta. Al Deza, Cristoforo sembra di aver confidato il suo segreto, e Deza fu l’unico a sostenerlo nella grande assemblea dei dotti di Salamanca, alla quale il Colon, per allora senza alcun successo, espose il suo piano di esplorazione. Fra i numerosi indizi che parlano in favore dell’origine ebraica del grande navigatore e la rendono quasi sicura, è da attribuirsi una non lieve importanza al fatto ormai irrefutabilmente dimostrato, che egli era in continui rapporti con famiglie ebraiche e neo-cristiane e che da ricchi ebrei egli ebbe larghi aiuti finanziari per i suoi ripetuti costosi
viaggi verso il mondo nuovo da lui scoperto. (La Settimana Israelitica del 30 maggio 1913).
Vitalità delle chiese non coneor-miste in Inghilterra. — Scene commoventi si sono svolte all’assemblea convocata sWAl-bert Hall dai capi della Chiesa congregazio-nalista per celebrare il bel successo della sottoscrizione pel fondo centrale di 6 milioni e 250 mila lire. Un momento patetico fu quando il rev. Jones, dopo aver annunziato all’assemblea che mancavano ancora 15,000 lire, ricevette nelle sue mani il risultato dell’ultima colletta. Il suo discorso si limitò a poche parole: «Signore e Signori, ho la soddisfazione ed il piacere di annunziarvi che abbiamo raggiunto lo scopo ». L’assemblea si alzò in piedi come un sol uomo e manifestò il suo entusiasmo con acclamazioni prolungate.
La Società delle Missioni di Londra lancia un appello per coprire prima dell’autunno il suo dèficit di due milioni e mezzo. Certamente a questo appello sarà dato ascolto nonostante i sacrifizi già compiuti.
A La separazione è una benedizione. — E’ interessante notare che i capi cattolici, all’estero considerano come un beneficio per la religione, in Francia, la separazione delle Chiese e dello Stato. E’ almeno l’opinione del P. Vaughan, il quale in un’adunanza a Li-verpool gridò che « la maggiore benedizione che si sia verificata in Francia in questi ultimi cent’anni è stata la legge di separazione. Per essa, la Chiesa ch’era incatenata come schiava alle ruote del carro dello Stato, è diventata libera. Essa ha fatto uno splendido uso della sua libertà »...
Un vecchio manoscritto copto. — Il lìrilish Museum ha recentemente comprato un prezioso manoscritto il cuifacsimile è stato pubblicato in questi giorni a Londra. E’ un papiro di 109 pagine di grande formato che i competenti credono più antico del Codex Vaticanus, del Sinai ficus e deW/lfexandrinus e che fanno risalire, gli uni alla fine del secolo 11 dell’èra nostra, e altri soltanto al principio del iv. Questo ms. contiene in lingua copta (dialetto dell’alto Egitto), la maggior parte del Deuteronomio, il libro di Giona e quasi tutto il libro degli Atti. Sarebbe stato trovato dagli Egiziani in qualche antica tomba o nelle rovine di un’antica chiesa. Sarebbe, se non il più antico ms., almeno uno dei più antichi ms. racchiudenti uno o piti libri del Nuòvo Testamento.
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II monumento della Riforma. — La esecuzione del monumento della Riforma, a Ginevra, è a buon punto. Il grande muro di fondo è terminato ; le quattro statue di riformatori del gruppo centrale sono finite ; quelle di Crom-well e di Roger Williams sono molto avanti, così anche il bassorilievo ginevrino. L’impressione prodotta su coloro che hanno potuto gettare uno sguardo sul lavoro compiuto, è eccellente. Il Comitato spera che fra due o tre anni l’opera sarà terminata: saremo alla vigilia del 1917, l’anno in cui verrà celebrato ovunque il IV Centenario della Riforma.
Studenti di teologia. —■ Nelle diciassette università protestanti della Germania si trovano attualmente 33S6 studenti teologici, con un aumento di 561 sull’anno passato.
La Società Biblica Britannica e Forestièra, per mezzo dei suoi colportori, ha distribuito migliaia di porzioni delle Sacre Scritture tra i feriti turchi, serbi, bulgari ed albanesi negli ultimi mesi della guerra balcanica. Il suo agente per la Serbia, il sig. Mor-rison.ha mandato 24,000 Vangeli e Nuovi Testamenti al Ministero della guerra della Serbia, il quale li ha fatti distribuire fra i soldati per mezzo dei cappellani della Chiesa ortodossa.
Un atto di giustizia. — Il Governo inglese ha finalmente compiuto un atto di giustizia che non può non incontrare l'approvazione di tutti coloro che amano il benessere del prossimo. D’ora innanzi il Governo inglese non venderà più l’oppio in China rinunziando al diritto che gli spetta in virtù del trattato con essa conchiuso nel 1911.
Esso vuole cooperare con la nuova Repubblica nella distruzione del veleno che ha quasi ridotto alla rovina fisica e morale una metà della razza gialla.
Con questa rinunzia il Governo inglese viene a perdere la somma di 275,000,000 di lire italiane di rendita, che tale era il provento che veniva allo Stato grazie all’uso del privilegio nel traffico dell'oppio in Cina.
Preghiere per la Cina. — Il Governo della Repubblica Cinese il 17 aprile inviava a tutti i governatori delle provincie ed
alti dignitari della Repubblica il seguente telegramma riportato dal The Scotlish Haplisl Magatine di maggio:
« Domandiamo preghiere per la presente legislatura del Parlamento, per il nuovo Governo, per il Presidente che deve ancora essere eletto, per la costituzione della Repubblica, che cioè il nuovo Governo possa essere riconosciuto dalle Potenze, affine di avere il regno della pace nel nostro paese, affinchè uomini forti e virtuosi possano essere eletti ai vari uffici, affinchè infine il Governo possa essere stabilito sopra una solida base.
« Ricevuto questo telegramma, vi preghiamo di notificare a tutte le chiese cristiane nelle vostre provincie che il 27 aprile è stato fissato come giorno di preghiera per la nazione. Che tutti vi prendano parte ».
Eguale testo fu inviato ai vari dirigenti delle chiese cristiane in Cina. Il The Glasgow He-rald del 28 aprile c’ informa che il giorno d’intercessione per la Cina è stato rigorosamente osservato anche in Inghilterra, tanto dalle chiese ufficiali, che da quelle non conformiste. Più di 10,000 scuole domenicali contenenti 2,244,608 maestri ed alunni hanno consacrato quella domenica quale giorno d’intercessione per la Cina. Un culto diretto dal rev. Lamington Kart fu anche tenuto al Consolato cinese, al quale culto presero parte uomini influenti di entrambi i paesi. Il console cinese fece egli stesso un breve discorso in inglese ringraziando l’assemblea e dichiarando che un tale giorno segnava per la Cina una nuova èra. I cattolici inglesi non presero parte ufficiale al giorno d’intercessione per la Cina, causa l’assenza dell’arcivescovo e cardinale. Tutto questo non ci stupisce se pensiamo che i dirigenti della nuova Repubblica erano già prima cristiani evangelici o che almeno avevano sentita la influenza preponderante del Cristianesimo durante gli ultimi sei anni. E vicino il giorno di una Cina nuova e di un’attitudine più decisa per il cristianesimo protestante.
Il seguente telegramma del Presidente della Repubblica Cinese, Yuan Shih-Kai, fu mandato in Inghilterra alle varie Società Missionarie: «Grazie per l’atto gentile. Io prego prosperità alla vostra religione. Tutto il popolo cinese vi è riconoscente ». ( The Glasgow Herald, 28 aprile 1913). I. R.
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